Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 03
altri. Come vedeva usato dai Cristiani nella scelta de' sacerdoti,
pubblicava il nome de' governatori che eleggeva alle provincie,
invitando chi avesse alcun che da opporre. Moderato il lusso, diminuì
il prezzo delle derrate e l'interesse del denaro, non lasciando al
popolo mancare nè largizioni nè divertimenti. I governatori, persuasi
che l'amore de' governati fosse il solo modo di piacergli, tornavano
in lena le provincie; e così ricreavasi l'impero da quarant'anni di
diversa tirannia.
Restavano, pessima piaga, i soldati, indocili d'ogni freno. Alessandro
gli amicò coi donativi e con alleviarli da qualche peso, come dal
portar nelle marcie la provvigione per diciassette giorni; ne diresse
il lusso sui cavalli e sulle armi; alle loro fatiche sottoponevasi egli
stesso, li visitava malati, non lasciava alcun servizio senza memoria
o compenso, e diceva premergli più il conservar loro che se stesso, in
quelli consistendo la pubblica salvezza.
Ma val rimedio a male incancrenito? Ai pretoriani venne a noja la virtù
del loro creato, e tacciavano Ulpiano loro prefetto di consigliarlo
alla severità; onde infuriati corsero Roma per tre giorni come città
nemica, ficcando anche il fuoco, sinchè ebbero Ulpiano, che trucidarono
sugli occhi stessi dell'imperatore (230), indarno buono.
Egual fine minacciavano a qualunque ministro fedele; nè Dione storico
campò, che con celarsi nelle sue ville di Campania. Le legioni
imitarono il tristo esempio, e da ogni banda rivolte e uccisioni
d'uffiziali attestavano che nulla più giovava la bontà in tanta
sfrenatezza.
Al tempo suo (223-26) una grande rivoluzione ristorò l'impero
di Persia, e Ardescir-Babegan o Artaserse, figlio di Sassan, re dei
re, all'unità dell'amministrazione e del culto del fuoco secondo la
dottrina di Zoroastro ridusse quanto paese giace tra l'Eufrate, il
Tigri, l'Arasse, l'Oxo, l'Indo, il Caspio e il golfo Persico. Erano
nuovi tremendi nemici all'impero romano; giacchè Ardescir disegnò
ricuperare quanto avea posseduto Ciro; e senza riguardo ad Alessandro
Severo, passò l'Eufrate (232), sottomise molte provincie
contigue, ed all'imperatore che s'avvicinava coll'esercito mandò
quattrocento uomini, i più atanti di loro persone, i quali dicessero: —
Il re dei re manda ordine ai Romani e al loro capo; sgombrino la Siria
e l'Asia Minore, e restituiscano ai Persiani i paesi di qua dell'Egeo e
del Ponto, posseduti dai loro avi».
Alessandro s'irritò a quella tracotanza, e tolti ai messi gli
ornamenti, li relegò nella Frigia; la Mesopotamia senza battaglia
ricuperò; e sconfisse Ardescir (233), che contava cenventimila cavalli,
diecimila soldati pesanti, mille ottocento carri da guerra, e
settecento elefanti. Alessandro divise il suo esercito in tre corpi,
che per diversi lati invadessero la Partia; e la concordia del ben
disposto attacco avrebbe potuto fiaccare i Persi, se l'esercito
romano non avesse ricusato le fatiche e trucidato gli uffiziali. Reduce
a Roma (234), e vantate le sue imprese in senato, Alessandro
trionfò condotto da quattro elefanti, ed ebbe il soprannome di Partico
e di Persico: ma poco stante Ardescir ripigliò quanto i Romani aveano
acquistato, e in quindici anni di regno consolidò la sua potenza
minacciosa alla romana.
Alessandro disponevasi a rinnovare le ostilità, da cui lo distrassero i
Germani. Accorso al Reno, ne li respinse (235); ma l'arrestò
lo scompiglio de' suoi eserciti, intolleranti delle fatiche, della
disciplina e del rigore ond'egli puniva qualunque oltraggio recassero
nelle marcie, lungo le quali faceva ripetere dagli araldi quel suo —
Fate come volete che a voi si faccia».
Quando Alessandro, reduce d'Oriente, festeggiò nella Tracia con
giuochi militari il natogli Geta, si presentò un garzone balioso, in
barbara lingua implorando l'onore di concorrere alla lotta. La sua
corporatura dava grand'indizio di vigoria; laonde, affinchè non avesse,
egli barbaro, a trionfare d'un soldato romano, furongli opposti i più
forzosi schiavi del campo: ma un dopo l'altro, sedici ne abbattè.
Compensato con regalucci ed arrolato nelle truppe, al domani le
divertì con saltabellare a modo del suo paese: e vedendo che Severo gli
avea posto mente, tenne dietro al cavallo di lui in una lunga corsa,
senz'ombra di stanchezza; al fine della quale avendogli l'imperatore
esibito di lottare, accettò e vinse sette robusti soldati. Alessandro
il regalò d'una collana d'oro, e lo scrisse fra le guardie del suo
corpo con paga doppia, l'ordinaria non bastando al suo mantenimento.
Costui chiamavasi Massimino, di padre goto, di madre alana: alto
otto piedi, trascinava un carro cui non bastava un par di bovi,
sradicava alberi, fiaccava la tibia di un cavallo con un calcio,
spiaccicava ciottoli fra le mani, mangiava quaranta libbre di carne,
bevea ventiquattro pinte di vino al giorno, quando non eccedesse. Nel
trattare cogli uomini vide la necessità di frenare la natìa fierezza;
e sotto i succedentisi imperadori si conservò in grado: Alessandro
il costituì tribuno della quarta legione; indi, per la disciplina
che serbava, lo promosse al primo comando, lo ascrisse al senato, e
pensava dare sua sorella a Giulio Vero figlio di lui, bello, robusto e
coraggioso quanto superbo.
Tanti benefizj, non che ammansassero Massimino, l'invogliarono a tutto
osare quando tutto potea la forza; spargeva cronache e risa su questo
imperator siro, tutto senato, tutto mamma; e formatasi una fazione,
lo assalì presso Magonza (235), e lo trucidò con Mammea,
di soli ventisei anni. I soldati uccisero gli assassini, eccetto il
capo: popolo e senatori piansero Alessandro quanto meritava, e con
annua festa ne commemoravano il natale. Massimino, gridato imperatore,
si associò il figlio, cui i soldati baciarono le mani, le ginocchia,
i piedi; il senato confermò quel che non poteva disfare; e tosto
cominciarono le vendette e le crudeltà. Come chi da infima perviene
ad alta fortuna, Massimino temeva il dispregio e i confronti; quindi
la nascita illustre o il merito erano colpa agli occhi suoi, colpa
l'averlo vilipeso, colpa l'averlo sovvenuto nella sua povertà. Un
sospetto bastava perchè governatori, generali, consolari fossero
incatenati sui carri e portati all'imperatore, che, non sazio della
confisca e della morte, li faceva o esporre alle fiere entro pelli
fresche di bestie, o battere sinchè avessero fil di vita. Nè i
Cristiani cansarono la sua ferocia (236).
A pari con questa andava in lui l'ingordigia; e incamerò le rendite
indipendenti che ciascuna città amministrava per le pubbliche
distribuzioni e per sollazzi, spogliò i tempj, e le statue di numi e
d'eroi volse in moneta. Dappertutto fu indignazione, in qualche luogo
tumulto. Nell'Africa, alcuni giovani ricchissimi, spogliati d'ogni ben
loro dal procuratore ingordo, armano schiavi e contadini, trucidano il
magistrato, e gridano imperatore Marc'Antonio Gordiano (237)
proconsole di quella provincia.
Questo ricco e benefico senatore, discendente dai Gracchi e da Trajano,
occupava in Roma il palazzo di Pompeo, adorno di trofei e pitture:
aveva sulla via di Preneste una villa di magnifica estensione, con
tre sale lunghe cento piedi, e un portico sorretto da ducento colonne
de' quattro più stimati marmi: nei giuochi dati al popolo, non esibiva
mai meno di cencinquanta coppie di gladiatori, talora cinquecento: un
giorno fece uccidervi cento cavalli siciliani ed altrettanti cappadoci,
e mille orsi, a non dire le fiere minori: e siffatti giuochi, essendo
edile, rinnovò ogni mese; fatto console, gli estese alle principali
città d'Italia.
Qui tutta la sua ambizione; placido del resto da non eccitare la
gelosia de' tiranni, attendeva alle lettere e cantò in trenta libri le
virtù degli Antonini. Toccava gli ottant'anni quando gli sopragiunse
codesta sventura dell'impero; e poichè preci e lacrime adoprò invano
a stornarla, vedendo non camperebbe altrimenti o dai soldati o da
Massimino, accettò e pose sede in Cartagine. Imperatore con esso
fu dichiarato suo figlio Gordiano, il quale avea raccolto ventidue
concubine e sessantaduemila volumi: da ciascuna delle prime ebbe tre o
quattro figliuoli; degli altri si valse per fare egli stesso libri, di
cui qualcuno ci rimane.
Dando contezza al senato della loro elezione, i nuovi imperatori
protestavano deporrebbero la porpora se così a quello piacesse; dei
decreti ordinavano la pubblicazione soltanto qualora il senato vi
acconsentisse; richiamavano gli esuli, promettevano generosamente ai
soldati e al popolo, invitavano gli amici a sottrarsi dal tiranno.
La risolutezza del console vinse l'esitanza del senato, che dichiarò
nemici i Massimini e chi con loro, e ricompense a chi gli uccidesse; e
per tutta Italia si diffuse la rivolta, contaminata di troppo sangue.
Il senato avvilito a quel modo sotto il villano goto, ripigliava
allora spiriti e dignità, disponeva la difesa e la guerra, per deputati
invitava i governatori in ajuto della patria. Dappertutto erano i ben
accolti; ma Capeliano, governatore della Mauritania e privato nemico
de' Gordiani, fatto massa, aggrediva i nuovi imperatori (238) in
Cartagine. Il figlio periva combattendo; il padre all'annunzio
si strangolava, regnato appena sei settimane: Cartagine fu presa, e
torrenti di sangue saziarono la vendetta di Massimino.
Il quale, all'udire le prime nuove, infuriando a modo di bestia,
voltolavasi per terra, dava del capo nelle muraglie, trafisse quanti
gli erano intorno, finchè a viva forza gli si strappò la spada, poi
mosse verso Italia. Proclamava intera perdonanza: ma chi si sarebbe
fidato? Il senato, spinto dalla disperazione ad un coraggio che la
ragione rinnegava, proclamò imperatori due vecchi senatori, Massimo
Pupieno e Claudio Balbino, uno che dirigesse la guerra, l'altro che
regolasse la città. Il primo, figlio di un carpentiere, rozzo ma
valoroso ed assennato, era salito di grado in grado fino ai sommi e
alla prefettura di Roma. Le sue vittorie contro Sarmati e Germani, e
il tenore austero di sua vita, non disgiunta da umanità, il faceano
riverito dal popolo; come amato n'era Balbino, oratore e poeta di nome,
integro governatore di molte provincie, ricco sfondolato e liberale,
amico de' piaceri senza eccesso.
Appena costoro in Campidoglio compivano i primi sagrifizj, il popolo
tumultua, vuol fare esso pure una elezione, e che ai due s'aggiunga
un nipote di Gordiano, fanciullo di dodici anni, anch'esso Gordiano
di nome. Quelli accettarono il cesare, e rabbonacciato il tumulto,
pensarono a consolidarsi.
Massimino, a capo dell'esercito col quale avea più volte vinto i
Germani e meditato stendere l'impero fino al mar settentrionale, movea
sbuffando sopra l'Italia, che mai non avea vista dopo imperatore;
e sceso dall'AIpi Giulie, trovava il paese deserto, consumate le
provvigioni, rotti i ponti, volendo così il senato logorarne le forze
sotto i castelli nel miglior modo muniti. Prima Aquileja gli abbarrò
la marcia con risoluto coraggio, fidata nel dio Beleno, che credeva
combattesse sulle sue mura. Se però Massimino si fosse lasciata alle
spalle quella città, difilandosi sopra Roma, che cosa avrebbe potuto
opporgli Pupieno, proceduto sin a Ravenna per tenergli testa? E che
valevano i politici accorgimenti di Balbino contro gl'interni tumulti?
Ma le truppe di Massimino, trovando il paese desolato e un'inattesa
resistenza, s'ammutinarono; e un corpo di pretoriani, tremando per le
mogli ed i figli loro rimasti nel campo d'Alba, trucidarono il tiranno
col figlio e co' suoi più fidati.
Aquileja spalanca le porte, assediati e assediatori abbracciansi nella
esultanza della ricuperata libertà, e in Ravenna, in Roma, per tutto
la gioja, i mirallegro, i ringraziamenti agli Dei sono in proporzione
del terrore eccitato dagli uccisi e dalla fiducia nei nuovi. Questi
abolirono o temperarono le tasse imposte da Massimino, rimisero la
disciplina, pubblicarono leggi opportune col consiglio del senato, e
cercarono rimarginare le ferite sanguinose. Pupieno chiedeva a Balbino:
— Qual premio aspettarci per aver liberato Roma da un mostro? — L'amore
del senato, del popolo e di tutti», rispose Balbino; ma l'altro più
veggente: — Sarà piuttosto l'odio dei soldati e la loro vendetta».
E indovinò. Ancor durante la guerra, popolo e pretoriani si erano in
Roma levati a stormo, inondate le vie di sangue, gittato il fuoco ne'
magazzini e nelle botteghe. Il tumulto fu sopito, non estinto, talchè
i senatori andavano muniti di pugnali, i pretoriani adocchiavano
l'occasione di vendicarsi; tutti al pari beffandosi dei deboli argini
che gl'imperatori mettevano al torrente delle fazioni. Crebbe il
fermento allorchè i pretoriani si trovarono riuniti in Roma; e fremendo
che agl'imperatori da essi eletti fossero surrogate queste creature
del senato, e che si pretendesse rimettere le leggi e la disciplina,
trucidano gl'imperatori, e recano al campo il giovine Gordiano III,
proclamandolo unico padrone (238).
Quel fanciullo pareva nato fatto per riconciliare i rissosi: egli
bello, egli soave, egli rampollo di due imperatori, morti prima di
divenire malvagi; egli detto figliuolo dal senato, come dai soldati;
egli dalla plebe amato più che qualunque suo predecessore. Misiteo,
suo maestro di retorica poi suocero e prefetto al pretorio, dato lo
sfratto a' ribaldi confidenti del giovine imperatore, meritò la fiducia
coll'onestà e colla valentìa. Ma poco appresso morì; e il comando
de' pretoriani fu commesso a Marco Giulio Filippo, che, non contento
di quel posto, brigò fra i soldati tanto, che obbligò Gordiano ad
assumerlo compagno nel dominio (244), poi lo depose, infine
lo trucidò a Zait mentre guerreggiava il re sassanide Sciapur o Sapore,
figlio di Ardescir.
Filippo era nato a Bosra nell'Idumea, da un capo di carovane arabe, e
v'è chi lo dice cristiano, sebbene le opere nol mostrino. Acconciatosi
con Sàpore, tornò in Antiochia (243), dove volendo assistere
alla solennità della Pasqua, il vescovo Babila lo dichiarò indegno,
finchè non subisse la penitenza. Giunto a Roma, si conciliò il popolo
colla dolcezza, e celebrò il millenario della città (247)
con giuochi ove combatterono trentadue elefanti, dieci orsi, sessanta
leoni, un caval marino, un rinoceronte, dieci leoni bianchi, dieci
asini, quaranta cavalli selvaggi, dieci giraffe, oltre belve minori e
duemila gladiatori. Sanguinosi dovean essere i giubilei della eroica
città.
Ma d'ogni parte rampollavano nuovi imperatori, il più fortunato
de' quali fu Gneo Messio Decio di Sirmio, governatore della Mesia;
marciando contro del quale Filippo fu trucidato a Verona (249) per
mano dello stesso Decio, dopo cinque anni d'impero.
Aveva egli lasciato progredire la religione cristiana, contro della
quale invece Decio bandì severissimi editti (250): e chi
ne faceva professione, era sturbato dalle case e dai beni, e tratto
al supplizio. Rinnovaronsi allora gli orrori delle proscrizioni;
fratelli tradirono i fratelli, figliuoli i padri; chi potea sottrarsi
a quel furore, si riduceva nelle selve e negli eremi. V'era mosso
Decio dall'amore dell'antica disciplina, che, attribuendo le
sciagure dell'impero alla corruttela, tentò ripristinare. Avea
pensato ristabilire la censura; quasi la rugginosa instituzione
fosse applicabile quando su tutto il mondo incivilito sarebbesi
dovuto estendere l'ispezione, e chiamare a giudizio inerme l'armata
depravazione. Pure volendo che il senato eleggesse un censore,
l'unanime voce acclamò Valeriano; e l'imperatore, conferendogli il
grado, disse: — Te fortunato per l'universale approvazione! ricevi
la censura del genere umano, e giudica i nostri costumi. Eleggerai
i meritevoli di seder nel senato, renderai lo splendore all'ordine
equestre, crescerai le pubbliche entrate pur alleggerendo le gravezze,
dividerai in classi l'infinita moltitudine de' cittadini, terrai
ragione di quanto concerna le forze, le ricchezze, la virtù, la
potenza di Roma. Al tuo tribunale sono soggetti la corte, l'esercito,
i ministri della giustizia, le dignità dell'impero, eccetto solo i
consoli ordinarj, il prefetto della città, il re dei sacrifizj, e la
maggior Vestale sinchè casta».
Prima che al fatto apparisse ineseguibile quel disegno, lo interruppero
i Goti, che invasero la Bassa Mesia (254), poi la Tracia
e la Macedonia. Ora vincendo a forza, ora giovato dai tradimenti,
l'imperatore li ridusse a tale estremità, che offrirono di rendere i
prigionieri ed il bottino, pur che fossero lasciati ritirarsi. Decio,
risoluto a sterminarli, s'attraversò al loro passo. Mal per lui;
giacchè, assalito in disperata battaglia, vide cadere trafitto il
proprio figliuolo. Decio gridò ai soldati: — Non abbiam perduto che un
uomo; sì lieve mancanza non ci scoraggi»; ed avventatosi ove più fervea
la mischia, vi trovò la morte.
Dell'esercito sbaragliato le reliquie si raggomitolarono al corpo di
Vibio Treboniano Gallo, da lui spedito per tagliare la ritirata ai
Goti. Questi, che forse avea colpa della sconfitta, finse volerla
vendicare, e così amicossi l'esercito che l'acclamò imperatore: ed
egli si associò Ostiliano figlio di Decio, e, morto fra breve costui,
il proprio figlio Volusiano. Ma non appena il senato lo confermò,
conchiuse vergognosa pace coi Goti, promettendo fin un tributo;
serbatosi a manifestare il suo coraggio col perseguitare i Cristiani.
Nel suo regno d'un anno e mezzo, peste e siccità desolarono; Goti,
Borani, Carpi, Burgundioni irruppero nella Mesia e nella Pannonia; gli
Sciti devastarono l'Asia, i Persiani occuparono fino Antiochia. Il
mauro Emilio Emiliano, comandante della Mesia, borioso d'aver vinto
i Barbari, e sprezzando Gallo che marciva a Roma nei piaceri, si fa
salutare imperatore (253 — maggio), e prima che questi ben
si sdormenti, entra in Italia, e scontratolo a Terni, il vede ucciso
col figlio Volusiano da' suoi stessi soldati. Ma l'esercito uccide lui
pure presso Spoleto, dopo quattro mesi di regno, e s'accorda col senato
e coll'esercito della Gallia e Germania che aveano acclamato Licinio
Valeriano.
Illustre nascita, modestia, prudenza faceano caro costui, che
forbendosi dai vizj d'allora, applicava alle belle lettere i suoi
riposi; devoto dei costumi antichi, aborriva la tirannide, talchè parea
degno dell'impero. Ma come l'ottenne, si sentì inabile a tanto peso;
nè altro ajuto seppe scegliere che il proprio figlio Egnazio Gallieno,
effeminato e vizioso. Pure dava miti ed opportuni provvedimenti, quando
il chiamarono all'armi i popoli, che dal Settentrione e dall'Oriente
irrompevano.
Valeriano, vittorioso dei Goti, combattendo Sàpore (259)
nella Mesopotamia restò vinto e prigioniero per tradimento di Fulvio
Macriano suo favorito. Il re dei re, invanito dell'opìmo trionfo, il
menò catenato per le città principali, sul dosso di lui metteva il
piede per montare a cavallo: morto dopo parecchi anni di prigionia,
lo fece scorticare, e dedicarne la pelle in un tempio, a perpetuo
obbrobrio. Altri storici attestano che rispettò il prigioniero, a cui
lo strazio peggiore fu il vedere suo figlio esultare d'una sventura
che anticipavagli il regno. I Cristiani vi ravvisarono la punizione
dell'aver perseguitato i Fedeli, come fece ad istigazione di Marciano,
famigerato mago egizio, il quale gli persuase non potrebbe l'impero mai
prosperare finchè non annichilasse un culto abbominato dai patrj numi.
All'annunzio della sconfitta, tutti i nemici dell'impero quasi
d'accordo l'assalgono e invadono anche l'Italia. Dal pericolo ridesti,
i senatori posero in essere la guarnigione pretoriana, arrolandovi i
più robusti plebei, sicchè i Barbari diedero volta. Gallieno rimasto
solo all'impero, s'adombrò di quest'accesso marziale; onde interdisse
ai senatori qualunque grado militare, e fin l'accostarsi ai campi delle
legioni: esclusione che i ricchi ammolliti accettarono come un favore.
Gallieno procurò imbonire i Barbari anche con parentele, sposando la
figlia di Pipa re dei Marcomanni, nozze sempre tenute per sacrileghe
dalla romana vanità. Nell'Illiria sconfisse e uccise Ingenuo acclamato
imperatore, e in vendetta mandò per le spade gli abitanti della Mesia,
colpevoli o no. — Non basta (scriveva a Veriano Celere) che tu faccia
morire semplicemente quelli che portarono le armi contro di me, e
che avrebbero potuto perire nella zuffa; voglio che in ogni città tu
stermini tutti gli uomini, giovani o vecchi: non risparmiare pur uno
che m'abbia voluto male o sparlato di me, figlio, padre e fratello di
principi. Uccidi, strazia senza pietà, fa come farei io stesso che di
propria mano ti scrivo»[12].
Al furibondo decreto davasi esecuzione (261), talchè i minacciati, per
disperazione, gridarono imperatore Nonio Regillo. Daco d'origine, e
discendente da Decebalo che guerreggiò con Trajano, era prode a segno,
che Claudio, futuro imperatore, gli scrisse: — Un tempo ti sarebbe
stato decretato il trionfo: ora ti consiglio a vincere con maggior
precauzione, e non dimenticare che v'è cui le tue vittorie darebbero
sospetto». Questo valore lo portò al trono, ma non gliel conservò, e
ben tosto fu ucciso (262) dai proprj soldati.
Un altro imperatore sorto nelle Gallie, Cassiano Postumio, di bassa
nazione ma sommo capitano, assediò in Colonia Salonino figlio di
Gallieno, e l'uccise (259), ed ebbe omaggio dalla Gallia,
dalla Spagna e dalla Bretagna, per otto anni conservandovi la
tranquillità, e facendosi amare.
Tanti tumulti interni lasciavano agevolezza al persiano Sàpore di
devastare a baldanza l'Oriente. Anicio Balisto, capitano del pretorio
sotto Valeriano, raccolte le reliquie dell'esercito di questo, osa
tenergli fronte, e supplendo al numero colla rapidità e l'arte,
libera Pompejopoli in Cilicia, fa macello de' Persi in Licaonia, molti
rendendone prigioni, e tra questi le donne di Sàpore; poi ritirandosi
prima che questi il raggiunga, sbarca come un lampo a Sebaste e a
Corissa di Cilicia, sorprendendo e trucidando gl'invasori. Lo aveva
soccorso Odenato di Palmira, sceico d'alcune tribù di Saracini, educato
dalla puerizia a caccie e battaglie; e che respinto Sàpore e toltigli i
tesori, entrò nella Mesopotamia, e inoltrossi nel cuore dell'impero per
liberare Valeriano. Vinto Sàpore in campale giornata (261)
sulle sponde dell'Eufrate, lo chiude colla sua famiglia in Ctesifonte,
e gli sforzi suoi erano forse coronati, se le rinascenti sedizioni
dell'impero non avessero resa impossibile qualunque impresa grande. In
ricompensa de' segnalati servigi, nominato da Gallieno capo di tutte
le forze romane in Oriente, Odenato assunse il titolo di re di Palmira,
città del deserto (263), che per la cintura delle solitudini
isolata dal mondo, erasi serbata indipendente fra Roma e i Parti,
straordinariamente arricchita dall'essere la posata delle carovane che
andavano e venivano fra l'impero romano e le Indie.
Mentre quivi Odenato e Balisto faceano mirabili prove, Gallieno
logoravasi fra meretrici: la crudeltà esercitava, non contro
i senatori, ma contro i soldati, facendone morire fin tre e
quattromila al giorno. Una volta menò ridicolo trionfo con finti
prigionieri vestiti da Goti, Sàrmati, Franchi e Persiani; onde alcuni
inopportunamente lepidi si diedero a squadrare costoro, e chiesti che
cosa esaminassero tanto minutamente, risposero: — Cerchiamo il padre
dell'imperatore». Gallieno li fece buttare nel fuoco, ottimo modo di
aver ragione. Poi prendea diletto a disputare col filosofo Plotino, e
ideava di commettergli una città ove ridurre in atto la repubblica di
Platone; faceva anche bei versi ed orazioni; sapeva con pari maestria
ornare un giardino o cuocere un pranzo; iniziavasi ai misteri di
Grecia, sollecitava un posto nell'areopago d'Atene; e nelle solennità
d'immeritati trionfi o nel lusso di sua corte profondeva tesori, che
la pubblica miseria e le grandi calamità reclamavano. Singolarmente
memorabile fu il trionfo da lui menato a Roma il decimo anno di suo
impero, e descrittoci da Trebellio. L'imperatore, corteggiato dal
senato, dai cavalieri, dalle milizie biancovestite, preceduto dal
popolo, da donne, da servi con torcie e candele, andò processionalmente
in Campidoglio. Cento bovi colle corna dorate e con gualdrappe di
seta, preziosa rarità, e ducento pecore bianche precedeano, ond'essere
sagrificate. Vi fecero pur mostra dieci elefanti, milleducento
gladiatori, carrette con ogni maniera di buffoni e commedianti, forze
ciclopiche, feste e giuochi per tutto, infine alquante centinaja di
persone vestite da Sciti, da Franchi, da Sarmati, da Persi. Fra ciò,
nessuna cura de' pubblici interessi; se gli si dice morto suo padre,
— Sapevo ch'egli era mortale»; se gli annunziano perduto l'Egitto,
— Faremo senza delle sue tele»; se occupata la Gallia, — Perirà Roma
senza le stoffe di Arras?» se predata l'Asia dagli Sciti, — Non potremo
noi lavarci senza le spume di nitro?»
Quest'indolenza suscitava d'ogni parte usurpatori, che nella storia
sono conosciuti col nome di Trenta Tiranni, sebbene quel numero non
si ragguagli col vero: ma come senza noja e confusione seguire tutti
costoro nel breve tragitto dal trono alla tomba?
Fulvio Macriano, meritati i primi gradi della milizia, coll'appoggio
di Balisto si fece gridar imperatore. Appena l'udì, Valerio Valente,
proconsole nell'Acaja, prese il titolo stesso: lo imitò Calpurnio
Pisone (261), speditogli contro. Era quest'ultimo d'illustre
casa e di grandi virtù, talchè, all'udirlo ucciso, Valente sclamò: —
Qual conto dovrò rendere ai giudici infernali della morte d'uno che non
ha l'eguale nell'impero!» Il senato ne decretò l'apoteosi, dichiarando
non essersi mai dato uomo migliore nè più fermo.
Macriano sul confine della Tracia fu sconfitto e morto. Balisto,
chiamatosi imperatore in Emesa, è da un sicario di Gallieno tolto di
vita (264). In Egitto un Emiliano fu pure sconfitto e spedito
a Roma, e quivi strangolato in prigione, secondo il rito degli avi.
Nell'Asia Minore gl'Isauri acclamarono Claudio Annio Trebelliano, e
morto questo in campo, ricusarono sottomettersi, e devastarono l'Asia
Minore e la Siria fin al tempo di Costantino. Cornelio Gallo, gridato
augusto in Africa, in capo a sette giorni è crocifisso.
Postumio nelle Gallie associossi Pianvonio Vittorino, resistendo a'
replicati attacchi di Gallieno, e vincendo un Lucio Eliano, erettosi
imperatore a Magonza; ma non volendo assentire ai soldati il saccheggio
di questa città, fu trucidato col figlio. Servio Lolliano che gli
successe, cadde ucciso per istigazione di Vittorino (266),
che restò unico padrone delle Gallie, finchè un marito oltraggiato non
lo scannò. Erasi egli destinato successore il figlio: però i Galli,
sdegnando obbedire ad un fanciullo, elessero Marc'Aurelio Mario,
armajuolo di forza e valore straordinario; ma, tre giorni dopo, un
suo garzone gli confisse la spada nel cuore, dicendo: — Fu fabbricata
nella tua fucina». I soldati gli surrogarono Pesuvio Tetrico, senatore
e consolare, che restò in possesso della Gallia, Spagna e Britannia.
Questi efimeri erano elevati ed abbattuti da Vittoria madre di
Vittorino, che a Gallieno opponeva virile coraggio e immense ricchezze.
Anche Odenato, che, pel merito d'aver conservate le provincie
orientali, era stato da Gallieno assunto socio all'impero, e che
continuava prosperamente contro i Persi, mentre accorreva per riparare
alle invasioni dei Goti fu assassinato ad Emesa da un suo nipote
(267); e in nome dei tre figli che lasciava, governò la sua
seconda moglie Zenobia, forse complice dell'assassinio, col titolo di
regina d'Oriente e colle insegne imperiali.
Acilio Aureolo, generale di Gallieno nell'Illiria, era stato obbligato
dall'esercito ad accettare la porpora, e passate le Alpi, battuto
l'esercito imperiale sull'Adda fra Bergamo e Milano, ove gettò un ponte
che ancora conserva il suo nome (Pons Aureoli, Pontiròlo) (268), occupò
Milano. Quivi assediava Gallieno, quando una congiura tolse questo di
vita, nel decimoquinto anno di regno, trentesimoquinto d'età. Sulle
prime i soldati voleano vendicarlo, poi vinti a denaro il dichiararono
tiranno; il senato lo pubblicò nemico della patria, fece trabalzare i
suoi amici e parenti dalla rupe Tarpea, poco dopo lo deificò.
Il suo fu de' più infelici tempi che la storia ricordi; tutto guerra
pubblicava il nome de' governatori che eleggeva alle provincie,
invitando chi avesse alcun che da opporre. Moderato il lusso, diminuì
il prezzo delle derrate e l'interesse del denaro, non lasciando al
popolo mancare nè largizioni nè divertimenti. I governatori, persuasi
che l'amore de' governati fosse il solo modo di piacergli, tornavano
in lena le provincie; e così ricreavasi l'impero da quarant'anni di
diversa tirannia.
Restavano, pessima piaga, i soldati, indocili d'ogni freno. Alessandro
gli amicò coi donativi e con alleviarli da qualche peso, come dal
portar nelle marcie la provvigione per diciassette giorni; ne diresse
il lusso sui cavalli e sulle armi; alle loro fatiche sottoponevasi egli
stesso, li visitava malati, non lasciava alcun servizio senza memoria
o compenso, e diceva premergli più il conservar loro che se stesso, in
quelli consistendo la pubblica salvezza.
Ma val rimedio a male incancrenito? Ai pretoriani venne a noja la virtù
del loro creato, e tacciavano Ulpiano loro prefetto di consigliarlo
alla severità; onde infuriati corsero Roma per tre giorni come città
nemica, ficcando anche il fuoco, sinchè ebbero Ulpiano, che trucidarono
sugli occhi stessi dell'imperatore (230), indarno buono.
Egual fine minacciavano a qualunque ministro fedele; nè Dione storico
campò, che con celarsi nelle sue ville di Campania. Le legioni
imitarono il tristo esempio, e da ogni banda rivolte e uccisioni
d'uffiziali attestavano che nulla più giovava la bontà in tanta
sfrenatezza.
Al tempo suo (223-26) una grande rivoluzione ristorò l'impero
di Persia, e Ardescir-Babegan o Artaserse, figlio di Sassan, re dei
re, all'unità dell'amministrazione e del culto del fuoco secondo la
dottrina di Zoroastro ridusse quanto paese giace tra l'Eufrate, il
Tigri, l'Arasse, l'Oxo, l'Indo, il Caspio e il golfo Persico. Erano
nuovi tremendi nemici all'impero romano; giacchè Ardescir disegnò
ricuperare quanto avea posseduto Ciro; e senza riguardo ad Alessandro
Severo, passò l'Eufrate (232), sottomise molte provincie
contigue, ed all'imperatore che s'avvicinava coll'esercito mandò
quattrocento uomini, i più atanti di loro persone, i quali dicessero: —
Il re dei re manda ordine ai Romani e al loro capo; sgombrino la Siria
e l'Asia Minore, e restituiscano ai Persiani i paesi di qua dell'Egeo e
del Ponto, posseduti dai loro avi».
Alessandro s'irritò a quella tracotanza, e tolti ai messi gli
ornamenti, li relegò nella Frigia; la Mesopotamia senza battaglia
ricuperò; e sconfisse Ardescir (233), che contava cenventimila cavalli,
diecimila soldati pesanti, mille ottocento carri da guerra, e
settecento elefanti. Alessandro divise il suo esercito in tre corpi,
che per diversi lati invadessero la Partia; e la concordia del ben
disposto attacco avrebbe potuto fiaccare i Persi, se l'esercito
romano non avesse ricusato le fatiche e trucidato gli uffiziali. Reduce
a Roma (234), e vantate le sue imprese in senato, Alessandro
trionfò condotto da quattro elefanti, ed ebbe il soprannome di Partico
e di Persico: ma poco stante Ardescir ripigliò quanto i Romani aveano
acquistato, e in quindici anni di regno consolidò la sua potenza
minacciosa alla romana.
Alessandro disponevasi a rinnovare le ostilità, da cui lo distrassero i
Germani. Accorso al Reno, ne li respinse (235); ma l'arrestò
lo scompiglio de' suoi eserciti, intolleranti delle fatiche, della
disciplina e del rigore ond'egli puniva qualunque oltraggio recassero
nelle marcie, lungo le quali faceva ripetere dagli araldi quel suo —
Fate come volete che a voi si faccia».
Quando Alessandro, reduce d'Oriente, festeggiò nella Tracia con
giuochi militari il natogli Geta, si presentò un garzone balioso, in
barbara lingua implorando l'onore di concorrere alla lotta. La sua
corporatura dava grand'indizio di vigoria; laonde, affinchè non avesse,
egli barbaro, a trionfare d'un soldato romano, furongli opposti i più
forzosi schiavi del campo: ma un dopo l'altro, sedici ne abbattè.
Compensato con regalucci ed arrolato nelle truppe, al domani le
divertì con saltabellare a modo del suo paese: e vedendo che Severo gli
avea posto mente, tenne dietro al cavallo di lui in una lunga corsa,
senz'ombra di stanchezza; al fine della quale avendogli l'imperatore
esibito di lottare, accettò e vinse sette robusti soldati. Alessandro
il regalò d'una collana d'oro, e lo scrisse fra le guardie del suo
corpo con paga doppia, l'ordinaria non bastando al suo mantenimento.
Costui chiamavasi Massimino, di padre goto, di madre alana: alto
otto piedi, trascinava un carro cui non bastava un par di bovi,
sradicava alberi, fiaccava la tibia di un cavallo con un calcio,
spiaccicava ciottoli fra le mani, mangiava quaranta libbre di carne,
bevea ventiquattro pinte di vino al giorno, quando non eccedesse. Nel
trattare cogli uomini vide la necessità di frenare la natìa fierezza;
e sotto i succedentisi imperadori si conservò in grado: Alessandro
il costituì tribuno della quarta legione; indi, per la disciplina
che serbava, lo promosse al primo comando, lo ascrisse al senato, e
pensava dare sua sorella a Giulio Vero figlio di lui, bello, robusto e
coraggioso quanto superbo.
Tanti benefizj, non che ammansassero Massimino, l'invogliarono a tutto
osare quando tutto potea la forza; spargeva cronache e risa su questo
imperator siro, tutto senato, tutto mamma; e formatasi una fazione,
lo assalì presso Magonza (235), e lo trucidò con Mammea,
di soli ventisei anni. I soldati uccisero gli assassini, eccetto il
capo: popolo e senatori piansero Alessandro quanto meritava, e con
annua festa ne commemoravano il natale. Massimino, gridato imperatore,
si associò il figlio, cui i soldati baciarono le mani, le ginocchia,
i piedi; il senato confermò quel che non poteva disfare; e tosto
cominciarono le vendette e le crudeltà. Come chi da infima perviene
ad alta fortuna, Massimino temeva il dispregio e i confronti; quindi
la nascita illustre o il merito erano colpa agli occhi suoi, colpa
l'averlo vilipeso, colpa l'averlo sovvenuto nella sua povertà. Un
sospetto bastava perchè governatori, generali, consolari fossero
incatenati sui carri e portati all'imperatore, che, non sazio della
confisca e della morte, li faceva o esporre alle fiere entro pelli
fresche di bestie, o battere sinchè avessero fil di vita. Nè i
Cristiani cansarono la sua ferocia (236).
A pari con questa andava in lui l'ingordigia; e incamerò le rendite
indipendenti che ciascuna città amministrava per le pubbliche
distribuzioni e per sollazzi, spogliò i tempj, e le statue di numi e
d'eroi volse in moneta. Dappertutto fu indignazione, in qualche luogo
tumulto. Nell'Africa, alcuni giovani ricchissimi, spogliati d'ogni ben
loro dal procuratore ingordo, armano schiavi e contadini, trucidano il
magistrato, e gridano imperatore Marc'Antonio Gordiano (237)
proconsole di quella provincia.
Questo ricco e benefico senatore, discendente dai Gracchi e da Trajano,
occupava in Roma il palazzo di Pompeo, adorno di trofei e pitture:
aveva sulla via di Preneste una villa di magnifica estensione, con
tre sale lunghe cento piedi, e un portico sorretto da ducento colonne
de' quattro più stimati marmi: nei giuochi dati al popolo, non esibiva
mai meno di cencinquanta coppie di gladiatori, talora cinquecento: un
giorno fece uccidervi cento cavalli siciliani ed altrettanti cappadoci,
e mille orsi, a non dire le fiere minori: e siffatti giuochi, essendo
edile, rinnovò ogni mese; fatto console, gli estese alle principali
città d'Italia.
Qui tutta la sua ambizione; placido del resto da non eccitare la
gelosia de' tiranni, attendeva alle lettere e cantò in trenta libri le
virtù degli Antonini. Toccava gli ottant'anni quando gli sopragiunse
codesta sventura dell'impero; e poichè preci e lacrime adoprò invano
a stornarla, vedendo non camperebbe altrimenti o dai soldati o da
Massimino, accettò e pose sede in Cartagine. Imperatore con esso
fu dichiarato suo figlio Gordiano, il quale avea raccolto ventidue
concubine e sessantaduemila volumi: da ciascuna delle prime ebbe tre o
quattro figliuoli; degli altri si valse per fare egli stesso libri, di
cui qualcuno ci rimane.
Dando contezza al senato della loro elezione, i nuovi imperatori
protestavano deporrebbero la porpora se così a quello piacesse; dei
decreti ordinavano la pubblicazione soltanto qualora il senato vi
acconsentisse; richiamavano gli esuli, promettevano generosamente ai
soldati e al popolo, invitavano gli amici a sottrarsi dal tiranno.
La risolutezza del console vinse l'esitanza del senato, che dichiarò
nemici i Massimini e chi con loro, e ricompense a chi gli uccidesse; e
per tutta Italia si diffuse la rivolta, contaminata di troppo sangue.
Il senato avvilito a quel modo sotto il villano goto, ripigliava
allora spiriti e dignità, disponeva la difesa e la guerra, per deputati
invitava i governatori in ajuto della patria. Dappertutto erano i ben
accolti; ma Capeliano, governatore della Mauritania e privato nemico
de' Gordiani, fatto massa, aggrediva i nuovi imperatori (238) in
Cartagine. Il figlio periva combattendo; il padre all'annunzio
si strangolava, regnato appena sei settimane: Cartagine fu presa, e
torrenti di sangue saziarono la vendetta di Massimino.
Il quale, all'udire le prime nuove, infuriando a modo di bestia,
voltolavasi per terra, dava del capo nelle muraglie, trafisse quanti
gli erano intorno, finchè a viva forza gli si strappò la spada, poi
mosse verso Italia. Proclamava intera perdonanza: ma chi si sarebbe
fidato? Il senato, spinto dalla disperazione ad un coraggio che la
ragione rinnegava, proclamò imperatori due vecchi senatori, Massimo
Pupieno e Claudio Balbino, uno che dirigesse la guerra, l'altro che
regolasse la città. Il primo, figlio di un carpentiere, rozzo ma
valoroso ed assennato, era salito di grado in grado fino ai sommi e
alla prefettura di Roma. Le sue vittorie contro Sarmati e Germani, e
il tenore austero di sua vita, non disgiunta da umanità, il faceano
riverito dal popolo; come amato n'era Balbino, oratore e poeta di nome,
integro governatore di molte provincie, ricco sfondolato e liberale,
amico de' piaceri senza eccesso.
Appena costoro in Campidoglio compivano i primi sagrifizj, il popolo
tumultua, vuol fare esso pure una elezione, e che ai due s'aggiunga
un nipote di Gordiano, fanciullo di dodici anni, anch'esso Gordiano
di nome. Quelli accettarono il cesare, e rabbonacciato il tumulto,
pensarono a consolidarsi.
Massimino, a capo dell'esercito col quale avea più volte vinto i
Germani e meditato stendere l'impero fino al mar settentrionale, movea
sbuffando sopra l'Italia, che mai non avea vista dopo imperatore;
e sceso dall'AIpi Giulie, trovava il paese deserto, consumate le
provvigioni, rotti i ponti, volendo così il senato logorarne le forze
sotto i castelli nel miglior modo muniti. Prima Aquileja gli abbarrò
la marcia con risoluto coraggio, fidata nel dio Beleno, che credeva
combattesse sulle sue mura. Se però Massimino si fosse lasciata alle
spalle quella città, difilandosi sopra Roma, che cosa avrebbe potuto
opporgli Pupieno, proceduto sin a Ravenna per tenergli testa? E che
valevano i politici accorgimenti di Balbino contro gl'interni tumulti?
Ma le truppe di Massimino, trovando il paese desolato e un'inattesa
resistenza, s'ammutinarono; e un corpo di pretoriani, tremando per le
mogli ed i figli loro rimasti nel campo d'Alba, trucidarono il tiranno
col figlio e co' suoi più fidati.
Aquileja spalanca le porte, assediati e assediatori abbracciansi nella
esultanza della ricuperata libertà, e in Ravenna, in Roma, per tutto
la gioja, i mirallegro, i ringraziamenti agli Dei sono in proporzione
del terrore eccitato dagli uccisi e dalla fiducia nei nuovi. Questi
abolirono o temperarono le tasse imposte da Massimino, rimisero la
disciplina, pubblicarono leggi opportune col consiglio del senato, e
cercarono rimarginare le ferite sanguinose. Pupieno chiedeva a Balbino:
— Qual premio aspettarci per aver liberato Roma da un mostro? — L'amore
del senato, del popolo e di tutti», rispose Balbino; ma l'altro più
veggente: — Sarà piuttosto l'odio dei soldati e la loro vendetta».
E indovinò. Ancor durante la guerra, popolo e pretoriani si erano in
Roma levati a stormo, inondate le vie di sangue, gittato il fuoco ne'
magazzini e nelle botteghe. Il tumulto fu sopito, non estinto, talchè
i senatori andavano muniti di pugnali, i pretoriani adocchiavano
l'occasione di vendicarsi; tutti al pari beffandosi dei deboli argini
che gl'imperatori mettevano al torrente delle fazioni. Crebbe il
fermento allorchè i pretoriani si trovarono riuniti in Roma; e fremendo
che agl'imperatori da essi eletti fossero surrogate queste creature
del senato, e che si pretendesse rimettere le leggi e la disciplina,
trucidano gl'imperatori, e recano al campo il giovine Gordiano III,
proclamandolo unico padrone (238).
Quel fanciullo pareva nato fatto per riconciliare i rissosi: egli
bello, egli soave, egli rampollo di due imperatori, morti prima di
divenire malvagi; egli detto figliuolo dal senato, come dai soldati;
egli dalla plebe amato più che qualunque suo predecessore. Misiteo,
suo maestro di retorica poi suocero e prefetto al pretorio, dato lo
sfratto a' ribaldi confidenti del giovine imperatore, meritò la fiducia
coll'onestà e colla valentìa. Ma poco appresso morì; e il comando
de' pretoriani fu commesso a Marco Giulio Filippo, che, non contento
di quel posto, brigò fra i soldati tanto, che obbligò Gordiano ad
assumerlo compagno nel dominio (244), poi lo depose, infine
lo trucidò a Zait mentre guerreggiava il re sassanide Sciapur o Sapore,
figlio di Ardescir.
Filippo era nato a Bosra nell'Idumea, da un capo di carovane arabe, e
v'è chi lo dice cristiano, sebbene le opere nol mostrino. Acconciatosi
con Sàpore, tornò in Antiochia (243), dove volendo assistere
alla solennità della Pasqua, il vescovo Babila lo dichiarò indegno,
finchè non subisse la penitenza. Giunto a Roma, si conciliò il popolo
colla dolcezza, e celebrò il millenario della città (247)
con giuochi ove combatterono trentadue elefanti, dieci orsi, sessanta
leoni, un caval marino, un rinoceronte, dieci leoni bianchi, dieci
asini, quaranta cavalli selvaggi, dieci giraffe, oltre belve minori e
duemila gladiatori. Sanguinosi dovean essere i giubilei della eroica
città.
Ma d'ogni parte rampollavano nuovi imperatori, il più fortunato
de' quali fu Gneo Messio Decio di Sirmio, governatore della Mesia;
marciando contro del quale Filippo fu trucidato a Verona (249) per
mano dello stesso Decio, dopo cinque anni d'impero.
Aveva egli lasciato progredire la religione cristiana, contro della
quale invece Decio bandì severissimi editti (250): e chi
ne faceva professione, era sturbato dalle case e dai beni, e tratto
al supplizio. Rinnovaronsi allora gli orrori delle proscrizioni;
fratelli tradirono i fratelli, figliuoli i padri; chi potea sottrarsi
a quel furore, si riduceva nelle selve e negli eremi. V'era mosso
Decio dall'amore dell'antica disciplina, che, attribuendo le
sciagure dell'impero alla corruttela, tentò ripristinare. Avea
pensato ristabilire la censura; quasi la rugginosa instituzione
fosse applicabile quando su tutto il mondo incivilito sarebbesi
dovuto estendere l'ispezione, e chiamare a giudizio inerme l'armata
depravazione. Pure volendo che il senato eleggesse un censore,
l'unanime voce acclamò Valeriano; e l'imperatore, conferendogli il
grado, disse: — Te fortunato per l'universale approvazione! ricevi
la censura del genere umano, e giudica i nostri costumi. Eleggerai
i meritevoli di seder nel senato, renderai lo splendore all'ordine
equestre, crescerai le pubbliche entrate pur alleggerendo le gravezze,
dividerai in classi l'infinita moltitudine de' cittadini, terrai
ragione di quanto concerna le forze, le ricchezze, la virtù, la
potenza di Roma. Al tuo tribunale sono soggetti la corte, l'esercito,
i ministri della giustizia, le dignità dell'impero, eccetto solo i
consoli ordinarj, il prefetto della città, il re dei sacrifizj, e la
maggior Vestale sinchè casta».
Prima che al fatto apparisse ineseguibile quel disegno, lo interruppero
i Goti, che invasero la Bassa Mesia (254), poi la Tracia
e la Macedonia. Ora vincendo a forza, ora giovato dai tradimenti,
l'imperatore li ridusse a tale estremità, che offrirono di rendere i
prigionieri ed il bottino, pur che fossero lasciati ritirarsi. Decio,
risoluto a sterminarli, s'attraversò al loro passo. Mal per lui;
giacchè, assalito in disperata battaglia, vide cadere trafitto il
proprio figliuolo. Decio gridò ai soldati: — Non abbiam perduto che un
uomo; sì lieve mancanza non ci scoraggi»; ed avventatosi ove più fervea
la mischia, vi trovò la morte.
Dell'esercito sbaragliato le reliquie si raggomitolarono al corpo di
Vibio Treboniano Gallo, da lui spedito per tagliare la ritirata ai
Goti. Questi, che forse avea colpa della sconfitta, finse volerla
vendicare, e così amicossi l'esercito che l'acclamò imperatore: ed
egli si associò Ostiliano figlio di Decio, e, morto fra breve costui,
il proprio figlio Volusiano. Ma non appena il senato lo confermò,
conchiuse vergognosa pace coi Goti, promettendo fin un tributo;
serbatosi a manifestare il suo coraggio col perseguitare i Cristiani.
Nel suo regno d'un anno e mezzo, peste e siccità desolarono; Goti,
Borani, Carpi, Burgundioni irruppero nella Mesia e nella Pannonia; gli
Sciti devastarono l'Asia, i Persiani occuparono fino Antiochia. Il
mauro Emilio Emiliano, comandante della Mesia, borioso d'aver vinto
i Barbari, e sprezzando Gallo che marciva a Roma nei piaceri, si fa
salutare imperatore (253 — maggio), e prima che questi ben
si sdormenti, entra in Italia, e scontratolo a Terni, il vede ucciso
col figlio Volusiano da' suoi stessi soldati. Ma l'esercito uccide lui
pure presso Spoleto, dopo quattro mesi di regno, e s'accorda col senato
e coll'esercito della Gallia e Germania che aveano acclamato Licinio
Valeriano.
Illustre nascita, modestia, prudenza faceano caro costui, che
forbendosi dai vizj d'allora, applicava alle belle lettere i suoi
riposi; devoto dei costumi antichi, aborriva la tirannide, talchè parea
degno dell'impero. Ma come l'ottenne, si sentì inabile a tanto peso;
nè altro ajuto seppe scegliere che il proprio figlio Egnazio Gallieno,
effeminato e vizioso. Pure dava miti ed opportuni provvedimenti, quando
il chiamarono all'armi i popoli, che dal Settentrione e dall'Oriente
irrompevano.
Valeriano, vittorioso dei Goti, combattendo Sàpore (259)
nella Mesopotamia restò vinto e prigioniero per tradimento di Fulvio
Macriano suo favorito. Il re dei re, invanito dell'opìmo trionfo, il
menò catenato per le città principali, sul dosso di lui metteva il
piede per montare a cavallo: morto dopo parecchi anni di prigionia,
lo fece scorticare, e dedicarne la pelle in un tempio, a perpetuo
obbrobrio. Altri storici attestano che rispettò il prigioniero, a cui
lo strazio peggiore fu il vedere suo figlio esultare d'una sventura
che anticipavagli il regno. I Cristiani vi ravvisarono la punizione
dell'aver perseguitato i Fedeli, come fece ad istigazione di Marciano,
famigerato mago egizio, il quale gli persuase non potrebbe l'impero mai
prosperare finchè non annichilasse un culto abbominato dai patrj numi.
All'annunzio della sconfitta, tutti i nemici dell'impero quasi
d'accordo l'assalgono e invadono anche l'Italia. Dal pericolo ridesti,
i senatori posero in essere la guarnigione pretoriana, arrolandovi i
più robusti plebei, sicchè i Barbari diedero volta. Gallieno rimasto
solo all'impero, s'adombrò di quest'accesso marziale; onde interdisse
ai senatori qualunque grado militare, e fin l'accostarsi ai campi delle
legioni: esclusione che i ricchi ammolliti accettarono come un favore.
Gallieno procurò imbonire i Barbari anche con parentele, sposando la
figlia di Pipa re dei Marcomanni, nozze sempre tenute per sacrileghe
dalla romana vanità. Nell'Illiria sconfisse e uccise Ingenuo acclamato
imperatore, e in vendetta mandò per le spade gli abitanti della Mesia,
colpevoli o no. — Non basta (scriveva a Veriano Celere) che tu faccia
morire semplicemente quelli che portarono le armi contro di me, e
che avrebbero potuto perire nella zuffa; voglio che in ogni città tu
stermini tutti gli uomini, giovani o vecchi: non risparmiare pur uno
che m'abbia voluto male o sparlato di me, figlio, padre e fratello di
principi. Uccidi, strazia senza pietà, fa come farei io stesso che di
propria mano ti scrivo»[12].
Al furibondo decreto davasi esecuzione (261), talchè i minacciati, per
disperazione, gridarono imperatore Nonio Regillo. Daco d'origine, e
discendente da Decebalo che guerreggiò con Trajano, era prode a segno,
che Claudio, futuro imperatore, gli scrisse: — Un tempo ti sarebbe
stato decretato il trionfo: ora ti consiglio a vincere con maggior
precauzione, e non dimenticare che v'è cui le tue vittorie darebbero
sospetto». Questo valore lo portò al trono, ma non gliel conservò, e
ben tosto fu ucciso (262) dai proprj soldati.
Un altro imperatore sorto nelle Gallie, Cassiano Postumio, di bassa
nazione ma sommo capitano, assediò in Colonia Salonino figlio di
Gallieno, e l'uccise (259), ed ebbe omaggio dalla Gallia,
dalla Spagna e dalla Bretagna, per otto anni conservandovi la
tranquillità, e facendosi amare.
Tanti tumulti interni lasciavano agevolezza al persiano Sàpore di
devastare a baldanza l'Oriente. Anicio Balisto, capitano del pretorio
sotto Valeriano, raccolte le reliquie dell'esercito di questo, osa
tenergli fronte, e supplendo al numero colla rapidità e l'arte,
libera Pompejopoli in Cilicia, fa macello de' Persi in Licaonia, molti
rendendone prigioni, e tra questi le donne di Sàpore; poi ritirandosi
prima che questi il raggiunga, sbarca come un lampo a Sebaste e a
Corissa di Cilicia, sorprendendo e trucidando gl'invasori. Lo aveva
soccorso Odenato di Palmira, sceico d'alcune tribù di Saracini, educato
dalla puerizia a caccie e battaglie; e che respinto Sàpore e toltigli i
tesori, entrò nella Mesopotamia, e inoltrossi nel cuore dell'impero per
liberare Valeriano. Vinto Sàpore in campale giornata (261)
sulle sponde dell'Eufrate, lo chiude colla sua famiglia in Ctesifonte,
e gli sforzi suoi erano forse coronati, se le rinascenti sedizioni
dell'impero non avessero resa impossibile qualunque impresa grande. In
ricompensa de' segnalati servigi, nominato da Gallieno capo di tutte
le forze romane in Oriente, Odenato assunse il titolo di re di Palmira,
città del deserto (263), che per la cintura delle solitudini
isolata dal mondo, erasi serbata indipendente fra Roma e i Parti,
straordinariamente arricchita dall'essere la posata delle carovane che
andavano e venivano fra l'impero romano e le Indie.
Mentre quivi Odenato e Balisto faceano mirabili prove, Gallieno
logoravasi fra meretrici: la crudeltà esercitava, non contro
i senatori, ma contro i soldati, facendone morire fin tre e
quattromila al giorno. Una volta menò ridicolo trionfo con finti
prigionieri vestiti da Goti, Sàrmati, Franchi e Persiani; onde alcuni
inopportunamente lepidi si diedero a squadrare costoro, e chiesti che
cosa esaminassero tanto minutamente, risposero: — Cerchiamo il padre
dell'imperatore». Gallieno li fece buttare nel fuoco, ottimo modo di
aver ragione. Poi prendea diletto a disputare col filosofo Plotino, e
ideava di commettergli una città ove ridurre in atto la repubblica di
Platone; faceva anche bei versi ed orazioni; sapeva con pari maestria
ornare un giardino o cuocere un pranzo; iniziavasi ai misteri di
Grecia, sollecitava un posto nell'areopago d'Atene; e nelle solennità
d'immeritati trionfi o nel lusso di sua corte profondeva tesori, che
la pubblica miseria e le grandi calamità reclamavano. Singolarmente
memorabile fu il trionfo da lui menato a Roma il decimo anno di suo
impero, e descrittoci da Trebellio. L'imperatore, corteggiato dal
senato, dai cavalieri, dalle milizie biancovestite, preceduto dal
popolo, da donne, da servi con torcie e candele, andò processionalmente
in Campidoglio. Cento bovi colle corna dorate e con gualdrappe di
seta, preziosa rarità, e ducento pecore bianche precedeano, ond'essere
sagrificate. Vi fecero pur mostra dieci elefanti, milleducento
gladiatori, carrette con ogni maniera di buffoni e commedianti, forze
ciclopiche, feste e giuochi per tutto, infine alquante centinaja di
persone vestite da Sciti, da Franchi, da Sarmati, da Persi. Fra ciò,
nessuna cura de' pubblici interessi; se gli si dice morto suo padre,
— Sapevo ch'egli era mortale»; se gli annunziano perduto l'Egitto,
— Faremo senza delle sue tele»; se occupata la Gallia, — Perirà Roma
senza le stoffe di Arras?» se predata l'Asia dagli Sciti, — Non potremo
noi lavarci senza le spume di nitro?»
Quest'indolenza suscitava d'ogni parte usurpatori, che nella storia
sono conosciuti col nome di Trenta Tiranni, sebbene quel numero non
si ragguagli col vero: ma come senza noja e confusione seguire tutti
costoro nel breve tragitto dal trono alla tomba?
Fulvio Macriano, meritati i primi gradi della milizia, coll'appoggio
di Balisto si fece gridar imperatore. Appena l'udì, Valerio Valente,
proconsole nell'Acaja, prese il titolo stesso: lo imitò Calpurnio
Pisone (261), speditogli contro. Era quest'ultimo d'illustre
casa e di grandi virtù, talchè, all'udirlo ucciso, Valente sclamò: —
Qual conto dovrò rendere ai giudici infernali della morte d'uno che non
ha l'eguale nell'impero!» Il senato ne decretò l'apoteosi, dichiarando
non essersi mai dato uomo migliore nè più fermo.
Macriano sul confine della Tracia fu sconfitto e morto. Balisto,
chiamatosi imperatore in Emesa, è da un sicario di Gallieno tolto di
vita (264). In Egitto un Emiliano fu pure sconfitto e spedito
a Roma, e quivi strangolato in prigione, secondo il rito degli avi.
Nell'Asia Minore gl'Isauri acclamarono Claudio Annio Trebelliano, e
morto questo in campo, ricusarono sottomettersi, e devastarono l'Asia
Minore e la Siria fin al tempo di Costantino. Cornelio Gallo, gridato
augusto in Africa, in capo a sette giorni è crocifisso.
Postumio nelle Gallie associossi Pianvonio Vittorino, resistendo a'
replicati attacchi di Gallieno, e vincendo un Lucio Eliano, erettosi
imperatore a Magonza; ma non volendo assentire ai soldati il saccheggio
di questa città, fu trucidato col figlio. Servio Lolliano che gli
successe, cadde ucciso per istigazione di Vittorino (266),
che restò unico padrone delle Gallie, finchè un marito oltraggiato non
lo scannò. Erasi egli destinato successore il figlio: però i Galli,
sdegnando obbedire ad un fanciullo, elessero Marc'Aurelio Mario,
armajuolo di forza e valore straordinario; ma, tre giorni dopo, un
suo garzone gli confisse la spada nel cuore, dicendo: — Fu fabbricata
nella tua fucina». I soldati gli surrogarono Pesuvio Tetrico, senatore
e consolare, che restò in possesso della Gallia, Spagna e Britannia.
Questi efimeri erano elevati ed abbattuti da Vittoria madre di
Vittorino, che a Gallieno opponeva virile coraggio e immense ricchezze.
Anche Odenato, che, pel merito d'aver conservate le provincie
orientali, era stato da Gallieno assunto socio all'impero, e che
continuava prosperamente contro i Persi, mentre accorreva per riparare
alle invasioni dei Goti fu assassinato ad Emesa da un suo nipote
(267); e in nome dei tre figli che lasciava, governò la sua
seconda moglie Zenobia, forse complice dell'assassinio, col titolo di
regina d'Oriente e colle insegne imperiali.
Acilio Aureolo, generale di Gallieno nell'Illiria, era stato obbligato
dall'esercito ad accettare la porpora, e passate le Alpi, battuto
l'esercito imperiale sull'Adda fra Bergamo e Milano, ove gettò un ponte
che ancora conserva il suo nome (Pons Aureoli, Pontiròlo) (268), occupò
Milano. Quivi assediava Gallieno, quando una congiura tolse questo di
vita, nel decimoquinto anno di regno, trentesimoquinto d'età. Sulle
prime i soldati voleano vendicarlo, poi vinti a denaro il dichiararono
tiranno; il senato lo pubblicò nemico della patria, fece trabalzare i
suoi amici e parenti dalla rupe Tarpea, poco dopo lo deificò.
Il suo fu de' più infelici tempi che la storia ricordi; tutto guerra
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