Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 19

stranieri: fra tanti architetti che si richiesero per mutar Roma da
laterizia in marmorea, due soli romani cita Vitruvio: i macchinisti
erano alessandrini: greci i mimi, i commedianti, i pedagoghi. Come
gli Scipj s'aveano empita la casa di Greci, così al tempo imperiale
ognuno volle, tra i servidori, avere anche il pedante greco, esposto
ai vilipendj, di cui anche in tempi a noi più vicini si trovavano
bersaglio l'abate o il maestro. Luciano, nella _Vita de' cortigiani_,
ci dipinge un di costoro, per quanto in caricatura:
— Per pochi oboli, nell'età in cui, se tu fossi nato schiavo, era tempo
di pensare alla libertà, ti sei, con tutta la tua virtù e sapienza, da
te stesso venduto, ponendo in non cale quei molti discorsi che il bel
Platone e Crisippo e Aristotele hanno composto in lode della libertà
e dispregio della servitù. Nè vergogni di startene fra i piaggiatori,
i barattieri, i buffoni, ed in tanta moltitudine di Romani trovarti
solo col mantello greco, e parlare malamente e con barbarismi la loro
favella, e cenare a tavole tumultuose e piene di gente diversa e la
maggior parte cattiva; ed in questi conviti lodare importunamente, e
bere fuor misura; e la mattina levandoti a suon di campanello, perduto
il sonno più dolce, correre insieme cogli altri di su di giù, portando
ancor sulle gambe le zacchere del giorno innanzi? Cotanta carestia
avevi tu dunque di lupini e di cipolle campestri? mancavanti fontane
d'acqua fresca e corrente, che caduto sei in tanta disperazione?
«Perchè tieni lunga barba e non so che di venerevole nell'aspetto,
e ti cingi in cappamagna alla greca, e sei conosciuto da tutti per
professore di lettere, oratore o filosofo, al signore par bello
di mescolare uno di tal genìa a quei che uscendo fannogli corte,
e sembrar così amante della disciplina e delle lettere greche, ed
apprezzatore dei dotti. Talchè tu, o valent'uomo, corri rischio di
avere appigionato, in luogo de' tuoi magnali discorsi, il mantello o
la barba. Se sopragiunge altri più nuovo, sei rimandato indietro, e
vi rimani relegato in un dispregiatissimo cantone, testimonio di ciò
che si porta e si toglie di tavola; e se pure i piatti giungono fino
a te, roderai le ossa come i cani, e dolcemente per fame ti succierai
una foglia secca di malva, avanzata ad un ripieno. Non ti mancheranno
altri obbrobrj: nè solamente non avrai le ova, non essendo necessario
che abbi sempre ad essere trattato come un forestiero, e sarebbe in
te impudenza il pretenderlo; ma non devi avere tampoco un pollo simile
agli altri; e mentre al ricco si serve grasso e polputo, a te si dà un
mezzo pulcino o un colombo vecchio da razza, per segno di spregio. Per
caso un convitato sopraviene improvvisamente? il famiglio, susurrandoti
all'orecchio _Tu sei di casa_, ti toglie quanto hai dinanzi por
servirne l'arrivato. Si trincia in tavola o un cervo o un porcellino da
latte? ti bisogna aver propizio lo scalco, o contentarti della parte
di Prometeo, le ossa cioè col midollo. Non ho detto che, bevendo gli
altri un vecchio e soavissimo vino, tu buschi soltanto del cercone; e
n'avessi almanco a sazietà, chè domandandone, molte volte fingerà il
ragazzo di non udire. Se alcun servo ciarliero riferirà che non hai
lodato il fanciullo della padrona mentre ballava o sonava la chitarra,
passerai rischio non piccolo: per la qual cosa t'è giocoforza gracidare
come un ranocchio assetato per essere distinto tra quei che applaudono,
e far da capocoro a' più fervorosi, e molte volte, standosi gli altri
in silenzio, ripetere qualche encomio meditato, che senta a dieci
miglia di adulazione. Ti convien poi tenerti col volto basso come nei
conviti persiani, sul timore che qualche eunuco non ti veda adocchiare
alcuna concubina.
«Questa è la vita ordinaria della città. Che ti avverrebbe viaggiando?
Sovente piovendo, e giungendo tu per ultimo al posto che t'ha destinato
la sorte, non essendoci più vetture, ti caricano su col cuoco e col
parrucchiere della padrona sopra un baroccio, senza pur metterti paglia
che basti.
«E se tu non lodi, passerai per malevolo ed insidiatore alle latomie
di Dionisio. Conviene che i padroni sieno sapienti ed oratori; cadano
pure in solecismi, i loro discorsi devono saper sempre d'Imetto e
dell'Attica, e far testo di lingua per l'avvenire. Ma passi ancora
per ciò che fanno gli uomini: le donne (perocchè anche le donne ora
affettano d'avere al loro soldo ed al seguito della loro lettiga
alcun famigliare dotto) alcuna fiata gli ascoltano mentre si adornano
e si arricciano i capelli; ed assai volte, mentre il filosofo fa le
dimostrazioni, ne viene la cameriera, e reca i viglietti del drudo.
Egli allora per prudenza sospende i discorsi, ed aspetta che essa
ritorni ad ascoltarlo, dopo risposto al bertone.
«Alla fine, ricorrendo i Saturnali e le Panatenee, ti si manda un
mantellaccio o una tonaca logora, e devi allora farne gran pompa.
Il primo che ha subodorato tal pensiero del padrone, corre ad
annunziartelo, e vuole non piccola mancia. La mattina tel vengono a
portare in tredici, de' quali ciascuno decanta le parole che ha detto
di te, e come, avutone l'incombenza, ha cercato scegliere il meglio, e
partonsi tutti regalati da te, e brontolando che non abbi dato di più.
Il salario ti si paga a sospiri, e a due e a quattro oboli; se domandi,
passi per nojoso ed impronto: laonde per averlo ti bisogna supplicare
e piaggiare e leccare il maestro di casa, con modi di cortigianeria
i più variati. Nè è da trascurarsi anche il consigliero e l'amico; ed
intanto di ciò che ricevi già ne vai debitore al sarto, al medico, al
calzolajo; sicchè non restandotene nulla, quei doni non sono per te
doni. Altre volte vieni accusato o di aver tentato il fanciullo, o,
malgrado la tua vecchiezza, violentata una cameriera della signora,
o altra corbelleria. E così di notte imbacuccato entro il mantello,
sei pel collo trascinato fuor di casa, miserabile ed abbandonato da
tutti, non restandoti per compagna della vecchiezza che la podagra,
avendo dimenticato dopo tanto tempo ciò che sapevi, grullo e col ventre
maggiore della borsa, tormentato di non potere nè riempirlo nè fargli
intender ragione».
Commessa a così fatti, qual doveva riuscire l'educazione? Questa
erasi conformata ai nuovi ordinamenti; e mentre i fanciulli in prima
si affidavano a qualche onesta matrona che ne coltivasse l'ingegno e
il cuore, allora si lasciavano fin ai sette anni a schiavi o greche
fantesche, poi si mettevano al greco, indi al latino sotto i grammatici
su descritti, i quali, oltre legger e scrivere, gl'istruivano a capire
i poeti, e gli esercitavano in composizioncelle. Che se è sempre
infelice cosa un maestro di mestiere, infelicissima erano coloro,
la cui cura principale consisteva in affinare gli allievi nella
mitologia, e nel sapere come avesser nome i cavalli d'Achille, quale
la madre d'Ecuba, di che colore i capelli di Venere. Intanto altri
maestri gli addestravano al ballo, alla musica, alla geometria, in
quanto ritenevansi necessarie alla retorica, che vedemmo essere stata
sempre arte principalissima fra i Romani, gran parte della vita loro,
loro gloria e guasto. Valendosi d'una lingua fatta per comandare,
non fermandosi alla soavità dell'atticismo greco, ma lanciandosi alle
procelle popolari, aveano anche in ciò espresso la maestà patria; e
l'eloquenza fu detta una delle maggiori virtù[278], e l'uomo eloquente
un dio rivestito di corpo mortale. Allora poteva la grammatica esser
considerata la più sincera delle scienze, la dolce compagna del
ritiro, la ricreazione dei vecchi[279], insegnando essa a render
corretto, chiaro, ornato il discorso. Allora da insigni oratori,
Cicerone, Antonio, Ortensio, erano coltivati i giovani men coi precetti
che coll'esempio, e col farsi vedere invocati dai cittadini, dalle
provincie, dai re, come tutela e scampo, levati a cielo dal popolo
sovrano. Allora l'eloquenza studiavasi non come scienza distinta; ma
con la guerra, il culto, la giurisprudenza facea parte dell'educazione
necessaria alla vita; dovendo ogni famiglia, per patrocinare i proprj
clienti, avere un valente oratore, di favellare occorrendo in tutte
le magistrature, occorrendo alla guerra. Ma dacchè l'eguaglianza aprì
a ciascuno gl'impieghi e i comandi, fu impossibile che lo stesso
uomo attendesse a tutto. Uno abbondava di coraggio? dibattuta la
prima causa in tribunale, cingeasi la spada. Un altro avea facile la
parola? travagliavasi alle battaglie forensi, appena congedato dalle
campali. V'era cui non bastasse l'animo d'affrontar le une nè le altre?
sospendeva un lauro alla porta, e dava consulti; diventando così tre
vie distinte l'esercito, la giurisperizia, l'eloquenza.
Ma un popolo senza emulazione, un senato senz'autorità, una gioventù
senza libertà nè speranze, che altro cercavano nell'eloquenza se non
un nuovo spettacolo? Equato il diritto, concentrata nell'imperatore
la cosa pubblica, non potendo i giudici scostarsi dai consulti _dei
prudenti_, più non restava nè a sottigliare sull'interpretazion
della legge, nè a patrocinare provincie o regni o la patria; sicchè
i rostri ammutolirono, la curia consumavasi in complimenti, il fôro
si esinaniva in anguste applicazioni degli editti. I rétori, gente
digiuna della filosofia, delle leggi, della società, si proponeano
d'annestare al pesante ed anfanato ingegno de' Romani l'infantile
e parolajo de' Greci, smaniosi di arringare, d'improvvisare, di
disputare, di avviluppare con argomenti capziosi; sofisticavano i
classici sulla erudizione o sulla verità; della filologia faceano un
giuoco di sottigliezze; della storia un'accozzaglia di particolarità,
entro cui soffocavano quel vero che avrebbe dato ombra ai tiranni;
della logica una schermaglia d'argomentazioni onde mutare il falso
in vero; della morale una ostentazione di virtù esagerate. Sbalzata
fuor della pubblicità che è suo elemento, trastullavano l'eloquenza in
esercitazioni vane e stravaganti, e a spese dell'erario avvezzavano
i figliuoli dei grandi all'enfasi senza scopo, alla declamazione a
vuoto, a concinnare ben sonanti blandizie ai Cesari qualvolta questi si
degnassero consultare il senato sopra ciò che avevano già deliberato.
Per tali scuole di declamazione s'inventò un interminabile codice di
convenevoli. Allorchè (così insegnavasi) l'oratore si presenta alla
tribuna, potrà fregarsi la fronte, guardarsi alle mani, schioccar le
dita, e coi sospiri mostrare l'ansietà del suo spirito. Tengasi ritto
della persona, col piede sinistro alquanto innanzi, le braccia alcun
che disgiunte dal torso; ed esordendo, sporga un poco la destra mano
dal seno, però senza arroganza. Infervorato nell'arringa, pronunzii
con artifiziosa negligenza i periodi più elaborati, mostri esitanza
laddove sentesi più sicuro della sua memoria. Non ricolga il fiato a
mezzo della proposizione, non muti gesto che ogni tre parole, non cacci
le dita nel naso, tossisca o sputi il men possibile, eviti di dondolare
per non parere in barca, non caschi in braccio ai clienti, se pure non
sia per reale sfinimento; nè si soffermi dopo pronunziato una frase
efficace, chè non sembri attendere i battimani. Verso il fine poi si
lasci cadere scompigliata la toga, gran segno di passione.
Plozio e Nigidio, Quintiliano e Plinio discordano fra loro se o no
convenga tergere il sudore e scarmigliarsi. Essi vi diranno come
convenga vestire per essere uomo eloquente: la tunica dia poc'oltre il
ginocchio davanti, e dietro fino al garetto; che più lunga sarebbe da
donna, più breve da soldato: l'avviluppar di lana e fasce il capo e le
gambe, è da infermo; da furioso l'avvolgere la toga al braccio manco;
da affettato il gettarne il lembo sulla spalla diritta; da zerbino il
declamare colle dita cariche di anelli. Della voce poi sanno denominare
appuntino ogni gradazione[280], e qual s'addica a ciascun sentimento.
Di quest'erba trastulla si pascolava la gioventù romana per emulare
Gracco e Cicerone! Talmente è antico stile nei cattivi governi,
non d'abolire il sapere, ma di soffocarlo tra futilità e regole
indeclinabili! Quintiliano stesso racconta di Porcio Latrone, insigne
professore, che chiamato ad arringare ad un'assemblea vera in piena
aria, restò sbigottito, e implorò che l'udienza si trasportasse in un
palazzo vicino, non potendo sopportare il cielo, egli abituato alla
soffitta. Ben dunque, allorchè un imperatore lagnavasi che tante sue
cure non ritardassero il deperimento dell'eloquenza, un sincero gli
rispose: — Chiudete le scuole, ed aprite il senato».
Nè le cose erano meglio delle forme. Tolti alla realtà e al
supremo giudizio del pubblico, ridotti a finger cause ed occasioni
d'arringhe, i retori proponevano temi bizzarri e stravaganti, privi
di convincimento e di moralità. Le _suasorie_ volgeansi sul lodare
la virtù, l'amicizia, le leggi, e sopra simili argomenti di facile
prova, o talora di sofistica finezza: le _controversie _discuteano di
varj punti, per lo più giudiziali; e suddividevansi in _trattate_,
ove il retore dava soggetto e traccia, e _colorate_, dove l'alunno
da sè trovava e l'orditura e la materia, poi compostele e dal maestro
corrette, se le metteva a mente e le recitava alle pazienti assemblee.
Distogliere Catone dall'uccidersi, esortare Silla a smettere la
dittatura[281], Annibale a non impigrirsi in Capua, Cesare a stender
la mano a Pompeo acciocchè Roma opponga ai Barbari i due più grandi
generali; se Cicerone deva chiedere scusa a Marc'Antonio; se dar
al fuoco i suoi scritti qualora questi gli lasci la vita a tal
condizione... erano i temi proposti; poi si fa tragitto a quistioni
più attuali, ed ove dalla giurisperizia sia puntellata l'eloquenza.
Una incestuosa precipitata dalla rupe Tarpea, raccomandandosi a Vesta,
campa la vita: le sarà ritolta? — Marito e moglie giurarono di non
sopravivere l'un all'altro; egli, sazio della donna, parte e le fa
credere d'esser morto; ond'ella balza dalla finestra; ma guarita e
scoperto l'inganno, il padre di lei dimanda il divorzio; essa non
vuole: uno patrocini il padre, l'altro la moglie. — Tizio raccoglie
fanciulli esposti, li mantiene, ad uno rompe il braccio, all'altro
una gamba, e gli invia a mendicare, e s'arricchisce: accusatelo e
difendetelo. — Uno che in battaglia perdè le braccia, sorprendendo la
moglie in adulterio, ordina al figlio d'uccidere il complice; quegli
non obbedisce e fugge; il padre avrà diritto di diseredarlo? — Uno
sale ad una rôcca per guadagnare il premio proposto a chi uccide
il tiranno; e nol trovando, ammazza il figlio di esso, e gli lascia
in petto la spada; il tiranno, tornato e visto il caso, cacciasi in
seno la spada stessa: l'uccisore del figliuolo domanda il premio come
tirannicida. — Essendo sfidati dai medici due gemelli, fu chi promise
guarir l'uno se potesse esaminare gli organi vitali dell'altro; il
padre consente; uno è sventrato, l'altro guarito; ma la madre accusa
il consorte d'infanticidio; gravarlo e difenderlo. — Un padre perdè
gli occhi nel piangere due figliuoli, e sogna che ricupererà la vista
se anche il terzo figlio morrà; palesò il sogno alla moglie, questa
al figliuolo, che appiccossi: il padre riebbe gli occhi, ripudiò la
moglie, la quale si appella d'ingiusto ripudio. — Uno invaghito della
propria figlia, la dà a custodire ad un amico, pregandolo non la
restituisca per quanto gliela chieda; dopo alcun tempo gliela chiede,
e, avutone rifiuto, s'appicca: vien denunziato l'amico come causa di
tal morte. — Uno accusato di parricidio, fu assolto; ma impazzito,
comincia ad esclamare: «O padre, t'ho ucciso», il magistrato lo manda
al supplizio come confesso: ma è accusato d'omicidio. — Un povero
ed un ricco erano amici; muore il ricco, chiamando erede universale
un altro, coll'ordine di dare al povero altrettanto quanto questo a
lui avea lasciato in testamento; s'apre il testamento del povero, e
si trova lo avea costituito erede di tutti i suoi beni; onde questo
domanda tutta l'eredità; l'erede scritto non vuol dare se non tanto
quant'è il possesso del povero. — È legge (inventata da questi pedanti)
che a chi batte il padre, si tronchino le mani: un tiranno ordina a
due figliuoli di maltrattare il padre; il primo, per non farlo, si
precipita dalla rôcca; l'altro, spinto dalla necessità, oltraggia il
genitore ed incorre nella pena decretata; però chiamato in giudizio
perchè gli siano mozze le mani, il padre stesso lo difende: arringate
per lui e contro di lui. — Un'altra legge del codice stesso lascia alla
fanciulla violentata la scelta fra voler morto il rapitore, o sposarlo
senza recargli dote; qualcuno ne rapì due, e l'una vuole ch'egli muoja,
l'altra che la sposi: quistionate per le due parti. — Un'altra legge
infligge al calunniatore la pena sofferta dal calunniato; un ricco e un
povero, nemici capitali, aveano tre figli; ed essendo il ricco eletto
generale, il povero l'accusò di tradimento, di che infuriato il popolo
ne lapidò i figliuoli; il ricco tornato, chiede si uccidano i figli del
povero; questo esibisce sè solo alla pena: per chi sentenziate?
In tali bizzarrie[282] pervertivasi il gusto e si forviava
l'immaginazione dei giovinetti romani, distaccandoli dalla vita comune
e dall'abituale forza delle umane passioni, per avvezzarli al cavillo e
all'esorbitanza. A dritto dunque esclamava Petronio che «nelle scuole
i garzoni si rendono affatto sciocchi, perocchè non vedono, non odono
nulla di ciò che comunemente suol accadere, ma solo corsali che stanno
incatenati sul lido, tiranni che comandano ai figli di troncare il capo
ai genitori, oracoli che in tempo di peste ordinano d'immolare tre o
più vergini»[283].
Così all'eloquenza politica era succeduta la scolastica; e se non
bastava il viluppo della quistione, si aggiungeano difficoltà d'arte,
prefiggendo, per esempio, il vocabolo con cui cominciare o finire
il periodo; poi tutto si dovea sorreggere per figure di parole e di
concetti, per luoghi comuni, ed altre abbaglianti nullità.
Formato per tal guisa un oratore, suprema aspirazione di lui era il
vedersi prescelto a stendere un panegirico all'imperatore; se pure
non si mettesse a quella _lucrosa e sanguinolenta eloquenza_, che,
conservando l'antico costume quando tutto era così mutato, ordiva
invettive sul tono con cui Tullio investiva Catilina e Marc'Antonio,
esagerava gli orrori dell'alto tradimento, tirava alla peggiore
interpretazione i fatti e i detti più semplici, e facea condannare
Cremuzio, Trasea, Elvidio, per ingrazianirsi Tiberio, Nerone,
Vespasiano.
Appena si potesse trar fiato, i buoni s'accordavano a far guerra
a questa eloquenza, ancella della calunnia: Plinio tonò contro
i delatori; Giovenale flagellava i retori; Tacito, fra le cause
dell'eloquenza corrotta, adombrava anche questa; e la combattè pure
Marco Fabio Quintiliano (42-120?), il primo che desse lezioni a
pubbliche spese. Spagnuolo allevato a Roma, l'imperatore Domiziano
gli confidò l'educazione de' suoi nipoti, destinati a succedergli;
e sotto gli auspizj di questo dio, come esso lo chiama, scrisse le
_Istituzioni_, dirette a formare un oratore. Piace, al petulante
greculo o al venale grammatico opporre l'immagine d'un maestro che
conosce quanto sacro uffizio sia, nel momento che la gioventù sceglie
fra il piacere e il dovere, l'avviarla co' migliori precetti, coi più
belli esempj, e questi poter tutti dedurre dalla storia nazionale; e
alle sante credenze, alle gloriose idee, alle coraggiose imprese, alla
lotta contro le basse passioni, allo sprezzo del dolore e del guadagno,
all'amor della gloria, al frugale disinteresse poter soggiungere i
nomi degli Scipioni, dei Fabj, degli Scevola, dei Catoni, _patres
nostri_. Vide Quintiliano a quale infelicità fossero ridotte le lettere
dagli esempj massimamente di Seneca, il quale, essendo in favore come
maestro del principe, avea messo in disistima lo stile sincero degli
antichi per accreditare quel suo, tutto fronzoli ed arguzie, senza
riposo, con cui a forza d'abilità corruppe l'eloquenza, a forza d'arte
guastò il gusto de' Romani. — Seneca (così egli) era allora il solo
autore che fosse in mano de' giovani, ed io non poteva soffrire ch'e'
fosse anteposto ai migliori, cui egli non cessava di biasimare, perchè
disperava di piacere a coloro a cui quelli piacessero. I giovani lo
amavano solamente pe' suoi difetti, e ognuno insegnavasi di ritrarne
quelli che gli era possibile; e vantandosi di parlare come Seneca,
veniva con ciò ad infamarlo. Per verità egli fu uomo di molte e
grandi virtù, d'ingegno facile e copioso, di continuo studio e di gran
cognizioni, benchè alcuna volta sia stato ingannato da quelli a cui
commetteva la ricerca; molti ottimi sentimenti vi si trovano, e assai
moralità: ma lo stile n'è comunemente guasto, e più pericoloso perchè i
difetti ne sono piacevoli. Se di alcune cose egli non si fosse curato,
se non fosse stato troppo cupido di gloria, se troppo non avesse amato
ogni cosa propria, nè co' raffinati concetti snervato i gravi e nobili
sentimenti, avrebbe l'universale consenso dei dotti, anzichè l'amor de'
ragazzi. Un ingegno tale, potente a qualunque cosa volesse, degno era
certo di voler sempre il meglio»[284].
Accorciammo questo giudizio, in cui Quintiliano non dà ferita senza
medicamento, al modo de' giudizj officiosi; e spinge la cautela fino
a non lasciarti ben comprendere s'e' lodi o biasimi. Fatto sta che
egli affaticossi di richiamare verso i classici, e far preferire
la nuda forza alla sdulcinata leggiadria, il naturale al parlar per
figure[285]. Pure, nel concetto di lui, eloquente significava poc'altro
che buon declamatore: diresti non s'accorga mai di ciò che è mancato
a Roma dopo i suoi grandi oratori, il fôro e la libertà; la sublime
destinazione dell'eloquenza o non ravvisa o paventa, e si trastulla
in guardarla siccome un'arte ingegnosa e difficile, che s'acquista
coll'unire alla naturale disposizione lo studio e la probità, e saper
lodare anche i tempi infelicissimi.
E d'adulazioni egli fu prodigo: poi, sebbene cercasse uno stile
ricco, delicato, vigoroso, ed evitare la negligenza e l'affettazione
che guastano il dritto ragionamento[286], all'opera sua occupò poco
meglio di due anni, e questi nella ricerca delle cose e nella lettura
d'infiniti autori, anzichè a forbire lo stile: intendeva poi rifarvisi
sopra dopo raffreddato il primo ardore della composizione[287], ma le
reiterate istanze del librajo lo distolsero dal prudente proposito.
Questa confessione, colla quale tanti altri dopo d'allora intesero
palliare la propria negligenza, temperi certi eccessivi ammiratori,
i quali non solo in Quintiliano vedono tutt'oro, ma pretendono
infallibili canoni di gusto quei ch'egli medesimo confessa non
abbastanza meditati.
Arringò anche, e le sue dicerie erano ricopiate per venderle
lontano[288]: ma come egli stesso si fosse lasciato guastare da
quei temi artifiziosi, dove il sentimento si esagerava, e badavasi
all'effetto e all'arte, non all'espressione più sincera dell'affetto,
appare fin nel passo più eloquente del suo libro, quello ove
deplora la morte della moglie diciannovenne e di due figliuoli già
grandicelli[289].
Eppure egli era dei migliori maestri; riprovava questo esercitarsi
sopra tesi simulate; con opportuna censura reprimeva il giovanile
rigoglio, e col leggere i migliori autori, cosa omai disusata, e col
moderare l'idolatria pei classici, avvertendo che «non s'ha a reputare
perfetto quanto uscì loro di bocca, giacchè sdrucciolano talora, o
soccombono al peso, o s'abbandonano al proprio talento, o si trovano
stanchi; sommi ma uomini». Sopratutto insiste sulla necessità d'essere
probo uomo chi voglia essere buon oratore: il che, se in un trattato
de' nostri giorni sarebbe nulla meglio che un'esercitazione di moralità
triviale, veniva a grande uopo allora, quando spie ed accusatori
valevansi dell'eloquenza per sollecitare o giustificare la crudeltà dei
regnanti; onde si vuole sapergli grado d'aver conosciuto il nesso fra
la controversia nella scuola e il litigio nel fôro, ed accennato almen
quel tanto che poteva, egli stipendiato da un brutale imperatore.
Ci venne purdianzi alla penna Marco Cornelio Frontone numida, giudicato
da alcuni neppur secondo a Cicerone[290], e superiore a tutti gli
antichi per gravità d'espressione, ma che per reggersi in credito
avea bisogno che un erudito non venisse a disotterrarne i frammenti.
Sostenne magistrature primarie, e se vogliam credere al ritratto
ch'egli fa di se stesso in una di quelle congiunture in cui pare che
l'affetto non sopporti la menzogna, meritò veramente colle sue virtù
di diventare maestro di Marc'Aurelio[291], e di conservarsegli amico
anche dopo imperatore. Dalle loro lettere, lasciando che altri vi
cerchi pedagogici avvertimenti, noi caveremo particolarità sull'Italia
nostra. — Visitammo (scrive in una) Anagni; poca cosa oggi, ma contiene
gran numero d'anticaglie, principalmente monumenti sacri e ricordi
religiosi. Non v'è angolo che non abbia un santuario, una cappella,
un tempio; v'ha libri lintei di materie sacre. Uscendo, leggemmo sui
due lati della porta, _Flamine, prendi il samento_. Chiesi a un natìo
che volesse dire questa parola; e mi rispose che in lingua ernica
dinota un pezzo di pelle della vittima, che il flamine si mette sul
berretto quando entra in città». E altrove: — Siamo a Napoli: cielo
delizioso, ma estremamente variabile; ad ogni istante più freddo, o
più caldo, o procelloso. La prima metà della notte è dolce, come una
notte a Laurento; al cantar del gallo senti la frescura di Lanuvio;
verso l'alba ti pare algido; più tardi il cielo si scalda come a
Tuscolo; a mezzodì fa la caldera di Pozzuoli; poi come il sole declina
nell'oceano, il cielo s'addolcisce e si respira come a Tivoli: questa
temperatura si sostiene la sera e le prime ore mentre la notte si
precipita dai cieli».
Frontone, vecchio e scarco dalle magistrature, soffrente di gotta,
apriva sua casa ai letterati, che egli adopravasi di revocare dalle
ampolle e dal neologismo verso la semplicità anteriore a Tullio. Opera
difficilissima giudicava il riuscir eloquente; biasimava coloro che
credono bellezza il rivoltare in diversi modi il concetto medesimo,
come Seneca, come Lucano che i sette primi versi trascina in dire
di voler cantare _le più che civili guerre_; domanda che l'autore
sia ardito senza eccesso, e scelga bene le parole. Ma in queste
raccomandava di cercar le meno aspettate e le meravigliose, cura che
di necessità deve condurre all'affettazione[292]. Troppo anch'egli
seconda il suo secolo allorquando suggerisce di dire e fare secondo al
popolo piace, metodo che torrebbe ogni orma certa al gusto[293]. Forse
per indulgenza a questo piacevasi tanto nel rintracciare immagini, e
le raccomandava a Marc'Aurelio, che gli scriveva come lieta notizia
d'esser riuscito a trovarne dieci[294]. Ma allorchè questi diceva,
— Quando parlai ingegnosamente, mi compiaccio di me stesso», e' gli
replicava: — Più parlerai da galantuomo, più parlerai da cesare».
Il letterato più degno d'attenzione in quel tempo è Cajo Plinio Cecilio
comasco (61-115), nipote di Plinio naturalista, del quale ereditò
le sostanze e la passione per gli studj. Giovinetto fu educato da
Virginio Rufo, insigne romano che preferì all'impero del mondo la
quiete decorosa. Cresciuto da lui con precetti ed esempj di virtù,
nella scuola di Quintiliano si fece all'eloquenza; e di quindici anni
patrocinò, poi sempre trattò cause gratuitamente, talvolta discorrendo
fin sette ore di seguito, senza che la folla si diradasse. Eucrate
filosofo platonico, elegante e sottile nella disputa, calmo di volto,
austero di costumi come di parola, ostile ai vizj non all'umanità,
incontrato da Plinio nella Siria, l'innamorò della filosofia, e
gl'insegnò che il più nobile scopo di questa è far regnare tra gli
uomini la pace e la giustizia.
Quando il gusto del bello, del giusto, del generoso, del patriotico
più sembrava dileguarsi, consola l'imbattersi in quest'uomo,
appassionatissimo per la gloria e devoto alla virtù. Immacolato
sotto pessimi imperatori, talvolta levossi ad accusare i ministri
e consigliatori di loro iniquità; maneggiò la giustizia col nobile
orgoglio del galantuomo, eppure ottenne cariche e rispetto; e non
si trovò impreparato quando sorsero tempi migliori. Al cessare del