Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 25
1823 ne scopersero le cave in Egitto, a circa venticinque miglia dal
mar Rosso all'altezza di Licopoli (_Syouth_), non lungi dal porto
di Myoshormos, in montagne chiamate _Porphirites_ da Tolomeo, ed
oggi _Gebel Dokhan_, cioè del fumo di tabacco. Il nome di porfido fu
poi esteso ad altre pietre di simile impasto e durezza, e di colore
diverso. Del rosso, tanto difficile a scalpellare, fecero poco o punto
uso gli Egiziani nè i Greci: i Romani ne presero passione al tempo di
Claudio, e sotto Costantino moltissimo se ne lavorava, probabilmente
per mano di condannati; e non che colonne, statue, urne, riuscirono a
trame anche oggetti fini e galanterie.
Plinio e Vitruvio deplorano il lusso de' marmi, ornandosi gli
appartamenti con porfido, serpentino, agate, diaspri d'ogni qualità, e
rilevandone lo splendore con macchie artifiziali, e coprendo le pareti
di encausto; di modo che non rimaneva campo alla pittura.
Nelle gemme i Romani imitarono i Greci, ne adottarono i soggetti, o
se li desunsero dai fasti patrj, vi diedero espressione allegorica.
Forse ad artisti greci vanno attribuite quelle del tempo imperiale, che
sono i più insigni vanti delle gliptoteche: tal è quella del gabinetto
di Vienna, rappresentante la famiglia di Augusto; tale quella del
gabinetto di Parigi, rappresentante Tiberio da dio colla parentela
sua; e la sardonica del re d'Olanda, che offre il trionfo di Claudio
in sembianza di Giove; e la tazza del museo Borbonico. Anelli, sigilli,
coppe attestano la finitezza della gliptica in quei tempi.
Le arti belle però anch'esse vengono a confermarci la diffusa
immoralità. Cessato ogni pudore nella società, ogni scrupolo cessava
nell'arte convertita in mestiero, nè ad altro ispirantesi che al gusto
dei committenti; i tempj erano adorni di lubrici atteggiamenti, i vasi
delle mense foggiavansi in figure disoneste, e ciascuna stanza maritale
doveva ornarsi d'un dipinto osceno. Ovidio ogni tratto rammenta le
tavolette impudiche; Orazio dicono ne tenesse tappezzata tutta la
camera; a Properzio stesso facea scandalo il trovarne dappertutto[386].
Di capi d'arte abbondava la Sicilia, e lungamente si disputò se
vi fossero venuti di Grecia, o colà stesso lavorati; e poichè le
architetture sono più antiche delle greche, e vanno ornate di preziosi
bassorilievi e di cariatidi, è ragionevole presumere che anche le altre
opere fossero eseguite da Siciliani, o almeno da Greci stabiliti in
quell'isola.
Di statuette d'argilla una dovizia dissotterrarono a Catania, a Gela,
a Camarina, a Tindaro, ad Acre, a Centuripa, relative le più al culto
di Cerere e della dea Madre. Il Giove palliato, rinvenuto a Sòlunto,
collo scettro nella sinistra, coi calzari ornati di foglie di quercia,
e con due chimere che ne sostentano il trono; la Venere, uscita dalle
campagne di Siracusa, premente col piede sinistro la conchiglia e
il delfino, appartengono all'arte più squisita; la Venere Callipiga
vince la Medicea. Aggiungi due Ercoli dalle ruine di Catania, il Giove
Olimpico di Girgenti, i busti di Saturno, di Trittolemo, di Minerva.
Quante statue metalliche possedesse la Sicilia, il provano le
espilazioni dei Cartaginesi, di Marcello, di Verre, e più tardi degli
imperatori romani e bisantini. Pausania ricorda un Ercole in lotta
coll'Amazone equestre, consacrato in Messina da Evagora di Zancle;
e come, essendo naufragati trentacinque giovinetti col maestro e col
sonatore di piva, che i Messenj spedivano a Reggio per una solennità,
in memoria furono poste altrettante statue di bronzo. Quattro arieti
dello stesso metallo diceansi congegnati da Archimede in guisa, che il
vento faceva uscirne una specie di belato, che indicava da qual plaga
esso vento spirasse: da Siracusa furono trasportati nella reggia di
Palermo, ma per quanto si studiasse, mai non si trovò una disposizione
che riproducesse quel fenomeno, sinchè ne' furori del 1848 furono
spezzati.
Vi abbondavano pure bassorilievi e sarcofagi, molti de' quali ornano
oggi le chiese, benchè portino scene bacchiche o mitologiche[387].
Pietre intagliate si trovano spesso, e specialmente a Centuripa; e
l'essere alcune solo preparate per l'intaglio o non finite, ne conferma
quella scuola di gliptica, asserita da Eliano di Cirene. Lo stile di
queste apparterrebbe all'età imperiale; segno della durata di tale
artifizio: alcune portano le sembianze di Cicerone, di Ovidio, di
Comodo in veste d'Ercole[388].
Ricchissima di marmi e di pietre fine è la Sicilia; di berilli i
contorni di Castel Gratterio, di alabastri le falde del monte di
Calatrasi e la terra di Gibellina, di coralline e cotognine ed altre
mischie l'Erta, di agate molti paesi, e principalmente le sponde
dell'Acate donde trassero il nome, e le vicinanze di Alicata. Un'agata
siciliana, delle cui macchie erasi tratto partito per disegnarvi
Apollo e le Muse, fu legata in oro da re Pirro e tenuta in gran
pregio. Diaspri variegati offrono i monti di Giuliana e le vicinanze
di Palermo; diaspro tenero Trapani; Troina massi di porfido, de' quali
vennero cavati i sepolcri dei re normanni e svevi.
Un'altra dovizia artistica insieme e letteraria ci offre l'impero
romano, vogliam dire le iscrizioni e le medaglie, fonte di preziose
cognizioni storiche e civili; tanto che i maggiori eruditi v'attesero,
nè avvi forse città, di cui i numismi e le epigrafi non abbiano avuto
un illustratore particolare.
Le iscrizioni d'Italia alcune sono nelle lingue prische, alcune in
greco, le più in latino. Delle italiche tocchiamo nel parlare de'
primordj della nostra civiltà (V. Appendice II); e ad esse si riduce
quanto ci arrivò di scritto intorno a quella. Le greche più antiche
stanno sopra vasi; e sopra uno grossolano, trovato a Centorbi in
Sicilia, si ha una scrittura a bustrofedon, cioè andando da sinistra
a destra poi da destra a sinistra come fa il bue arando, creduta
anteriore fin all'iscrizione Sigea[389]. De' tempi successivi ne
abbondano i paesi della Magna Grecia e della Sicilia. Qualcheduna è
bilingue, come nel monumento greco-latino di Eraclea ne' Lucani, ove
si fa memoria che, rivendicatosi un fondo appartenente al dio Bacco,
gli agrimensori posero i termini, e lo divisero in quattro porzioni,
rilasciate a vita a quattro privati, che rendessero un canone annuo,
aggiunto l'obbligo di piantar viti, ulivi, fabbricare capanne e
stalle. Le greche tengono del dialetto dorico ne' paesi colonizzati dai
Corintj, quali Siracusa, Camarina, Gela, Agrigento, Megara, Selinunte;
e dello jonico in quelli derivanti dalla Calcide, come Nasso, Zancle,
Gallipoli, Eubea, Mile, Leontini. Queste sono assai meno, pur bastanti
a provare che ciascun paese scriveva come parlava; tanto più che a
Taormina se ne leggono d'ambo i dialetti, perchè la città d'origine
calcidica ricevette poi colonie siracusane. Non così può dirsi delle
romane, che, in qualunque paese siano, non si discernono per lingua;
attesochè i cittadini, sparsi per ogni lido, teneansi a norme uffiziali
per ogni atto, e così per la lingua. Nell'espressione seguono le
vicende de' tempi, incondite le prime, poi sempre più eleganti, infine
irte di neologismi e barbarismi, e che tutte insieme presentano
una portentosa ricchezza, perocchè il campo dell'epigrafia latina
estendesi quanto l'antico impero, cioè dall'Africa sin alla Bretagna, e
dall'Oceano sino al lembo dell'India.
Infinite occasioni si presentavano da voler eternare con epigrafi;
consacrazioni e invocazioni di divinità, voti, processioni, dediche
o sacrifizj, are, sacerdoti, magistrati civili o militari, dignità
conferite, applausi, vittorie in guerra o ne' giuochi, trionfi,
benemerenze di parenti o di benefattori, ricordi mortuarj. Ai monumenti
si poneva un'iscrizione, che, oltre commemorativa, era encomiastica o
storica: le più vanno semplici, perfino nell'adulazione: talvolta le
funerarie sono anche affettuose. Vi si univano figure rappresentanti
l'arte del defunto, come il deschetto e le scarpe sulla lapide di un
calzolajo a Milano; e una fabbrica di pane nel monumento di Euriface
fornajo, scoperto a Roma il 1838 fra le porte Prenestina e Labicana.
Quanto lume dalle iscrizioni potesse trarsi per la storia lo videro
già il Petrarca e Cola Rienzi; poi rinato il genio dell'erudizione nel
secolo xv, se ne trascrissero d'ogni parte in collettanee particolari,
o si radunarono gli apografi stessi. Nacquero così i musei, poco
usati dagli antichi, pei quali l'arte rimaneva intimamente collegata
alla vita, per modo che i capolavori si trovano ne' palazzi, nelle
terme, nelle basiliche, nelle ville, principalmente nei tempj, dove
_mistagogi_, noi diremmo ciceroni, mostravano le rarità e narravano le
tradizioni relative a quelle. Nel portico di Ottavia eransi adunate
molte statue: ne' circhi si ornava la spina con statue, obelischi,
vasi tolti in diversi luoghi; e ad un museo poteva somigliarsi la villa
d'Adriano a Tivoli. Neppur allora mancavano ciarlatanerie ed imposture:
Plinio ricorda che a Roma furono portate da Joppe le ossa dell'orca
marina a cui rimase esposta Andromeda, e il sasso dov'erano infisse le
catene con cui essa fu legata; Procopio descrive la nave con cui Enea
approdò in Italia, quale conservavasi a Roma.
Per iscrizioni il museo più ricco è il Capitolino: ma non v'è quasi
città che non ne possieda alcuno; e ne fecero la descrizione Scipione
Maffei per Verona, il Rivautella per Torino, il Guasco pel Capitolino,
il Gori per la Toscana, il Malvasia per Bologna, Olivieri per Pesaro,
Morisani per Reggio, Bianchi per Cremona, Noris per Pisa, Labus per
Mantova e Brescia, Boldetti e Lupi per le epigrafi cristiane, e così
altri, e più insigne di tutti Ennio Quirino Visconti. A Palermo fin dal
1580 decretava il senato di affiggere al suo palazzo le epigrafi che
si trovassero, meglio disposte poi nell'interno cortile, e illustrate
dal Torremuzza; a Catania fece altrettanto il principe di Biscari:
altri a Messina, Siracusa, Agrigento. Il quale Torremuzza, dopo
altri, diede _Siciliæ et objacentium insularum veterum inscriptionum
nova collectio_, 1784. Infine vennero il Muratori col _Tesoro_ delle
iscrizioni, l'Orelli a Zurigo colla raccolta di oltre cinquemila bene
scelte e ben lette, e Carlo Zell con un manuale (Eidelberga 1850)
utilissimo perchè di piccola mole; ed ora a Berlino sono radunate e
classificate tutte le antiche, colle tante che vengono in luce ogni
giorno.
Nelle monete, non considerandole qui che dal solo aspetto artistico,
oltre la materia, sono a notarsi la grandezza o modulo, il tipo,
l'iscrizione. Qualche moneta triangolare, rettangola, romboidale
offrono i popoli dell'Italia centrale; alcuna ovale è forse dovuta a
negligenza del fonditore; le più sono rotonde; nella Magna Grecia non
ne mancano di concave, a guisa di coppe; quelle di Siracusa tirano
allo sferico. L'ordinaria materia sono l'oro, l'argento, il rame o
il bronzo. Le più antiche di Sicilia sono d'argento, seguono quelle
di rame, ultime le auree, appartenenti le più a Siracusa, altre a
Gela, Agrigento, Taormina; alcune d'oro a Palermo portano lo stemma
punico: Dionigi ne fece di stagno[390]. Alcune sono di bronzo e piombo
rivestite poi di foglia d'oro o d'argento (_bracteatæ_): alcune son
liscie tutte, salvo un piccolo tipo stampato nel centro: altre con orlo
di metallo più fino _contorniatæ_. I medaglioni forse non batteansi
che per onoranza o per fregiare qualche divinità o per ricompensa
in guerra, benché, passata l'occasione, entrassero anch'esse in
commercio. I tre sovrintendenti alla zecca in Roma erano intitolati
AAAFF, cioè _auro, argento, ære fundendo feriundo_, dai tre metalli
che s'adopravano, e dai due processi di fondere il metallo in una forma
vuota portante le due impronte, o di fondere soltanto la botella, per
improntarla stringendola fra due morsi d'una tenaglia, o battendola con
un punzone.
Prima ancora delle iscrizioni, sulle monete ponevasi un tipo od
emblema, che poi si conservò sempre sul rovescio, sanzionato dalla
pubblica autorità; fosse l'effigie del principe, o la figura simbolica
della città, o lo stemma di questa, molte volte parlante, cioè
figurante un oggetto, il cui nome somigliasse a quello della città. Le
tre gambe disposte a triangolo significano la Sicilia, il petroselino
per Selinunte, il granchio (ἄκραγας) per Agrigento, un gomito (ἅγχων)
per Ancona, un muso di leone per Leontini, la luna per Populonia
(_popluna_), un toro per Turio, per Camarina il _chamærops humilis_,
cioè la piccola palma. Nel tipo s'incontrano spesso Vittorie alate in
commemorazione d'una battaglia o d'un giuoco vinto; talora l'effigie
del fiume vicino, come l'Aretusa pe' Siracusani, l'Ippari per Camarina,
l'Amenano per Catania; ovvero del dio o dell'eroe titolare, come
Ercole per Crotone, o di qualche cittadino illustre, come Timoleone
pei Siracusani; sulle monete della Magna Grecia frequenta il bove colla
testa umana, quanto i rostri sulle prime romane.
Fra le allegorie in queste la più frequente è la Vittoria, poi la
Salute, o la Pietà, o Roma cogli attributi di Minerva. Nel chinare
della repubblica crescono i tipi storici, talchè colle monete possono
accompagnarsi gli eventi e poetici e positivi; e non esprimendo
capricci d'individui, ma idee nazionali, vi s'indaga la storia de'
costumi e delle opinioni, viepiù preziosi degli altri monumenti perchè
non soffersero mutilazioni nè restauri. Spesso vi sono aggiunti altri
tipi, variatissimi e a capriccio, principalmente nelle monete delle
famiglie: e da settantamila ne conoscono i numismatici. Le spintrie
ostentano le lascivie di Tiberio a Capri.
Sotto i consoli, ed anche imperante Augusto, i triumviri monetarj
poteano scolpire i proprj nomi sulle monete, che perciò diconsi di
famiglia; e ne' tipi di queste compajono spesso figure allusive al nome
loro, Pan pei Pansa, un vitello pei Vitellj, un martello per Malleolo,
le muse per Musa, un fiore per Aquilejo Floro, un Giove cornuto pei
Cornificj. Delle città alcune continuarono a porre il nome e il tipo
proprio sulle monete, anche dopo sottoposte a Roma. Sotto gl'imperatori
non s'improntò più che l'effigie di questi; ma sul rovescio vedesi sc,
il che fece credere che la monetazione fosse spettanza del senato.
Bensì gl'imperatori vi posero anche l'effigie delle sorelle, delle
mogli, delle figliuole loro, e di parenti naturali o adottivi.
Al basso della medaglia, cioè nell'esergo, viene indicato il luogo ove
furono battute; roma e romano si ha in moltissime anche forestiere,
che forse faceansi a Roma; poi nel Basso Impero COMO o COMOB, che
probabilmente significa CO_stantinopoli_ M_oneta_ OB_signata_.
La Sicilia è uno dei primi paesi di cui abbiansi monete, come se ne
hanno le più belle e la maggior varietà, ogni città adoprandovi tipi
distinti, secondo il genio municipale dei Greci. Le antichissime sono
di Messina, e alcune anteriori al 560 avanti Cristo, e forse fino del
620. Filippo Paruta segretario del senato di Palermo diede pel primo
in luce il medagliere siciliano nel 1612; ma la descrizione che dovea
seguirvi, andò perduta. Alle imperfezioni di quello supplirono Leonardo
Agostini, Marco Meyer, Sigeberto Hauercamp, il principe di Torremuzza,
infine Federico Munter[391]. Della sola Siracusa il Torremuzza pubblicò
trentasei monete d'oro, censessantatre d'argento, cenquarantanove di
bronzo; e un buon terzo se ne aggiunsero dipoi.
Le prische monete italiche sono i nummi librali o _æs grave_, rotonde,
a lente, con rilievo d'ambo i lati, e che indicavano e il peso e
il valore d'un asse. Sono speciali dell'Italia, ma vi mancano segni
per discernere a qual città appartengano, e i tipi rappresentano un
cavallo, un delfino, una lira, un elefante, una troja, una testa di
Giunone o di Cerere o dei Dioscuri, Romolo e Remo colla lupa, una
Vittoria sulla quadriga, o simili. Quando Roma battè o piuttosto fece
battere nella Campania denaro proprio, vi adoperò il tipo nazionale
del Giano bifronte e la prora di nave. Plinio vorrebbe che solo nel
485 si battessero monete d'argento: il che vuol forse significare che
quell'anno se ne ponessero le fabbriche. Fin a Pompeo Magno ben poco
oro fu coniato.
Gli avanzi di belle arti, guasti come sono dal tempo e dai casi,
e disgiunti da quelle minute particolarità il cui accordo cresce
significazione all'insieme, eran ben lontani dal porgere adequata
idea di ciò che allora fossero le arti, la ricchezza, l'edilizia, e
dal rivelare gli usi della vita pubblica e privata, imperfettamente
dinotati dagli scrittori, che, come in cosa nota, s'accontentano
di allusioni. Per compiere l'istruzione, città intere uscirono dal
sepolcro. Il Vesuvio, che in tempi anteriori ad ogni memoria avea
vomitato fiamme, tacque per secoli, finchè, imperante Tito, rinnovò
le sue eruzioni, colle quali più non cessò di minacciare i deliziosi
contorni di Napoli. In quella prima rovina, fra altre borgate e ville,
rimasero sepolte Ercolano e Pompej.
Ancor più che le lave e i lapilli, sedici secoli n'aveano cancellata
la memoria, quando Emanuele di Lorena principe di Elbeuf, nel 1713,
udito che un del paese avea tratto alcuni marmi da un pozzo, comprò
il diritto di farvi scavi. Il pozzo dava appunto sopra il teatro di
Ercolano, e ne cavò un Ercole, una Cleopatra, e sette altre statue,
che spedite subito in Francia, destarono la meraviglia. Continuando,
ebbe finissimi marmi d'Africa, poi scoperse un tempio rotondo con
ventiquattro colonne e altrettante statue in giro. Carlo III di Napoli
ricomprò da esso principe quello spazzo, e sterrando acquistò la
certezza d'avere scoperta una città. Ma su questa venti metri di lava
eransi induriti, e sopra edificate Portici e Resina, che sarebbonsi
dovute demolire co' regj loro palazzi. Forza fu dunque limitarsi a
parziali escavazioni, e da ciascuna di esse trarre quel che si poteva,
indi colmare di nuovo i vuoti per non iscalzare le città.
Anticaglie d'ogni genere uscirono così; affreschi, quadri, vasi,
bassorilievi, fregi, rabeschi, le statue equestri dei consoli Nonio e
Balbo, bronzi, tripodi, lampade, pàtere, candelabri, altari, istrumenti
di musica e di chirurgia, che formarono una ricchezza non rara ma unica
del museo Borbonico. Molti estesi edifizj si riconobbero, tempj, un
teatro, il fôro: tra il resto una bella casa di campagna, con giardino
che stendeasi fin al mare, abbellito d'una peschiera che terminava
in semicircolo alle due estremità; attorno ad essa scompartimenti
come d'ajuole; e tutto circondato da colonne di mattone intonacate di
gesso, su cui appoggiavano travi, infisse nel muro di cinta, formando
così attorno allo stagno una pergola, sotto cui erano divisioni or
triangolari ora a semicircolo, per lavare e per bagnarsi. Fra le
colonne sorgeano busti di marmo e statue muliebri di bronzo, alcune
grandi al vero, della fusione più perfetta: un canaletto d'acqua
lambiva il muro di cinta. Annessa era la camera dove si trovarono i
famosi rotoli di papiro, che svolti con ingegnosissima lentezza, ci
regalano tratto tratto qualche novità, ma nulla finora d'importante;
e ciò ch'è notevole, un solo è in latino, frammento d'un poema sulla
guerra di Azio. Le sei danzatrici, il Fauno dormente, il Mercurio, sei
busti creduti de' Tolomei, altri di Platone, Archita, Saffo, Democrito,
Scipione Africano, Silla, Lepido, Cajo e Lucio Cesare, Augusto, Livia,
Claudio Marcello, Agrippina minore, Caligola, Seneca, due incogniti,
due daini, varie figurine, l'Omero, l'Aristide ch'è delle migliori
statue antiche, due busti di Bacco indiano, il preteso Silla, il
Satiro colla capra, tutti di marmo, si trovarono in questo giardino,
che pure apparteneva ad un filosofo privato. La Pallade, scoperta ad
Ercolano stesso e dell'età di Fidia, va ben innanzi ai marmi eginetici;
antichissima è pure l'Artemisia, che l'esser fatta di marmo di Carrara
ci lascia supporre eseguita in Italia[392].
In quel medesimo torno di tempo, l'aratro d'un villano urtò contro una
statua di bronzo, e questa diede spia dell'altra città di Pompej[393].
Lapilli e ceneri la ricoprono, talchè poco a poco ella potrà ritornarsi
intiera alla luce: per non nuocere a tanti fini lavori e perchè nulla
vada perduto, lenti procedono gli scavi, ma è già scoperta la regione
principale, con due teatri, un tempio d'Iside, uno d'Esculapio,
uno greco, una porta della mura colla via delle tombe, il fôro, la
basilica; in breve spazio raffittiti edifizj, che oggi basterebbero ad
una grande città. All'altra estremità è l'anfiteatro; e mura pelasgiche
la circondano.
Le case si somigliano per distribuzione e ornamenti; a uno o due
piani; camerette di appena tre in quattro metri, alte da cinque a
sei, malagiate di comunicazioni e disimpegni, con poche finestre,
simili a feritoje, eccetto quelle che danno sul giardino, e che
forse erano serbate alle donne. I cortiletti sono cinti da portici,
anche nelle abitazioni di minore importanza, onde godervi il rezzo.
Negli appartamenti non usavasi legname alle costruzioni, eccettochè
per le imposte alle finestre e alle porte; pavimenti a musaico;
soffitta e pareti con medaglioni di stucco, e con pitture e musaici,
rappresentanti vivande, libri, utensili, mobili, storie, secondo il
genio e l'arte del padrone. Quella del poeta tragico, sullo spazio di
quindici metri in largo e del doppio in lungo, è divisa in diciannove
membri, compreso l'atrio: il musaico alla soglia rappresenta un
mastino alla catena coll'iscrizione _cave canem_. Dal corridojo passi
nell'atrio, cortile scoperto, adorno ai quattro lati di pitture, tratte
dall'Iliade o allusive ad arte drammatica: all'intorno camere pe'
forestieri, anch'esse a dipinti, spesso osceni: rimpetto all'ingresso
il tablino, o sala di ricevimento, porta la figura d'un poeta tragico
che declama a due astanti, mentre sul pavimento a musaico è figurata la
prova d'un'opera; esecuzione squisitissima. Vi succede il peristilio
o seconda corte aperta, in cui un giardinetto cinto da portico di
sette colonne doriche, esso pure dipinto. Al fondo sta il larario o
cappella domestica, con un graziosissimo Fauno di bronzo; a manca un
gabinetto di riposo, con Diana, Narciso al fonte e Amore che pesca;
un'altra cameretta è a paesi e marine, e sul muro principale sta
dipinta una schiera di libri, che il tragico forse non possedeva se non
col desiderio. In faccia trovate l'esedra, o sala di conversazione,
decorata di ballerine, di frutti e d'animali, con Leda, Arianna
abbandonata, il sacrifizio d'Ifigenia: da canto la cucinetta con tutti
gli attrezzi dipinti, oltre i reali, comunica col triclinio anch'esso
pitturato: di sopra era il gineceo.
Direste che quelle case jeri appena sieno state deserte. Nel tempio
d'Iside hai disposti gli utensili delle cerimonie; gli scheletri dei
sacerdoti, sorpresi tra quelle, ancor portavano gli abiti pontificali;
i carboni stanno sull'altare; e candelabri, lampade, patere per le
libazioni, lettisternj per la dea, purificatoj ornati a stucco, e un
capace vaso di bronzo colle ceneri dell'ultimo olocausto, miste al
grasso delle vittime. Ancora l'insegna invita al fondaco del mercante;
leggendo alla soglia la voce salve, credi udirla dal padrone, cui
il motto ben augurato non preservò; là pozzi in mezzo alla via, qua
cloache sboccanti al mare; sull'angolo d'un crocicchio una spezieria
coll'insegna del serpe che morde un pomo; altrove un altare coll'aquila
di Giove, esposti in vendita; l'uffizio d'un pubblico pesatore; gli
spacci di bevande calde, corrispondenti ai nostri caffè; altrove
una casa di bordello, indicata da priapi e dal motto HIC FELICITAS,
che rivela una filosofia gaudente[394]. I pani hanno il marchio del
fornajo; alcuni non cotti ancora, altri già rotti; nel pistrino hai
macine singolari; nella madia preparata la farina col lievito; nel
forno una torta entro la sua tegghia; altrove, fave, noci, olio, vino
in fiaschi col nome dei consoli e che non doveva esser bevuto; biche
di grano, il quale piantato spigò dopo mille settecento anni di sonno
vitale. Entri negli appartamenti delle signore? eccoti scarpe[395],
spilli, aghi, ditali, forbici, gomitoli, rocche, oricanni di balsami,
e gli arnesi onde anche oggi si accresce o ripara la bellezza, e monete
forate che recavansi al collo; in altre parti, dadi da giocare, palle e
balocchi da fanciulli. Ma in tante abitazioni, non carta, non libri.
S'una casa, poco lungi dalla porta, leggesi in rosso il nome di
Sallustio, lo storico che qui appunto aveva una villa: colà l'_album_
ove si affiggevano i decreti de' magistrati, gli annunzj di vendite,
aste e simili: dentro era un portento di quadri, marmi rosei, musaici,
anfore, vasi d'immenso prezzo. La via del sobborgo, spaziosa e
allineata, fiancheggiano case di campagna, tombe, sedili di pietra,
ove gli abitanti venivano sulla sera fra i sepolcri degli amici e dei
parenti per respirare il fresco e osservare i viandanti. Nel sobborgo
sorgea la villetta, di cui tanto Cicerone si compiaceva; e là presso
quella del liberto Diomede, benissimo conservata, colla porta aprentesi
sopra un verone e fiancheggiata da due colonne; cortile quadrato, cinto
da portici a colonne, sotto cui si aprivano gli appartamenti.
Non v'è abitare, ove non si trovino pitture. Queste sono opera di
quadratarj o imbianchini, ma probabilmente riproducono tavole famose; e
certamente l'Ercole fanciullo e il sacrifizio d'Ifigenia sono desunti
da quelli di Zeusi, come dalla scuola corintia proviene l'Achille
in Sciro. Le pitture di Pompej restano quasi gli unici monumenti
per giudicare dell'arte pittorica presso i Greci, ma ristrette in
cento anni quanto all'esecuzione, mentre pei soggetti recano fin
ai tempi alessandrini, e sempre con pose tranquille, figure non
aggruppate, fondo d'un sol colore, e poche linee prospettiche. Anche
qualche capolavoro doveva esser copiato a musaico; e quello che
serviva di pavimento a un triclinio, e che figura la battaglia fra
Alessandro Magno e Dario, è il pezzo più insigne che l'antichità ci
tramandasse[396].
Nè minor fasto spiegavasi nelle tombe[397]. In quella eretta da Tuche
vivente pei liberti e le liberte sue, sotto al ritratto di essa vedi
l'iscrizione e un bassorilievo, portante da una faccia la famiglia,
dall'altra l'effigie de' magistrati municipali; accanto sta scolpita
una barca, simbolo del passaggio; e daccosto è il triclinio pei pasti
funerei[398].
Se tale era una città di provincia, si argomenti qual dovette essere
la metropoli. Pure ammirando la magnificenza e il gusto, abbiam
molto a congratularci delle maggiori comodità odierne. Gabinetti di
meraviglioso lavoro mancavano di luce, ed era bujo quello a Roma da cui
uscì il gruppo del Laocoonte: gl'illuminavano lampade di elegantissime
forme, ma dove neppur si era introdotta la corrente doppia, talchè
affumicavano le volte. Se stupende strade erano destinate a trasportare
e trasmettere le contribuzioni agli eserciti, mancavasi però di quelle
tante, che oggi mettono in comunicazione ogni minimo villaggio. Le
vie di Roma furono sempre anguste e montuose[399]; quelle interne di
Pompej sono strette, allagate dalla pioggia, senza fogne. Indarno poi
vi cercheresti uno spedale, un albergo de' poveri; e la plebaglia
doveva essere confinata in catapecchie, che non resistettero al
tempo, e disgiunte dalle abitazioni civili. Le camere stesse de'
ricchi sono bugigattoli senza aria nè luce, nè bellezza di specchi e
di finestre: i ginecei delle donne somigliano a prigioni. Eleganti i
sedili e i letti ma duri; senza molle nè cinghie i carri, del resto
ben rari, come lo prova l'angustia delle strade: ivi non lampioni per
la notte, non pompe da aspirar l'acqua, non difese contro la pioggia
e i fulmini, non tovagliuoli nè forchette a tavola, neppur bottoni o
occhielli al vestito; non carte geografiche o bussola i viaggiatori,
non colori a olio i pittori. Che diremo dell'infima classe priva di
quelle innumerevoli comodità oggimai a nessuno negate, libri, quadri,
oriuoli, vesti di seta, camini, acquajuoli, zuccaro e caffè, stoviglie
ben verniciate, biancheria che dispensi dalla frequenza de' bagni, e
macchine che scusino le più dure fatiche, e libertà di spendere come si
voglia il denaro acquistato con libero lavoro?
Ammiriamo dunque, ma non invidiamo il passato, e figuriamoci che l'età
dell'oro, se pur è sperabile, sta davanti a noi, non dietro, per quanto
mar Rosso all'altezza di Licopoli (_Syouth_), non lungi dal porto
di Myoshormos, in montagne chiamate _Porphirites_ da Tolomeo, ed
oggi _Gebel Dokhan_, cioè del fumo di tabacco. Il nome di porfido fu
poi esteso ad altre pietre di simile impasto e durezza, e di colore
diverso. Del rosso, tanto difficile a scalpellare, fecero poco o punto
uso gli Egiziani nè i Greci: i Romani ne presero passione al tempo di
Claudio, e sotto Costantino moltissimo se ne lavorava, probabilmente
per mano di condannati; e non che colonne, statue, urne, riuscirono a
trame anche oggetti fini e galanterie.
Plinio e Vitruvio deplorano il lusso de' marmi, ornandosi gli
appartamenti con porfido, serpentino, agate, diaspri d'ogni qualità, e
rilevandone lo splendore con macchie artifiziali, e coprendo le pareti
di encausto; di modo che non rimaneva campo alla pittura.
Nelle gemme i Romani imitarono i Greci, ne adottarono i soggetti, o
se li desunsero dai fasti patrj, vi diedero espressione allegorica.
Forse ad artisti greci vanno attribuite quelle del tempo imperiale, che
sono i più insigni vanti delle gliptoteche: tal è quella del gabinetto
di Vienna, rappresentante la famiglia di Augusto; tale quella del
gabinetto di Parigi, rappresentante Tiberio da dio colla parentela
sua; e la sardonica del re d'Olanda, che offre il trionfo di Claudio
in sembianza di Giove; e la tazza del museo Borbonico. Anelli, sigilli,
coppe attestano la finitezza della gliptica in quei tempi.
Le arti belle però anch'esse vengono a confermarci la diffusa
immoralità. Cessato ogni pudore nella società, ogni scrupolo cessava
nell'arte convertita in mestiero, nè ad altro ispirantesi che al gusto
dei committenti; i tempj erano adorni di lubrici atteggiamenti, i vasi
delle mense foggiavansi in figure disoneste, e ciascuna stanza maritale
doveva ornarsi d'un dipinto osceno. Ovidio ogni tratto rammenta le
tavolette impudiche; Orazio dicono ne tenesse tappezzata tutta la
camera; a Properzio stesso facea scandalo il trovarne dappertutto[386].
Di capi d'arte abbondava la Sicilia, e lungamente si disputò se
vi fossero venuti di Grecia, o colà stesso lavorati; e poichè le
architetture sono più antiche delle greche, e vanno ornate di preziosi
bassorilievi e di cariatidi, è ragionevole presumere che anche le altre
opere fossero eseguite da Siciliani, o almeno da Greci stabiliti in
quell'isola.
Di statuette d'argilla una dovizia dissotterrarono a Catania, a Gela,
a Camarina, a Tindaro, ad Acre, a Centuripa, relative le più al culto
di Cerere e della dea Madre. Il Giove palliato, rinvenuto a Sòlunto,
collo scettro nella sinistra, coi calzari ornati di foglie di quercia,
e con due chimere che ne sostentano il trono; la Venere, uscita dalle
campagne di Siracusa, premente col piede sinistro la conchiglia e
il delfino, appartengono all'arte più squisita; la Venere Callipiga
vince la Medicea. Aggiungi due Ercoli dalle ruine di Catania, il Giove
Olimpico di Girgenti, i busti di Saturno, di Trittolemo, di Minerva.
Quante statue metalliche possedesse la Sicilia, il provano le
espilazioni dei Cartaginesi, di Marcello, di Verre, e più tardi degli
imperatori romani e bisantini. Pausania ricorda un Ercole in lotta
coll'Amazone equestre, consacrato in Messina da Evagora di Zancle;
e come, essendo naufragati trentacinque giovinetti col maestro e col
sonatore di piva, che i Messenj spedivano a Reggio per una solennità,
in memoria furono poste altrettante statue di bronzo. Quattro arieti
dello stesso metallo diceansi congegnati da Archimede in guisa, che il
vento faceva uscirne una specie di belato, che indicava da qual plaga
esso vento spirasse: da Siracusa furono trasportati nella reggia di
Palermo, ma per quanto si studiasse, mai non si trovò una disposizione
che riproducesse quel fenomeno, sinchè ne' furori del 1848 furono
spezzati.
Vi abbondavano pure bassorilievi e sarcofagi, molti de' quali ornano
oggi le chiese, benchè portino scene bacchiche o mitologiche[387].
Pietre intagliate si trovano spesso, e specialmente a Centuripa; e
l'essere alcune solo preparate per l'intaglio o non finite, ne conferma
quella scuola di gliptica, asserita da Eliano di Cirene. Lo stile di
queste apparterrebbe all'età imperiale; segno della durata di tale
artifizio: alcune portano le sembianze di Cicerone, di Ovidio, di
Comodo in veste d'Ercole[388].
Ricchissima di marmi e di pietre fine è la Sicilia; di berilli i
contorni di Castel Gratterio, di alabastri le falde del monte di
Calatrasi e la terra di Gibellina, di coralline e cotognine ed altre
mischie l'Erta, di agate molti paesi, e principalmente le sponde
dell'Acate donde trassero il nome, e le vicinanze di Alicata. Un'agata
siciliana, delle cui macchie erasi tratto partito per disegnarvi
Apollo e le Muse, fu legata in oro da re Pirro e tenuta in gran
pregio. Diaspri variegati offrono i monti di Giuliana e le vicinanze
di Palermo; diaspro tenero Trapani; Troina massi di porfido, de' quali
vennero cavati i sepolcri dei re normanni e svevi.
Un'altra dovizia artistica insieme e letteraria ci offre l'impero
romano, vogliam dire le iscrizioni e le medaglie, fonte di preziose
cognizioni storiche e civili; tanto che i maggiori eruditi v'attesero,
nè avvi forse città, di cui i numismi e le epigrafi non abbiano avuto
un illustratore particolare.
Le iscrizioni d'Italia alcune sono nelle lingue prische, alcune in
greco, le più in latino. Delle italiche tocchiamo nel parlare de'
primordj della nostra civiltà (V. Appendice II); e ad esse si riduce
quanto ci arrivò di scritto intorno a quella. Le greche più antiche
stanno sopra vasi; e sopra uno grossolano, trovato a Centorbi in
Sicilia, si ha una scrittura a bustrofedon, cioè andando da sinistra
a destra poi da destra a sinistra come fa il bue arando, creduta
anteriore fin all'iscrizione Sigea[389]. De' tempi successivi ne
abbondano i paesi della Magna Grecia e della Sicilia. Qualcheduna è
bilingue, come nel monumento greco-latino di Eraclea ne' Lucani, ove
si fa memoria che, rivendicatosi un fondo appartenente al dio Bacco,
gli agrimensori posero i termini, e lo divisero in quattro porzioni,
rilasciate a vita a quattro privati, che rendessero un canone annuo,
aggiunto l'obbligo di piantar viti, ulivi, fabbricare capanne e
stalle. Le greche tengono del dialetto dorico ne' paesi colonizzati dai
Corintj, quali Siracusa, Camarina, Gela, Agrigento, Megara, Selinunte;
e dello jonico in quelli derivanti dalla Calcide, come Nasso, Zancle,
Gallipoli, Eubea, Mile, Leontini. Queste sono assai meno, pur bastanti
a provare che ciascun paese scriveva come parlava; tanto più che a
Taormina se ne leggono d'ambo i dialetti, perchè la città d'origine
calcidica ricevette poi colonie siracusane. Non così può dirsi delle
romane, che, in qualunque paese siano, non si discernono per lingua;
attesochè i cittadini, sparsi per ogni lido, teneansi a norme uffiziali
per ogni atto, e così per la lingua. Nell'espressione seguono le
vicende de' tempi, incondite le prime, poi sempre più eleganti, infine
irte di neologismi e barbarismi, e che tutte insieme presentano
una portentosa ricchezza, perocchè il campo dell'epigrafia latina
estendesi quanto l'antico impero, cioè dall'Africa sin alla Bretagna, e
dall'Oceano sino al lembo dell'India.
Infinite occasioni si presentavano da voler eternare con epigrafi;
consacrazioni e invocazioni di divinità, voti, processioni, dediche
o sacrifizj, are, sacerdoti, magistrati civili o militari, dignità
conferite, applausi, vittorie in guerra o ne' giuochi, trionfi,
benemerenze di parenti o di benefattori, ricordi mortuarj. Ai monumenti
si poneva un'iscrizione, che, oltre commemorativa, era encomiastica o
storica: le più vanno semplici, perfino nell'adulazione: talvolta le
funerarie sono anche affettuose. Vi si univano figure rappresentanti
l'arte del defunto, come il deschetto e le scarpe sulla lapide di un
calzolajo a Milano; e una fabbrica di pane nel monumento di Euriface
fornajo, scoperto a Roma il 1838 fra le porte Prenestina e Labicana.
Quanto lume dalle iscrizioni potesse trarsi per la storia lo videro
già il Petrarca e Cola Rienzi; poi rinato il genio dell'erudizione nel
secolo xv, se ne trascrissero d'ogni parte in collettanee particolari,
o si radunarono gli apografi stessi. Nacquero così i musei, poco
usati dagli antichi, pei quali l'arte rimaneva intimamente collegata
alla vita, per modo che i capolavori si trovano ne' palazzi, nelle
terme, nelle basiliche, nelle ville, principalmente nei tempj, dove
_mistagogi_, noi diremmo ciceroni, mostravano le rarità e narravano le
tradizioni relative a quelle. Nel portico di Ottavia eransi adunate
molte statue: ne' circhi si ornava la spina con statue, obelischi,
vasi tolti in diversi luoghi; e ad un museo poteva somigliarsi la villa
d'Adriano a Tivoli. Neppur allora mancavano ciarlatanerie ed imposture:
Plinio ricorda che a Roma furono portate da Joppe le ossa dell'orca
marina a cui rimase esposta Andromeda, e il sasso dov'erano infisse le
catene con cui essa fu legata; Procopio descrive la nave con cui Enea
approdò in Italia, quale conservavasi a Roma.
Per iscrizioni il museo più ricco è il Capitolino: ma non v'è quasi
città che non ne possieda alcuno; e ne fecero la descrizione Scipione
Maffei per Verona, il Rivautella per Torino, il Guasco pel Capitolino,
il Gori per la Toscana, il Malvasia per Bologna, Olivieri per Pesaro,
Morisani per Reggio, Bianchi per Cremona, Noris per Pisa, Labus per
Mantova e Brescia, Boldetti e Lupi per le epigrafi cristiane, e così
altri, e più insigne di tutti Ennio Quirino Visconti. A Palermo fin dal
1580 decretava il senato di affiggere al suo palazzo le epigrafi che
si trovassero, meglio disposte poi nell'interno cortile, e illustrate
dal Torremuzza; a Catania fece altrettanto il principe di Biscari:
altri a Messina, Siracusa, Agrigento. Il quale Torremuzza, dopo
altri, diede _Siciliæ et objacentium insularum veterum inscriptionum
nova collectio_, 1784. Infine vennero il Muratori col _Tesoro_ delle
iscrizioni, l'Orelli a Zurigo colla raccolta di oltre cinquemila bene
scelte e ben lette, e Carlo Zell con un manuale (Eidelberga 1850)
utilissimo perchè di piccola mole; ed ora a Berlino sono radunate e
classificate tutte le antiche, colle tante che vengono in luce ogni
giorno.
Nelle monete, non considerandole qui che dal solo aspetto artistico,
oltre la materia, sono a notarsi la grandezza o modulo, il tipo,
l'iscrizione. Qualche moneta triangolare, rettangola, romboidale
offrono i popoli dell'Italia centrale; alcuna ovale è forse dovuta a
negligenza del fonditore; le più sono rotonde; nella Magna Grecia non
ne mancano di concave, a guisa di coppe; quelle di Siracusa tirano
allo sferico. L'ordinaria materia sono l'oro, l'argento, il rame o
il bronzo. Le più antiche di Sicilia sono d'argento, seguono quelle
di rame, ultime le auree, appartenenti le più a Siracusa, altre a
Gela, Agrigento, Taormina; alcune d'oro a Palermo portano lo stemma
punico: Dionigi ne fece di stagno[390]. Alcune sono di bronzo e piombo
rivestite poi di foglia d'oro o d'argento (_bracteatæ_): alcune son
liscie tutte, salvo un piccolo tipo stampato nel centro: altre con orlo
di metallo più fino _contorniatæ_. I medaglioni forse non batteansi
che per onoranza o per fregiare qualche divinità o per ricompensa
in guerra, benché, passata l'occasione, entrassero anch'esse in
commercio. I tre sovrintendenti alla zecca in Roma erano intitolati
AAAFF, cioè _auro, argento, ære fundendo feriundo_, dai tre metalli
che s'adopravano, e dai due processi di fondere il metallo in una forma
vuota portante le due impronte, o di fondere soltanto la botella, per
improntarla stringendola fra due morsi d'una tenaglia, o battendola con
un punzone.
Prima ancora delle iscrizioni, sulle monete ponevasi un tipo od
emblema, che poi si conservò sempre sul rovescio, sanzionato dalla
pubblica autorità; fosse l'effigie del principe, o la figura simbolica
della città, o lo stemma di questa, molte volte parlante, cioè
figurante un oggetto, il cui nome somigliasse a quello della città. Le
tre gambe disposte a triangolo significano la Sicilia, il petroselino
per Selinunte, il granchio (ἄκραγας) per Agrigento, un gomito (ἅγχων)
per Ancona, un muso di leone per Leontini, la luna per Populonia
(_popluna_), un toro per Turio, per Camarina il _chamærops humilis_,
cioè la piccola palma. Nel tipo s'incontrano spesso Vittorie alate in
commemorazione d'una battaglia o d'un giuoco vinto; talora l'effigie
del fiume vicino, come l'Aretusa pe' Siracusani, l'Ippari per Camarina,
l'Amenano per Catania; ovvero del dio o dell'eroe titolare, come
Ercole per Crotone, o di qualche cittadino illustre, come Timoleone
pei Siracusani; sulle monete della Magna Grecia frequenta il bove colla
testa umana, quanto i rostri sulle prime romane.
Fra le allegorie in queste la più frequente è la Vittoria, poi la
Salute, o la Pietà, o Roma cogli attributi di Minerva. Nel chinare
della repubblica crescono i tipi storici, talchè colle monete possono
accompagnarsi gli eventi e poetici e positivi; e non esprimendo
capricci d'individui, ma idee nazionali, vi s'indaga la storia de'
costumi e delle opinioni, viepiù preziosi degli altri monumenti perchè
non soffersero mutilazioni nè restauri. Spesso vi sono aggiunti altri
tipi, variatissimi e a capriccio, principalmente nelle monete delle
famiglie: e da settantamila ne conoscono i numismatici. Le spintrie
ostentano le lascivie di Tiberio a Capri.
Sotto i consoli, ed anche imperante Augusto, i triumviri monetarj
poteano scolpire i proprj nomi sulle monete, che perciò diconsi di
famiglia; e ne' tipi di queste compajono spesso figure allusive al nome
loro, Pan pei Pansa, un vitello pei Vitellj, un martello per Malleolo,
le muse per Musa, un fiore per Aquilejo Floro, un Giove cornuto pei
Cornificj. Delle città alcune continuarono a porre il nome e il tipo
proprio sulle monete, anche dopo sottoposte a Roma. Sotto gl'imperatori
non s'improntò più che l'effigie di questi; ma sul rovescio vedesi sc,
il che fece credere che la monetazione fosse spettanza del senato.
Bensì gl'imperatori vi posero anche l'effigie delle sorelle, delle
mogli, delle figliuole loro, e di parenti naturali o adottivi.
Al basso della medaglia, cioè nell'esergo, viene indicato il luogo ove
furono battute; roma e romano si ha in moltissime anche forestiere,
che forse faceansi a Roma; poi nel Basso Impero COMO o COMOB, che
probabilmente significa CO_stantinopoli_ M_oneta_ OB_signata_.
La Sicilia è uno dei primi paesi di cui abbiansi monete, come se ne
hanno le più belle e la maggior varietà, ogni città adoprandovi tipi
distinti, secondo il genio municipale dei Greci. Le antichissime sono
di Messina, e alcune anteriori al 560 avanti Cristo, e forse fino del
620. Filippo Paruta segretario del senato di Palermo diede pel primo
in luce il medagliere siciliano nel 1612; ma la descrizione che dovea
seguirvi, andò perduta. Alle imperfezioni di quello supplirono Leonardo
Agostini, Marco Meyer, Sigeberto Hauercamp, il principe di Torremuzza,
infine Federico Munter[391]. Della sola Siracusa il Torremuzza pubblicò
trentasei monete d'oro, censessantatre d'argento, cenquarantanove di
bronzo; e un buon terzo se ne aggiunsero dipoi.
Le prische monete italiche sono i nummi librali o _æs grave_, rotonde,
a lente, con rilievo d'ambo i lati, e che indicavano e il peso e
il valore d'un asse. Sono speciali dell'Italia, ma vi mancano segni
per discernere a qual città appartengano, e i tipi rappresentano un
cavallo, un delfino, una lira, un elefante, una troja, una testa di
Giunone o di Cerere o dei Dioscuri, Romolo e Remo colla lupa, una
Vittoria sulla quadriga, o simili. Quando Roma battè o piuttosto fece
battere nella Campania denaro proprio, vi adoperò il tipo nazionale
del Giano bifronte e la prora di nave. Plinio vorrebbe che solo nel
485 si battessero monete d'argento: il che vuol forse significare che
quell'anno se ne ponessero le fabbriche. Fin a Pompeo Magno ben poco
oro fu coniato.
Gli avanzi di belle arti, guasti come sono dal tempo e dai casi,
e disgiunti da quelle minute particolarità il cui accordo cresce
significazione all'insieme, eran ben lontani dal porgere adequata
idea di ciò che allora fossero le arti, la ricchezza, l'edilizia, e
dal rivelare gli usi della vita pubblica e privata, imperfettamente
dinotati dagli scrittori, che, come in cosa nota, s'accontentano
di allusioni. Per compiere l'istruzione, città intere uscirono dal
sepolcro. Il Vesuvio, che in tempi anteriori ad ogni memoria avea
vomitato fiamme, tacque per secoli, finchè, imperante Tito, rinnovò
le sue eruzioni, colle quali più non cessò di minacciare i deliziosi
contorni di Napoli. In quella prima rovina, fra altre borgate e ville,
rimasero sepolte Ercolano e Pompej.
Ancor più che le lave e i lapilli, sedici secoli n'aveano cancellata
la memoria, quando Emanuele di Lorena principe di Elbeuf, nel 1713,
udito che un del paese avea tratto alcuni marmi da un pozzo, comprò
il diritto di farvi scavi. Il pozzo dava appunto sopra il teatro di
Ercolano, e ne cavò un Ercole, una Cleopatra, e sette altre statue,
che spedite subito in Francia, destarono la meraviglia. Continuando,
ebbe finissimi marmi d'Africa, poi scoperse un tempio rotondo con
ventiquattro colonne e altrettante statue in giro. Carlo III di Napoli
ricomprò da esso principe quello spazzo, e sterrando acquistò la
certezza d'avere scoperta una città. Ma su questa venti metri di lava
eransi induriti, e sopra edificate Portici e Resina, che sarebbonsi
dovute demolire co' regj loro palazzi. Forza fu dunque limitarsi a
parziali escavazioni, e da ciascuna di esse trarre quel che si poteva,
indi colmare di nuovo i vuoti per non iscalzare le città.
Anticaglie d'ogni genere uscirono così; affreschi, quadri, vasi,
bassorilievi, fregi, rabeschi, le statue equestri dei consoli Nonio e
Balbo, bronzi, tripodi, lampade, pàtere, candelabri, altari, istrumenti
di musica e di chirurgia, che formarono una ricchezza non rara ma unica
del museo Borbonico. Molti estesi edifizj si riconobbero, tempj, un
teatro, il fôro: tra il resto una bella casa di campagna, con giardino
che stendeasi fin al mare, abbellito d'una peschiera che terminava
in semicircolo alle due estremità; attorno ad essa scompartimenti
come d'ajuole; e tutto circondato da colonne di mattone intonacate di
gesso, su cui appoggiavano travi, infisse nel muro di cinta, formando
così attorno allo stagno una pergola, sotto cui erano divisioni or
triangolari ora a semicircolo, per lavare e per bagnarsi. Fra le
colonne sorgeano busti di marmo e statue muliebri di bronzo, alcune
grandi al vero, della fusione più perfetta: un canaletto d'acqua
lambiva il muro di cinta. Annessa era la camera dove si trovarono i
famosi rotoli di papiro, che svolti con ingegnosissima lentezza, ci
regalano tratto tratto qualche novità, ma nulla finora d'importante;
e ciò ch'è notevole, un solo è in latino, frammento d'un poema sulla
guerra di Azio. Le sei danzatrici, il Fauno dormente, il Mercurio, sei
busti creduti de' Tolomei, altri di Platone, Archita, Saffo, Democrito,
Scipione Africano, Silla, Lepido, Cajo e Lucio Cesare, Augusto, Livia,
Claudio Marcello, Agrippina minore, Caligola, Seneca, due incogniti,
due daini, varie figurine, l'Omero, l'Aristide ch'è delle migliori
statue antiche, due busti di Bacco indiano, il preteso Silla, il
Satiro colla capra, tutti di marmo, si trovarono in questo giardino,
che pure apparteneva ad un filosofo privato. La Pallade, scoperta ad
Ercolano stesso e dell'età di Fidia, va ben innanzi ai marmi eginetici;
antichissima è pure l'Artemisia, che l'esser fatta di marmo di Carrara
ci lascia supporre eseguita in Italia[392].
In quel medesimo torno di tempo, l'aratro d'un villano urtò contro una
statua di bronzo, e questa diede spia dell'altra città di Pompej[393].
Lapilli e ceneri la ricoprono, talchè poco a poco ella potrà ritornarsi
intiera alla luce: per non nuocere a tanti fini lavori e perchè nulla
vada perduto, lenti procedono gli scavi, ma è già scoperta la regione
principale, con due teatri, un tempio d'Iside, uno d'Esculapio,
uno greco, una porta della mura colla via delle tombe, il fôro, la
basilica; in breve spazio raffittiti edifizj, che oggi basterebbero ad
una grande città. All'altra estremità è l'anfiteatro; e mura pelasgiche
la circondano.
Le case si somigliano per distribuzione e ornamenti; a uno o due
piani; camerette di appena tre in quattro metri, alte da cinque a
sei, malagiate di comunicazioni e disimpegni, con poche finestre,
simili a feritoje, eccetto quelle che danno sul giardino, e che
forse erano serbate alle donne. I cortiletti sono cinti da portici,
anche nelle abitazioni di minore importanza, onde godervi il rezzo.
Negli appartamenti non usavasi legname alle costruzioni, eccettochè
per le imposte alle finestre e alle porte; pavimenti a musaico;
soffitta e pareti con medaglioni di stucco, e con pitture e musaici,
rappresentanti vivande, libri, utensili, mobili, storie, secondo il
genio e l'arte del padrone. Quella del poeta tragico, sullo spazio di
quindici metri in largo e del doppio in lungo, è divisa in diciannove
membri, compreso l'atrio: il musaico alla soglia rappresenta un
mastino alla catena coll'iscrizione _cave canem_. Dal corridojo passi
nell'atrio, cortile scoperto, adorno ai quattro lati di pitture, tratte
dall'Iliade o allusive ad arte drammatica: all'intorno camere pe'
forestieri, anch'esse a dipinti, spesso osceni: rimpetto all'ingresso
il tablino, o sala di ricevimento, porta la figura d'un poeta tragico
che declama a due astanti, mentre sul pavimento a musaico è figurata la
prova d'un'opera; esecuzione squisitissima. Vi succede il peristilio
o seconda corte aperta, in cui un giardinetto cinto da portico di
sette colonne doriche, esso pure dipinto. Al fondo sta il larario o
cappella domestica, con un graziosissimo Fauno di bronzo; a manca un
gabinetto di riposo, con Diana, Narciso al fonte e Amore che pesca;
un'altra cameretta è a paesi e marine, e sul muro principale sta
dipinta una schiera di libri, che il tragico forse non possedeva se non
col desiderio. In faccia trovate l'esedra, o sala di conversazione,
decorata di ballerine, di frutti e d'animali, con Leda, Arianna
abbandonata, il sacrifizio d'Ifigenia: da canto la cucinetta con tutti
gli attrezzi dipinti, oltre i reali, comunica col triclinio anch'esso
pitturato: di sopra era il gineceo.
Direste che quelle case jeri appena sieno state deserte. Nel tempio
d'Iside hai disposti gli utensili delle cerimonie; gli scheletri dei
sacerdoti, sorpresi tra quelle, ancor portavano gli abiti pontificali;
i carboni stanno sull'altare; e candelabri, lampade, patere per le
libazioni, lettisternj per la dea, purificatoj ornati a stucco, e un
capace vaso di bronzo colle ceneri dell'ultimo olocausto, miste al
grasso delle vittime. Ancora l'insegna invita al fondaco del mercante;
leggendo alla soglia la voce salve, credi udirla dal padrone, cui
il motto ben augurato non preservò; là pozzi in mezzo alla via, qua
cloache sboccanti al mare; sull'angolo d'un crocicchio una spezieria
coll'insegna del serpe che morde un pomo; altrove un altare coll'aquila
di Giove, esposti in vendita; l'uffizio d'un pubblico pesatore; gli
spacci di bevande calde, corrispondenti ai nostri caffè; altrove
una casa di bordello, indicata da priapi e dal motto HIC FELICITAS,
che rivela una filosofia gaudente[394]. I pani hanno il marchio del
fornajo; alcuni non cotti ancora, altri già rotti; nel pistrino hai
macine singolari; nella madia preparata la farina col lievito; nel
forno una torta entro la sua tegghia; altrove, fave, noci, olio, vino
in fiaschi col nome dei consoli e che non doveva esser bevuto; biche
di grano, il quale piantato spigò dopo mille settecento anni di sonno
vitale. Entri negli appartamenti delle signore? eccoti scarpe[395],
spilli, aghi, ditali, forbici, gomitoli, rocche, oricanni di balsami,
e gli arnesi onde anche oggi si accresce o ripara la bellezza, e monete
forate che recavansi al collo; in altre parti, dadi da giocare, palle e
balocchi da fanciulli. Ma in tante abitazioni, non carta, non libri.
S'una casa, poco lungi dalla porta, leggesi in rosso il nome di
Sallustio, lo storico che qui appunto aveva una villa: colà l'_album_
ove si affiggevano i decreti de' magistrati, gli annunzj di vendite,
aste e simili: dentro era un portento di quadri, marmi rosei, musaici,
anfore, vasi d'immenso prezzo. La via del sobborgo, spaziosa e
allineata, fiancheggiano case di campagna, tombe, sedili di pietra,
ove gli abitanti venivano sulla sera fra i sepolcri degli amici e dei
parenti per respirare il fresco e osservare i viandanti. Nel sobborgo
sorgea la villetta, di cui tanto Cicerone si compiaceva; e là presso
quella del liberto Diomede, benissimo conservata, colla porta aprentesi
sopra un verone e fiancheggiata da due colonne; cortile quadrato, cinto
da portici a colonne, sotto cui si aprivano gli appartamenti.
Non v'è abitare, ove non si trovino pitture. Queste sono opera di
quadratarj o imbianchini, ma probabilmente riproducono tavole famose; e
certamente l'Ercole fanciullo e il sacrifizio d'Ifigenia sono desunti
da quelli di Zeusi, come dalla scuola corintia proviene l'Achille
in Sciro. Le pitture di Pompej restano quasi gli unici monumenti
per giudicare dell'arte pittorica presso i Greci, ma ristrette in
cento anni quanto all'esecuzione, mentre pei soggetti recano fin
ai tempi alessandrini, e sempre con pose tranquille, figure non
aggruppate, fondo d'un sol colore, e poche linee prospettiche. Anche
qualche capolavoro doveva esser copiato a musaico; e quello che
serviva di pavimento a un triclinio, e che figura la battaglia fra
Alessandro Magno e Dario, è il pezzo più insigne che l'antichità ci
tramandasse[396].
Nè minor fasto spiegavasi nelle tombe[397]. In quella eretta da Tuche
vivente pei liberti e le liberte sue, sotto al ritratto di essa vedi
l'iscrizione e un bassorilievo, portante da una faccia la famiglia,
dall'altra l'effigie de' magistrati municipali; accanto sta scolpita
una barca, simbolo del passaggio; e daccosto è il triclinio pei pasti
funerei[398].
Se tale era una città di provincia, si argomenti qual dovette essere
la metropoli. Pure ammirando la magnificenza e il gusto, abbiam
molto a congratularci delle maggiori comodità odierne. Gabinetti di
meraviglioso lavoro mancavano di luce, ed era bujo quello a Roma da cui
uscì il gruppo del Laocoonte: gl'illuminavano lampade di elegantissime
forme, ma dove neppur si era introdotta la corrente doppia, talchè
affumicavano le volte. Se stupende strade erano destinate a trasportare
e trasmettere le contribuzioni agli eserciti, mancavasi però di quelle
tante, che oggi mettono in comunicazione ogni minimo villaggio. Le
vie di Roma furono sempre anguste e montuose[399]; quelle interne di
Pompej sono strette, allagate dalla pioggia, senza fogne. Indarno poi
vi cercheresti uno spedale, un albergo de' poveri; e la plebaglia
doveva essere confinata in catapecchie, che non resistettero al
tempo, e disgiunte dalle abitazioni civili. Le camere stesse de'
ricchi sono bugigattoli senza aria nè luce, nè bellezza di specchi e
di finestre: i ginecei delle donne somigliano a prigioni. Eleganti i
sedili e i letti ma duri; senza molle nè cinghie i carri, del resto
ben rari, come lo prova l'angustia delle strade: ivi non lampioni per
la notte, non pompe da aspirar l'acqua, non difese contro la pioggia
e i fulmini, non tovagliuoli nè forchette a tavola, neppur bottoni o
occhielli al vestito; non carte geografiche o bussola i viaggiatori,
non colori a olio i pittori. Che diremo dell'infima classe priva di
quelle innumerevoli comodità oggimai a nessuno negate, libri, quadri,
oriuoli, vesti di seta, camini, acquajuoli, zuccaro e caffè, stoviglie
ben verniciate, biancheria che dispensi dalla frequenza de' bagni, e
macchine che scusino le più dure fatiche, e libertà di spendere come si
voglia il denaro acquistato con libero lavoro?
Ammiriamo dunque, ma non invidiamo il passato, e figuriamoci che l'età
dell'oro, se pur è sperabile, sta davanti a noi, non dietro, per quanto
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