Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 21
quanto si passioni per l'autore chi invecchiò nel trovargli meriti che
non aveva[321]. Nè in Marziale si riscontra mai sentimento profondo;
e a quel continuo frizzo o triviale o scipito o lambiccato nessun
reggerebbe, se non fosse la lingua che per lo più va corretta ed
espressiva, quanto poteasi là dove ogni spontanea ispirazione era
sbandita dalla paura di spiacere ad ombrosi regnanti, o a schizzinosi
protettori.
Pure la natura de' suoi lavori, istantanei di concetto come
d'esposizione, lo salva da uno dei difetti più usuali a' suoi coetanei,
il farsi pallidi riflessi degli scrittori del secolo d'Augusto. Nella
baldanza della sua immaginativa, inventa modi nuovi ed efficaci, e
innesta felicemente ciò che gli stranieri introducevano nello idioma
della dischiusa città; ed estendendosi alla vita reale e a tutto il
mondo romano, ci porge preziose indicazioni sui tempi, sui caratteri,
sulle usanze.
Di Spagna venne pure a Roma Marco Anneo Lucano (38-65), ed ebbe tutte
le fortune desiderabili; nipote di quei Seneca che davano il tono
alla società letteraria, allievo di que' grammatici e retori che
pervertivano la felice disposizione degl'ingegni. Seneca lo esercitava
a comporre ed amplificare senza pensieri nè sentimenti, fomentandone la
lussureggiante facilità, invece di sfrondarla, ed esponendolo a quelle
pubbliche recite, ove, recando noja, si buscavano applausi. Nerone
suo condiscepolo lo fece questore prima del tempo, legato, augure; ma
Lucano, avvezzo da fanciullo ai trionfi, osò competere coll'imperatore
e vincerlo: Nerone gli proibì di più leggere in assemblea, e il poeta
indispettito tenne mano alla congiura di Pisone. Scoperto e preso,
denunziò gli amici e la madre; ma invano colla viltà tentato conservare
la vita, la lasciò eroicamente (pag. 112).
Il trovarsi perseguitato dispensavalo dalle uffiziali codardie e
dalle accademiche fanciullaggini: chiuso nel suo gabinetto, poteva
comporre originale: e di fatto egli ritrae del suo tempo più di quegli
altri imitatori, ma non ne palesa che la depravazione del gusto, lo
sfiancamento delle credenze.
Chi attribuisce l'inferiorità della _Farsaglia_ all'avere scelto un
soggetto troppo vicino, che impediva al poeta le finzioni, essenza
della poesia, trae storte deduzioni da arbitrarj principj. Buon
soggetto d'epopea sono le guerre tra nazioni forestiere, mentre le
lotte di dinastie e le guerre civili e le interne commozioni di Stati
convengono meglio alla rappresentazione drammatica. In Lucano non ci
è presentato che il medesimo popolo, diviso in due; due protagonisti
troppo vicini e somiglianti; sicchè i fatti non han più una distinzione
abbastanza evidente. Inoltre vuolsi che l'epopea presenti una lotta
più d'entusiasmo che di calcolo, e che trovi la ragione e la sequela
nella storia universale, come quella dei Greci contro gli Asiatici,
de' Cristiani contro i Turchi, dei Portoghesi contro gl'Indiani: e
qui pure difetta Lucano, poichè la guerra fra Pompeo e Cesare, da lui
cantata, è lotta di due sistemi meramente accidentali; e vinca l'uno o
l'altro, l'umanità non v'avrà che vantaggi speculativi. Il che viepiù
risulta dacchè Lucano non seppe nei due capi personificar la parte che
ciascuno sosteneva, e darvi quell'individualità viva, per cui tutte le
azioni esterne son ricondotte al carattere interno, alla coscienza,
alla risoluzione. Egli poi frantese il soggetto fin a credere che
una battaglia avrebbe potuto ristabilire l'antica repubblica, cioè
rassodare la tirannide dei patrizj sopra la plebe. Qual eroe di
poema cotesto Pompeo, mediocre sempre, più ancora nell'ultima guerra,
ove misurava se stesso dalle adulazioni che lo avevano abbagliato?
Cesare, forse il più grande dei Romani, insignemente poetico per
l'infaticabile ardimento e per la popolarità, è da Lucano svisato; e
per rappresentarlo come un furibondo ambizioso, il quale nel dubbio
s'appiglia sempre alla via più atroce[322], ricorre a particolari
insulse quanto bugiarde: in Farsaglia fa che esamini ogni spada, per
giudicare il coraggio di ciascun guerriero dal sangue ond'è lorda;
spii chi con serenità o con mestizia trafigge; contempli i cadaveri
accumulati sul campo, e neghi ad essi i funebri onori; e imbandisca sur
un'altura per meglio godere lo spettacolo dell'umano macello. Ma può
far con questo che Cesare non appaja il protagonista dell'azione? e di
Pompeo vede altro il lettore se non le blandizie onde lo careggia il
poeta, col tono stesso onde piaggiava Nerone?
Lavorando di partito non di giudizio, impicciolisce le grandi contese
coll'arrestarsi attorno ad accidenti momentanei; come nelle gazzette,
tu vi ritrovi esaltate le piccole cose, non capite o vilipese le
maggiori, trattenuta l'attenzione su particolarità inconcludenti, e
sviata da ciò che è capitale; nè vi riconosci il cuor dell'uomo colle
mille sue rinvolture, colle infinite gradazioni fra cui ondeggia
la natura umana, ma inflessibili virtù o mostruose tirannie. Quasi
non basti l'orrore d'una guerra _più che civile_, devono vedersi le
serpi andare in frotta pei libici deserti; le piante d'una selva non
cadranno sebben recise, tanto son fitte; nelle battaglie, stranamente
micidiali, a ruscelli scorrerà il sangue, i morti resteranno in piedi
tra le file serrate, piaghe apriransi come l'antro della Pitia, il
grido dei combattenti tonerà più che il Mongibello. Al modo dei retori,
moltiplica descrizioni e digressioni di tenuissimo appiglio: e per
verità in queste soltanto si mostra poeta; ma scarso di giudizio e
di gusto, al difetto di varietà vorrebbe supplire coll'erudizione,
all'entusiasmo e alla dignità colla ostentazione di massime stoiche,
al sentimento della natura morale colle particolarità della materiale.
Spesso ancora il pensiero è appena abbozzato o incomprensibile:
uniforme il color negro, talora esercitato sopra particolarità
schifose, sopra analisi di cadaveri in decomposizione, sopra una maga
che stacca un impiccato dalla forca, snodandone la soga coi denti, e
ne fruga gl'intestini, e resta sospesa pei denti a un nervo che non
si vuol rompere[323]. Il verso, talora magnifico, più spesso va duro
e contorto: soverchie le particolarità, dalle quali se egli mai si
solleva al grande, dimentica l'arte di arrestarsi e travalica. Chi
di noi non si sentì infervorato a quel suo ardore di libertà, alla
franchezza stizzosa delle parole? ma se ti addentri, non vi trovi nulla
meglio di quel che tutti i Romani colti d'allora provavano, aborrire le
guerre civili per ignavia o spossatezza; ribramare l'antica repubblica,
non per intelligenza delle istituzioni sue, ma perchè come esercizj di
scuola i pedanti proponevano gl'innocui elogi di Bruto e di Catone ai
futuri ministri di Nerone e Domiziano.
Era frutto naturale delle costoro discipline un poema dove o si
vituperassero gli Dei imputandoli delle sventure della patria, o
s'imprecasse alle discordie cittadine, osservate nel loro aspetto più
superficiale, l'uccidersi cioè tra padri e fratelli; salvo a lodare
le intempestive virtù di Catone che a quelle tanto contribuì, e
preporre il giudizio di lui alla decisione degli Dei[324]. E agli Dei,
cui Roma più non credeva, non era possibile attribuire un'azione in
quell'epopea, laonde il poeta vi surrogò un soprannaturale del genere
più infelice: ed ora la patria, in sembianza di vecchia, tenta rimover
Cesare dal Rubicone; ora i maghi resuscitano cadaveri per cavarne
oracoli; ora indovinamenti di Sibille, o presagi naturali; e mentre
s'impugna la provvidenza[325], adorare la fatalità, che esclude e la
rassegnazione e la speranza; incensar la Fortuna, diva arbitra degli
umani avvicendamenti, al fondo de' quali non v'è che la desolazione
e il nulla. È conseguente se preconizza la morte come un bene che
dovrebbe concedersi solo ai virtuosi[326], un bene perchè assopisce
la parte intelligente dell'uomo, e lo conduce non nel beato Eliso ma
nell'oblivioso Lete[327].
Ci dicono che bisogna scusarne i difetti perchè morte gli tolse di dar
l'ultima mano. Ma la lima avrebbe potuto mutare il generale concetto?
dargli i dolci lampi d'un'immaginazione vera, d'un affetto sincero? e
pari sventura non era accaduta a Virgilio? Però la lingua epica che
Virgilio aveagli trasmessa di prima mano, fu da Lucano pervertita,
come la prosastica da Seneca; ciò che il primo avea detto con limpida
purità, egli contorce ed esagera; affoga tutto in una pomposa miseria
di voci, d'antitesi e di ampolle, dove sempre la frase è a scapito del
pensiero, l'idea è sagrificata alla immagine, il buon senso all'armonia
del verso.
Eppure di fantasia e di facoltà poetica era meglio dotato che Virgilio:
ma questo ebbe l'accorgimento di gettarsi su tradizioni non discusse e
care ugualmente a tutta la nazione; Lucano si fermò ad un fatto, su cui
discordavano opinioni e interessi. Virgilio adulò, ma più Roma ancora
che i suoi padroni; Lucano, rassegnato ad obbedire a Nerone, esaltava
uno che non era l'uom del popolo, e che al più destava simpatie
patrizie. Virgilio fece egli stesso il suo poema; il poema di Lucano
fu fatto da quelle conventicole d'amici e compagnoni, che guastano
colle censure e colla lode. Virgilio covò nel segreto l'opera propria,
e tanto ne diffidava, che morendo ordinò di darla alle fiamme: Lucano,
ebbro degli applausi riscossi ad ogni recita, assicurava se stesso
che i versi suoi, come quelli d'Omero e di Nerone, sarebbero letti in
perpetuo[328], e morendo li declamava, quasi per confermare a se stesso
che, chi gli toglieva la vita, non gliene torrebbe la gloria. Virgilio
rimarrà il poeta delle anime sensitive: Lucano sarà il precursore
di quella poesia satanica, che vantasi invenzione del secol nostro,
nudrita di sgomenti e di disperazione, di tutto ciò che spaventa
o desola, e che compiacesi di scandagliar le piaghe dell'anima,
dell'intelligenza, della società per istillarvi il veleno della beffa e
della disperazione.
E noi tanto rigore gli usiamo perchè quei difetti sono pure dell'età
nostra, e perdettero e perderanno altri eletti ingegni.
Nè più che qualche lode di stile concederemo ad altri epici, i quali,
sprovvisti del genio che sa e inventare e ordinare, sceglievano i
soggetti non per impulso di sentimento, ma per reminiscenza e per
erudizione, e sostenevansi nella mediocrità coi soliti ripieghi
dell'entusiasmo a freddo, e colle descrizioni, abilità di chi non
ha genio. Tutto ciò che è mestieri ad un poema, tu trovi negli
_Argonauti_ (111) di Cajo Valerio Flacco padovano, nulla di ciò che
vuolsi ad un poema bello; non il carattere dei tempi, non l'interesse
drammatico, non la rivelazione del grande scopo di quell'impresa,
degna al certo d'occupare una società forbita e positiva. Non lascia
sfuggire occasione di digressioni; accumula particolarità di viaggi,
d'astronomia; con erudizione mitologica portentosa sa dire appuntino
qual dio o dea presieda alle sorti di ciascuna città od uomo, quanti
leoni figurino nella storia d'Ercole, in qual grado di parentela stia
ogni eroe coi numi, e la precisa cronaca degli adulterj di questi; e
l'espone senza nè l'ingenuità de' primi tempi che fa creder tutto, nè
la critica degli avanzati che investiga il senso recondito. Anche nello
stile barcolla fra le reminiscenze de' libri e l'abbandono famigliare,
che però non lo eleva alla naturalezza. Messosi sulle orme del greco
Apollonio da Rodi, corre meglio franco ed elegante quando se ne
stacca[329].
Più accortamente Cajo Silio Italico (25-95), di Roma o d'Italica
in Ispagna, scelse a soggetto la _Guerra punica_; ma sfornito
d'immaginazione, farcisce in versi ciò che da Polibio fu narrato sì
bene, e da Livio in una prosa senza paragone più ricca di poesia che
non l'epopea di Silio. Il quale, ligio alla scuola, v'aggiunse di suo
un soprannaturale affatto sconveniente, e finzioni inverosimili che
per nulla rompono il gelo perpetuo, mal compensato dall'accuratezza
di alcune descrizioni. Conosceva a fondo i migliori; di Cicerone e di
Virgilio era tanto appassionato, che comprò due ville appartenute ad
essi, ed ogni anno solennizzava il natalizio del cantore di Enea: ma il
suo era culto di divinità morte, e sacrificava la propria intelligenza
per pigiarla in emistichj tolti ai classici, faceva nascere i pensieri
a misura delle parole, e a forza d'erudizione e di memoria riempì
la languida vanità di quell'opera[330], la quale non ha tampoco i
difetti che abbagliano ne' suoi contemporanei, e che da alcuni sono
scambiati per bellezze. Plinio Cecilio, amico e lodator suo, confessa
che _scribebat carmina majore cura quam ingenio_, e che acquistò
grazia appo Nerone facendogli da spia, ma se ne redense con una vita
virtuosa, e tornò in buona fama. Console tre volte, proconsole in Asia
sotto Vespasiano, colle mani monde di latrocinj ritirossi in Campania,
comprando libri, statue, ritratti, curiosità di cui era avidissimo:
ma preso da malattia incurabile, si lasciò morire, come allora parea
virtù.
Terenziano Mauro fece un poema sulle lettere dell'alfabeto, le sillabe,
i piedi e i metri, con tutto l'ingegno e l'eloquenza di cui sì ritrosa
materia poteva essere suscettibile; e giovò a farci conoscere la
prosodia latina, giacchè al precetto accoppiando l'esempio, usa man
mano i versi di cui parla. Lucilio giuniore, amico di Seneca, cantò
l'_Eruzione dell'Etna_. Conosciamo sol di nome i lirici Cesio Basso,
Aulo Settimio Severo, Vestrizio Spurina; e forse sono di quell'età
i distici morali (_Disticha de moribus ad filium_) di Dionisio
Catone, che nel medioevo ebbero molto corso. Le egloghe danno a
Giulio Calpurnio Siculo il secondo posto fra i bucolici latini, ma
ad immensa distanza da Virgilio; non come questo introduce pastori
ideali, sibbene veri mietitori, boscajuoli, ortolani semplici e rozzi,
cui imita fin nei modi di dire. Ha interesse storico la settima, ove
un pastore, tornato da Roma, narra i combattimenti che vi ha veduti
nell'anfiteatro.
Ma in tanti poeti cerchereste invano uno di quei passi sublimi o
patetici, che accelerano il battito del cuore, o dilatano il volo
dell'immaginazione; qualche giusta e viva pittura di caratteri e di
situazioni reali della vita e del cuore. In abbondanza, in dovizia
di sentimenti vincono talvolta quelli del secol d'oro: ma esalano
in sentenze ed immagini, anzichè tener dietro al progresso d'una
passione; pongono l'arte nel voltare e rivoltare l'idea sotto tutti
gli aspetti ond'è capace, vincere le difficoltà descrivendo ciò che
non n'ha bisogno; e dove la parola propria o qualche calzante epiteto
basterebbero, sfoggiano scienza ed anatomia, che guastano l'effetto
dell'immaginazione, e tolgono il bello col mostrare d'andarne in
caccia.
Prediletto spettacolo erano ancora il circo e la ginnastica, portati
all'eccesso; Caligola, Caracalla, perfino Adriano scesero nell'arena;
Comodo assaliva colla spada gladiatori armati di legno; si vollero
atleti che si colpissero alla cieca; Domiziano fece lottare nani e
donne; sotto Gordiano III, duemila gladiatori ricevevano stipendio
dal pubblico; nel circo offrironsi battaglie d'interi eserciti, ed
una navale da Elagabalo in canali ripieni di vino. Di mezzo a questi
sanguinosi clamori poteva prosperare l'arte drammatica? Meglio fu
favorita la pantomima, ove gl'imperatori non aveano a temere i fulmini
della parola.
Alcune tragedie, gonfie di declamazioni e vuote di quel che appunto
costituisce il dramma, cioè l'azione, la vita animata, corrono sotto
il nome di Seneca: ma sono opera d'uno o più Stoici, d'immaginazione
senza giudizio, d'ingegno senza gusto, i quali fan parlare e morire la
vergine Polissena e il fanciullo Astianatte come un Catone in Utica;
eppure vi spruzzolano le empietà di moda, proclamando che tutto finisce
colla morte[331]. Passione falsa, contraddittoria, sempre esagerata e
nel bene e nel male; preferita la dipintura del furore, i caratteri
atroci, i colori strillanti alla tranquilla armonia de' quadri e al
graduale procedere delle passioni; fin dal cominciamento lo spettatore
deve restare attonito, atterrito, nè mai trovar riposo. Le donne
medesime hanno musculatura maschile, forsennati furori, amor materiale,
tanto che Fedra invidia Pasifae, esclamando, — Almeno ella era amata!»
Destinate alle solite declamazioni non al teatro, in quelle tragedie
non sono nè concatenate le scene, nè variati i caratteri, nè
giustificate le situazioni; bensì tragicamente coloriti i racconti, e
sparsi di modi e pensieri arditi e franche sentenze, che quantunque
ivi si trovino per lo più fuor di posto, parvero degne d'imitazione
a Corneille, a Racine, ad Alfieri, a Weisse. Forse da esse venne alle
moderne tragedie quell'aria di declamazione che tanto le slontana dai
greci modelli, e quelle risposte concise ed epigrammatiche, le quali
dappoi sembrarono bellezze[332].
Non l'espressione de' sentimenti dell'anima, come nella lirica; non
la magnifica esposizione, come nell'epopea; ma un'idea generale del
bene, applicata argutamente a particolarità moderne, costituisce la
satira. Era perciò eminentemente propria de' Romani, che dietro di sè
aveano un'età, popolarmente dipinta come sobria e pudica; sicchè viepiù
risaltava il disaccordo fra la morale astratta e il mondo reale.
Ma la pericolosa abilità della satira rado giova o non mai, produce
nemici, e trae spesso a saettare ciò che maggiormente rispettar
si dovrebbe, la virtù, le profonde convinzioni, la disinteressata
attività. Solo un cuore benevolo e la evidente intenzione del
miglioramento possono acquistarle lode: or questo trovasi nei satirici
latini? Essi meritano speciale attenzione, perchè un tal genere più
d'ogni altro risente l'influsso del tempo, da cui trae la materia,
i colori, la vita. All'età di Mario, quando gran parte ancora
conservavasi dell'antica rozzezza, quantunque la digrossassero le
mode greche, e al vizio, irruente coll'allettamento della novità, si
opponeva la sdegnosa repressione delle antiche virtù, comparve Lucilio,
che con modi plebei e festività plateale e sali caustici più che
lepidi, attaccò men tosto i difetti che le persone di qualunque grado
o stirpe. Al tempo d'Orazio, la civiltà greca era prevalsa col corredo
de' vizj eleganti, e colla conseguenza delle guerre civili, delle
proscrizioni, del mutamento di repubblica in impero. Dove era riuscita
inefficace la disciplina dei censori, poteva il satirico lusingarsi di
porre un freno alle voluttà, al lusso, all'ingordigia? Orazio, il cui
fino gusto comprendeva che la cosa da evitare di più è l'inutilità,
s'accontentò di porgere verità d'esperienza, precetti parziali di
qualità casalinghe, lezioni minute che s'imparano solo coi capelli
bianchi: ma ingegnoso a scorgere i difetti, arguto a dipingerli, non si
propone di farli aborrire; vuol trovare di che ridere, anzichè condurre
altrui all'austerità; imitando Augusto nel lodare le virtù vecchie
ed abbracciare i vizj nuovi, alla corruzione fa omaggio col mostrare
d'abbandonarvisi egli stesso a capofitto. In lui trapela il sereno
d'una società che si rallieta dopo lunghi patimenti, si riposa da fiere
convulsioni, e promettesi lunga durata; e Orazio, non mordendo, ma
solleticando, mira piuttosto a smascherare quelli che si danno aria
di virtuosi, e avvezzare ad un viver tranquillo e gajo, a sprezzar
le ricchezze, la potenza, tutti que' desiderj che turbano la calma;
accontentarsi del proprio stato, e cogliere fiori in sulla via.
I tempi erano peggiorati col sistema imperiale, e alla corruttela
traboccante non poteasi opporre che il ferreo argine dello stoicismo,
irreconciliabile col vizio, armato di inflessibili sentenze. Decimo
Giunio Giovenale (42-122?), ispirato dal dispetto, non ride, ma si
corruccia; non saltella da cosa a cosa, ma fila la sua tesi a modo
dei retori, severo per proposito fin nella celia. Se però t'addentri,
sotto la generosa indignazione scopri un declamatore, onesto se vuoi,
ma che calcola sempre, non sente mai; protesta vigorosamente contro
la corruzione, ma quando sotto Trajano la franchezza non recava
pericolo; e sentenzia di pazzo chi per compiere una grande azione
mette a repentaglio la sicurezza proveniente dall'oscurità o dalla
scempiaggine: e quel suo finire una violenta declamazione con una
comparazione arguta o con una lambiccata[333], ti lascia in dubbio s'e'
parli da senno o da beffa.
Nelle sedici sue _Satire_ intende abbracciare tutto quel che gli uomini
pensano, fanno, patiscono[334]. Nella prima rimpiange l'antica libertà
della parola; ond'egli, per cansar pericolo, l'accoccherà solo a morti.
La seconda rimorde i filosofi, severi all'esterno, corrotti dentro;
e i grandi, modelli di depravazione. Delle più vive è la terza, ove
ritrae gl'impacci di Roma e gli scomodi d'una metropoli. Una mette in
canzonella i senatori, gravemente convocati da Domiziano per decidere
sul migliore condimento d'un pesce: una le donne vane, imperiose,
dissimulate, libertine, avide, superstiziose: una chi ripone la nobiltà
nei natali, non nel merito. Or invitando un amico a cena, gli porge
la distinta dei cibi, per elogio della frugalità e rimprovero del
lusso; or festeggia un amico scampato dal naufragio, e perchè non si
creda interessata la gioja, assicura che quello ha figli, donde si fa
passaggio a ritrarre gli artifizj con cui si uccellava alle eredità de'
celibi[335].
Egli ci mostra Roma piena di Greci, che, capitati con un carico
di fichi e prugne, si posero ad ogni mestiero; grammatici, retori,
geometri, pittori, medici, auguri, saltambanchi, maghi, adulatori
che lodano i talenti d'uno scemo, pareggiano ad Ercole uno sciancato,
encomiano vilmente e son creduti, e si vendicano della vinta patria col
corrompere la vincitrice. Al cliente, coricato al desco col patrono,
tocca la continua umiliazione di vedere a questo il pan buffetto e il
vin pretto o l'acqua limpida; a sè una focaccia di farina muffa, acqua
fangosa, e il profumo dei frutti e delle delicature, e le celie del
signore, per corteggiare il quale egli innanzi l'alba lasciò moglie
e figli, e venne a batter la borra sul freddo lastrico del palazzo.
Il ricco ammira il poeta, gli presta la sala per leggere i versi, e i
liberti per applaudirlo, ma poi lo rimanda a dente secco: lo storico
riceve poco più d'uno scrivano: al grammatico è decimato il salario
dall'ajo o dall'economo. È di moda l'avvocato che si fece fare il busto
e la statua, che ha otto portinaj e non so quanti anelli, e la lettiga
dietro e un codazzo d'amici: mentre l'altro, il quale non è che onesto,
riceve in premio delle sue fatiche un prosciutto secco, cattivi pesci,
e vino colla punta; o se tocca una moneta, dee dividerla coi mediatori
che gli procurarono l'avventore.
Tutto ciò espone Giovenale in tono di predica e febbricitando
d'indignazione, con amara beffa e stizzoso flagello. Ingegno nello
scegliere le circostanze, robustezza nel colorire non gli mancano;
nelle composizioni d'età matura va più pacato, e lascia prevalere
il riso allo sdegno; adopera linguaggio dotto, copioso, non mai
vulgare. Chi però volesse da lui desumere la vita privata de' Romani,
per riscontro alla pubblica dipinta da Tacito, resterebbe illuso da
quest'onesto mentitore, che vede da falso punto, ed espone iperbolico
e declamatorio. I tempi chiedeano ben altro che il riso d'un poeta:
nè riformarli poteva uno, che, mentre si querela della negletta
religione, la toglie in beffe[336]; che a turpissimi vizj oppone
aforismi cattedratici d'una virtù assoluta, generica, vaga[337]; che
per consolazione ai patimenti non sa suggerire se non il forte animo e
il disprezzo della morte. Messe a nudo le miserie del povero, proprie
di tutte le età o speciali di quella, qual voto fa egli? che tutti i
poveri antichi si fossero da sè esigliati da Roma[338]. Non ne potevano
dunque restar giovati i coetanei suoi: quanto ai posteri, leggendo
si consolano d'esser fatti tanto migliori, ma tornano ad Orazio,
de' cui mezzi caratteri trovano spesso il riscontro ne' mezzi uomini
contemporanei.
Dopo che Orazio diede un esempio inarrivabile di scrivere la satira con
modi piani e popolari (_sermones per humum repentes_), ai successivi
fu rituale uno stile rotto e manierato: ma Giovenale nel verso, nelle
frasi, nelle parole stesse sorpassa tutti per originale rigidezza,
acquisita con assiduo studio; non voce, non passaggio inutile, non
verbo che non cresca vigore, non imitazione che sacrifichi il pensiero
alla frase; nulla di semplice, di affabile; non lingua appresa dal
popolo, ma decretata dai grammatici e dai retori.
Nato ad Aquino, educato nelle solite scuole di declamatori, fin a
quarant'anni attese ai tribunali: avendo poi recitato ad alcuni amici
una satira contro di Domiziano e di un poeta a lui ligio, gli applausi
che ne riscosse lo drizzarono a questo genere. Adriano, credendosi
preso di mira in alcuni frizzi di lui, lo mandò in Egitto già
ottagenario, dandogli per celia il comando d'una coorte. Ivi morì di
noja e di rammarico.
Aulo Persio Flacco (34-62), orfano di famiglia equestre volterrana, a
dodici anni venne a Roma sotto i soliti sciupateste; ma a ventott'anni
morì. Anneo Cornuto suo maestro ne pubblicò le satire, sopprimendo ciò
che credette cattivo o pericoloso; ed eccitarono viva ammirazione,
forse per quel sentimento che tante speranze fa sorridere dalla
tomba d'un giovane. Ma l'esperienza e le correzioni avrebbero potuto
togliervi l'affettata pienezza, o dargli l'immaginazione, senza cui
poesia non è?
Sarebber esse a dire un sermone solo, trinciato poi dal suo
raffazzonatore in sei prediche sopra soggetti morali, oltre una
prefazioncella. Nella prima, egli burla il ticchio di far versi
e il mal gusto in giudicare: nella seconda, dardeggia la frivola
incoerenza de' voti onde i mortali sollecitano gli Dei: nella terza,
i molli giovani aborrenti da ogni seria occupazione: la quarta morde
la presunzione onde tutti credonsi capaci di tutto e principalmente
di governar gli Stati: nella quinta esamina qual uomo sia veramente
libero, e conchiude il savio: l'ultima punge gli avari, che negandosi
il necessario, accumulano per eredi scialacquatori.
Come Orazio, Giovenale avea dedotto le sue satire dall'osservazione
propria, dalla conoscenza della vita: Persio invece soltanto dalle
scuole. Guasto nel midollo dallo stoicismo di queste, sprezza non
solo il superfluo, ma il necessario[339]; fa colpa del più innocente
atto, se la ragione non vi assenta[340]; all'uomo intima non esser lui
libero, perchè ha passioni; condanna i raffinamenti della civiltà, il
vestir bene e l'usare profumi.
Ah! ben altri vizj deturpavano il suo tempo; infamia di delatori,
avvilimento del senato, insolenza di liberti, stravizzo e bassezza
di tutti. Ma Persio non sapeva nulla di ciò, perchè nulla gliene
avevano detto nella scuola; solo udito in generale che il secolo era
corrotto, si prefigge di manifestare il suo ribrezzo con aerea e filata
discussione da gabinetto, sovra argomenti prestabiliti, non su quelli
che, cadendogli sott'occhio, lo stizzissero od ispirassero. Con quella
superba generosità vede e parla esagerato; insiste sulla medesima tesi,
comunque simuli arditi passaggi e dure inversioni; cerca minuzie e
sottilità e figure retoriche e tropi, anche quando sembra passionato.
Orazio, uom di mondo, urtante e riurtato dagli uomini, è sempre
l'autore del momento, nè diresti avesse già pensato jeri a quel che
getta sulla carta allorchè il vizioso o il malaccorto gli dà tra'
piedi; ti porta sul luogo; al vizio attribuisce persona e nome, sicchè
tu lo conosci, e le particolarità sfuggono meno alla mutata posterità.
Persio invece sta sulle generali, con pitture vaghe e costumi e scene e
personaggi indeterminati; argomenta scolasticamente ove gli altri due
discorrono saltuariamente; e le poche volte che cerca il drammatico
andamento di Flacco, diventa oscuro ancor più dell'usato; talchè
l'attribuire le botte e le risposte a quest'interlocutore piuttosto che
a quello, è laborioso indovinamento de' commentatori. Ai quali pure diè
fatica quel suo stile ambizioso, ove mancando sempre d'immagini, e non
sapendo vestire i concetti filosofici reconditi, la sterilità delle
idee dissimula sotto una lingua bizzarra, congegnata di parole piene
pinze. Il suo verso è sonoro, ma spesso ambiguo: e se Lucilio imitò i
Greci, e Orazio imitò Lucilio, Persio imita Orazio, catena nella quale
non aveva[321]. Nè in Marziale si riscontra mai sentimento profondo;
e a quel continuo frizzo o triviale o scipito o lambiccato nessun
reggerebbe, se non fosse la lingua che per lo più va corretta ed
espressiva, quanto poteasi là dove ogni spontanea ispirazione era
sbandita dalla paura di spiacere ad ombrosi regnanti, o a schizzinosi
protettori.
Pure la natura de' suoi lavori, istantanei di concetto come
d'esposizione, lo salva da uno dei difetti più usuali a' suoi coetanei,
il farsi pallidi riflessi degli scrittori del secolo d'Augusto. Nella
baldanza della sua immaginativa, inventa modi nuovi ed efficaci, e
innesta felicemente ciò che gli stranieri introducevano nello idioma
della dischiusa città; ed estendendosi alla vita reale e a tutto il
mondo romano, ci porge preziose indicazioni sui tempi, sui caratteri,
sulle usanze.
Di Spagna venne pure a Roma Marco Anneo Lucano (38-65), ed ebbe tutte
le fortune desiderabili; nipote di quei Seneca che davano il tono
alla società letteraria, allievo di que' grammatici e retori che
pervertivano la felice disposizione degl'ingegni. Seneca lo esercitava
a comporre ed amplificare senza pensieri nè sentimenti, fomentandone la
lussureggiante facilità, invece di sfrondarla, ed esponendolo a quelle
pubbliche recite, ove, recando noja, si buscavano applausi. Nerone
suo condiscepolo lo fece questore prima del tempo, legato, augure; ma
Lucano, avvezzo da fanciullo ai trionfi, osò competere coll'imperatore
e vincerlo: Nerone gli proibì di più leggere in assemblea, e il poeta
indispettito tenne mano alla congiura di Pisone. Scoperto e preso,
denunziò gli amici e la madre; ma invano colla viltà tentato conservare
la vita, la lasciò eroicamente (pag. 112).
Il trovarsi perseguitato dispensavalo dalle uffiziali codardie e
dalle accademiche fanciullaggini: chiuso nel suo gabinetto, poteva
comporre originale: e di fatto egli ritrae del suo tempo più di quegli
altri imitatori, ma non ne palesa che la depravazione del gusto, lo
sfiancamento delle credenze.
Chi attribuisce l'inferiorità della _Farsaglia_ all'avere scelto un
soggetto troppo vicino, che impediva al poeta le finzioni, essenza
della poesia, trae storte deduzioni da arbitrarj principj. Buon
soggetto d'epopea sono le guerre tra nazioni forestiere, mentre le
lotte di dinastie e le guerre civili e le interne commozioni di Stati
convengono meglio alla rappresentazione drammatica. In Lucano non ci
è presentato che il medesimo popolo, diviso in due; due protagonisti
troppo vicini e somiglianti; sicchè i fatti non han più una distinzione
abbastanza evidente. Inoltre vuolsi che l'epopea presenti una lotta
più d'entusiasmo che di calcolo, e che trovi la ragione e la sequela
nella storia universale, come quella dei Greci contro gli Asiatici,
de' Cristiani contro i Turchi, dei Portoghesi contro gl'Indiani: e
qui pure difetta Lucano, poichè la guerra fra Pompeo e Cesare, da lui
cantata, è lotta di due sistemi meramente accidentali; e vinca l'uno o
l'altro, l'umanità non v'avrà che vantaggi speculativi. Il che viepiù
risulta dacchè Lucano non seppe nei due capi personificar la parte che
ciascuno sosteneva, e darvi quell'individualità viva, per cui tutte le
azioni esterne son ricondotte al carattere interno, alla coscienza,
alla risoluzione. Egli poi frantese il soggetto fin a credere che
una battaglia avrebbe potuto ristabilire l'antica repubblica, cioè
rassodare la tirannide dei patrizj sopra la plebe. Qual eroe di
poema cotesto Pompeo, mediocre sempre, più ancora nell'ultima guerra,
ove misurava se stesso dalle adulazioni che lo avevano abbagliato?
Cesare, forse il più grande dei Romani, insignemente poetico per
l'infaticabile ardimento e per la popolarità, è da Lucano svisato; e
per rappresentarlo come un furibondo ambizioso, il quale nel dubbio
s'appiglia sempre alla via più atroce[322], ricorre a particolari
insulse quanto bugiarde: in Farsaglia fa che esamini ogni spada, per
giudicare il coraggio di ciascun guerriero dal sangue ond'è lorda;
spii chi con serenità o con mestizia trafigge; contempli i cadaveri
accumulati sul campo, e neghi ad essi i funebri onori; e imbandisca sur
un'altura per meglio godere lo spettacolo dell'umano macello. Ma può
far con questo che Cesare non appaja il protagonista dell'azione? e di
Pompeo vede altro il lettore se non le blandizie onde lo careggia il
poeta, col tono stesso onde piaggiava Nerone?
Lavorando di partito non di giudizio, impicciolisce le grandi contese
coll'arrestarsi attorno ad accidenti momentanei; come nelle gazzette,
tu vi ritrovi esaltate le piccole cose, non capite o vilipese le
maggiori, trattenuta l'attenzione su particolarità inconcludenti, e
sviata da ciò che è capitale; nè vi riconosci il cuor dell'uomo colle
mille sue rinvolture, colle infinite gradazioni fra cui ondeggia
la natura umana, ma inflessibili virtù o mostruose tirannie. Quasi
non basti l'orrore d'una guerra _più che civile_, devono vedersi le
serpi andare in frotta pei libici deserti; le piante d'una selva non
cadranno sebben recise, tanto son fitte; nelle battaglie, stranamente
micidiali, a ruscelli scorrerà il sangue, i morti resteranno in piedi
tra le file serrate, piaghe apriransi come l'antro della Pitia, il
grido dei combattenti tonerà più che il Mongibello. Al modo dei retori,
moltiplica descrizioni e digressioni di tenuissimo appiglio: e per
verità in queste soltanto si mostra poeta; ma scarso di giudizio e
di gusto, al difetto di varietà vorrebbe supplire coll'erudizione,
all'entusiasmo e alla dignità colla ostentazione di massime stoiche,
al sentimento della natura morale colle particolarità della materiale.
Spesso ancora il pensiero è appena abbozzato o incomprensibile:
uniforme il color negro, talora esercitato sopra particolarità
schifose, sopra analisi di cadaveri in decomposizione, sopra una maga
che stacca un impiccato dalla forca, snodandone la soga coi denti, e
ne fruga gl'intestini, e resta sospesa pei denti a un nervo che non
si vuol rompere[323]. Il verso, talora magnifico, più spesso va duro
e contorto: soverchie le particolarità, dalle quali se egli mai si
solleva al grande, dimentica l'arte di arrestarsi e travalica. Chi
di noi non si sentì infervorato a quel suo ardore di libertà, alla
franchezza stizzosa delle parole? ma se ti addentri, non vi trovi nulla
meglio di quel che tutti i Romani colti d'allora provavano, aborrire le
guerre civili per ignavia o spossatezza; ribramare l'antica repubblica,
non per intelligenza delle istituzioni sue, ma perchè come esercizj di
scuola i pedanti proponevano gl'innocui elogi di Bruto e di Catone ai
futuri ministri di Nerone e Domiziano.
Era frutto naturale delle costoro discipline un poema dove o si
vituperassero gli Dei imputandoli delle sventure della patria, o
s'imprecasse alle discordie cittadine, osservate nel loro aspetto più
superficiale, l'uccidersi cioè tra padri e fratelli; salvo a lodare
le intempestive virtù di Catone che a quelle tanto contribuì, e
preporre il giudizio di lui alla decisione degli Dei[324]. E agli Dei,
cui Roma più non credeva, non era possibile attribuire un'azione in
quell'epopea, laonde il poeta vi surrogò un soprannaturale del genere
più infelice: ed ora la patria, in sembianza di vecchia, tenta rimover
Cesare dal Rubicone; ora i maghi resuscitano cadaveri per cavarne
oracoli; ora indovinamenti di Sibille, o presagi naturali; e mentre
s'impugna la provvidenza[325], adorare la fatalità, che esclude e la
rassegnazione e la speranza; incensar la Fortuna, diva arbitra degli
umani avvicendamenti, al fondo de' quali non v'è che la desolazione
e il nulla. È conseguente se preconizza la morte come un bene che
dovrebbe concedersi solo ai virtuosi[326], un bene perchè assopisce
la parte intelligente dell'uomo, e lo conduce non nel beato Eliso ma
nell'oblivioso Lete[327].
Ci dicono che bisogna scusarne i difetti perchè morte gli tolse di dar
l'ultima mano. Ma la lima avrebbe potuto mutare il generale concetto?
dargli i dolci lampi d'un'immaginazione vera, d'un affetto sincero? e
pari sventura non era accaduta a Virgilio? Però la lingua epica che
Virgilio aveagli trasmessa di prima mano, fu da Lucano pervertita,
come la prosastica da Seneca; ciò che il primo avea detto con limpida
purità, egli contorce ed esagera; affoga tutto in una pomposa miseria
di voci, d'antitesi e di ampolle, dove sempre la frase è a scapito del
pensiero, l'idea è sagrificata alla immagine, il buon senso all'armonia
del verso.
Eppure di fantasia e di facoltà poetica era meglio dotato che Virgilio:
ma questo ebbe l'accorgimento di gettarsi su tradizioni non discusse e
care ugualmente a tutta la nazione; Lucano si fermò ad un fatto, su cui
discordavano opinioni e interessi. Virgilio adulò, ma più Roma ancora
che i suoi padroni; Lucano, rassegnato ad obbedire a Nerone, esaltava
uno che non era l'uom del popolo, e che al più destava simpatie
patrizie. Virgilio fece egli stesso il suo poema; il poema di Lucano
fu fatto da quelle conventicole d'amici e compagnoni, che guastano
colle censure e colla lode. Virgilio covò nel segreto l'opera propria,
e tanto ne diffidava, che morendo ordinò di darla alle fiamme: Lucano,
ebbro degli applausi riscossi ad ogni recita, assicurava se stesso
che i versi suoi, come quelli d'Omero e di Nerone, sarebbero letti in
perpetuo[328], e morendo li declamava, quasi per confermare a se stesso
che, chi gli toglieva la vita, non gliene torrebbe la gloria. Virgilio
rimarrà il poeta delle anime sensitive: Lucano sarà il precursore
di quella poesia satanica, che vantasi invenzione del secol nostro,
nudrita di sgomenti e di disperazione, di tutto ciò che spaventa
o desola, e che compiacesi di scandagliar le piaghe dell'anima,
dell'intelligenza, della società per istillarvi il veleno della beffa e
della disperazione.
E noi tanto rigore gli usiamo perchè quei difetti sono pure dell'età
nostra, e perdettero e perderanno altri eletti ingegni.
Nè più che qualche lode di stile concederemo ad altri epici, i quali,
sprovvisti del genio che sa e inventare e ordinare, sceglievano i
soggetti non per impulso di sentimento, ma per reminiscenza e per
erudizione, e sostenevansi nella mediocrità coi soliti ripieghi
dell'entusiasmo a freddo, e colle descrizioni, abilità di chi non
ha genio. Tutto ciò che è mestieri ad un poema, tu trovi negli
_Argonauti_ (111) di Cajo Valerio Flacco padovano, nulla di ciò che
vuolsi ad un poema bello; non il carattere dei tempi, non l'interesse
drammatico, non la rivelazione del grande scopo di quell'impresa,
degna al certo d'occupare una società forbita e positiva. Non lascia
sfuggire occasione di digressioni; accumula particolarità di viaggi,
d'astronomia; con erudizione mitologica portentosa sa dire appuntino
qual dio o dea presieda alle sorti di ciascuna città od uomo, quanti
leoni figurino nella storia d'Ercole, in qual grado di parentela stia
ogni eroe coi numi, e la precisa cronaca degli adulterj di questi; e
l'espone senza nè l'ingenuità de' primi tempi che fa creder tutto, nè
la critica degli avanzati che investiga il senso recondito. Anche nello
stile barcolla fra le reminiscenze de' libri e l'abbandono famigliare,
che però non lo eleva alla naturalezza. Messosi sulle orme del greco
Apollonio da Rodi, corre meglio franco ed elegante quando se ne
stacca[329].
Più accortamente Cajo Silio Italico (25-95), di Roma o d'Italica
in Ispagna, scelse a soggetto la _Guerra punica_; ma sfornito
d'immaginazione, farcisce in versi ciò che da Polibio fu narrato sì
bene, e da Livio in una prosa senza paragone più ricca di poesia che
non l'epopea di Silio. Il quale, ligio alla scuola, v'aggiunse di suo
un soprannaturale affatto sconveniente, e finzioni inverosimili che
per nulla rompono il gelo perpetuo, mal compensato dall'accuratezza
di alcune descrizioni. Conosceva a fondo i migliori; di Cicerone e di
Virgilio era tanto appassionato, che comprò due ville appartenute ad
essi, ed ogni anno solennizzava il natalizio del cantore di Enea: ma il
suo era culto di divinità morte, e sacrificava la propria intelligenza
per pigiarla in emistichj tolti ai classici, faceva nascere i pensieri
a misura delle parole, e a forza d'erudizione e di memoria riempì
la languida vanità di quell'opera[330], la quale non ha tampoco i
difetti che abbagliano ne' suoi contemporanei, e che da alcuni sono
scambiati per bellezze. Plinio Cecilio, amico e lodator suo, confessa
che _scribebat carmina majore cura quam ingenio_, e che acquistò
grazia appo Nerone facendogli da spia, ma se ne redense con una vita
virtuosa, e tornò in buona fama. Console tre volte, proconsole in Asia
sotto Vespasiano, colle mani monde di latrocinj ritirossi in Campania,
comprando libri, statue, ritratti, curiosità di cui era avidissimo:
ma preso da malattia incurabile, si lasciò morire, come allora parea
virtù.
Terenziano Mauro fece un poema sulle lettere dell'alfabeto, le sillabe,
i piedi e i metri, con tutto l'ingegno e l'eloquenza di cui sì ritrosa
materia poteva essere suscettibile; e giovò a farci conoscere la
prosodia latina, giacchè al precetto accoppiando l'esempio, usa man
mano i versi di cui parla. Lucilio giuniore, amico di Seneca, cantò
l'_Eruzione dell'Etna_. Conosciamo sol di nome i lirici Cesio Basso,
Aulo Settimio Severo, Vestrizio Spurina; e forse sono di quell'età
i distici morali (_Disticha de moribus ad filium_) di Dionisio
Catone, che nel medioevo ebbero molto corso. Le egloghe danno a
Giulio Calpurnio Siculo il secondo posto fra i bucolici latini, ma
ad immensa distanza da Virgilio; non come questo introduce pastori
ideali, sibbene veri mietitori, boscajuoli, ortolani semplici e rozzi,
cui imita fin nei modi di dire. Ha interesse storico la settima, ove
un pastore, tornato da Roma, narra i combattimenti che vi ha veduti
nell'anfiteatro.
Ma in tanti poeti cerchereste invano uno di quei passi sublimi o
patetici, che accelerano il battito del cuore, o dilatano il volo
dell'immaginazione; qualche giusta e viva pittura di caratteri e di
situazioni reali della vita e del cuore. In abbondanza, in dovizia
di sentimenti vincono talvolta quelli del secol d'oro: ma esalano
in sentenze ed immagini, anzichè tener dietro al progresso d'una
passione; pongono l'arte nel voltare e rivoltare l'idea sotto tutti
gli aspetti ond'è capace, vincere le difficoltà descrivendo ciò che
non n'ha bisogno; e dove la parola propria o qualche calzante epiteto
basterebbero, sfoggiano scienza ed anatomia, che guastano l'effetto
dell'immaginazione, e tolgono il bello col mostrare d'andarne in
caccia.
Prediletto spettacolo erano ancora il circo e la ginnastica, portati
all'eccesso; Caligola, Caracalla, perfino Adriano scesero nell'arena;
Comodo assaliva colla spada gladiatori armati di legno; si vollero
atleti che si colpissero alla cieca; Domiziano fece lottare nani e
donne; sotto Gordiano III, duemila gladiatori ricevevano stipendio
dal pubblico; nel circo offrironsi battaglie d'interi eserciti, ed
una navale da Elagabalo in canali ripieni di vino. Di mezzo a questi
sanguinosi clamori poteva prosperare l'arte drammatica? Meglio fu
favorita la pantomima, ove gl'imperatori non aveano a temere i fulmini
della parola.
Alcune tragedie, gonfie di declamazioni e vuote di quel che appunto
costituisce il dramma, cioè l'azione, la vita animata, corrono sotto
il nome di Seneca: ma sono opera d'uno o più Stoici, d'immaginazione
senza giudizio, d'ingegno senza gusto, i quali fan parlare e morire la
vergine Polissena e il fanciullo Astianatte come un Catone in Utica;
eppure vi spruzzolano le empietà di moda, proclamando che tutto finisce
colla morte[331]. Passione falsa, contraddittoria, sempre esagerata e
nel bene e nel male; preferita la dipintura del furore, i caratteri
atroci, i colori strillanti alla tranquilla armonia de' quadri e al
graduale procedere delle passioni; fin dal cominciamento lo spettatore
deve restare attonito, atterrito, nè mai trovar riposo. Le donne
medesime hanno musculatura maschile, forsennati furori, amor materiale,
tanto che Fedra invidia Pasifae, esclamando, — Almeno ella era amata!»
Destinate alle solite declamazioni non al teatro, in quelle tragedie
non sono nè concatenate le scene, nè variati i caratteri, nè
giustificate le situazioni; bensì tragicamente coloriti i racconti, e
sparsi di modi e pensieri arditi e franche sentenze, che quantunque
ivi si trovino per lo più fuor di posto, parvero degne d'imitazione
a Corneille, a Racine, ad Alfieri, a Weisse. Forse da esse venne alle
moderne tragedie quell'aria di declamazione che tanto le slontana dai
greci modelli, e quelle risposte concise ed epigrammatiche, le quali
dappoi sembrarono bellezze[332].
Non l'espressione de' sentimenti dell'anima, come nella lirica; non
la magnifica esposizione, come nell'epopea; ma un'idea generale del
bene, applicata argutamente a particolarità moderne, costituisce la
satira. Era perciò eminentemente propria de' Romani, che dietro di sè
aveano un'età, popolarmente dipinta come sobria e pudica; sicchè viepiù
risaltava il disaccordo fra la morale astratta e il mondo reale.
Ma la pericolosa abilità della satira rado giova o non mai, produce
nemici, e trae spesso a saettare ciò che maggiormente rispettar
si dovrebbe, la virtù, le profonde convinzioni, la disinteressata
attività. Solo un cuore benevolo e la evidente intenzione del
miglioramento possono acquistarle lode: or questo trovasi nei satirici
latini? Essi meritano speciale attenzione, perchè un tal genere più
d'ogni altro risente l'influsso del tempo, da cui trae la materia,
i colori, la vita. All'età di Mario, quando gran parte ancora
conservavasi dell'antica rozzezza, quantunque la digrossassero le
mode greche, e al vizio, irruente coll'allettamento della novità, si
opponeva la sdegnosa repressione delle antiche virtù, comparve Lucilio,
che con modi plebei e festività plateale e sali caustici più che
lepidi, attaccò men tosto i difetti che le persone di qualunque grado
o stirpe. Al tempo d'Orazio, la civiltà greca era prevalsa col corredo
de' vizj eleganti, e colla conseguenza delle guerre civili, delle
proscrizioni, del mutamento di repubblica in impero. Dove era riuscita
inefficace la disciplina dei censori, poteva il satirico lusingarsi di
porre un freno alle voluttà, al lusso, all'ingordigia? Orazio, il cui
fino gusto comprendeva che la cosa da evitare di più è l'inutilità,
s'accontentò di porgere verità d'esperienza, precetti parziali di
qualità casalinghe, lezioni minute che s'imparano solo coi capelli
bianchi: ma ingegnoso a scorgere i difetti, arguto a dipingerli, non si
propone di farli aborrire; vuol trovare di che ridere, anzichè condurre
altrui all'austerità; imitando Augusto nel lodare le virtù vecchie
ed abbracciare i vizj nuovi, alla corruzione fa omaggio col mostrare
d'abbandonarvisi egli stesso a capofitto. In lui trapela il sereno
d'una società che si rallieta dopo lunghi patimenti, si riposa da fiere
convulsioni, e promettesi lunga durata; e Orazio, non mordendo, ma
solleticando, mira piuttosto a smascherare quelli che si danno aria
di virtuosi, e avvezzare ad un viver tranquillo e gajo, a sprezzar
le ricchezze, la potenza, tutti que' desiderj che turbano la calma;
accontentarsi del proprio stato, e cogliere fiori in sulla via.
I tempi erano peggiorati col sistema imperiale, e alla corruttela
traboccante non poteasi opporre che il ferreo argine dello stoicismo,
irreconciliabile col vizio, armato di inflessibili sentenze. Decimo
Giunio Giovenale (42-122?), ispirato dal dispetto, non ride, ma si
corruccia; non saltella da cosa a cosa, ma fila la sua tesi a modo
dei retori, severo per proposito fin nella celia. Se però t'addentri,
sotto la generosa indignazione scopri un declamatore, onesto se vuoi,
ma che calcola sempre, non sente mai; protesta vigorosamente contro
la corruzione, ma quando sotto Trajano la franchezza non recava
pericolo; e sentenzia di pazzo chi per compiere una grande azione
mette a repentaglio la sicurezza proveniente dall'oscurità o dalla
scempiaggine: e quel suo finire una violenta declamazione con una
comparazione arguta o con una lambiccata[333], ti lascia in dubbio s'e'
parli da senno o da beffa.
Nelle sedici sue _Satire_ intende abbracciare tutto quel che gli uomini
pensano, fanno, patiscono[334]. Nella prima rimpiange l'antica libertà
della parola; ond'egli, per cansar pericolo, l'accoccherà solo a morti.
La seconda rimorde i filosofi, severi all'esterno, corrotti dentro;
e i grandi, modelli di depravazione. Delle più vive è la terza, ove
ritrae gl'impacci di Roma e gli scomodi d'una metropoli. Una mette in
canzonella i senatori, gravemente convocati da Domiziano per decidere
sul migliore condimento d'un pesce: una le donne vane, imperiose,
dissimulate, libertine, avide, superstiziose: una chi ripone la nobiltà
nei natali, non nel merito. Or invitando un amico a cena, gli porge
la distinta dei cibi, per elogio della frugalità e rimprovero del
lusso; or festeggia un amico scampato dal naufragio, e perchè non si
creda interessata la gioja, assicura che quello ha figli, donde si fa
passaggio a ritrarre gli artifizj con cui si uccellava alle eredità de'
celibi[335].
Egli ci mostra Roma piena di Greci, che, capitati con un carico
di fichi e prugne, si posero ad ogni mestiero; grammatici, retori,
geometri, pittori, medici, auguri, saltambanchi, maghi, adulatori
che lodano i talenti d'uno scemo, pareggiano ad Ercole uno sciancato,
encomiano vilmente e son creduti, e si vendicano della vinta patria col
corrompere la vincitrice. Al cliente, coricato al desco col patrono,
tocca la continua umiliazione di vedere a questo il pan buffetto e il
vin pretto o l'acqua limpida; a sè una focaccia di farina muffa, acqua
fangosa, e il profumo dei frutti e delle delicature, e le celie del
signore, per corteggiare il quale egli innanzi l'alba lasciò moglie
e figli, e venne a batter la borra sul freddo lastrico del palazzo.
Il ricco ammira il poeta, gli presta la sala per leggere i versi, e i
liberti per applaudirlo, ma poi lo rimanda a dente secco: lo storico
riceve poco più d'uno scrivano: al grammatico è decimato il salario
dall'ajo o dall'economo. È di moda l'avvocato che si fece fare il busto
e la statua, che ha otto portinaj e non so quanti anelli, e la lettiga
dietro e un codazzo d'amici: mentre l'altro, il quale non è che onesto,
riceve in premio delle sue fatiche un prosciutto secco, cattivi pesci,
e vino colla punta; o se tocca una moneta, dee dividerla coi mediatori
che gli procurarono l'avventore.
Tutto ciò espone Giovenale in tono di predica e febbricitando
d'indignazione, con amara beffa e stizzoso flagello. Ingegno nello
scegliere le circostanze, robustezza nel colorire non gli mancano;
nelle composizioni d'età matura va più pacato, e lascia prevalere
il riso allo sdegno; adopera linguaggio dotto, copioso, non mai
vulgare. Chi però volesse da lui desumere la vita privata de' Romani,
per riscontro alla pubblica dipinta da Tacito, resterebbe illuso da
quest'onesto mentitore, che vede da falso punto, ed espone iperbolico
e declamatorio. I tempi chiedeano ben altro che il riso d'un poeta:
nè riformarli poteva uno, che, mentre si querela della negletta
religione, la toglie in beffe[336]; che a turpissimi vizj oppone
aforismi cattedratici d'una virtù assoluta, generica, vaga[337]; che
per consolazione ai patimenti non sa suggerire se non il forte animo e
il disprezzo della morte. Messe a nudo le miserie del povero, proprie
di tutte le età o speciali di quella, qual voto fa egli? che tutti i
poveri antichi si fossero da sè esigliati da Roma[338]. Non ne potevano
dunque restar giovati i coetanei suoi: quanto ai posteri, leggendo
si consolano d'esser fatti tanto migliori, ma tornano ad Orazio,
de' cui mezzi caratteri trovano spesso il riscontro ne' mezzi uomini
contemporanei.
Dopo che Orazio diede un esempio inarrivabile di scrivere la satira con
modi piani e popolari (_sermones per humum repentes_), ai successivi
fu rituale uno stile rotto e manierato: ma Giovenale nel verso, nelle
frasi, nelle parole stesse sorpassa tutti per originale rigidezza,
acquisita con assiduo studio; non voce, non passaggio inutile, non
verbo che non cresca vigore, non imitazione che sacrifichi il pensiero
alla frase; nulla di semplice, di affabile; non lingua appresa dal
popolo, ma decretata dai grammatici e dai retori.
Nato ad Aquino, educato nelle solite scuole di declamatori, fin a
quarant'anni attese ai tribunali: avendo poi recitato ad alcuni amici
una satira contro di Domiziano e di un poeta a lui ligio, gli applausi
che ne riscosse lo drizzarono a questo genere. Adriano, credendosi
preso di mira in alcuni frizzi di lui, lo mandò in Egitto già
ottagenario, dandogli per celia il comando d'una coorte. Ivi morì di
noja e di rammarico.
Aulo Persio Flacco (34-62), orfano di famiglia equestre volterrana, a
dodici anni venne a Roma sotto i soliti sciupateste; ma a ventott'anni
morì. Anneo Cornuto suo maestro ne pubblicò le satire, sopprimendo ciò
che credette cattivo o pericoloso; ed eccitarono viva ammirazione,
forse per quel sentimento che tante speranze fa sorridere dalla
tomba d'un giovane. Ma l'esperienza e le correzioni avrebbero potuto
togliervi l'affettata pienezza, o dargli l'immaginazione, senza cui
poesia non è?
Sarebber esse a dire un sermone solo, trinciato poi dal suo
raffazzonatore in sei prediche sopra soggetti morali, oltre una
prefazioncella. Nella prima, egli burla il ticchio di far versi
e il mal gusto in giudicare: nella seconda, dardeggia la frivola
incoerenza de' voti onde i mortali sollecitano gli Dei: nella terza,
i molli giovani aborrenti da ogni seria occupazione: la quarta morde
la presunzione onde tutti credonsi capaci di tutto e principalmente
di governar gli Stati: nella quinta esamina qual uomo sia veramente
libero, e conchiude il savio: l'ultima punge gli avari, che negandosi
il necessario, accumulano per eredi scialacquatori.
Come Orazio, Giovenale avea dedotto le sue satire dall'osservazione
propria, dalla conoscenza della vita: Persio invece soltanto dalle
scuole. Guasto nel midollo dallo stoicismo di queste, sprezza non
solo il superfluo, ma il necessario[339]; fa colpa del più innocente
atto, se la ragione non vi assenta[340]; all'uomo intima non esser lui
libero, perchè ha passioni; condanna i raffinamenti della civiltà, il
vestir bene e l'usare profumi.
Ah! ben altri vizj deturpavano il suo tempo; infamia di delatori,
avvilimento del senato, insolenza di liberti, stravizzo e bassezza
di tutti. Ma Persio non sapeva nulla di ciò, perchè nulla gliene
avevano detto nella scuola; solo udito in generale che il secolo era
corrotto, si prefigge di manifestare il suo ribrezzo con aerea e filata
discussione da gabinetto, sovra argomenti prestabiliti, non su quelli
che, cadendogli sott'occhio, lo stizzissero od ispirassero. Con quella
superba generosità vede e parla esagerato; insiste sulla medesima tesi,
comunque simuli arditi passaggi e dure inversioni; cerca minuzie e
sottilità e figure retoriche e tropi, anche quando sembra passionato.
Orazio, uom di mondo, urtante e riurtato dagli uomini, è sempre
l'autore del momento, nè diresti avesse già pensato jeri a quel che
getta sulla carta allorchè il vizioso o il malaccorto gli dà tra'
piedi; ti porta sul luogo; al vizio attribuisce persona e nome, sicchè
tu lo conosci, e le particolarità sfuggono meno alla mutata posterità.
Persio invece sta sulle generali, con pitture vaghe e costumi e scene e
personaggi indeterminati; argomenta scolasticamente ove gli altri due
discorrono saltuariamente; e le poche volte che cerca il drammatico
andamento di Flacco, diventa oscuro ancor più dell'usato; talchè
l'attribuire le botte e le risposte a quest'interlocutore piuttosto che
a quello, è laborioso indovinamento de' commentatori. Ai quali pure diè
fatica quel suo stile ambizioso, ove mancando sempre d'immagini, e non
sapendo vestire i concetti filosofici reconditi, la sterilità delle
idee dissimula sotto una lingua bizzarra, congegnata di parole piene
pinze. Il suo verso è sonoro, ma spesso ambiguo: e se Lucilio imitò i
Greci, e Orazio imitò Lucilio, Persio imita Orazio, catena nella quale
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