Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 24
fuor d'Italia, sotto Tiberio si divisò di voltare nella Chiana l'Arno,
che prima affluiva nel Tevere e cagionava piene: ma fa meraviglia
come i Romani non provvedessero a incanalare questo fiume, che spesso
allagava la loro capitale, e fin dodici volte nell'anno 22. Nerone
cominciò un cavo arditissimo, che per censessanta miglia dal lago
d'Averno doveasi congiungere da un lato col lago Lucrino e il golfo di
Baja, dall'altro con Roma per le paludi Pontine[369]. Cesare tentò,
Claudio compì lo scolo del lago Fùcino nel Liri per l'emissario più
grandioso d'Europa, per 5600 metri fra montagne calcari, sostenuto con
muri ed archi, e dove lavorarono trentamila persone, nè sapevasi tenere
la drittura altrimenti che coll'aprire spiragli in cima.
Roma piantava sopra un labirinto di fogne, onde urbs pensilis la
chiamava Plinio; mentre file immense di archi reggeano le doccie che
da molte miglia lontano guidavano l'acqua, e che ancora colle loro
ruine interrompono pittorescamente la spopolata campagna romana. Il
primo acquedotto, fatto a studio di Appio Claudio il 311 avanti Cristo,
portava l'acqua da otto miglia lontano: per quarantatremila passi,
sorretto da settecentodue archi, la portava quel di Cajo Dentato,
di quarant'anni posteriore: poi Marcio Re condusse da Subiaco, per
sessantunmila passi, l'acqua Marcia, alla quale si congiunsero poi
la Tepula e la Giulia. Frontino, che al tempo di Trajano descrisse
gli acquedotti, conta che per 13,594 tubi distribuivano 1,320,600
metri cubici d'acqua ogni ventiquattr'ore. L'acqua Vergine, dovuta ad
Agrippa, venendo sopra settecento archi fuor di terra, con quattrocento
colonne marmoree e trecento statue, alimentava centrenta cisterne[370].
Era uno sfoggio eccedente di forza, quasi l'acqua non dovesse giungere
ai trionfanti che sopra archi trionfali; nè a torto Frontino anteponeva
queste opere alle piramidi egiziane. Di simili restano vestigia in
altre città dell'impero; e delle più insigni era l'acqua Claudia, che
per cinquanta miglia, dal Principato Ulteriore provvedeva molte città
e Napoli, e finiva alla Piscina Mirabile presso il capo Miseno, gran
serbatojo per le navi.
Più di ottocento bagni contava Roma sotto gli Antonini, di cui erano
principali quelli d'Emilio, Cesare, Mecenate, Livia, Sallustio,
Agrippina. Plinio rammenta Sergio Orata contemporaneo di Grasso, che
inventò d'introdur nelle camere acqua calda, per modo che evaporando
scaldasse. Di Ninfei, grandi cupole con zampilli, erano sparse le rive
dei laghi d'Albano, di Nemi, Lucrino, Fùcino.
Talmente estese erano le terme, che Ammiano Marcellino le paragona
a provincie (_in modum provinciarum extructa lavacra_); ed occupano
ancora grandissimo spazio quelle di Caracalla, alimentate dall'acqua
Marcia che passa sull'arco di Druso. Oltre i bagni, servivano ad
esercizj ginnastici, giuochi, accademie, altre riunioni: le ornavano
preziosi capidarte, e vi furono trovati l'Ercole di Glicone, la Flora,
il toro Farnese, il torso di Belvedere, il musaico del Laterano, e
quantità di vasi e d'altre preziosità. La colonna che sta in piazza
Santa Trinità a Firenze, è una delle otto che sorreggeano la sala di
mezzo. Più vaste erano le terme di Diocleziano, con portici e sale
capacissime, di cui una copre cinquantanove metri per ventiquattro, e
luoghi di divertimento ed un museo. Il Panteon formava solo un membro
delle terme d'Agrippa; e i rabeschi di Rafaello nelle loggie Vaticane
imitano quelli delle terme. Baja ed altre vicinanze di Napoli offrivano
terme naturali; e bellissimo avanzo n'è il Truglio, rotonda di venti
metri di diametro interno, a volta elittica.
Mediante gli archi furono agevolati anche i ponti, che talvolta
erano decorati di statue e d'archi trionfali: ed otto ne avea la
sola Roma[371]. Poco capaci erano i porti, destinati a navi ben più
piccole delle nostre; ma fari, canali, bacini, cantieri, cale, piscine
formavano un complesso di edifizj maestoso. Cesare propose, Claudio
eseguì un porto alla foce del Tevere, cui Trajano aggiunse un bacino
esagono di ducensessanta metri il lato, cinto di colonnette di marmo
numerate, per attaccarvi le navi. Attribuiscono ad Augusto il porto
di Miseno, e quello di Ravenna con magnifico faro. Quel che chiamano
ponte di Caligola, sono avanzi del molo a traforo che dovea proteggere
l'antico porto di Pozzuoli.
All'unità, cui Roma aspirava, d'importanza suprema riusciva il
costruire strade; e alcune avanzano tuttora ad attestare quanto
meritassero l'antica rinomanza (pag. 573). Partendo dal _miliario
aureo_, collocato in mezzo al fôro Romano, si spiegavano queste fin
alle colonne d'Ercole, all'Eufrate e al Nilo, vincendo difficoltà
d'ogni sorta, spropriando i possessori, colmando valli, accavalciando
fiumi, spianando alture, forando montagne, perchè questa gran catena
connettesse alla metropoli le provincie. Cinque metri eran larghe le
maggiori: per fondo gettavansi frantumi di pietre, legati con calce e
pozzolana; poi un miscuglio di calcina, creta e terra, e talvolta anche
di ghiaja e calcistruzzo; indi ciottoli o pietre poligone informi, e
nelle città cubi regolari: a Pompej ed Ercolano sono di lava, connessi
con calce e pozzolana, e le vie sono tirate a filo e con marciapiedi.
Magnifiche erano in Roma la Sacra e la Trionfale: la prima, cominciando
ad oriente del fôro Romano, dal Coliseo radeva il tempio d'Antonino
e Faustina, e per gli archi di Costantino, di Tito e di Settimio
Severo saliva al Campidoglio. Entravano dall'altra i vincitori lungo
i campi del Vaticano e del Gianicolo; poi dal ponte e dalla Trionfale
venivano alla via Retta, al Campo Marzio, al teatro di Pompeo, al circo
di Flaminio, ai teatri d'Ottavia e di Marcello, e al circo Massimo;
piegando quindi sulla via Appia, pel Coliseo uscivano sulla via Sacra,
donde al Campidoglio. Le statue rapite alle nazioni vinte, quelle dei
re trionfati, de' grandi uomini e degli Dei contornavano que' magnifici
cammini. Gl'imperatori crebbero le strade per portare gli ordini e gli
eserciti alle estremità dell'impero; e quarantotto ne contava la sola
Italia, nove la Sicilia, sei la Sardegna, una la Corsica.
L'ispezione delle strade spettava ai censori, che spesso vi diedero
il proprio nome; dappoi ai tribuni della plebe; più tardi a curatori
speciali: le spese erano decretate dal senato, o da individui che ne
traessero vantaggio, o volessero gratificarsi il popolo. Cajo Gracco
avea fatto collocare pietre miliari, indicanti la distanza da Roma
o dai punti principali; e lungh'esse situavansi pure i sepolcri, in
vista, anziché sotterranei come quei de' prischi Italioti. V'erano
anche _cauponæ_ e _tabernæ_, ma forse ad uso soltanto della poveraglia:
del resto quando Orazio peregrinò a Brindisi, nella città di Mamurra
gli prestarono Murena la casa, Capitone i cuochi; prima d'arrivare al
ponte di Campania, pernottò in una villa, dove i provveditori imperiali
lo fornirono di legna e sale, secondo il loro dovere; in un'altra
villa presso Trivico fu affumicato da fascine verdi, e deluso da una
fanciulla[372].
Alle città in generale davasi la forma dell'accampamento, cioè un
parallelogrammo, per lo più di un quadrato e mezzo, tagliato pel lungo
e pel traverso da una o due strade; e tali possono riscontrarsi i
primitivi piani di Como, Piacenza, Parma, Pavia, Aosta, Torino; Verona
forma un quadrato.
L'unione di case private, disgiunte dalle vicine, costituiva un'isola;
il complesso di alquante isole, un vico; e molti vichi, una regione.
Solo i gran ricchi potevano abitare un'isola intera, massime da che
il crescente lusso delle fabbriche incarì i terreni. Molti dunque
appigionavano le case; e Marziale abitava a un terzo piano[373]; Silla,
non ancora famoso, pagava lire seicento l'anno di pigione: ma Cicerone
parla fin di tremila sesterzj o seimila lire per un appartamento.
Nelle case de' Romani, modificate tra l'antica italiana e la greca,
erano due parti distinte; una per uso particolare del padrone, una
pel pubblico. Il vestibolo oblungo (_protyrum_) menava dalla strada
in un cortile interno (_cavedium_), scoperchiato nel mezzo. Le acque
piovane erano raccolte sul tetto sporgente, e per lo spazio scoperto
(_compluvium_) cadevano in un bacino rettangolare (_impluvium_), spesso
decorato d'una fontana. A destra e a manca del cavedio disponevansi
le camere: di fronte, una sala aperta verso la corte (_tablinum_)
conteneva gli archivj e i ritratti di famiglia, e il padrone vi
riceveva i clienti, che aspettavano il suo arrivo passeggiando nel
cortile o seduti in salotti (_alæ_): corridoj (_fauces_) mettevano
all'interno della casa. Parte principale erano gli atrj, ignoti ai
Greci; e distinguevansi in _toscani_ quando i tetti fossero sostenuti
solo da travi murate; _tetrastili_ quando avessero quattro colonne
poste sotto ai punti d'intersezione delle travi; _corintj_ quando
le colonne fossero di più; _displuviata_ quando il tetto pioveva
all'infuori; _testudinata_ se affatto coperti.
Il limitare della porta guardavasi con rispetto superstizioso; guaj
l'inciamparvi! vi si scriveano parole di felice augurio, o teneansi
pappagalli e gazze che le ripetessero. Sovra la porta collocavansi
ornati e segni del mestiero che vi si esercitava, od iscrizioni.
Gli usci talvolta faceansi di marmo o di bronzo, e con bottoni,
mascheroni ed altri capricci; in occasione di nozze o di solennità
ornavansi di ghirlande e festoni; gli amanti vi sospendeano fiori;
i cipressi indicavano la morte. Eccetto quelle dei tribuni, stavano
chiuse, nè vi s'entrava senza bussare: nelle case ricche tenevasi il
portiere, incatenato come i nostri cani. Oltre la principale, s'avea
qualche porta di dietro (_postìca_), che riusciva negli _angiporta_ o
vicoli. Di rado si trovano scale, e queste di pietra o di legno come
oggi, fissate nel muro e per lo più buje; onde la frequente frase
d'ascondersi _in scalis_, o _in scalarum tenebris_[374].
La casa in generale non avea finestre o pochissime, e queste piccole
ed alte; talora chiuse con pietre speculari, o con vetri molto grossi e
non trasparenti[375].
Le parti interne comunicavano tutte fra sè mediante il cortile, da cui
le camere riceveano luce per mezzo delle porte: le camere spesso non
erano divise che da traversi o da cortine. Nella biblioteca poneansi le
effigie degli autori, d'oro, argento, bronzo, cera[376].
Da principio il fuoco ardeva nell'atrio, ove e cocevasi e mangiavasi, e
attorno a quello si raccoglievano i numerosi schiavi; dappoi nell'atrio
si tenne un foculo o braciere, dove mettere incensi ai lari[377]:
talvolta riscaldavansi le camere con tubi chiusi nelle pareti o sotto
al pavimento. Per cercare il fresco e meriggiare si aveano appartamenti
sotterranei, che ne' palazzi erano estesi, con molti corridoj e pitture
a fresco e fregi a stucco, i quali da ciò appunto trassero il nome di
_grotteschi._
Ornavansi i palazzi con giardini. Di grandiosissimi n'ebbe Mecenate;
e forse a quei di Lucullo presso Napoli servivano la Piscina Mirabile
di Miseno, e la nuova grotta, riaperta or fa poch'anni nel promontorio
di Coroglio, lunga più di mille metri, alta e larga meglio che
quella di Posilipo. L'arte industriavasi a procurarvi ombre, variare
l'esposizione, intrecciare labirinti, distribuir acque, e nel ridurre
le piante e i cespugli, massime di càrpino e di bosso, in figure
d'animali o di lettere (_ars topiaria_); della quale invenzione
si attribuiva il merito a Cajo Matio cavalier romano, famigliare
d'Augusto. Altre volte i giardini erano pènsili, e Seneca inveiva
retoricamente contro questo dover gli alberi cacciare le radici ove a
stento avrebbero innalzate le chiome[378].
Ai giardini aggiungevansi un viale d'alberi ove passeggiare discorrendo
(_gestatio_), e l'ippodromo per le corse a cavallo. Nè ignoti erano
i tepidarj, dove correnti d'acqua calda mantenevano una temperatura
tale che, a malgrado del verno, vi facessero i gigli bianchi e rossi,
le viole tusculane, le vigne, i poponi e gli alberi da frutto.
Coltivavansi pure delle piante bulbose, il croco, il narciso, il
giacinto, le iridi. A taluno erano unite uccelliere, e Alessandro
Severo n'ebbe una che conteneva ventimila piccioni, oltre fagiani,
pernici, altra selvaggina. Entro piscine conservavansi pesci vivi, con
ingenti spese.
Non dimentichiamo che a nessun palazzo mancava l'ergastolo, destinato a
chiudere gladiatori, atleti, schiavi. I primi, come ben nudriti, così è
a credere fossero anche ben alloggiati; ma gli schiavi si cacciavano la
sera in tane sotterranee, senza distinzione di sessi. Altri ergastoli,
come indica il nome, servivano pei lavori forzati, e in città n'avea di
molti; e talora i passeggieri venivano côlti, e gittati a lavorare in
quelle tane, senza che più se ne sapesse.
Le minori vie metteano sopra le strade grandi, le sole mantenute a
pubbliche spese, e che legalmente doveano farsi larghe non più di otto
piedi romani, che sono due metri e mezzo, e costeggiate da marciapiedi
rialzati, da due in quattro piedi; ben necessarj ove l'angustia appena
permetteva il cambio de' carri, e dove piovendo correva il rigagno.
Sulla strada s'aprivano le botteghe, e spesso in una tutte quelle
d'un esercizio, come a Roma nel fôro i banchieri; nel Vico Tusco e nel
Velàbro i conciatori, profumieri, droghieri, mercanti di stoffe; nella
via Sacra i venditori di minuterie domestiche, di ossetti d'avorio,
di tavolette da scrivere, di stipi di legno prezioso, dadi e tavole
da giocare. Nel 175 avanti Cristo i censori Fulvio Flacco e Postumio
Albino fecero selciare di pietroni le vie interne di Roma, di ghiaja le
esterne, e con margini rialzati[379].
La primitiva Roma occupava sul colle Palanzio appena un miglio
quadrato, colle porte Rumena, Capena, Magonia. Numa Pompilio estese
quel recinto, inchiudendovi il colle Capitolino e la parte più prossima
del Quirinale, e aggiungendo la porta Carmentale, detta Scellerata
dacchè ne uscirono i trecentosei Fabj. Tullo Ostilio cinse anche
il Celio per istanziarvi i vinti Albani; poi Anco Marzio collocò i
Latini sull'Aventino, murandolo. Tarquinio Prisco asciugò il Velàbro,
palude nell'avvallamento tra il Palatino, l'Aventino e il Campidoglio;
e meditava una nuova cerchia di mura, che fu poi compita da Servio
Tullio, aggregando il resto del Quirinale, e i colli Viminale ed
Esquilino, sicchè vi furono compresi sette colli; mentre il Gianicolo
ergevasi di là dal Tevere a guisa di cittadella.
La mura, invasa anch'essa dalle abitazioni, serpeggiava sul ciglio dei
colli: cominciando sulla sinistra del Tevere al fôro Olitorio presso
il teatro di Marcello, e seguendo il lato settentrionale della rôcca
Capitolina, scendeva al sepolcro di Cajo Bibulo, quindi per la valle
che separa il Campidoglio dal Quirinale saliva in vetta di questo verso
le Quattro Fontane, donde secondava il colle lungo il circo di Flora,
piegando poi incontro alla moderna porta Salaria. Quindi cominciava
l'aggere su cui fondata era la mura, e continuava per l'altura
sovrastante ai colli Quirinale, Viminale ed Esquilino fin all'arco di
Gallieno, ove esso argine terminava. Allora, sceso l'Esquilino, la mura
rimontava sul Celio presso al Laterano; indi per la sommità meridionale
del colle, dove ora sta Santo Stefano Rotondo, scendeva a valle tra il
Celio e l'Aventino; coronati i quali, tornava a raggiungere il fiume
là dov'erano e sono tuttora le conserve del sale. Di là dal Tevere le
mura staccavansi dal fiume in due linee rette per congiungersi colla
cittadella gianicolese di Anco Marzio. Vi attribuiscono il giro di otto
miglia, o precisamente 12,500 metri[380].
Ventitre o ventiquattro porte le aprivano: la Flumentana presso il
fiume; la Trionfale, donde entravano i vincitori pigliando la via
Sacra verso il Campidoglio; la Carmentale; la Rumena alle falde
del Campidoglio; una di nome incerto, sull'altura occidentale del
Quirinale; un'altra sul colle medesimo presso il palazzo pontifizio;
la Salutare in vetta ad esso colle, ove ora le Quattro Fontane; una
presso gli orti Sallustiani; la Collina, da cui partivano le vie
Salaria e Nomentana, e fuor della quale stava il Campo Scellerato; la
Viminale nella villa Negroni; l'Esquilina presso l'arco di Gallieno,
donde moveano le vie Prenestina, Labicana, Tiburtina; la Mezia, poco
discosta; la Querquetulana sulla via Labicana presso i Santi Pietro
e Marcellino; la Celimontana presso San Giovanni in Laterano; la
Ferentina sul Celio presso Santo Stefano Rotondo, donde si usciva al
bosco della dea Ferentina, oggi Marino, convegno dell'assemblea dei
popoli del Lazio; la Capena, da cui partivano le grandi strade Appia e
Latina, aprivasi nella gola fra il Celio e l'Aventino, ed era il corso
vespertino degli eleganti; la Nevia, al crocicchio delle vie Aventina
e di Santa Balbina, menava ai boschi Nevj, ricovero de' malfattori;
la Radusculana sotto la chiesa di San Saba, alla falda meridionale
dell'Aventino; la Lavernale sull'Aventino; la Mavale accanto al
bastione di Paolo III; la Minucia sulla sommità dell'Aventino; la
Trigemina, ove è l'arco della Salaria, così detta perchè avea tre
fornici. Quelle del lato occidentale sono incerte.
Dentro e fuori restava uno spazio sacro, detto _pomerium_, che non
potevasi nè edificare nè coltivare. Silla e Cesare estesero il pomerio,
ma non dilatarono la mura.
Augusto partì l'antico recinto di Servio Tullio in quattordici regioni,
che erano: Iª al mezzodì la Capena, ove il tempio dell'Onore, quello di
Marte Estramurano, le terme di Severo e di Comodo; IIª la Celimontana
sul monte Celio, ove la casa de' Laterani, la Mica Aurea fondata da
Domiziano, le scuole de' gladiatori, e il piccolo campo Marzio; IIIª
la Moneta nella valle fra il Celio, il Palatino e l'Esquilino, dove
le terme di Trajano e di Tito, la Casa Aurea di Nerone, le grandi
vie Suburra e Carina, il Colosseo; IVª la Sacra fra l'Esquilino, il
Palatino e il Quirinale, dove i tempj della Pace, di Roma, d'Antonino
e Faustina, il colosso di Nerone, gli archi trionfali di Tito e di
Costantino, la via Scellerata, la Sandalaria abitata da' libraj, la
Sacra dove Orazio solea passeggiare meditando e invanendo[381]; Vª le
Esquilie chiudeano parte dell'Esquilino e il Viminale, coi monumenti
del _Castrum prætorianum_, la casa e i giardini di Mecenate, l'arco di
Gallieno, il _vivario_ delle belve per l'anfiteatro; VIª l'Alta Semita
sul Quirinale abbracciava le terme di Diocleziano e di Costantino,
i tempj di Quirino, del Sole, di Flora, della Salute, i giardini di
Lucullo, di Sallustio, d'altri; VIIª la Lata, fra il Quirinale e il
Campo Marzio, aveva il fôro Suario, il portico di Costantino ed altri
monumenti; l'VIIIª regione era il fôro Romano fra il Capitolino, il
Palatino e il Tevere, e suoi monumenti il Miliario Aureo, il Comizio,
la curia Ostilia, il tempio di Castore, la basilica Porzia, la colonna
Mevia, il tempio di Vesta, i nuovi rostri, il tempio di Saturno, il
Campidoglio, la cittadella, i fôri di Cesare, d'Augusto, di Trajano,
ecc.; IXª il circo Flaminio nella parte più settentrionale, col
mausoleo d'Augusto, il Panteon, il teatro di Balbo, l'anfiteatro di
Statilio Tauro, il teatro di Marcello, la curia di Pompeo, la Villa
pubblica, dove faceasi il censo e si riceveano gli ambasciatori
stranieri; Xª la Palatina col palazzo imperiale; XIª il circo Massimo
fra il Palatino e l'Aventino; XIIª la Piscina pubblica fra l'Aventino
e il Celio; XIIIª l'Aventino, ove faceasi la rivista degli armati
(_armilustrium_); infine il Transtevere, ove i giardini di Nerone, la
Mole Adriana, le terme d'Aureliano. Siffatta divisione durò fino ad
oggi.
Cresciuta Roma di magnificenza e d'estensione sotto gl'imperatori,
Aureliano la cinse di nuove mura laterizie, quali in molti luoghi si
vedono tuttora, all'uopo principalmente d'inchiudervi i nobilissimi
edifizj circostanti al campo di Marte. Staccandosi dalla sinistra
del fiume presso porta Flaminia, la nuova mura ambiva verso oriente
il Pincio, poi il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino, il Celio,
l'Aventino, e allargandosi per abbracciare monte Testaccio, toccava il
fiume; di là dal quale tornava molto più in fuori dell'odierna porta
Portense, donde salendo il fianco meridionale del Gianicolo, fiedeva
alla porta San Pancrazio, per scendere alla Settimiana. Non fu quindi
più la città de' sette, ma dei dieci colli: il Vaticano fu ricinto
soltanto da papa Leone IV, formando la città Leonina.
Nella nuova cerchia Roma ebbe da quindici miglia di giro, con
trentasette porte, che mettevano ad altrettanti sobborghi, e da
cui partivano trentuna strade militari. In quel ricinto contavansi
ventotto biblioteche, otto ponti, otto campi, dieci terme, venti
acque, diciotto vie, due campidogli, due circhi, due anfiteatri, tre
teatri, tre ludi, cinque naumachie, quindici ninfei, due colossi,
due colonne cocliti, sei obelischi, ventidue grandi cavalli, sette
Dei d'oro e settantaquattro d'avorio, trentasette archi di marmo,
quattrocenventitre vichi, quattrocenventidue palazzi (_ædes_),
mille settecentonovanta case maggiori, quarantaseimila seicentodue
isole, col qual nome, se pure la cifra non fu letta in fallo, non
potrebbero intendersi che le case minori; ducentonovanta granaj,
ottocentocinquantasei bagni, mille trecencinquantadue pozzi,
ducencinquantaquattro forni, quarantasei lupanari, quattrocento
cloache, cenquarantaquattro latrine.
Dei diciassette fôri o piazze, quattordici servivano per mercati
diversi (_venalia_), gli altri per gli affari (_civilia et
judiciaria_). Il più antico era il Romano, ove si teneano le arringhe
sulla tribuna ornata dei rostri tolti alle navi cartaginesi. Il fôro di
Cesare, presso campo Vaccino, costò un milione di sesterzj. Augusto nel
suo fece il tempio di Marte Vendicatore, intorniato di doppia galleria,
colle statue de' re latini da un lato, de' re romani dall'altro.
Domiziano cominciò quello di Nerva, dove poi Alessandro Severo pose
colossi degli imperatori e colonne di bronzo.
Alla vita pubblica d'allora s'addicevano i portici, formati di colonne
che sostengono un soppalco, disposte a più schiere; talvolta erano
indipendenti da qualunque altro edifizio; da poi si chiusero con
ricinti, e presero nome di basiliche. La prima basilica pubblica si
edificò sotto la censura di Porcio Catone il 569 di Roma, onde fu detta
Porcia; e tanto piacque che in vent'anni se ne costruirono tre nuove,
vicino al fôro, poi altre altrove, e anche per tutta Italia. Servivano
ad usi pubblici, come di borsa e di tribunale, a tal uopo finendo in un
semicircolo o abside, dove collocavasi il pretore sulla sedia curule,
circondato dai numerosi giudici e dagli avvocati. Dieci n'aveva in
Roma, la Giulia, la Vestilia, la Nettunia, la Matidia, la Marciana,
la Vascolaria, la Floscellaria, quelle di Paolo e di Costantino, e di
tutte più famosa la Ulpia, opera di Trajano, che abbiamo pur dianzi
descritta.
Noi ci badammo su questi particolari perchè, oltre essere la metropoli
del mondo, Roma serviva di modello anche alle altre città dell'impero;
sebbene non sia dimostrato quel che taluni asseriscono, che in ciascuna
vi avesse e fôro e teatro e circo e ginnasio e bagno e campidoglio,
colle forme e coi nomi medesimi della capitale.
E più ne sapremmo se degli scrittori d'arte ci fosse restato altro
che il solo Marco Vitruvio Pollione. Di patria e di casa ignoto, e
probabilmente schiavo greco, se argomentiamo dal suo scrivere cattivo
e ingombro di grecismi, da Augusto fu adoperato alle macchine militari:
ma de' fatti suoi nulla si saprebbe se egli stesso non avesse scritto.
Più maestro che artista, più ingegnere che architetto egli si mostra,
nè di gran valentìa dà saggio la basilica in Fano, unica che si ricordi
da lui architettata.
Molti avendo scritto d'architettura ma confusamente, egli pensò
ridurre in corpo compiuto quella scienza, e ciascuna parte in singoli
libri. E secondo si esprime ne' preamboli, nel primo spiega i doveri
dell'architetto e le cognizioni a lui necessarie; nel secondo i
materiali; nel terzo la disposizione de' tempj coi varj ordini, e la
distribuzione delle parti; nel quarto tratta specialmente dell'ordine
jonico e del corintio; nel quinto reca la disposizione degli edifizj
pubblici; nel sesto delle case private; nel settimo degli intonachi
onde abbellire ed assodare gli edifizj; nell'ottavo del trovare e
condur l'acqua; nel nono di differenti processi pratici e di cose utili
alla vita, come il peso specifico, la costruzione delle meridiane,
i rapporti del diametro col circolo, del lato colla diagonale del
quadrato; il decimo discorre delle macchine sì per fabbrica, come per
elevar l'acqua e per la guerra.
Ma il _Trattato d'architettura_ qual oggi l'abbiamo, è probabilmente
una compilazione, poco diversa da quella di Plinio, fatta da qualcuno
mal pratico, e che non avea visto co' proprj occhi i monumenti di
Grecia. Nell'esecuzione spesso confonde i soggetti, ed è peccato che
le figure che accompagnavano il testo siano perdute[382]. Scarso di
critica e filosofia, di stile vulgare, arido e spesso oscuro anche per
minutezza di particolari, a tacere i guasti venutigli dagli amanuensi,
va consultato con grande cautela, e confrontato cogli edifizj ancora
riconoscibili: ma se sarebbe servilità il prostrarsi a' suoi precetti,
è certo che, oltre le squisite notizie, di ottimi egli ne desume
dall'osservazione. Sopratutto raccomanda all'architetto lealtà e
disinteresse; ed egli medesimo si fa amare per la candida intenzione
con cui scrive.
Turpilio, cavaliere della Venezia ai tempi di Plinio, è il solo nobile
romano che coltivasse la pittura, la quale da Plinio stesso è definita
arte morente[383], benché ad alcuni egli sia cortese d'encomj; come
ad Amulio per una Minerva, la quale guardava l'osservatore dovunque
si mettesse[384]; meschina lode! Quinto Pedio, d'illustre famiglia,
era muto, e perciò l'oratore Messala s'accordò con Augusto di fargli
imparar la pittura; e riusciva bene se morte non l'avesse rapito.
Primeggiava tra i colori il cinabro, che Plinio pretende fatto col
sangue di un drago schiacciato da un elefante morente, in modo che i
due sangui si mescolassero[385]; e probabilmente era succo d'una palma.
Il minio era stato scoperto quattro secoli avanti Cristo nelle cave
d'argento d'Efeso: e per carezza e nobiltà gareggiava con esso il
purpurissimo, composto col liquore estratto dai murici che pescavansi
in riva al Mediterraneo. Sul golfo di Napoli manipolavansi minerali
indigeni e importati per uso di colori, quali l'azzurro denominato
fritta di Pozzuolo, e la porpora.
Si dipingeva per lo più sul legno; talvolta sulle pareti. Per animali e
fiori e dove occorresse maggior illusione, usavasi l'encausto; cioè (se
pure fra tante discrepanze possiamo prometterci lume di vero) con ferro
caldo tracciavansi i contorni sopra tavolette di avorio, o stendeasi
la cera colorata sopra il legno o l'argilla, ovvero con un pennello
intinto in cera e pece si dipingevano tavole. La pittura a fresco non
pare fosse conosciuta, male colla calce fresca accoppiandosi le lacche,
il bianco di piombo, il minio, l'orpimento, colori consueti degli
antichi.
Composizioni storiche ricorrono frequenti negli archi e sulle medaglie,
ma rare ne' dipinti; e di tanti che n'ha il museo Borbonico, soli
Sofonisba e Massinissa, e la Carità Greca tengono alla storia. Le
scene di vita domestica e civile sono sempre accompagnate da esseri
simbolici, come Amore, la Vittoria, Minerva. Altre volte figuravansi
sacrifizj, o processioni sacre, o giuochi ginnastici, e spesso
oscenità.
Il marmo di Luni, che oggi diciamo di Carrara, è un calcare bianco,
leggermente cristallino, senza fossili, del periodo secondario del
calcare giurassico: se non per durezza, per candore supera i più belli
d'Egitto e di Grecia, non eccettuato il marmo pario, a detta di Plinio,
che lo asserisce scoperto poco prima, e fu adoperato a tutte le opere
grandiose, ove prima usavansi il gabinio, l'albano, il tiburtino.
Il porfido, così detto dal suo colore di fuoco (πυρ), è d'un rosso
bruno mischiato, constando di silice combinata coll'allumina e la
potassa, e molto ferro ossidato, e cristalli di quarzo. Non si sapea
donde gli antichi lo traessero; ma gl'inglesi Burton e Wilkinson nel
che prima affluiva nel Tevere e cagionava piene: ma fa meraviglia
come i Romani non provvedessero a incanalare questo fiume, che spesso
allagava la loro capitale, e fin dodici volte nell'anno 22. Nerone
cominciò un cavo arditissimo, che per censessanta miglia dal lago
d'Averno doveasi congiungere da un lato col lago Lucrino e il golfo di
Baja, dall'altro con Roma per le paludi Pontine[369]. Cesare tentò,
Claudio compì lo scolo del lago Fùcino nel Liri per l'emissario più
grandioso d'Europa, per 5600 metri fra montagne calcari, sostenuto con
muri ed archi, e dove lavorarono trentamila persone, nè sapevasi tenere
la drittura altrimenti che coll'aprire spiragli in cima.
Roma piantava sopra un labirinto di fogne, onde urbs pensilis la
chiamava Plinio; mentre file immense di archi reggeano le doccie che
da molte miglia lontano guidavano l'acqua, e che ancora colle loro
ruine interrompono pittorescamente la spopolata campagna romana. Il
primo acquedotto, fatto a studio di Appio Claudio il 311 avanti Cristo,
portava l'acqua da otto miglia lontano: per quarantatremila passi,
sorretto da settecentodue archi, la portava quel di Cajo Dentato,
di quarant'anni posteriore: poi Marcio Re condusse da Subiaco, per
sessantunmila passi, l'acqua Marcia, alla quale si congiunsero poi
la Tepula e la Giulia. Frontino, che al tempo di Trajano descrisse
gli acquedotti, conta che per 13,594 tubi distribuivano 1,320,600
metri cubici d'acqua ogni ventiquattr'ore. L'acqua Vergine, dovuta ad
Agrippa, venendo sopra settecento archi fuor di terra, con quattrocento
colonne marmoree e trecento statue, alimentava centrenta cisterne[370].
Era uno sfoggio eccedente di forza, quasi l'acqua non dovesse giungere
ai trionfanti che sopra archi trionfali; nè a torto Frontino anteponeva
queste opere alle piramidi egiziane. Di simili restano vestigia in
altre città dell'impero; e delle più insigni era l'acqua Claudia, che
per cinquanta miglia, dal Principato Ulteriore provvedeva molte città
e Napoli, e finiva alla Piscina Mirabile presso il capo Miseno, gran
serbatojo per le navi.
Più di ottocento bagni contava Roma sotto gli Antonini, di cui erano
principali quelli d'Emilio, Cesare, Mecenate, Livia, Sallustio,
Agrippina. Plinio rammenta Sergio Orata contemporaneo di Grasso, che
inventò d'introdur nelle camere acqua calda, per modo che evaporando
scaldasse. Di Ninfei, grandi cupole con zampilli, erano sparse le rive
dei laghi d'Albano, di Nemi, Lucrino, Fùcino.
Talmente estese erano le terme, che Ammiano Marcellino le paragona
a provincie (_in modum provinciarum extructa lavacra_); ed occupano
ancora grandissimo spazio quelle di Caracalla, alimentate dall'acqua
Marcia che passa sull'arco di Druso. Oltre i bagni, servivano ad
esercizj ginnastici, giuochi, accademie, altre riunioni: le ornavano
preziosi capidarte, e vi furono trovati l'Ercole di Glicone, la Flora,
il toro Farnese, il torso di Belvedere, il musaico del Laterano, e
quantità di vasi e d'altre preziosità. La colonna che sta in piazza
Santa Trinità a Firenze, è una delle otto che sorreggeano la sala di
mezzo. Più vaste erano le terme di Diocleziano, con portici e sale
capacissime, di cui una copre cinquantanove metri per ventiquattro, e
luoghi di divertimento ed un museo. Il Panteon formava solo un membro
delle terme d'Agrippa; e i rabeschi di Rafaello nelle loggie Vaticane
imitano quelli delle terme. Baja ed altre vicinanze di Napoli offrivano
terme naturali; e bellissimo avanzo n'è il Truglio, rotonda di venti
metri di diametro interno, a volta elittica.
Mediante gli archi furono agevolati anche i ponti, che talvolta
erano decorati di statue e d'archi trionfali: ed otto ne avea la
sola Roma[371]. Poco capaci erano i porti, destinati a navi ben più
piccole delle nostre; ma fari, canali, bacini, cantieri, cale, piscine
formavano un complesso di edifizj maestoso. Cesare propose, Claudio
eseguì un porto alla foce del Tevere, cui Trajano aggiunse un bacino
esagono di ducensessanta metri il lato, cinto di colonnette di marmo
numerate, per attaccarvi le navi. Attribuiscono ad Augusto il porto
di Miseno, e quello di Ravenna con magnifico faro. Quel che chiamano
ponte di Caligola, sono avanzi del molo a traforo che dovea proteggere
l'antico porto di Pozzuoli.
All'unità, cui Roma aspirava, d'importanza suprema riusciva il
costruire strade; e alcune avanzano tuttora ad attestare quanto
meritassero l'antica rinomanza (pag. 573). Partendo dal _miliario
aureo_, collocato in mezzo al fôro Romano, si spiegavano queste fin
alle colonne d'Ercole, all'Eufrate e al Nilo, vincendo difficoltà
d'ogni sorta, spropriando i possessori, colmando valli, accavalciando
fiumi, spianando alture, forando montagne, perchè questa gran catena
connettesse alla metropoli le provincie. Cinque metri eran larghe le
maggiori: per fondo gettavansi frantumi di pietre, legati con calce e
pozzolana; poi un miscuglio di calcina, creta e terra, e talvolta anche
di ghiaja e calcistruzzo; indi ciottoli o pietre poligone informi, e
nelle città cubi regolari: a Pompej ed Ercolano sono di lava, connessi
con calce e pozzolana, e le vie sono tirate a filo e con marciapiedi.
Magnifiche erano in Roma la Sacra e la Trionfale: la prima, cominciando
ad oriente del fôro Romano, dal Coliseo radeva il tempio d'Antonino
e Faustina, e per gli archi di Costantino, di Tito e di Settimio
Severo saliva al Campidoglio. Entravano dall'altra i vincitori lungo
i campi del Vaticano e del Gianicolo; poi dal ponte e dalla Trionfale
venivano alla via Retta, al Campo Marzio, al teatro di Pompeo, al circo
di Flaminio, ai teatri d'Ottavia e di Marcello, e al circo Massimo;
piegando quindi sulla via Appia, pel Coliseo uscivano sulla via Sacra,
donde al Campidoglio. Le statue rapite alle nazioni vinte, quelle dei
re trionfati, de' grandi uomini e degli Dei contornavano que' magnifici
cammini. Gl'imperatori crebbero le strade per portare gli ordini e gli
eserciti alle estremità dell'impero; e quarantotto ne contava la sola
Italia, nove la Sicilia, sei la Sardegna, una la Corsica.
L'ispezione delle strade spettava ai censori, che spesso vi diedero
il proprio nome; dappoi ai tribuni della plebe; più tardi a curatori
speciali: le spese erano decretate dal senato, o da individui che ne
traessero vantaggio, o volessero gratificarsi il popolo. Cajo Gracco
avea fatto collocare pietre miliari, indicanti la distanza da Roma
o dai punti principali; e lungh'esse situavansi pure i sepolcri, in
vista, anziché sotterranei come quei de' prischi Italioti. V'erano
anche _cauponæ_ e _tabernæ_, ma forse ad uso soltanto della poveraglia:
del resto quando Orazio peregrinò a Brindisi, nella città di Mamurra
gli prestarono Murena la casa, Capitone i cuochi; prima d'arrivare al
ponte di Campania, pernottò in una villa, dove i provveditori imperiali
lo fornirono di legna e sale, secondo il loro dovere; in un'altra
villa presso Trivico fu affumicato da fascine verdi, e deluso da una
fanciulla[372].
Alle città in generale davasi la forma dell'accampamento, cioè un
parallelogrammo, per lo più di un quadrato e mezzo, tagliato pel lungo
e pel traverso da una o due strade; e tali possono riscontrarsi i
primitivi piani di Como, Piacenza, Parma, Pavia, Aosta, Torino; Verona
forma un quadrato.
L'unione di case private, disgiunte dalle vicine, costituiva un'isola;
il complesso di alquante isole, un vico; e molti vichi, una regione.
Solo i gran ricchi potevano abitare un'isola intera, massime da che
il crescente lusso delle fabbriche incarì i terreni. Molti dunque
appigionavano le case; e Marziale abitava a un terzo piano[373]; Silla,
non ancora famoso, pagava lire seicento l'anno di pigione: ma Cicerone
parla fin di tremila sesterzj o seimila lire per un appartamento.
Nelle case de' Romani, modificate tra l'antica italiana e la greca,
erano due parti distinte; una per uso particolare del padrone, una
pel pubblico. Il vestibolo oblungo (_protyrum_) menava dalla strada
in un cortile interno (_cavedium_), scoperchiato nel mezzo. Le acque
piovane erano raccolte sul tetto sporgente, e per lo spazio scoperto
(_compluvium_) cadevano in un bacino rettangolare (_impluvium_), spesso
decorato d'una fontana. A destra e a manca del cavedio disponevansi
le camere: di fronte, una sala aperta verso la corte (_tablinum_)
conteneva gli archivj e i ritratti di famiglia, e il padrone vi
riceveva i clienti, che aspettavano il suo arrivo passeggiando nel
cortile o seduti in salotti (_alæ_): corridoj (_fauces_) mettevano
all'interno della casa. Parte principale erano gli atrj, ignoti ai
Greci; e distinguevansi in _toscani_ quando i tetti fossero sostenuti
solo da travi murate; _tetrastili_ quando avessero quattro colonne
poste sotto ai punti d'intersezione delle travi; _corintj_ quando
le colonne fossero di più; _displuviata_ quando il tetto pioveva
all'infuori; _testudinata_ se affatto coperti.
Il limitare della porta guardavasi con rispetto superstizioso; guaj
l'inciamparvi! vi si scriveano parole di felice augurio, o teneansi
pappagalli e gazze che le ripetessero. Sovra la porta collocavansi
ornati e segni del mestiero che vi si esercitava, od iscrizioni.
Gli usci talvolta faceansi di marmo o di bronzo, e con bottoni,
mascheroni ed altri capricci; in occasione di nozze o di solennità
ornavansi di ghirlande e festoni; gli amanti vi sospendeano fiori;
i cipressi indicavano la morte. Eccetto quelle dei tribuni, stavano
chiuse, nè vi s'entrava senza bussare: nelle case ricche tenevasi il
portiere, incatenato come i nostri cani. Oltre la principale, s'avea
qualche porta di dietro (_postìca_), che riusciva negli _angiporta_ o
vicoli. Di rado si trovano scale, e queste di pietra o di legno come
oggi, fissate nel muro e per lo più buje; onde la frequente frase
d'ascondersi _in scalis_, o _in scalarum tenebris_[374].
La casa in generale non avea finestre o pochissime, e queste piccole
ed alte; talora chiuse con pietre speculari, o con vetri molto grossi e
non trasparenti[375].
Le parti interne comunicavano tutte fra sè mediante il cortile, da cui
le camere riceveano luce per mezzo delle porte: le camere spesso non
erano divise che da traversi o da cortine. Nella biblioteca poneansi le
effigie degli autori, d'oro, argento, bronzo, cera[376].
Da principio il fuoco ardeva nell'atrio, ove e cocevasi e mangiavasi, e
attorno a quello si raccoglievano i numerosi schiavi; dappoi nell'atrio
si tenne un foculo o braciere, dove mettere incensi ai lari[377]:
talvolta riscaldavansi le camere con tubi chiusi nelle pareti o sotto
al pavimento. Per cercare il fresco e meriggiare si aveano appartamenti
sotterranei, che ne' palazzi erano estesi, con molti corridoj e pitture
a fresco e fregi a stucco, i quali da ciò appunto trassero il nome di
_grotteschi._
Ornavansi i palazzi con giardini. Di grandiosissimi n'ebbe Mecenate;
e forse a quei di Lucullo presso Napoli servivano la Piscina Mirabile
di Miseno, e la nuova grotta, riaperta or fa poch'anni nel promontorio
di Coroglio, lunga più di mille metri, alta e larga meglio che
quella di Posilipo. L'arte industriavasi a procurarvi ombre, variare
l'esposizione, intrecciare labirinti, distribuir acque, e nel ridurre
le piante e i cespugli, massime di càrpino e di bosso, in figure
d'animali o di lettere (_ars topiaria_); della quale invenzione
si attribuiva il merito a Cajo Matio cavalier romano, famigliare
d'Augusto. Altre volte i giardini erano pènsili, e Seneca inveiva
retoricamente contro questo dover gli alberi cacciare le radici ove a
stento avrebbero innalzate le chiome[378].
Ai giardini aggiungevansi un viale d'alberi ove passeggiare discorrendo
(_gestatio_), e l'ippodromo per le corse a cavallo. Nè ignoti erano
i tepidarj, dove correnti d'acqua calda mantenevano una temperatura
tale che, a malgrado del verno, vi facessero i gigli bianchi e rossi,
le viole tusculane, le vigne, i poponi e gli alberi da frutto.
Coltivavansi pure delle piante bulbose, il croco, il narciso, il
giacinto, le iridi. A taluno erano unite uccelliere, e Alessandro
Severo n'ebbe una che conteneva ventimila piccioni, oltre fagiani,
pernici, altra selvaggina. Entro piscine conservavansi pesci vivi, con
ingenti spese.
Non dimentichiamo che a nessun palazzo mancava l'ergastolo, destinato a
chiudere gladiatori, atleti, schiavi. I primi, come ben nudriti, così è
a credere fossero anche ben alloggiati; ma gli schiavi si cacciavano la
sera in tane sotterranee, senza distinzione di sessi. Altri ergastoli,
come indica il nome, servivano pei lavori forzati, e in città n'avea di
molti; e talora i passeggieri venivano côlti, e gittati a lavorare in
quelle tane, senza che più se ne sapesse.
Le minori vie metteano sopra le strade grandi, le sole mantenute a
pubbliche spese, e che legalmente doveano farsi larghe non più di otto
piedi romani, che sono due metri e mezzo, e costeggiate da marciapiedi
rialzati, da due in quattro piedi; ben necessarj ove l'angustia appena
permetteva il cambio de' carri, e dove piovendo correva il rigagno.
Sulla strada s'aprivano le botteghe, e spesso in una tutte quelle
d'un esercizio, come a Roma nel fôro i banchieri; nel Vico Tusco e nel
Velàbro i conciatori, profumieri, droghieri, mercanti di stoffe; nella
via Sacra i venditori di minuterie domestiche, di ossetti d'avorio,
di tavolette da scrivere, di stipi di legno prezioso, dadi e tavole
da giocare. Nel 175 avanti Cristo i censori Fulvio Flacco e Postumio
Albino fecero selciare di pietroni le vie interne di Roma, di ghiaja le
esterne, e con margini rialzati[379].
La primitiva Roma occupava sul colle Palanzio appena un miglio
quadrato, colle porte Rumena, Capena, Magonia. Numa Pompilio estese
quel recinto, inchiudendovi il colle Capitolino e la parte più prossima
del Quirinale, e aggiungendo la porta Carmentale, detta Scellerata
dacchè ne uscirono i trecentosei Fabj. Tullo Ostilio cinse anche
il Celio per istanziarvi i vinti Albani; poi Anco Marzio collocò i
Latini sull'Aventino, murandolo. Tarquinio Prisco asciugò il Velàbro,
palude nell'avvallamento tra il Palatino, l'Aventino e il Campidoglio;
e meditava una nuova cerchia di mura, che fu poi compita da Servio
Tullio, aggregando il resto del Quirinale, e i colli Viminale ed
Esquilino, sicchè vi furono compresi sette colli; mentre il Gianicolo
ergevasi di là dal Tevere a guisa di cittadella.
La mura, invasa anch'essa dalle abitazioni, serpeggiava sul ciglio dei
colli: cominciando sulla sinistra del Tevere al fôro Olitorio presso
il teatro di Marcello, e seguendo il lato settentrionale della rôcca
Capitolina, scendeva al sepolcro di Cajo Bibulo, quindi per la valle
che separa il Campidoglio dal Quirinale saliva in vetta di questo verso
le Quattro Fontane, donde secondava il colle lungo il circo di Flora,
piegando poi incontro alla moderna porta Salaria. Quindi cominciava
l'aggere su cui fondata era la mura, e continuava per l'altura
sovrastante ai colli Quirinale, Viminale ed Esquilino fin all'arco di
Gallieno, ove esso argine terminava. Allora, sceso l'Esquilino, la mura
rimontava sul Celio presso al Laterano; indi per la sommità meridionale
del colle, dove ora sta Santo Stefano Rotondo, scendeva a valle tra il
Celio e l'Aventino; coronati i quali, tornava a raggiungere il fiume
là dov'erano e sono tuttora le conserve del sale. Di là dal Tevere le
mura staccavansi dal fiume in due linee rette per congiungersi colla
cittadella gianicolese di Anco Marzio. Vi attribuiscono il giro di otto
miglia, o precisamente 12,500 metri[380].
Ventitre o ventiquattro porte le aprivano: la Flumentana presso il
fiume; la Trionfale, donde entravano i vincitori pigliando la via
Sacra verso il Campidoglio; la Carmentale; la Rumena alle falde
del Campidoglio; una di nome incerto, sull'altura occidentale del
Quirinale; un'altra sul colle medesimo presso il palazzo pontifizio;
la Salutare in vetta ad esso colle, ove ora le Quattro Fontane; una
presso gli orti Sallustiani; la Collina, da cui partivano le vie
Salaria e Nomentana, e fuor della quale stava il Campo Scellerato; la
Viminale nella villa Negroni; l'Esquilina presso l'arco di Gallieno,
donde moveano le vie Prenestina, Labicana, Tiburtina; la Mezia, poco
discosta; la Querquetulana sulla via Labicana presso i Santi Pietro
e Marcellino; la Celimontana presso San Giovanni in Laterano; la
Ferentina sul Celio presso Santo Stefano Rotondo, donde si usciva al
bosco della dea Ferentina, oggi Marino, convegno dell'assemblea dei
popoli del Lazio; la Capena, da cui partivano le grandi strade Appia e
Latina, aprivasi nella gola fra il Celio e l'Aventino, ed era il corso
vespertino degli eleganti; la Nevia, al crocicchio delle vie Aventina
e di Santa Balbina, menava ai boschi Nevj, ricovero de' malfattori;
la Radusculana sotto la chiesa di San Saba, alla falda meridionale
dell'Aventino; la Lavernale sull'Aventino; la Mavale accanto al
bastione di Paolo III; la Minucia sulla sommità dell'Aventino; la
Trigemina, ove è l'arco della Salaria, così detta perchè avea tre
fornici. Quelle del lato occidentale sono incerte.
Dentro e fuori restava uno spazio sacro, detto _pomerium_, che non
potevasi nè edificare nè coltivare. Silla e Cesare estesero il pomerio,
ma non dilatarono la mura.
Augusto partì l'antico recinto di Servio Tullio in quattordici regioni,
che erano: Iª al mezzodì la Capena, ove il tempio dell'Onore, quello di
Marte Estramurano, le terme di Severo e di Comodo; IIª la Celimontana
sul monte Celio, ove la casa de' Laterani, la Mica Aurea fondata da
Domiziano, le scuole de' gladiatori, e il piccolo campo Marzio; IIIª
la Moneta nella valle fra il Celio, il Palatino e l'Esquilino, dove
le terme di Trajano e di Tito, la Casa Aurea di Nerone, le grandi
vie Suburra e Carina, il Colosseo; IVª la Sacra fra l'Esquilino, il
Palatino e il Quirinale, dove i tempj della Pace, di Roma, d'Antonino
e Faustina, il colosso di Nerone, gli archi trionfali di Tito e di
Costantino, la via Scellerata, la Sandalaria abitata da' libraj, la
Sacra dove Orazio solea passeggiare meditando e invanendo[381]; Vª le
Esquilie chiudeano parte dell'Esquilino e il Viminale, coi monumenti
del _Castrum prætorianum_, la casa e i giardini di Mecenate, l'arco di
Gallieno, il _vivario_ delle belve per l'anfiteatro; VIª l'Alta Semita
sul Quirinale abbracciava le terme di Diocleziano e di Costantino,
i tempj di Quirino, del Sole, di Flora, della Salute, i giardini di
Lucullo, di Sallustio, d'altri; VIIª la Lata, fra il Quirinale e il
Campo Marzio, aveva il fôro Suario, il portico di Costantino ed altri
monumenti; l'VIIIª regione era il fôro Romano fra il Capitolino, il
Palatino e il Tevere, e suoi monumenti il Miliario Aureo, il Comizio,
la curia Ostilia, il tempio di Castore, la basilica Porzia, la colonna
Mevia, il tempio di Vesta, i nuovi rostri, il tempio di Saturno, il
Campidoglio, la cittadella, i fôri di Cesare, d'Augusto, di Trajano,
ecc.; IXª il circo Flaminio nella parte più settentrionale, col
mausoleo d'Augusto, il Panteon, il teatro di Balbo, l'anfiteatro di
Statilio Tauro, il teatro di Marcello, la curia di Pompeo, la Villa
pubblica, dove faceasi il censo e si riceveano gli ambasciatori
stranieri; Xª la Palatina col palazzo imperiale; XIª il circo Massimo
fra il Palatino e l'Aventino; XIIª la Piscina pubblica fra l'Aventino
e il Celio; XIIIª l'Aventino, ove faceasi la rivista degli armati
(_armilustrium_); infine il Transtevere, ove i giardini di Nerone, la
Mole Adriana, le terme d'Aureliano. Siffatta divisione durò fino ad
oggi.
Cresciuta Roma di magnificenza e d'estensione sotto gl'imperatori,
Aureliano la cinse di nuove mura laterizie, quali in molti luoghi si
vedono tuttora, all'uopo principalmente d'inchiudervi i nobilissimi
edifizj circostanti al campo di Marte. Staccandosi dalla sinistra
del fiume presso porta Flaminia, la nuova mura ambiva verso oriente
il Pincio, poi il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino, il Celio,
l'Aventino, e allargandosi per abbracciare monte Testaccio, toccava il
fiume; di là dal quale tornava molto più in fuori dell'odierna porta
Portense, donde salendo il fianco meridionale del Gianicolo, fiedeva
alla porta San Pancrazio, per scendere alla Settimiana. Non fu quindi
più la città de' sette, ma dei dieci colli: il Vaticano fu ricinto
soltanto da papa Leone IV, formando la città Leonina.
Nella nuova cerchia Roma ebbe da quindici miglia di giro, con
trentasette porte, che mettevano ad altrettanti sobborghi, e da
cui partivano trentuna strade militari. In quel ricinto contavansi
ventotto biblioteche, otto ponti, otto campi, dieci terme, venti
acque, diciotto vie, due campidogli, due circhi, due anfiteatri, tre
teatri, tre ludi, cinque naumachie, quindici ninfei, due colossi,
due colonne cocliti, sei obelischi, ventidue grandi cavalli, sette
Dei d'oro e settantaquattro d'avorio, trentasette archi di marmo,
quattrocenventitre vichi, quattrocenventidue palazzi (_ædes_),
mille settecentonovanta case maggiori, quarantaseimila seicentodue
isole, col qual nome, se pure la cifra non fu letta in fallo, non
potrebbero intendersi che le case minori; ducentonovanta granaj,
ottocentocinquantasei bagni, mille trecencinquantadue pozzi,
ducencinquantaquattro forni, quarantasei lupanari, quattrocento
cloache, cenquarantaquattro latrine.
Dei diciassette fôri o piazze, quattordici servivano per mercati
diversi (_venalia_), gli altri per gli affari (_civilia et
judiciaria_). Il più antico era il Romano, ove si teneano le arringhe
sulla tribuna ornata dei rostri tolti alle navi cartaginesi. Il fôro di
Cesare, presso campo Vaccino, costò un milione di sesterzj. Augusto nel
suo fece il tempio di Marte Vendicatore, intorniato di doppia galleria,
colle statue de' re latini da un lato, de' re romani dall'altro.
Domiziano cominciò quello di Nerva, dove poi Alessandro Severo pose
colossi degli imperatori e colonne di bronzo.
Alla vita pubblica d'allora s'addicevano i portici, formati di colonne
che sostengono un soppalco, disposte a più schiere; talvolta erano
indipendenti da qualunque altro edifizio; da poi si chiusero con
ricinti, e presero nome di basiliche. La prima basilica pubblica si
edificò sotto la censura di Porcio Catone il 569 di Roma, onde fu detta
Porcia; e tanto piacque che in vent'anni se ne costruirono tre nuove,
vicino al fôro, poi altre altrove, e anche per tutta Italia. Servivano
ad usi pubblici, come di borsa e di tribunale, a tal uopo finendo in un
semicircolo o abside, dove collocavasi il pretore sulla sedia curule,
circondato dai numerosi giudici e dagli avvocati. Dieci n'aveva in
Roma, la Giulia, la Vestilia, la Nettunia, la Matidia, la Marciana,
la Vascolaria, la Floscellaria, quelle di Paolo e di Costantino, e di
tutte più famosa la Ulpia, opera di Trajano, che abbiamo pur dianzi
descritta.
Noi ci badammo su questi particolari perchè, oltre essere la metropoli
del mondo, Roma serviva di modello anche alle altre città dell'impero;
sebbene non sia dimostrato quel che taluni asseriscono, che in ciascuna
vi avesse e fôro e teatro e circo e ginnasio e bagno e campidoglio,
colle forme e coi nomi medesimi della capitale.
E più ne sapremmo se degli scrittori d'arte ci fosse restato altro
che il solo Marco Vitruvio Pollione. Di patria e di casa ignoto, e
probabilmente schiavo greco, se argomentiamo dal suo scrivere cattivo
e ingombro di grecismi, da Augusto fu adoperato alle macchine militari:
ma de' fatti suoi nulla si saprebbe se egli stesso non avesse scritto.
Più maestro che artista, più ingegnere che architetto egli si mostra,
nè di gran valentìa dà saggio la basilica in Fano, unica che si ricordi
da lui architettata.
Molti avendo scritto d'architettura ma confusamente, egli pensò
ridurre in corpo compiuto quella scienza, e ciascuna parte in singoli
libri. E secondo si esprime ne' preamboli, nel primo spiega i doveri
dell'architetto e le cognizioni a lui necessarie; nel secondo i
materiali; nel terzo la disposizione de' tempj coi varj ordini, e la
distribuzione delle parti; nel quarto tratta specialmente dell'ordine
jonico e del corintio; nel quinto reca la disposizione degli edifizj
pubblici; nel sesto delle case private; nel settimo degli intonachi
onde abbellire ed assodare gli edifizj; nell'ottavo del trovare e
condur l'acqua; nel nono di differenti processi pratici e di cose utili
alla vita, come il peso specifico, la costruzione delle meridiane,
i rapporti del diametro col circolo, del lato colla diagonale del
quadrato; il decimo discorre delle macchine sì per fabbrica, come per
elevar l'acqua e per la guerra.
Ma il _Trattato d'architettura_ qual oggi l'abbiamo, è probabilmente
una compilazione, poco diversa da quella di Plinio, fatta da qualcuno
mal pratico, e che non avea visto co' proprj occhi i monumenti di
Grecia. Nell'esecuzione spesso confonde i soggetti, ed è peccato che
le figure che accompagnavano il testo siano perdute[382]. Scarso di
critica e filosofia, di stile vulgare, arido e spesso oscuro anche per
minutezza di particolari, a tacere i guasti venutigli dagli amanuensi,
va consultato con grande cautela, e confrontato cogli edifizj ancora
riconoscibili: ma se sarebbe servilità il prostrarsi a' suoi precetti,
è certo che, oltre le squisite notizie, di ottimi egli ne desume
dall'osservazione. Sopratutto raccomanda all'architetto lealtà e
disinteresse; ed egli medesimo si fa amare per la candida intenzione
con cui scrive.
Turpilio, cavaliere della Venezia ai tempi di Plinio, è il solo nobile
romano che coltivasse la pittura, la quale da Plinio stesso è definita
arte morente[383], benché ad alcuni egli sia cortese d'encomj; come
ad Amulio per una Minerva, la quale guardava l'osservatore dovunque
si mettesse[384]; meschina lode! Quinto Pedio, d'illustre famiglia,
era muto, e perciò l'oratore Messala s'accordò con Augusto di fargli
imparar la pittura; e riusciva bene se morte non l'avesse rapito.
Primeggiava tra i colori il cinabro, che Plinio pretende fatto col
sangue di un drago schiacciato da un elefante morente, in modo che i
due sangui si mescolassero[385]; e probabilmente era succo d'una palma.
Il minio era stato scoperto quattro secoli avanti Cristo nelle cave
d'argento d'Efeso: e per carezza e nobiltà gareggiava con esso il
purpurissimo, composto col liquore estratto dai murici che pescavansi
in riva al Mediterraneo. Sul golfo di Napoli manipolavansi minerali
indigeni e importati per uso di colori, quali l'azzurro denominato
fritta di Pozzuolo, e la porpora.
Si dipingeva per lo più sul legno; talvolta sulle pareti. Per animali e
fiori e dove occorresse maggior illusione, usavasi l'encausto; cioè (se
pure fra tante discrepanze possiamo prometterci lume di vero) con ferro
caldo tracciavansi i contorni sopra tavolette di avorio, o stendeasi
la cera colorata sopra il legno o l'argilla, ovvero con un pennello
intinto in cera e pece si dipingevano tavole. La pittura a fresco non
pare fosse conosciuta, male colla calce fresca accoppiandosi le lacche,
il bianco di piombo, il minio, l'orpimento, colori consueti degli
antichi.
Composizioni storiche ricorrono frequenti negli archi e sulle medaglie,
ma rare ne' dipinti; e di tanti che n'ha il museo Borbonico, soli
Sofonisba e Massinissa, e la Carità Greca tengono alla storia. Le
scene di vita domestica e civile sono sempre accompagnate da esseri
simbolici, come Amore, la Vittoria, Minerva. Altre volte figuravansi
sacrifizj, o processioni sacre, o giuochi ginnastici, e spesso
oscenità.
Il marmo di Luni, che oggi diciamo di Carrara, è un calcare bianco,
leggermente cristallino, senza fossili, del periodo secondario del
calcare giurassico: se non per durezza, per candore supera i più belli
d'Egitto e di Grecia, non eccettuato il marmo pario, a detta di Plinio,
che lo asserisce scoperto poco prima, e fu adoperato a tutte le opere
grandiose, ove prima usavansi il gabinio, l'albano, il tiburtino.
Il porfido, così detto dal suo colore di fuoco (πυρ), è d'un rosso
bruno mischiato, constando di silice combinata coll'allumina e la
potassa, e molto ferro ossidato, e cristalli di quarzo. Non si sapea
donde gli antichi lo traessero; ma gl'inglesi Burton e Wilkinson nel
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