Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 05

Diocleziano. Questi lo fece educare, allettato dalle rare qualità del
giovinetto, che bello di sua persona, generoso, affabile, temperava il
giovanile ardore con virile prudenza, e facevasi amare al popolo ed
ai soldati. Galerio ingelosito indusse Diocleziano a scegliere altri
cesari, con vivo dispiacere del campo; poi fatto augusto, tenne sempre
d'occhio Costantino, e l'avrebbe morto se non avesse temuto l'esercito
a lui favorevole, o non gli fossero usciti a vuoto i tradimenti. Quando
il padre lo ridomandò, esso gli frappose indugi, finchè il giovane
fuggì, e raggiunto il padre, mosse con lui felicemente contro i Pitti e
i Caledonj delle isole Britanniche.


CAPITOLO XLV.
Nemici dell'impero. I Germani. Costantino.

Questi nomi di Barbari ci avvertono ch'è tempo di far conoscere coloro,
contro cui l'impero oggimai non tentava conquiste, ma cercava difese.
Nell'immenso spazio occupato da questo impero (t. III, p. 272) poche
città e poche provincie conservavano un'indipendenza di puro nome, come
sarebbe nelle Alpi il re Cozio, possessore di dodici città, di cui era
capo Susa (_Segusia_): il resto obbediva agli ordini ed ai magistrati
che venivano da Roma o da Milano. Ma chi scorresse quel confine,
sentiva d'ogni parte fremere popoli, che minacciavano rialzarsi contro
questa universale tiranna, non appena la compressione si rallentasse.
Dell'Africa settentrionale occupavano i Romani si può dir tutto il
territorio abitabile, spintisi anche più volte fra le gole del monte
Atlante. I Bereberi, i Getùli, i Mori o si scagliavano nel deserto
rubando, o coltivavano le oasi, non domabili perchè non istanziati: e
da essi il Romano traeva gli agrumi, la porpora delle loro rupi, le
fiere per gli anfiteatri, l'avorio e gli schiavi negri. Ma di mano
in mano che l'oppressione e l'esorbitanza de' tributi sminuivano la
popolazione nei paesi sudditi a Roma, Mori e Getuli riconducevano
gli armenti sulle campagne abbandonate, saccheggiando e fuggendo,
e vendicando come un'ingiuria i supplizj che di loro pigliasse
un'autorità che non riconoscevano. Cresciuti d'ardimento collo scemare
della potenza romana, respinsero la civiltà sempre più verso le coste;
e all'aprire del IV secolo, alcuni principi mori già avevano piantato
dominj alle falde dell'Atlante e fra il deserto e la risorta Cartagine.
Aspiravano però all'indipendenza non alla conquista; sicchè Roma non
n'aveva a temere che di vedersi sottratto qualche terreno.
Nubia e Abissinia non erano soggette ai Romani. Altri Barbari
circondavano l'Egitto, quali i Mori Nasamoni sulla riva occidentale
del Nilo, e sulla orientale gli Arabi. Sopra la grande penisola
dell'Asia meridionale, che gli Europei intitolano Arabia, i Romani
vantarono qualche trionfo: all'effetto s'avvidero come natura non abbia
fatto quei popoli per rimanere soggetti, nè acconci ad una stabile
civiltà. Valeansi dunque di loro per trafficare coll'India; talvolta
ne prendevano agli stipendj la cavalleria, senza pari al mondo per
l'instancabile ardore e la docilità dei cavalli: ma nulla più che
scorrerie pareano a temersi da un popolo, che trecencinquant'anni
più tardi, svegliato alla voce di Maometto, doveva in men di uno
conquistare più paesi che non Roma in otto secoli.
I Parti aveano soggiogato l'Armenia, che allora stendeasi ad oriente
dell'Eufrate, da Satala fino alla spina di monti che costeggia il mar
Caspio; e col porre un ramo degli Arsacidi sul trono d'Artaxata, erano
venuti a contatto coll'impero. Ma quando li rimise al giogo la risorta
schiatta persiana, anche l'Armenia ricuperò l'indipendenza, e si
strinse ai Romani coi legami della religione. I Sassanidi, che aveano
rinnovato l'impero della Persia, lo crebbero a segno, da sembrare il
solo emulo formidabile del Campidoglio.
Ma più che i quaranta milioni obbedienti al re dei re doveva riuscire
funesta a Roma la libertà de' popoli del Settentrione, che incolti
e vigorosi, aspettavano il cenno di Dio per avventarsele e vendicare
l'universo. Dai primordj della civile società, la stirpe che denominano
indo-germanica si stese in diverse direzioni sopra la terra (t. I,
p. 36); e gli uni, vôlti alla Persia, all'India, al Tibet, crearono o
conservarono una civiltà meravigliosa; altri, costeggiando il mar Nero
e il Caspio, si spiegarono dalla Siberia all'Eusino, e da tre bande
inondarono l'Europa. Gli uni, per le montagne di Tracia, la Macedonia
e l'Illiria vennero assidersi fra gli ulivi e i laureti della Grecia;
e a quei miti soli e alla limpida aria indocilendo la natìa rozzezza,
e temperando la fervida fantasia coll'armonico sentimento, crearono la
più eletta immagine del bello, mercè della quale primeggiò la stirpe
greca. Ma questa, all'ora ove siamo col nostro racconto, ha compiuto
la sua missione, non più s'inorgoglia che di rimembranze, nè s'occupa
che di diverbj, come i popoli decaduti: mentre sul teatro politico
appajono la stirpe gotica e la teutone, che la lunga separazione rese
affatto disformi dalla prima, benchè il linguaggio, anche dopo tante
modificazioni, ne attesti la comune origine.
L'arrivo de' Germani in Europa rimonta forse a quattordici secoli
avanti Cristo; ed otto o nove ne tennero a dilatarsi dal Dniester al
Pruth, e sul paese fra l'Ural e i Crapak. Tendendo continuo verso
occidente, spingendo i Cimri, e spinti essi medesimi degli Slavi,
trovaronsi arrestati dall'impero romano al tempo di Augusto, sicchè
voltarono la fronte contro gli Slavi, e rincacciatili, poterono
assodarsi nel vasto paese, che poi collettivamente si chiamò Germania o
Alemagna.
Solo da quel punto la storia si prende cura di essi, e ci addita la
stirpe gotica nelle montagnose foreste della Scandinavia; la teutonica
sulle rive dell'Elba e del Reno, attenta ad esercitare la naturale
vigoria, e mantenere gelosamente l'indipendenza, fidando nell'indomito
suo coraggio. I primi di questi popoli che i Romani abbiano conosciuti,
sono i posti avanzati che Cesare trovava sulle frontiere della Gallia;
erranti, scomunati, senza proprietà fissa, nè agricoltura, nè vanto
che del distruggere. Tacito conobbe quelli sulle rive del Reno, e
seppe che, dietro alle popolazioni nomadi corseggianti al confine,
n'esisteano di fisse, aventi lavoro, proprietà, poteri ereditarj, culto
pubblico: ma le sue cognizioni non arrivavano che dove gli eserciti
romani, onde fermavansi all'Elba, nè di là seppe altro che nomi.
Quando, imperante Augusto, i Romani ebbero particolarmente a fare
coi popoli sul Danubio, li designarono col nome di Germani, che
probabilmente i Galli avevano applicato a qualche orda venuta di qua
dal Reno, e che poi fu accomunato a tutta la gente che, nel primo
secolo, abitava dal Reno ai Carpazj e alla Vistola, e dal Baltico e dal
mar Germanico fino al monte Cezio (_Kalengebirge_) e al Danubio; oltre
quelli diffusi lungo questo fiume sin all'Eusino, e piantati nella
Scandinavia. Probabilmente queste popolazioni diverse attribuivansi la
generale denominazione di Daci (_Deutsch_) o Teutoni, ma nomi speciali
deducevano da particolari circostanze; come gli Svevi da _schweifen_
errare, o da _swee, see_ il mare; i Sassoni, da _sitzen_ stare seduti,
o da _saks_ spada corta; i Longobardi dalle labarde o dalle barbe
prolisse; i Franchi da _franke_ lancia; i Marcomanni dallo star vicini
alla frontiera (_marca_); i Vandali da _wand_ acqua, perchè forse da
principio abitassero al mare o su qualche grosso fiume.
Queste medesime denominazioni son però male determinate, e nuova
confusione proviene dall'uso degli antichi d'attribuire ai popoli
deboli e vinti il nome del potente e vincitore. Per quanto ci è dato
scorgere tra quel bujo, questi popoli si unirono in federazioni,
simili a quelle degli Etruschi antichi e degli Svizzeri moderni,
accordate in prima per resistere, in appresso per nuocere alla
potenza romana. Sembra ancora che, verso il secondo secolo, alle
varie genti prevalessero alcune, in modo da comparire otto nazioni,
che paragoneremmo ad otto corpi di esercito; cioè Vandali, Burgundi,
Longobardi, Goti, Svevi, Alemanni, Sassoni e Franchi.
Anche popolazioni sarmate, cioè di quella che or chiamiamo Russia,
scesero in Europa; e principalmente formidabili furono i Rossolani e
gli Jazigi, scorridori inarrivabili, contro cui i Romani alzarono un
vallo fra il Theiss e il Danubio, senza per questo ottenere sicurezza.
Secondo l'Edda, libro sacro e poetico in cui è deposta la mitologia
scandinava, Heimdall figliuolo di Odino (Wodan), scorrendo il mondo,
generò tre figli: primo il Servo, nero, colle mani callose e gobbo;
secondo il Libero, con capelli biondi, viso rosato, occhi sfavillanti;
terzo il Nobile, col guardo penetrante di un dragone, gote vermiglie,
capelli argentei. E quei che nacquero da ciascuno furono servi, liberi
o nobili come essi. I figli del nobile aguzzarono le freccie, domarono
cavalli, brandirono lancie: ultimo fu il re che conobbe i numi,
comprese il canto degli uccelli, seppe calmare i flutti, estinguere
gl'incendj, sopire i dolori[18].
Qui avete delineata la costituzione primitiva della nazione scandinava,
la quale si riprodusse nelle principali razze germaniche. Un Dio padre;
tre Caste d'uomini, diversi per natura; vero e assoluto libero non
era che il capo; in dipendenza da lui gli altri si trovavano o liberi
o no, e i figliuoli seguivano la condizione del padre. Correva però
divario tra le famiglie semplicemente libere ed i tenitori delle grandi
possessioni, ai quali soli spettava il voto nelle adunanze, fors'anche
il sacerdozio, e tra essi eleggevansi i re[19]. I liberi erano capaci
di tutti i diritti.
La nobiltà, fosse patriziato religioso, o privilegio delle famiglie e
dei conti, sembra fosse ridotta ad una distinzione affatto personale,
che non dava prevalenza nel governo o nell'amministrazione della
giustizia; se non che ad essa erano privilegiate alcune dignità, come
in Roma ai cittadini d'ottimo diritto. Non potevano i nobili sposarsi
con liberi, nè questi con schiavi. Il restante popolo serviva in guerra
col titolo di liti (_leute_, gente), o con quello di coloni lavorava
i campi. I coloni avevano casa e famiglia propria, coltivando il
terreno cui erano affissi in perpetuo, senz'altro che pagar al signore
un canone in derrate, in bestiame o in panni. A costoro, e a servi,
affrancati, donne, vecchi, infermicci lasciavansi i campi e le arti,
mentre ai liberi restavano la guerra per occupazione, la caccia per
divertimento, il saccheggio per industria.
È antico il vezzo de' malcontenti di cercare fra i Barbari quella
moralità, che dicono scomparsa d'infra la gente civile. Così lo storico
Tacito esagerò la bontà morale de' Germani per farne raffaccio ai
Romani; anche i santi Padri gli elevarono sopra di questi, perchè non
ne aveano la raffinata corruttela: ma vuolsi distinguere l'ignoranza
de' vizj dalla pratica ragionata delle virtù. Appena cessassero
dalla caccia o dalla guerra, piombavano, come tutti i Barbari,
dall'eccesso della fatica nell'inerzia assoluta; restavano poveri,
perchè nulla si esaurisce più presto che il saccheggio; e ignudi e
sudici passavano l'intero giorno al focolare sguazzando la preda, e
poltrendo, bagnandosi, straviziando, alle violenti emozioni del giuoco
abbandonandosi con tale frenesia, da mettere s'un trar di dadi l'avere,
la moglie, i figli, se stessi. Tra i conviti, loro delizia, ponevano
in discussione gli affari di maggior momento, serbandosi a deciderne
il domani a mente riposata. Qualunque capitasse, otteneva franca
ospitalità, e dava occasione di banchettare gli amici, e d'eccedere
in voracità e bagordi. Mentre i meno ricchi mesceano bevande forti
in tazze formate del cranio di nemici, i doviziosi traevano il vino
dalle terre dell'impero, e scaldati da questo, rompevano a risse ed a
violenze mortali, dimenticando le accordate paci, e ridestando antiche
vendette.
Non bollente di voluttuosi istinti come nell'Asia, più che la bellezza
l'uomo pregiava nelle donne la prudenza, il valore, la castità. Sposate
in età abbastanza matura, non venivano al marito con vezzi e cervello e
passioni fanciullesche come in Asia, ma tali da ragionar l'obbedienza:
onde inspiravano più saldo affetto, e ottenevano grand'ascendente sugli
uomini. In casa attendevano all'ago, al pennecchio, ai campi; in guerra
seguivano gli uomini incorandoli, talora combattendo, sempre pigliando
in cura i feriti. Una fanciulla macchiava la verginale onestà? fosse
pur bella e ricca, più non trovava nozze; l'adultera era severamente
punita; la poligamia permessa soltanto ai re ed ai grandi come
distintivo d'onore. Non che le mogli recassero dote al marito, questo
le comprava dal futuro suocero con doni, che consistevano per lo più
in un par di bovi, un cavallo bardato, e scudo e lancia; cui la sposa
ricambiava con una compita armadura, simbolo della comunione di beni e
di fatiche.
Quando un garzone se ne fosse reso degno con qualche bella lode,
riceveva asta e scudo dal padre o da alcun ragguardevole Germano
nell'adunanza degli uomini; e d'allora più non li deponeva, assistendo
armato alle assemblee, a banchetti, a giudizj, a giuochi, a sacrifizj;
sulle armi giurava come sacre; coll'armi e col cavallo era sepolto.
A tutti i liberi possidenti era un dovere, anzi un diritto il
militare; e in occasione di guerra nazionale tutti convocavansi col
bando militare o _eribanno_ per proteggere la patria. Altre volte un
capo qualunque radunava in banda armata i suoi clienti, o chiunque
preferisse i rischi al riposo ed al lavoro, e s'avventurava in nuovi
paesi. Supremi loro distintivi erano l'amore dell'indipendenza, e
il diletto d'esercitare liberamente le forze: quindi il mettersi a
pericolo con baldanza spensierata, non curarsi della sorte dei vicini,
combatter domani quelli con cui jeri trovavansi in lega; manìa di
libertà, che associandosi colla dipendenza militare, diede origine alla
feudalità.
Tra gente siffatta dovevano frequentare occasioni di guerra; e
quand'anche gli storici nol dicessero, la mobilità di quelle tribù
è attestata dalla grande migrazione. Questa a torto vien dipinta
quasi un'improvvisa vertigine generale, un subito levarsi de' Germani
ed irrompere sull'impero, o perchè giurati in lega d'armi a guerra
finita, o perchè rincalzati da un'onda di Jung-nu che fossero espulsi
dalla Cina, e che a torto si confondono cogli Unni. Il movimento
era continuato da secoli, e queste popolazioni derivate dall'Oriente
(matrice dei popoli, più vera che non il Settentrione), or più or meno,
ma incessantemente si erano dilatate pel nord dell'Europa, spingendosi
e respingendosi a vicenda, contrastate da indigeni, da Boj, da Lettoni,
da Celti.
Forse per incalzo dei Germani, i Galli erano piombati sui paesi
meridionali e nella nostra penisola, fin a distruggere Roma col loro
Brenno (t. I, p. 493), e prendere stanza nell'Italia superiore. I
Teutoni al tempo di Mario valicarono le Alpi: Cesare impedì che con
Ariovisto occupassero l'Elvezia. Incontratisi con quest'altra onda
romana, che in senso contrario invadeva il paese, ne restarono lungo
tempo frenati, non però quieti.
Il Danubio, divenuto frontiera settentrionale dell'impero, come il
Reno fu munito con una schiera di fortificazioni e con uno spalto di
terra da Ratisbona fin al confluente del Lahn, le quali impedissero
le correrie dei Germani non soggiogati, mentre quelli di qua dal fiume
accettavano i modi, l'industria e l'oppressione dei vincitori. Questi
sulle prime eransi proposto di sottomettere i Germani come avean
fatto dei Galli, svellendone i costumi, il governo, la lingua: ma lo
sterminio di Varo (t. ii, p. 375) mostrò impossibile l'impresa, e che
invece d'assalirli a visiera alzata, conveniva alimentare fra essi le
discordie, or questi or quelli favorendo. Con ciò i Romani riuscirono a
farsene alleati alcuni, come i Cherusci e i Batavi; alcuni tributarj,
come i Frisoni e i Caninefati; o snervare i loro capi coi godimenti
della civiltà.
Non però rimanevansi tranquilli alle loro sedi; ed ora i Cherusci
insorgevano pel valore di Erminio; ora Maroboduo snidava i Boj
dall'antica sede, e vi piantava nuove genti; ora Claudio Civile
rialzava la fortuna dei Batavi. E furono vinti spesso; ma se l'orgoglio
romano si vantava d'avere volta per volta distrutti questi popoli,
essi lo smentivano col sorgere più rigogliosi di prima a lanciare nuovi
colpi contro il non più immobile sasso del Campidoglio.
Trajano, spintosi ben addentro nel nord-est, potè ridurre a provincia
la Dacia, ponendovi numerosa colonia di soldati, che misti coi natii,
formarono la gente dei Valacchi, superbi anche adesso della romana
origine. Sotto Marc'Aurelio i Marcomanni riuscirono fino ad Aquileja,
e d'allora crebbe il numero degli Alemanni che Roma adoprò in guerra,
nelle magistrature e nelle colonie.
Duravano dunque da molti secoli e i moti interni e le migrazioni. Fame,
peste, diluvj, allettamento di patria migliore, baruffe intestine,
oracoli, emulazioni di re, avidità di bottino, di conquiste, di sangue,
traevano alcun popolo a respingere un altro: talvolta un capo colla
numerosa banda de' suoi fedeli, o con una tribù, cominciava correrie; e
dal fare preso ardimento al fare, spingeva le imprese più che prima non
avesse immaginato. Il paese che abbandonavano non lasciava ad essi nè
rimembranze nè desiderj, giacchè portavano seco gli Dei, le famiglie,
le ossa dei progenitori, tutte le cose che fanno cara la patria.
Allora poi che videro i Romani indeboliti lentarsi nella resistenza,
cedere alcune provincie, in altre non opporre che una muraglia, più
innanzi s'ardirono; ed allettati dal predare paesi colti e ricchi,
e dall'umiliare la nazione che li chiamava barbari, irruppero tutti
insieme; come al fiaccarsi della diga precipita il nostro Po sulle
circostanti campagne, senza che per questo si dica esserne allora
cominciati il corso e la foga. Che però l'impulso venisse di lontano,
parrebbe provato dal vedere che i primi invasori non sono già i popoli
confinanti, bensì i più remoti: gli Unni dal Volga; poi gli Alani dal
Tanai e dal Boristene; poi i Vandali dalla Pannonia; seguono i Goti
dalla Germania settentrionale, indi dalla centrale Eruli e Turingi,
in appresso i Franchi dalla meridionale, e i Borgognoni dalla grande
Polonia.
I più segnalati fra questi popoli sono i Goti, che provenivano essi
pure dall'Asia, e precisamente dai contorni del lago Aral, dove ebbero
il nome di Messàgeti o Geti[20]: poi sembra pigliassero stanza nella
penisola scandinava e attorno al Baltico, divisi in Ostrogoti od
orientali, e Visigoti od occidentali, secondo la loro posizione colà;
nomi che conservarono poi nelle successive migrazioni. Aggiunge la
nazionale leggenda, che in tre vascelli uscirono dalla Scandinavia,
uno dei quali essendo rimasto indietro, a quei che lo salivano restò il
nome di Gepidi, cioè infingardi.
Sarebbero dunque tre famiglie della nazione stessa: ma qual conto
fare di tradizioni, alterate sulle bocche, e spesso mutate di gente
in gente? Fatto è che i Goti ci appajono una nazione battagliera e
numerosa, che meglio d'ogni altra germanica ebbe il concetto della
monarchia ereditaria, dipendendo, non obbedendo, gli Ostrogoti alla
stirpe degli Amali, i Visigoti a quella dei Balti, che si vantavano
progenie degli Ansi loro semidei, e tra essi la nazione sceglieva il
re.
Dapprima seguirono il corso della Vistola, poi la catena de' Carpazj:
al tempo degli Antonini abitavano quella che oggi è la Prussia, donde
mossi, abbracciarono o sospinsero Eruli, Burgundi ed altri, bevettero
alle foci del Boristene e del Tanai, e trovaronsi dinanzi la Dacia,
ove un popolo laborioso coltivava campi gratissimi, s'arricchiva colle
industrie, e nella diuturna pace aveva trascurato le difese contro
nemici che reputava abbastanza discosti. Con poca difficoltà i Goti la
invasero, e Decio imperatore, venuto in persona a combatterli, vi perdè
la battaglia e la vita. Il successore di nulla si mostrò più premuroso
che di lasciar liberamente tornarsene i Barbari, carichi di preda e
di baldanza; che più? s'obbligò a loro di annuo tributo. Non era il
modo d'invogliar altri all'attacco? Sempre nuovi sciami irrompevano in
fatto sulle provincie limitrofe come a preda sicura, respinti talvolta,
reduci sempre, tanto più mentre gli eserciti si trovavano impegnati fra
emuli imperatori.
Piantatisi nell'Ucrania, i Goti vennero ben presto signori della costa
settentrionale dell'Eusino, donde corseggiarono le ricche e molli
provincie dell'Asia Minore. Usciti poi dall'Ellesponto, serpeggiarono
tra le isole Egee, e sorti nel Pireo, s'impadronirono della città
di Minerva, sparsero il guasto per tutta la Grecia, e si difilavano
sull'Italia, quando Gallieno, scosso dalle torpide voluttà e comprata
una banda di Eruli, al cui capo concesse gli ornamenti consolari, tenne
testa agli invasori. La dissensione e l'indisciplina dell'esercito
romano diedero agio ai Goti di ritirarsi, e sui rimasti vascelli
devastare il lido ove Troja fu, poi riposarsi nella Tracia.
Aureliano, dopo giornata campale, gl'indusse ad una pace, ove
obbligavansi a fornire di duemila cavalieri gli eserciti romani,
lasciando ostaggi i figliuoli de' caporioni, cui Aureliano fece educare
convenientemente al sesso e al grado, poi le fanciulle impalmò a'
primarj suoi uffiziali affine di saldar l'unione tra le due genti. Egli
poi ritirava le guarnigioni dalla Dacia, i cui coloni rinvigorirono la
parte meridionale del Danubio, mentre sull'abbandonato paese dilagavano
Vandali e Goti, che dai coloni rimasi impararono qualche arte di pace,
mantennero relazioni di commercio coll'altra riva del fiume, e furono
barriera a nuovi invasori.
Come dall'oriente i Goti, così dal nord-est della Germania uscì una
seconda invasione, quella dei Franchi, che sotto Gallieno tragittarono
il Reno, invasero le Gallie e la Spagna. Gli usurpatori che non
iscrupoleggiavano sui mezzi per sostenersi nell'impero, ricorsero più
volte al costoro braccio; ma infine Aureliano li ricacciò di là dal
Reno. Poco tardarono a ripassarlo; e avvegnachè Probo ne trionfasse,
non per questo mitigò la loro fierezza. Gran prova rinnovarono di
loro ardimento allorchè dal mar Nero, ove esso imperatore gli aveva
relegati, osarono sopra fragili legni tragittarsi nel Bosforo Tracio e
nell'Egeo, e sbarcati predarono molti luoghi della Grecia e dell'Asia
Minore, sorpresero Siracusa, approdarono in Africa, indi usciti
dallo stretto di Cadice per l'Oceano tornarono in Germania[21]. Corsa
appena credibile a chi non abbia osservato anche ai dì nostri quanto
ardimento possa infondere la navigazione da corsaro. Rapidissimi si
vedevano i Franchi piombare sulle coste dell'Armorica e della Belgica,
saccheggiare e sottrarsi; poi quando Carausio si fu valso di loro per
usurpare la Bretagna, divenuti più audaci, occuparono tutta l'isola de'
Batavi. Colà furono vinti da Costanzo Cloro, e trapiantati lungi dal
Reno; ma poco indugiarono a sorgere terribili contro di Costantino e di
Crispo.
Altra o lega o gente principale fra' nemici di Roma, sono gli Alemanni.
Con questo nome comparvero primamente sul Meno ai giorni di Caracalla,
il quale non solo scelse fra loro le sue guardie, ma ne imitò il
vestire e la bionda capellatura. Benchè non osassero travalicare le
barriere dei Romani, molestavano senza tregua il confine e le opulente
contrade della Gallia; poi alcuni, varcato il Danubio, per le alpi
Retiche scesero in queste nostre parti, ed accamparono fin sotto a
Ravenna, donde con lautissimo bottino ritirarono il passo davanti
all'esercito romano. Un'altra volta ben trecentomila di essi giunsero a
Milano.
Mentre poi Aureliano componeva coi Goti le cose sul confine illirico,
gli Alemanni si scagliarono da capo nell'armi, e con quarantamila
cavalieri e il doppio di fanti invasero la Rezia, menarono guasto dal
Danubio al Po; ma intanto che si ritiravano, l'imperatore intercettò
loro i passi con tanta maestria, che chiesero patti. Appena però dalle
incalzanti necessità fu egli chiamato altrove, gli Alemanni ruppero
quella siepe d'armi, e si difilarono sopra l'Italia, sperperando fin a
Milano, e spargendosi a branchi per le valli dell'Adda e del Ticino:
presso Piacenza sconfissero i Romani, ma a Fano rimasero vinti: poi
disfatti interamente a Pavia, sbrattarono l'Italia. La subitanea
invasione fece avvisato Aureliano della necessità di circondare
di mura Roma, ridotta a difendersi sul Tevere, non più sul Volga o
sull'Eufrate. E gli Alemanni acquistarono tanta preponderanza, che il
nome loro venne esteso a tutti que' Germani che non s'appigliarono alla
lega dei Franchi; laonde essendo spesso scambiati Alemanni e Germani,
mal si possono sceverare le imprese di questi e di quelli.
Fu per tenere questi Barbari in soggezione che Diocleziano collocò un
imperatore ed una corte sul loro stesso confine, nell'alta Italia.
Costanzo irruppe sul terreno dei Franchi, e rattenne gli Alemanni
dal riversarsi sulle Gallie; ma a molte orde di Sarmati, di Carpi, di
Bastarni fu concesso stanza nelle provincie consumate d'abitanti. Da
ciò rimaneva blandita la vanità romana; e una politica di corta veduta
s'appagava di questi effimeri trionfi, senza avvedersi che l'impero si
educava in seno la serpe che lo morderebbe.
I Franchi diedero assai a tribolare a Costantino, il quale contro di
loro esercitò le legioni che dovevano renderlo signore del mondo; e,
in memoria de' ben riusciti successi, istituì giuochi detti Franchici.
Crispo suo figlio si rese formidabile a questi ed agli Alemanni;
campeggiò egli medesimo i Goti, che rifattisi nella lunga pace, si
unirono ai Sarmati della palude Meotide, e devastarono l'Illirico,
finchè furono costretti a vergognosa ritirata. Anche nei loro paesi gli
inseguì Costantino, passando il Danubio sul ristorato ponte di Trajano;
e ridusse i Goti a cercar pace, e a tributargli quarantamila soldati.
Di molti allori già era dunque glorioso Costantino, quando, morto e
deificato Costanzo, egli fu salutato imperatore (306); e
secondo il costume, spedì all'altro augusto e ai Cesari la propria
effigie in addobbo imperiale. Galerio ne montò in superbissima collera;
pure, onde evitare la guerra civile, gli mandò la porpora e il solo
titolo di cesare, quello d'augusto serbando a Severo.
Ma la inumanità di Galerio, la lunga assenza, e un censimento delle
ricchezze fatto con tal rigore da ricorrere fin alla tortura per
iscoprire gli averi nascosti, aveano mossa a rumore l'Italia, ove
Massenzio, figlio di Massimiano e genero di Galerio, si fece gridare
augusto, comprando i pretoriani col denaro, i Romani colla speranza
di redimerli da Galerio, i Gentili con quella di restaurarne il
culto. Massimiano, uscito dal ritiro, ripigliò gli affari (307), e
qual collega di suo figlio ricevette omaggio dal popolo e dal
senato; vinse e uccise Severo, chiese amico Costantino dandogli
sposa sua figlia Fausta e il titolo d'augusto; poi vedendo di esser
considerato men di quello che desiderasse, si recò a Galerio, chi dice
per incitarlo contro il proprio figliuolo, e chi per trovar luogo e
tempo a tradirlo. Galerio intanto era penetrato in Italia; ma come vide
l'immensità di Roma, o piuttosto la risolutezza di questa a servirsi
delle ricchezze per respingere colui che voleva rapirgliele, non ardì
assediarla e si ritirò, devastando la nostra patria, che peggio i
barbari non avrebbero potuto.
Al posto di Severo collocò Licinio Liciniano dace, amico suo e al
par di lui valoroso ed ignorante, lascivo in vecchia età ed avaro.
Massimino Daza, che governava l'Egitto e la Siria, pretese anch'egli
al titolo d'augusto: per modo che sei imperatori presedevano al mondo
romano, dal combattersi non rattenuti se non dal reciproco timore.
Massimiano, rejetto da Galerio, rannodò con Costantino: ma mentre
questo campeggiava i Franchi, ne divulgò la morte (309), e
schiuso il tesoro d'Arles, colla prodigalità e col rammemorare l'antico
splendore mosse i Galli a voler tornare in dominio, e stese la mano
a Massenzio (310). Costantino sopragiunto, assediatolo in
Marsiglia, l'ebbe in balia, e non gli lasciò che la scelta della morte.
Galerio divise la vita tra opere di pubblica utilità, piaceri e
sevizie. Geloso del sapere e della franchezza, sbandì giureconsulti,