Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 18
Da Vespasiano a Marc'Aurelio diedero una nuova fioritura gl'ingegni;
le lettere riprosperarono sotto i Flavj, le arti sotto Adriano, la
filosofia sotto gli Antonini.
Dopo Augusto, piuttosto che scaduta, sarebbe a dire annichilata la
letteratura, giacchè, se tu ne levi Fedro di sospetta autenticità (pag.
46), per mezzo secolo non appare scrittore romano. Eppure protezione
ed ajuti non mancavano. Fu oggetto di lusso l'adunare biblioteche;
ed oltre quelle d'Augusto aggiunte all'Apollo Palatino ed al portico
d'Ottavia, Tiberio ne pose una in Campidoglio che non dovette perire
nell'incendio di Nerone, come sembra perisse la Palatina, e come sotto
Comodo fu dal fulmine consumata un'altra in Campidoglio[258], forse
istituita da Silla. Nel tempio della Pace, insieme con monumenti d'arti
e di scienze, Vespasiano collocò una libreria, cui Domiziano arricchì
tenendo continuamente copisti ad Alessandria. L'Elpia di Trajano fu poi
trasferita nelle terme di Diocleziano. Altre si ricordano fino a quella
di sessantaduemila volumi, che l'imperatore Gordiano III ricevè per
testamento da Sereno Sammonico già suo maestro.
Alcuni imperatori promossero la coltura, sull'esempio di Cesare che
conferì la cittadinanza ai medici ed ai professori d'arti liberali.
Vespasiano pel primo assegnò sul tesoro ventimila lire l'anno a
retori greci e latini, mentre se ne davano quarantamila a un sonatore
e ottantamila a un attore tragico. Adriano protesse scienziati,
letterati, artisti, astrologi; i professori incapaci metteva in riposo
col soldo; e fondò l'Ateneo, che riuniva lettere e scienze. Antonino
e Marc'Aurelio propagarono l'insegnamento anche nelle provincie,
istituendovi scuole pubbliche di filosofia e d'eloquenza. La condizione
dei maestri variò secondo la bontà e generosità degli imperatori: ma
questi per lo più ne lasciarono la scelta e l'esame ai loro pari; ed
è probabile che allora dovessero dar lezioni con regola e con seguito
maggiore.
Se non che la pace non basta a rifiorir le lettere; anzi
nell'uniformità del governo imperiale parvero addormentarsi gl'ingegni,
come si spegneva lo spirito militare. Diffondeasi, è vero, l'amor
del sapere; e non che la Gallia, la Germania e la divisa Bretagna
conoscevano i capolavori, e contribuirono talvolta bei nomi alla
letteratura: ma l'originalità non si svolge per favore de' principi
o largizione de' privati. I filosofi si trascinavano sui passi
dei vecchi, rimpastandoli in quell'eclettismo che è rivelazione
d'impotenza; i letterati o imitavano servilmente, o, se volessero
uscire dalle orme altrui, deliravano, avendo perduta la nazionale
civiltà senz'essersi identificati colla nuova: i ricchi stendevano
appena la mano a qualche satira o libricciuolo galante: dei giovani
che a Roma affollavansi a studio, i più lo facevano per sollazzo
o libidine, tanto che per decreto più volte furono rimandati in
patria: col titolo di filosofi e matematici v'affluivano astrologi e
ciurmadori.
La filosofia non cessò i suoi esercizj, ma coi caratteri della
decadenza, quali sono le controversie di parole e l'esitanza. Le
dottrine italiche di Pitagora presero aspetto mistico ed ascetico,
secondando la sensualità vulgare con apparato di miracoli e d'arcani,
frequenza di sacrifizj, stupidità di magìa. Fioriva allora la scuola
eclettica d'Alessandria, intenta a conciliar le varie, pretendendo
supplire all'arte di Platone colla scienza d'Aristotele, all'inventiva
coll'argomentazione, al raziocinio coll'erudizione, all'esperienza
colla rivelazione. Quando poi sorsero i Cristiani a mostrare che
i dubbj delle filosofie non reggono alle affermazioni del Vangelo,
e l'una abbatte l'altra, e nessuna ve n'ha che sia efficace sulla
morale, le scuole etniche parvero accordarsi nel vagliare da tutti i
sistemi ciò che avessero di meglio, interpretando come fatti naturali i
mitologici, come simboli le assurdità immorali: sterile elaborazione,
nella quale, riconosciuta la impotenza della ragione, molte volte
ricorreasi ad una superiore facoltà intuitiva, supponendo dirette
comunicazioni cogli Dei, e dell'estasi facendosi via alla vera scienza.
Pochi filosofi teorici produsse l'Italia. Il pitagorico Sestio, al
tempo d'Augusto, ricusò la dignità di senatore, e fu capo di una setta,
che piena di romana vigoria è detta da Seneca, il quale ci conservò di
lui questa bella immagine: — Come un esercito minacciato d'ogni banda
s'ordina in battaglione quadrato, così al savio conviene circondarsi
i lati di virtù, quasi sentinelle, per essere pronte ovunque pericolo
accada, e far che tutte obbediscano senza tumulto agli ordini dei
capi».
Uno stoico meritevole di più rinomanza che non ne goda, ci pare Cajo
Musonio Rufo di Bolsena, cavalier romano, involto nella congiura di
Pisone, sbandito più volte, occupato a stornare ambiziosi dal cercar
l'impero, e ad acchetare le guerre civili; lodato da Filostrato e da
Giuliano imperatore come un modello di quelle virtù ch'essi pretendeano
indipendenti dal cristianesimo, ma anche dai padri della Chiesa
collocato a pari con Socrate. Non affettando una saviezza impossibile,
un orgoglio repellente, vuole che il filosofo sia ammogliato; mentre
Epitteto non osa interdire la dissolutezza, egli riprova ogni atto
carnale che non abbia la sanzione del matrimonio e il fine di aumentar
le famiglie; mentre Marc'Aurelio permette il suicidio, egli a Trasea
che gli dice, — Amo meglio la morte oggi che l'esiglio domani»
risponde: — Se tu guardi la morte come un mal maggiore, il tuo voto è
da insensato; se come minore, chi t'ha dato il diritto di scegliere?»
Con sapienza che risente del Vangelo dicea pure: — Evitate le parole
oscene, perchè conducono ad osceni atti. Abbiate un abito solo. Se
non volete far male, considerate ogni giorno siccome fosse l'ultimo
di vostra vita. Dopo una buona azione, la fatica ch'essa ci costò è
finita, e ci rimane il piacere d'averla fatta: dopo una cattiva, il
piacere è passato, e resta la vergogna»[259].
Già ci son conti i dogmi di Marc'Aurelio e di Seneca. Di questo
abbiamo tre libri _Dell'ira_, che possono raffrontarsi con quel
di Plutarco sul soggetto medesimo; una _Consolazione_ ad Elvia
madre sua mentr'egli esulava in Corsica, un'altra a Polibio, una a
Marcia per la morte d'un figlio, i più antichi modelli di lettere
consolatorie. Trattò del _perchè male avvenga ai buoni, essendovi la
Provvidenza_, e conchiuse al suicidio. Ad Anneo Severo, coll'opuscolo
_Della serenità dell'animo_, suggerì di rimediare alle irrequietudini
coll'applicarsi alle pubbliche cure; dalle quali poi, con una delle
frequenti sue contraddizioni, distorna Paolino nella _Brevità della
vita_. Arieggia ai paradossi stoici il trattato _Della costanza del
savio_, ove contende che questo non può rimaner tocco da ingiurie.
Parlando a suo fratello Gallione della _vita beata_, si scusa delle
ricchezze imputategli, e difende dagli Epicurei le opinioni stoiche
sulla beatitudine. I tre libri a Nerone _Della clemenza_, di stile più
nobilmente semplice, offrono esempj e precetti di quella che è dovere
in tutti, e ne' principi lodasi come virtù perchè rara. Meriterebbe
d'esser rifatto il suo discorso _Dei benefizj,_ tanto aggiungendo
ed applicando a ciò ch'egli dice intorno al modo di fare il bene,
di riceverlo, di ricambiarlo. Le cenventiquattro _Lettere_ sono
altrettante dissertazioni su punti morali.
Seneca è pure contato fra gli scienziati; e sebbene le sue _Quistioni
naturali_ sieno un'indigesta accozzaglia e una verbosa esposizione di
cognizioni empiriche sgranate, senza puntello di scienze esatte nè di
proprie esperienze sistematiche, sono però l'unico libro che ci attesti
avere i Romani posto mente alla fisica, e segna l'ultimo punto cui gli
antichi l'abbiano spinta: sicchè molti secoli egli restò in Europa quel
che Aristotele fra i Greci, il repertorio delle fisiche cognizioni.
I Romani, affatto positivi, voleano applicare immediatamente le
teoriche; dal che restò pregiudicata la ricerca indipendente, nè verun
grande pensiero scientifico fu da essi conquistato, nè per l'esperienza
nè per la riflessione. Intesi alla pratica, la natura considerarono
soltanto come oggetto dell'attività umana, onde non ne indagarono
l'essenza e le armonie, e di ben poco avanzarono la cognizione di essa.
Con un dominio sì esteso avrebbero potuto strarricchire la scienza
naturale: negli archivj palatini stavano preziose relazioni geografiche
de' generali: troviamo accennate altre collezioni, ma nè diligenti nè
dirette a scientifico intento.
La _Storia della natura_, sola arrivataci fra tante opere di Cajo
Plinio Secondo (23-70), è un repertorio delle scoperte, delle arti,
degli errori dello spirito umano, raccolte all'occasione di descrivere
i corpi. Esibito nel primo dei trentasette libri uno specchietto delle
materie e degli autori, nel secondo tratta del mondo, degli elementi
e delle meteore; seguono quattro di geografia, poi il settimo delle
varie razze umane e dei trovati principali; i quattro seguenti versano
sugli animali, classificati giusta la grossezza e l'uso, e ragionando
dei costumi loro, delle qualità buone o nocevoli, e delle men comuni
loro proprietà. Ben dieci libri sono consacrati a descrivere le piante,
la loro coltura e le applicazioni all'economia domestica e alle arti;
poi cinque ai rimedj tratti dagli animali; altrettanti ai metalli, col
modo di cavarli e di convertirli pei bisogni e pel lusso. A proposito
di questo parla della scoltura, della pittura, e dei primarj artisti,
come delle insigni statue di bronzo ragiona in occasione del rame,
e le materie coloranti il recano a dire de' quadri, della plastica
le stoviglie: distribuzione capricciosa e mal digesta, ove sempre il
pensiero è sottoposto alla materia.
Ma Plinio non è un naturalista che raccolga, osservi, sperimenti,
aggiunga al tesoro delle cognizioni precedenti; sibbene un erudito,
che alle occupazioni della guerra e della magistratura sottrae qualche
ora onde sfogliare libri: mentre pranza, ha schiavi che leggono; n'ha
mentre viaggia; altri estraggono tutto quel che egli appunta, e gli
tennero mano a compilare un lavoro, che risparmiava tante letture,
allora difficoltosissime. Così raccozzando senza genio nè critica,
non distingue la diversità delle misure di lunghezza, mescola fatti
contraddittorj, barcolla fra sistemi disparati, anzi opposti; non
intende i passi, riferiti all'abborracciata, nè si cura di confrontarli
colla realtà, onde descrivendo cose non vedute, riesce spesso
inintelligibile; non si briga di riuscire compiuto e di non ripetersi;
e attento a solleticare la curiosità più che a scoprire il vero, alla
retorica più che alla precisione, sceglie ciò che ha del singolare e
del bizzarro, beve assurdità già confutate dallo Stagirita. Nè sempre
alle migliori fonti ricorre; e sopra le origini italiche ormeggia
Giulio Igino, autore senza critica, mentre neglige i venti libri di
storia etrusca, che sappiamo aveva stesi l'imperatore Claudio.
Pure l'essersi perduta la più parte delle duemila opere da esso
spogliate il rende prezioso; e senza la sua farragine, quanta parte
dell'antichità ci rimarrebbe arcana! quanto minor tesoro possederemmo
della lingua latina![260]
Gagliardo e preciso nel dire, ma lontano dal semplice e corretto de'
contemporanei di Cesare, casca nell'affettato e nell'oscuro. Lo spirito
dell'antica repubblica animava lui pure, siccome Trasea, Elvidio,
Tacito e gli altri migliori, e di là attinge spesso calore e fin
eloquenza: ma il gusto peggiorato e la gonfiezza delle parole fuorviano
l'energica elevatezza del suo ingegno; giudica e spiega i fatti a
seconda delle personali prevenzioni e di una filosofia atrabiliare,
che assiduamente accusa l'uomo, la natura, gli Dei, colla retorica
aggravando la miseria umana, col raziocinio scoprendo i disordini di
questo mondo, senza elevarsi alle armonie di un altro, l'indagare
il quale egli non trova di verun interesse; nega affatto Iddio, e
lo fa tutt'uno colla materia; e s'avvoltola nello scetticismo fin
a considerare l'uomo come l'essere più infelice e più orgoglioso, e
insultare la divinità che «nè può concedere all'uomo l'immortalità, nè
togliere a se stessa la vita, la quale facoltà è il dono più bello che
essa abbia a noi lasciato»[261].
Mentre sbraveggia le religioni e la Provvidenza, indulge a
superstizioni (pag. 180), crede come fatti incontestati (_confessa,
constat_) a ermafroditi, a maschi cambiati in femmine, a fanciulli
nati coi denti o rientrati nell'alvo materno, alla longevità di chi
ha un dente di più, alla disgrazia di chi nasce pei piedi, a cavalle
fecondate dal vento, a donne che partorirono elefanti. Egli vi dirà
d'una pietra, la quale, posta sotto il capezzale, produce sogni
veritieri; che al morso di serpenti rimedia la saliva d'uom digiuno;
che sputando nella mano si guarisce l'uomo involontariamente feritosi:
un abito portato ai funerali mai non è intaccato dalle tarme; un
uomo morsicato da un serpente più non ha a temere di api o di vespe;
le morsicature d'un animale si esacerbano alla presenza di persona
morsicata da un animale della specie medesima. Nè è stupore che v'abbia
mostri così strani in Etiopia, avendoli formati Vulcano, abilissimo
modellatore, giovato da quel gran caldo[262].
L'attrazione verso il centro della terra era stata asserita da
Aristotele, accettavasi come una verità comune dai Romani, e Cicerone
la esprimeva con esattissima felicità[263]. Plinio invece vi dirà
che i gravi tendono al basso, i corpi leggeri all'alto; s'incontrano
e per la mutua resistenza si sostengono: così la terra è sorretta
dall'atmosfera, se no lascerebbe il suo posto e precipiterebbe al
basso. Non solo rifiuta il sistema mondiale pitagorico, ma trova pazzia
il supporre altre Terre ed altri Soli di là dal nostro, misurare la
distanza degli astri, seminare d'infiniti mondi lo spazio[264].
Chi volesse (nè ammannirebbe impresa difficile) riscontrare l'età che
descriviamo col secolo precedente al nostro, troverebbe somiglianza
fra Plinio e gli Enciclopedisti in quel copertojo scientifico dato
all'ignoranza e alla credulità, in quell'armeggio di sapere o mostrar
di sapere, in quel ripudiare la luce che viene dalla vera fonte e che
pure gli illumina, in quel professarsi materialista, e tuttavia per
buon cuore giungere a conclusioni benevole. Come gli Enciclopedisti,
Plinio declama contro chi inventò la moneta; benedetti i secoli,
ove altro commercio non si conosceva che di cambio; è un delitto la
navigazione, la quale, non paga che l'uomo morisse sulla terra, volle
mancasse perfino di sepoltura[265]. Eppure intravede la perfettibilità,
e «quante cose non erano considerate impossibili prima che si
facessero! confidiamo che i secoli avvenire si perfezionino sempre
meglio»[266]. Tuttochè materialista, al nome di Barbari sostituisce
quello d'uomini; rinfaccia a Cesare il sangue versato; loda Tiberio
d'aver tolte di mezzo certe disumane superstizioni in Africa e in
Germania; bofonchia contro quelli che il ferro ridussero in armi,
pure della guerra riconosce i vantaggi, professando che l'Italia fu
scelta dagli Dei per riunire gl'imperj dispersi, addolcire i costumi,
ravvicinare in comunanza di linguaggio gl'idiomi discordi e barbari di
tanti popoli, dare agli uomini la facoltà d'intendersi, incivilirli,
divenire insomma la patria unica di tutte le nazioni del mondo[267].
Di queste idee avanzate, di questa filosofia tollerante e cosmopolita,
egli non conosceva o rinnegava la sorgente.
Plinio era di Como; militò in Germania, fu procuratore di Nerone nella
Spagna, da Vespasiano ebbe il comando della flotta navale al Miseno:
ma mentre colà dimorava, il Vesuvio eruttò fiamme per la prima volta;
ed egli accorso sia per curiosità del fenomeno, sia per sovvenire ai
pericolanti, fu preso da una sua ricorrente debolezza di stomaco, e
caduto, restò soffogato. Lasciò centottanta volumi in minutissimo
carattere, fra cui tre libri di arte oratoria, trentuno di storia
contemporanea, trenta delle guerre de' Romani in Germania, altri del
lanciar dardi, e perfino di grammatica, scritti «quando la tirannia di
Nerone rendeva pericoloso ogni studio più elevato».
Giulio Solino, vissuto non si sa quando, ma forse due secoli più tardi,
beccò da Plinio senza criterio, ed espose in istile ricercato notizie
varie, massime di geografia, e il suo _Polistore_ ebbe gran corso
nel medio evo. Le conquiste e il commercio dilatarono la cognizione
del mondo: pure vedemmo come Greci fossero quelli, di cui Augusto si
valse per misurare e descrivere l'impero. E dalla Grecia vennero, nel
tempo che discorriamo, i due maggiori geografi Strabone e Tolomeo. Il
primo, dopo lunghi viaggi nell'Asia Minore, nella Siria, nella Fenicia,
nell'Egitto fin alle caterrate, poi in Grecia, Macedonia, Italia,
eccetto la Gallia Cisalpina e la Liguria, in diciassette libri diede la
storia della sua scienza da Omero ad Augusto; e trattando delle origini
e migrazioni dei popoli, della fondazione delle città e degli Stati,
dei personaggi più celebri, sa portarvi la critica. L'altro descrisse
l'universo in modo d'acquistare il nome di Tolomaico al sistema
che, in opposizione coi Pitagorici e coi moderni, pone la terra per
centro ai cieli; e creò la geografia scientifica, disponendo i paesi
matematicamente per longitudine e latitudine[268].
L'unico che in latino trattò di geografia, è Pomponio Mela spagnuolo
(_De situ orbis_), in prosa concisa ed elegante compendiando il sistema
d'Eratostene; all'aridità d'una nomenclatura provvede coll'intarsiare
graziose descrizioni e dipinture fisiche o storiche ricordanze: ma
non vide cogli occhi proprj, dà come sussistenti cose da gran lunga
perdute, mentre non nomina Canne, Munda, Farsaglia, Leutra, Mantinea,
famose per battaglie; nè Ecbatana, Persepoli, Gerusalemme, capitali
importanti; nè Stagira patria d'Aristotele.
Carte geografiche sappiamo si usavano anticamente[269]; in un tempio
della Terra n'era dipinta una dell'Italia[270]; una di tutto il mondo
in un portico di Roma[271]; d'altre ci parlano Frontino e Vegezio; ed
entrante il III secolo, Giuliano Taziano aveva stesa una descrizione di
tutto l'impero, che andò perduta. D'un'altra, ordinata dall'imperatore
Teodosio, abbiamo una copia o un'imitazione nella Tavola Peutingeriana,
carta stradale in sola lunghezza, e molto inesatta.
I Romani tennero sempre in lieve conto le matematiche, nella loro
albagia giudicando abjetta una scienza che prestava servizio alle
arti meccaniche, misurava il guadagno, teneva i registri. Allo studio
di essa Orazio imputa la depravazione del gusto; Seneca la ripudia
come avvilente; nè sino a Boezio non si tradussero Euclide, Tolomeo,
Archimede. Tanto scarsamente seppero di geometria, che i giureconsulti
romani supposero la superficie del triangolo equilatero eguale alla
metà del quadrato eretto sopra uno dei lati[272]; e fu tenuto un
portento Sulpicio Gallo che prediceva gli eclissi.
Di matematiche applicate scrisse Sesto Giulio Frontino, che sotto
Vespasiano capitanò in Bretagna prima d'Agricola, poi fu console,
augure, amico di Plinio, lodato da Marziale; e sul morire dispose non
gli si ergesse monumento, dicendo: — Abbastanza sarò ricordato se la
vita mia lo meriti»[273]. Soprantendente agli acquedotti, diede la
storia di queste memorabili costruzioni, veramente italiane. Lasciò
inoltre quattro libri di _Stratagemmi_, compilazione fra militare e
storica, povera di critica e d'eleganza, ma colla facilità sicura di
chi sa quel che n'è.
La medicina, fin ai tempi di Plinio, da verun Romano era stata
coltivata; i medici erano la più parte schiavi o stranieri, e Giulio
Cesare pel primo comunicò ad essi la cittadinanza. In bottega pubblica
(_jatreon_) faceano salassi, strappavano denti, ed altre operazioni,
fra i chiacchericci e le cronache. Altri s'applicavano a studiarla, e
sopra gl'infelici clienti sperimentavano singolari novità e bizzarre
teoriche, colla sicurezza che alletta le malate fantasie, e dà
reputazione e denaro. Una delle loro scuole era chiamata _medicina
contraria_, perchè nelle febbri lente ed ostinate il professore ad
un tratto abbandonava i rimedj fin allora esperiti onde applicare i
precisi opposti. Augusto malato a morte era curato con calefacienti,
e Antonio Musa suo liberto lo guarì sostituendovi di balzo i bagni
freddi. Era il caso di dire con Celso: _Quos ratio non restituit,
temeritas adjuvat._ Un'altra volta sanò l'imperatore colle lattuche;
onde questi gli concesse l'anello, e, per amore di lui, immunità a
tutti quei della sua professione.
Asclepiade di Prusa in Bitinia, venuto ad esercitar questa a Roma un
secolo prima dell'êra vulgare, le differenti malattie deduceva da
viziosa dilatazione o stringimento de' pori, e la pratica riduceva
a rimedj che producessero l'effetto contrario. _Pronta, sicura,
piacevole_ doveva essere ogni cura, limitandosi a dieta, ginnastica,
fregagioni, vino, sbandendo ogni farmaco violento e interno, e
frequentando i semplici. Colla quale blanda pratica riconciliò alla
medicina i Romani, che n'erano disgustati dalla sanguinaria del
chirurgo Arcagato, cui il soprannome di vulnerario fu mutato in quel di
carnefice, e forse per questo aveva attirato alla sua arte le esagerate
invettive dell'antico Catone[274].
Alcuno volle ascrivere all'età d'Augusto Aurelio Cornelio Celso[275],
del quale s'ignorano la patria e i casi, e della cui Enciclopedia
(_Artium_) non ci rimasero che otto libri intorno alla medicina,
i quali forse sono mere traduzioni dal greco. Ippocratico, cioè
osservatore, pur ricorrendo all'induzione, non crede importante nella
medicina se non ciò che tende a risanare. Raccomanda di non prendere
abitudini, nè ledere la temperanza; poi raccoglie quanto dissero i
precedenti, giudicandone con buon senso ed esponendolo con eleganza
spigliata. Non disapprova l'uso di qualche medico d'allora, di sparare
_gli uomini vivi_, ma non lo trova necessario, potendo le ferite de'
gladiatori, de' guerrieri e degli assassinati offrir campo a studiare
le parti interne per rimedio e pietà, non per barbarie.
Molti medici vanta la Sicilia, e a lor capo il famoso Empedocle,
introduttore della dottrina degli elementi. Acrone, di Agrigento
come lui, giovò assai agli Ateniesi nella peste che proruppe durante
la guerra Peloponnesiaca, e fondò la scuola empirica. Menecrate,
contemporaneo di Filippo il Macedone, intitolavasi Giove, menavasi
dietro come corteo i suoi guariti, principalmente gli epilettici;
ma colla sua vanità buscò beffe. Erodico da Leonzio inventò la
medicina ginnastica, curando con violenti esercizj, susseguiti dal
bagno; ma Ippocrate lo accusava di uccidere i malati col soverchio di
passeggiate, di lotte, di fomenti. Scribonio Largo Designaziano, siculo
o rodio del tempo di Claudio, cercò combinare le dottrine metodiche
coll'empirismo, ed è notevole per aver insegnato a non isradicare il
dente leso, ma levarne solo la parte guasta; e ancor più per avere
applicato l'elettricità al mal di capo, suggerendo di tenervi una
torpedine viva: rimedio adottato anche da Dioscoride.
Altri medici greci, illustri a Roma e fondatori di varj sistemi,
preteriremo, ma non Claudio Galeno da Pergamo, che con ingegno vasto
quanto Aristotele, altrettante erudizione e maggior libertà, abbracciò
tutte le scienze; e non pago dei sistemi dominanti e dell'autorità,
applicavasi alle indagini della natura e all'anatomia. A Roma acquistò
credito, malgrado gl'intrighi dei suoi colleghi, i quali all'ignoranza
univano l'invidia, fin al segno d'avvelenare alcuni suoi ajutanti.
Curò Marco Aurelio, e piace trovare dal medico filosofo descritte
alcune malattie del filosofo imperante. Sotto al coltello anatomico
riconosceva i misteri della vita e la scienza divina; eppure non seppe
salvarsi dall'andazzo del suo secolo: Esculapio in sogno gli suggerì un
salasso, e lo stornò dal seguire gl'imperatori nella spedizione; alle
incantagioni avea fede, e combatteva il cristianesimo come assurdo.
Dopo di lui, gravi guasti portò nella medicina la teosofia, pretendendo
spiegare le malattie coi démoni e colle potenze segrete, medicarle con
incanti, e col recare indosso pietre efesie iscritte colle misteriose
parole che si leggevano sull'effigie di Diana, o le gemme abraxe
con figure egizie, o simboli desunti dal culto di Zoroastro o dalla
Cabala giudaica. Sereno Sammonico, maestro del giovane Gordiano, ci
lasciò un poema sulla medicina, ove per la febbre emitrea suggerisce
l'abracadabra[276]. Sesto Placito Papiriense scrisse un indigesto
ricettario di medicamenti tratti dagli animali, anzi dalle parti
più schife: insegna a guarir la quartana portando addosso un cuor di
lepre; prevenire le coliche col mangiare lesso un cane appena nato; o
quando prendono, sedersi sopra una seggiola dicendo, _Per te diacholon,
diacholon, diacholon_. Marcello Empirico, medico di Teodosio, raccolse
le ricette _fisiche e filateriche_, perchè i suoi figli potessero farne
carità: ma l'ottima intenzione non pallia l'assurdità dell'opera. A
chi entrò nell'occhio un corpo straniero, bisogna toccarlo ripetendo
tre volte: _Tetune resonco bregan gresso,_ e ad ogni volta sputare;
oppure: _In mondercomarcos axatison_. Per l'orzajuolo sull'occhio
destro, tocchisi con tre dita della mano sinistra, sputando e dicendo
tre volte: _Nec mula parit, nec lapis lanam fert, nec huic morbo caput
crescat, aut si creverit tabescat_. Pel panereccio si tocchi tre volte
il muro dicendo: _Pu pu pu; numquam ego te videam per parietem repere_.
Per la colica si ripeta tre volte: _Stolpus a cœlo cecidit; hunc morbum
pastores invenerunt, sine manibus collegerunt, sine igne coxerunt,
sine dentibus comederunt._ Prescrive i giorni appunto in cui preparare
i farmachi, le preghiere da dirsi al Capodanno e al primo cantar
delle rondini, e come usare il _rhamnus spina Christi_, di miracolose
proprietà, perchè fu stromento alla passione del Redentore.
Il napoletano Pantoro, esaminati gli stromenti chirurgici trovati a
Pompej, asserì che già conosceansi allora di quelli che si credono
invenzione recente. All'Accademia di medicina a Parigi furono da
Scoutetten presentati i seguenti stromenti, disotterrati a Pompej ed
Ercolano: una sonda curva, una dritta, pei due sessi e per bambino; la
lima per togliere le asprezze ossee; lo specillo dell'ano e dell'utero
a tre branche; tre modelli di aghi da passar corde o setoni; la
lancetta ed il cucchiajo, di cui i medici si servivano costantemente
per esaminare la natura del sangue dopo il salasso; uncini ricurvi di
varia lunghezza, destinati a sollevar le vene nella recisione delle
varici; una cucchiaja (_curette_) terminata al lato opposto da un
rigonfiamento a oliva, all'uopo di cauterizzare; tre ventose di forma e
grandezza diversa; la sonda terminata da una lamina metallica piatta e
fessa, per sollevare la lingua nel taglio del frenulo; molti modelli di
spatule; scalpelli a doccia piccolissimi per segare le ossa; coltelli
dritti e convessi; il cauterio nummolare; il trequarti; la fiamma
dei veterinarj per salassare i cavalli; l'elevatore pel trapanamento;
una scatola da chirurgo per contenere trocisci e diversi medicamenti;
pinzette depilatorie, pinzette mordenti a dente di sorcio, una a becco
di grua, una che forma cucchiajo colla riunione delle branche; molti
modelli di martelli taglienti da un lato; tubi conduttori per dirigere
gli stromenti cauterizzanti.
Lautissima professione il medico. Manlio Cornuto promise ducentomila
sesterzj a chi lo guarisse dal lichene, malattia della faccia,
introdottasi sotto Tiberio: Carmi fecesi pagare altrettanto un viaggio
in provincia: in pochi anni Alcmeone ammassò dieci milioni di sesterzj.
Quinto Stertinio lodavasi agli imperatori di esiger da essi non più
di cinquecentomila sesterzj, mentre la sua clientela in Roma gliene
produceva seicentomila; l'ugual salario ricevette suo fratello da
Claudio, sicchè essi poterono abbellir molto Napoli, e in eredità
lasciarono trenta milioni di sesterzj: dieci milioni ne lasciò Crina
marsigliese, dopo spesone altrettanti a rialzar le mura della sua
patria[277].
Più volte avvertimmo che la coltura fra i Romani non ebbe nulla di
spontaneo, nè derivò da slancio o da amor del bello, ma da imitazione,
da ostentazione. Dei grammatici nominati da Svetonio, due terzi sono
le lettere riprosperarono sotto i Flavj, le arti sotto Adriano, la
filosofia sotto gli Antonini.
Dopo Augusto, piuttosto che scaduta, sarebbe a dire annichilata la
letteratura, giacchè, se tu ne levi Fedro di sospetta autenticità (pag.
46), per mezzo secolo non appare scrittore romano. Eppure protezione
ed ajuti non mancavano. Fu oggetto di lusso l'adunare biblioteche;
ed oltre quelle d'Augusto aggiunte all'Apollo Palatino ed al portico
d'Ottavia, Tiberio ne pose una in Campidoglio che non dovette perire
nell'incendio di Nerone, come sembra perisse la Palatina, e come sotto
Comodo fu dal fulmine consumata un'altra in Campidoglio[258], forse
istituita da Silla. Nel tempio della Pace, insieme con monumenti d'arti
e di scienze, Vespasiano collocò una libreria, cui Domiziano arricchì
tenendo continuamente copisti ad Alessandria. L'Elpia di Trajano fu poi
trasferita nelle terme di Diocleziano. Altre si ricordano fino a quella
di sessantaduemila volumi, che l'imperatore Gordiano III ricevè per
testamento da Sereno Sammonico già suo maestro.
Alcuni imperatori promossero la coltura, sull'esempio di Cesare che
conferì la cittadinanza ai medici ed ai professori d'arti liberali.
Vespasiano pel primo assegnò sul tesoro ventimila lire l'anno a
retori greci e latini, mentre se ne davano quarantamila a un sonatore
e ottantamila a un attore tragico. Adriano protesse scienziati,
letterati, artisti, astrologi; i professori incapaci metteva in riposo
col soldo; e fondò l'Ateneo, che riuniva lettere e scienze. Antonino
e Marc'Aurelio propagarono l'insegnamento anche nelle provincie,
istituendovi scuole pubbliche di filosofia e d'eloquenza. La condizione
dei maestri variò secondo la bontà e generosità degli imperatori: ma
questi per lo più ne lasciarono la scelta e l'esame ai loro pari; ed
è probabile che allora dovessero dar lezioni con regola e con seguito
maggiore.
Se non che la pace non basta a rifiorir le lettere; anzi
nell'uniformità del governo imperiale parvero addormentarsi gl'ingegni,
come si spegneva lo spirito militare. Diffondeasi, è vero, l'amor
del sapere; e non che la Gallia, la Germania e la divisa Bretagna
conoscevano i capolavori, e contribuirono talvolta bei nomi alla
letteratura: ma l'originalità non si svolge per favore de' principi
o largizione de' privati. I filosofi si trascinavano sui passi
dei vecchi, rimpastandoli in quell'eclettismo che è rivelazione
d'impotenza; i letterati o imitavano servilmente, o, se volessero
uscire dalle orme altrui, deliravano, avendo perduta la nazionale
civiltà senz'essersi identificati colla nuova: i ricchi stendevano
appena la mano a qualche satira o libricciuolo galante: dei giovani
che a Roma affollavansi a studio, i più lo facevano per sollazzo
o libidine, tanto che per decreto più volte furono rimandati in
patria: col titolo di filosofi e matematici v'affluivano astrologi e
ciurmadori.
La filosofia non cessò i suoi esercizj, ma coi caratteri della
decadenza, quali sono le controversie di parole e l'esitanza. Le
dottrine italiche di Pitagora presero aspetto mistico ed ascetico,
secondando la sensualità vulgare con apparato di miracoli e d'arcani,
frequenza di sacrifizj, stupidità di magìa. Fioriva allora la scuola
eclettica d'Alessandria, intenta a conciliar le varie, pretendendo
supplire all'arte di Platone colla scienza d'Aristotele, all'inventiva
coll'argomentazione, al raziocinio coll'erudizione, all'esperienza
colla rivelazione. Quando poi sorsero i Cristiani a mostrare che
i dubbj delle filosofie non reggono alle affermazioni del Vangelo,
e l'una abbatte l'altra, e nessuna ve n'ha che sia efficace sulla
morale, le scuole etniche parvero accordarsi nel vagliare da tutti i
sistemi ciò che avessero di meglio, interpretando come fatti naturali i
mitologici, come simboli le assurdità immorali: sterile elaborazione,
nella quale, riconosciuta la impotenza della ragione, molte volte
ricorreasi ad una superiore facoltà intuitiva, supponendo dirette
comunicazioni cogli Dei, e dell'estasi facendosi via alla vera scienza.
Pochi filosofi teorici produsse l'Italia. Il pitagorico Sestio, al
tempo d'Augusto, ricusò la dignità di senatore, e fu capo di una setta,
che piena di romana vigoria è detta da Seneca, il quale ci conservò di
lui questa bella immagine: — Come un esercito minacciato d'ogni banda
s'ordina in battaglione quadrato, così al savio conviene circondarsi
i lati di virtù, quasi sentinelle, per essere pronte ovunque pericolo
accada, e far che tutte obbediscano senza tumulto agli ordini dei
capi».
Uno stoico meritevole di più rinomanza che non ne goda, ci pare Cajo
Musonio Rufo di Bolsena, cavalier romano, involto nella congiura di
Pisone, sbandito più volte, occupato a stornare ambiziosi dal cercar
l'impero, e ad acchetare le guerre civili; lodato da Filostrato e da
Giuliano imperatore come un modello di quelle virtù ch'essi pretendeano
indipendenti dal cristianesimo, ma anche dai padri della Chiesa
collocato a pari con Socrate. Non affettando una saviezza impossibile,
un orgoglio repellente, vuole che il filosofo sia ammogliato; mentre
Epitteto non osa interdire la dissolutezza, egli riprova ogni atto
carnale che non abbia la sanzione del matrimonio e il fine di aumentar
le famiglie; mentre Marc'Aurelio permette il suicidio, egli a Trasea
che gli dice, — Amo meglio la morte oggi che l'esiglio domani»
risponde: — Se tu guardi la morte come un mal maggiore, il tuo voto è
da insensato; se come minore, chi t'ha dato il diritto di scegliere?»
Con sapienza che risente del Vangelo dicea pure: — Evitate le parole
oscene, perchè conducono ad osceni atti. Abbiate un abito solo. Se
non volete far male, considerate ogni giorno siccome fosse l'ultimo
di vostra vita. Dopo una buona azione, la fatica ch'essa ci costò è
finita, e ci rimane il piacere d'averla fatta: dopo una cattiva, il
piacere è passato, e resta la vergogna»[259].
Già ci son conti i dogmi di Marc'Aurelio e di Seneca. Di questo
abbiamo tre libri _Dell'ira_, che possono raffrontarsi con quel
di Plutarco sul soggetto medesimo; una _Consolazione_ ad Elvia
madre sua mentr'egli esulava in Corsica, un'altra a Polibio, una a
Marcia per la morte d'un figlio, i più antichi modelli di lettere
consolatorie. Trattò del _perchè male avvenga ai buoni, essendovi la
Provvidenza_, e conchiuse al suicidio. Ad Anneo Severo, coll'opuscolo
_Della serenità dell'animo_, suggerì di rimediare alle irrequietudini
coll'applicarsi alle pubbliche cure; dalle quali poi, con una delle
frequenti sue contraddizioni, distorna Paolino nella _Brevità della
vita_. Arieggia ai paradossi stoici il trattato _Della costanza del
savio_, ove contende che questo non può rimaner tocco da ingiurie.
Parlando a suo fratello Gallione della _vita beata_, si scusa delle
ricchezze imputategli, e difende dagli Epicurei le opinioni stoiche
sulla beatitudine. I tre libri a Nerone _Della clemenza_, di stile più
nobilmente semplice, offrono esempj e precetti di quella che è dovere
in tutti, e ne' principi lodasi come virtù perchè rara. Meriterebbe
d'esser rifatto il suo discorso _Dei benefizj,_ tanto aggiungendo
ed applicando a ciò ch'egli dice intorno al modo di fare il bene,
di riceverlo, di ricambiarlo. Le cenventiquattro _Lettere_ sono
altrettante dissertazioni su punti morali.
Seneca è pure contato fra gli scienziati; e sebbene le sue _Quistioni
naturali_ sieno un'indigesta accozzaglia e una verbosa esposizione di
cognizioni empiriche sgranate, senza puntello di scienze esatte nè di
proprie esperienze sistematiche, sono però l'unico libro che ci attesti
avere i Romani posto mente alla fisica, e segna l'ultimo punto cui gli
antichi l'abbiano spinta: sicchè molti secoli egli restò in Europa quel
che Aristotele fra i Greci, il repertorio delle fisiche cognizioni.
I Romani, affatto positivi, voleano applicare immediatamente le
teoriche; dal che restò pregiudicata la ricerca indipendente, nè verun
grande pensiero scientifico fu da essi conquistato, nè per l'esperienza
nè per la riflessione. Intesi alla pratica, la natura considerarono
soltanto come oggetto dell'attività umana, onde non ne indagarono
l'essenza e le armonie, e di ben poco avanzarono la cognizione di essa.
Con un dominio sì esteso avrebbero potuto strarricchire la scienza
naturale: negli archivj palatini stavano preziose relazioni geografiche
de' generali: troviamo accennate altre collezioni, ma nè diligenti nè
dirette a scientifico intento.
La _Storia della natura_, sola arrivataci fra tante opere di Cajo
Plinio Secondo (23-70), è un repertorio delle scoperte, delle arti,
degli errori dello spirito umano, raccolte all'occasione di descrivere
i corpi. Esibito nel primo dei trentasette libri uno specchietto delle
materie e degli autori, nel secondo tratta del mondo, degli elementi
e delle meteore; seguono quattro di geografia, poi il settimo delle
varie razze umane e dei trovati principali; i quattro seguenti versano
sugli animali, classificati giusta la grossezza e l'uso, e ragionando
dei costumi loro, delle qualità buone o nocevoli, e delle men comuni
loro proprietà. Ben dieci libri sono consacrati a descrivere le piante,
la loro coltura e le applicazioni all'economia domestica e alle arti;
poi cinque ai rimedj tratti dagli animali; altrettanti ai metalli, col
modo di cavarli e di convertirli pei bisogni e pel lusso. A proposito
di questo parla della scoltura, della pittura, e dei primarj artisti,
come delle insigni statue di bronzo ragiona in occasione del rame,
e le materie coloranti il recano a dire de' quadri, della plastica
le stoviglie: distribuzione capricciosa e mal digesta, ove sempre il
pensiero è sottoposto alla materia.
Ma Plinio non è un naturalista che raccolga, osservi, sperimenti,
aggiunga al tesoro delle cognizioni precedenti; sibbene un erudito,
che alle occupazioni della guerra e della magistratura sottrae qualche
ora onde sfogliare libri: mentre pranza, ha schiavi che leggono; n'ha
mentre viaggia; altri estraggono tutto quel che egli appunta, e gli
tennero mano a compilare un lavoro, che risparmiava tante letture,
allora difficoltosissime. Così raccozzando senza genio nè critica,
non distingue la diversità delle misure di lunghezza, mescola fatti
contraddittorj, barcolla fra sistemi disparati, anzi opposti; non
intende i passi, riferiti all'abborracciata, nè si cura di confrontarli
colla realtà, onde descrivendo cose non vedute, riesce spesso
inintelligibile; non si briga di riuscire compiuto e di non ripetersi;
e attento a solleticare la curiosità più che a scoprire il vero, alla
retorica più che alla precisione, sceglie ciò che ha del singolare e
del bizzarro, beve assurdità già confutate dallo Stagirita. Nè sempre
alle migliori fonti ricorre; e sopra le origini italiche ormeggia
Giulio Igino, autore senza critica, mentre neglige i venti libri di
storia etrusca, che sappiamo aveva stesi l'imperatore Claudio.
Pure l'essersi perduta la più parte delle duemila opere da esso
spogliate il rende prezioso; e senza la sua farragine, quanta parte
dell'antichità ci rimarrebbe arcana! quanto minor tesoro possederemmo
della lingua latina![260]
Gagliardo e preciso nel dire, ma lontano dal semplice e corretto de'
contemporanei di Cesare, casca nell'affettato e nell'oscuro. Lo spirito
dell'antica repubblica animava lui pure, siccome Trasea, Elvidio,
Tacito e gli altri migliori, e di là attinge spesso calore e fin
eloquenza: ma il gusto peggiorato e la gonfiezza delle parole fuorviano
l'energica elevatezza del suo ingegno; giudica e spiega i fatti a
seconda delle personali prevenzioni e di una filosofia atrabiliare,
che assiduamente accusa l'uomo, la natura, gli Dei, colla retorica
aggravando la miseria umana, col raziocinio scoprendo i disordini di
questo mondo, senza elevarsi alle armonie di un altro, l'indagare
il quale egli non trova di verun interesse; nega affatto Iddio, e
lo fa tutt'uno colla materia; e s'avvoltola nello scetticismo fin
a considerare l'uomo come l'essere più infelice e più orgoglioso, e
insultare la divinità che «nè può concedere all'uomo l'immortalità, nè
togliere a se stessa la vita, la quale facoltà è il dono più bello che
essa abbia a noi lasciato»[261].
Mentre sbraveggia le religioni e la Provvidenza, indulge a
superstizioni (pag. 180), crede come fatti incontestati (_confessa,
constat_) a ermafroditi, a maschi cambiati in femmine, a fanciulli
nati coi denti o rientrati nell'alvo materno, alla longevità di chi
ha un dente di più, alla disgrazia di chi nasce pei piedi, a cavalle
fecondate dal vento, a donne che partorirono elefanti. Egli vi dirà
d'una pietra, la quale, posta sotto il capezzale, produce sogni
veritieri; che al morso di serpenti rimedia la saliva d'uom digiuno;
che sputando nella mano si guarisce l'uomo involontariamente feritosi:
un abito portato ai funerali mai non è intaccato dalle tarme; un
uomo morsicato da un serpente più non ha a temere di api o di vespe;
le morsicature d'un animale si esacerbano alla presenza di persona
morsicata da un animale della specie medesima. Nè è stupore che v'abbia
mostri così strani in Etiopia, avendoli formati Vulcano, abilissimo
modellatore, giovato da quel gran caldo[262].
L'attrazione verso il centro della terra era stata asserita da
Aristotele, accettavasi come una verità comune dai Romani, e Cicerone
la esprimeva con esattissima felicità[263]. Plinio invece vi dirà
che i gravi tendono al basso, i corpi leggeri all'alto; s'incontrano
e per la mutua resistenza si sostengono: così la terra è sorretta
dall'atmosfera, se no lascerebbe il suo posto e precipiterebbe al
basso. Non solo rifiuta il sistema mondiale pitagorico, ma trova pazzia
il supporre altre Terre ed altri Soli di là dal nostro, misurare la
distanza degli astri, seminare d'infiniti mondi lo spazio[264].
Chi volesse (nè ammannirebbe impresa difficile) riscontrare l'età che
descriviamo col secolo precedente al nostro, troverebbe somiglianza
fra Plinio e gli Enciclopedisti in quel copertojo scientifico dato
all'ignoranza e alla credulità, in quell'armeggio di sapere o mostrar
di sapere, in quel ripudiare la luce che viene dalla vera fonte e che
pure gli illumina, in quel professarsi materialista, e tuttavia per
buon cuore giungere a conclusioni benevole. Come gli Enciclopedisti,
Plinio declama contro chi inventò la moneta; benedetti i secoli,
ove altro commercio non si conosceva che di cambio; è un delitto la
navigazione, la quale, non paga che l'uomo morisse sulla terra, volle
mancasse perfino di sepoltura[265]. Eppure intravede la perfettibilità,
e «quante cose non erano considerate impossibili prima che si
facessero! confidiamo che i secoli avvenire si perfezionino sempre
meglio»[266]. Tuttochè materialista, al nome di Barbari sostituisce
quello d'uomini; rinfaccia a Cesare il sangue versato; loda Tiberio
d'aver tolte di mezzo certe disumane superstizioni in Africa e in
Germania; bofonchia contro quelli che il ferro ridussero in armi,
pure della guerra riconosce i vantaggi, professando che l'Italia fu
scelta dagli Dei per riunire gl'imperj dispersi, addolcire i costumi,
ravvicinare in comunanza di linguaggio gl'idiomi discordi e barbari di
tanti popoli, dare agli uomini la facoltà d'intendersi, incivilirli,
divenire insomma la patria unica di tutte le nazioni del mondo[267].
Di queste idee avanzate, di questa filosofia tollerante e cosmopolita,
egli non conosceva o rinnegava la sorgente.
Plinio era di Como; militò in Germania, fu procuratore di Nerone nella
Spagna, da Vespasiano ebbe il comando della flotta navale al Miseno:
ma mentre colà dimorava, il Vesuvio eruttò fiamme per la prima volta;
ed egli accorso sia per curiosità del fenomeno, sia per sovvenire ai
pericolanti, fu preso da una sua ricorrente debolezza di stomaco, e
caduto, restò soffogato. Lasciò centottanta volumi in minutissimo
carattere, fra cui tre libri di arte oratoria, trentuno di storia
contemporanea, trenta delle guerre de' Romani in Germania, altri del
lanciar dardi, e perfino di grammatica, scritti «quando la tirannia di
Nerone rendeva pericoloso ogni studio più elevato».
Giulio Solino, vissuto non si sa quando, ma forse due secoli più tardi,
beccò da Plinio senza criterio, ed espose in istile ricercato notizie
varie, massime di geografia, e il suo _Polistore_ ebbe gran corso
nel medio evo. Le conquiste e il commercio dilatarono la cognizione
del mondo: pure vedemmo come Greci fossero quelli, di cui Augusto si
valse per misurare e descrivere l'impero. E dalla Grecia vennero, nel
tempo che discorriamo, i due maggiori geografi Strabone e Tolomeo. Il
primo, dopo lunghi viaggi nell'Asia Minore, nella Siria, nella Fenicia,
nell'Egitto fin alle caterrate, poi in Grecia, Macedonia, Italia,
eccetto la Gallia Cisalpina e la Liguria, in diciassette libri diede la
storia della sua scienza da Omero ad Augusto; e trattando delle origini
e migrazioni dei popoli, della fondazione delle città e degli Stati,
dei personaggi più celebri, sa portarvi la critica. L'altro descrisse
l'universo in modo d'acquistare il nome di Tolomaico al sistema
che, in opposizione coi Pitagorici e coi moderni, pone la terra per
centro ai cieli; e creò la geografia scientifica, disponendo i paesi
matematicamente per longitudine e latitudine[268].
L'unico che in latino trattò di geografia, è Pomponio Mela spagnuolo
(_De situ orbis_), in prosa concisa ed elegante compendiando il sistema
d'Eratostene; all'aridità d'una nomenclatura provvede coll'intarsiare
graziose descrizioni e dipinture fisiche o storiche ricordanze: ma
non vide cogli occhi proprj, dà come sussistenti cose da gran lunga
perdute, mentre non nomina Canne, Munda, Farsaglia, Leutra, Mantinea,
famose per battaglie; nè Ecbatana, Persepoli, Gerusalemme, capitali
importanti; nè Stagira patria d'Aristotele.
Carte geografiche sappiamo si usavano anticamente[269]; in un tempio
della Terra n'era dipinta una dell'Italia[270]; una di tutto il mondo
in un portico di Roma[271]; d'altre ci parlano Frontino e Vegezio; ed
entrante il III secolo, Giuliano Taziano aveva stesa una descrizione di
tutto l'impero, che andò perduta. D'un'altra, ordinata dall'imperatore
Teodosio, abbiamo una copia o un'imitazione nella Tavola Peutingeriana,
carta stradale in sola lunghezza, e molto inesatta.
I Romani tennero sempre in lieve conto le matematiche, nella loro
albagia giudicando abjetta una scienza che prestava servizio alle
arti meccaniche, misurava il guadagno, teneva i registri. Allo studio
di essa Orazio imputa la depravazione del gusto; Seneca la ripudia
come avvilente; nè sino a Boezio non si tradussero Euclide, Tolomeo,
Archimede. Tanto scarsamente seppero di geometria, che i giureconsulti
romani supposero la superficie del triangolo equilatero eguale alla
metà del quadrato eretto sopra uno dei lati[272]; e fu tenuto un
portento Sulpicio Gallo che prediceva gli eclissi.
Di matematiche applicate scrisse Sesto Giulio Frontino, che sotto
Vespasiano capitanò in Bretagna prima d'Agricola, poi fu console,
augure, amico di Plinio, lodato da Marziale; e sul morire dispose non
gli si ergesse monumento, dicendo: — Abbastanza sarò ricordato se la
vita mia lo meriti»[273]. Soprantendente agli acquedotti, diede la
storia di queste memorabili costruzioni, veramente italiane. Lasciò
inoltre quattro libri di _Stratagemmi_, compilazione fra militare e
storica, povera di critica e d'eleganza, ma colla facilità sicura di
chi sa quel che n'è.
La medicina, fin ai tempi di Plinio, da verun Romano era stata
coltivata; i medici erano la più parte schiavi o stranieri, e Giulio
Cesare pel primo comunicò ad essi la cittadinanza. In bottega pubblica
(_jatreon_) faceano salassi, strappavano denti, ed altre operazioni,
fra i chiacchericci e le cronache. Altri s'applicavano a studiarla, e
sopra gl'infelici clienti sperimentavano singolari novità e bizzarre
teoriche, colla sicurezza che alletta le malate fantasie, e dà
reputazione e denaro. Una delle loro scuole era chiamata _medicina
contraria_, perchè nelle febbri lente ed ostinate il professore ad
un tratto abbandonava i rimedj fin allora esperiti onde applicare i
precisi opposti. Augusto malato a morte era curato con calefacienti,
e Antonio Musa suo liberto lo guarì sostituendovi di balzo i bagni
freddi. Era il caso di dire con Celso: _Quos ratio non restituit,
temeritas adjuvat._ Un'altra volta sanò l'imperatore colle lattuche;
onde questi gli concesse l'anello, e, per amore di lui, immunità a
tutti quei della sua professione.
Asclepiade di Prusa in Bitinia, venuto ad esercitar questa a Roma un
secolo prima dell'êra vulgare, le differenti malattie deduceva da
viziosa dilatazione o stringimento de' pori, e la pratica riduceva
a rimedj che producessero l'effetto contrario. _Pronta, sicura,
piacevole_ doveva essere ogni cura, limitandosi a dieta, ginnastica,
fregagioni, vino, sbandendo ogni farmaco violento e interno, e
frequentando i semplici. Colla quale blanda pratica riconciliò alla
medicina i Romani, che n'erano disgustati dalla sanguinaria del
chirurgo Arcagato, cui il soprannome di vulnerario fu mutato in quel di
carnefice, e forse per questo aveva attirato alla sua arte le esagerate
invettive dell'antico Catone[274].
Alcuno volle ascrivere all'età d'Augusto Aurelio Cornelio Celso[275],
del quale s'ignorano la patria e i casi, e della cui Enciclopedia
(_Artium_) non ci rimasero che otto libri intorno alla medicina,
i quali forse sono mere traduzioni dal greco. Ippocratico, cioè
osservatore, pur ricorrendo all'induzione, non crede importante nella
medicina se non ciò che tende a risanare. Raccomanda di non prendere
abitudini, nè ledere la temperanza; poi raccoglie quanto dissero i
precedenti, giudicandone con buon senso ed esponendolo con eleganza
spigliata. Non disapprova l'uso di qualche medico d'allora, di sparare
_gli uomini vivi_, ma non lo trova necessario, potendo le ferite de'
gladiatori, de' guerrieri e degli assassinati offrir campo a studiare
le parti interne per rimedio e pietà, non per barbarie.
Molti medici vanta la Sicilia, e a lor capo il famoso Empedocle,
introduttore della dottrina degli elementi. Acrone, di Agrigento
come lui, giovò assai agli Ateniesi nella peste che proruppe durante
la guerra Peloponnesiaca, e fondò la scuola empirica. Menecrate,
contemporaneo di Filippo il Macedone, intitolavasi Giove, menavasi
dietro come corteo i suoi guariti, principalmente gli epilettici;
ma colla sua vanità buscò beffe. Erodico da Leonzio inventò la
medicina ginnastica, curando con violenti esercizj, susseguiti dal
bagno; ma Ippocrate lo accusava di uccidere i malati col soverchio di
passeggiate, di lotte, di fomenti. Scribonio Largo Designaziano, siculo
o rodio del tempo di Claudio, cercò combinare le dottrine metodiche
coll'empirismo, ed è notevole per aver insegnato a non isradicare il
dente leso, ma levarne solo la parte guasta; e ancor più per avere
applicato l'elettricità al mal di capo, suggerendo di tenervi una
torpedine viva: rimedio adottato anche da Dioscoride.
Altri medici greci, illustri a Roma e fondatori di varj sistemi,
preteriremo, ma non Claudio Galeno da Pergamo, che con ingegno vasto
quanto Aristotele, altrettante erudizione e maggior libertà, abbracciò
tutte le scienze; e non pago dei sistemi dominanti e dell'autorità,
applicavasi alle indagini della natura e all'anatomia. A Roma acquistò
credito, malgrado gl'intrighi dei suoi colleghi, i quali all'ignoranza
univano l'invidia, fin al segno d'avvelenare alcuni suoi ajutanti.
Curò Marco Aurelio, e piace trovare dal medico filosofo descritte
alcune malattie del filosofo imperante. Sotto al coltello anatomico
riconosceva i misteri della vita e la scienza divina; eppure non seppe
salvarsi dall'andazzo del suo secolo: Esculapio in sogno gli suggerì un
salasso, e lo stornò dal seguire gl'imperatori nella spedizione; alle
incantagioni avea fede, e combatteva il cristianesimo come assurdo.
Dopo di lui, gravi guasti portò nella medicina la teosofia, pretendendo
spiegare le malattie coi démoni e colle potenze segrete, medicarle con
incanti, e col recare indosso pietre efesie iscritte colle misteriose
parole che si leggevano sull'effigie di Diana, o le gemme abraxe
con figure egizie, o simboli desunti dal culto di Zoroastro o dalla
Cabala giudaica. Sereno Sammonico, maestro del giovane Gordiano, ci
lasciò un poema sulla medicina, ove per la febbre emitrea suggerisce
l'abracadabra[276]. Sesto Placito Papiriense scrisse un indigesto
ricettario di medicamenti tratti dagli animali, anzi dalle parti
più schife: insegna a guarir la quartana portando addosso un cuor di
lepre; prevenire le coliche col mangiare lesso un cane appena nato; o
quando prendono, sedersi sopra una seggiola dicendo, _Per te diacholon,
diacholon, diacholon_. Marcello Empirico, medico di Teodosio, raccolse
le ricette _fisiche e filateriche_, perchè i suoi figli potessero farne
carità: ma l'ottima intenzione non pallia l'assurdità dell'opera. A
chi entrò nell'occhio un corpo straniero, bisogna toccarlo ripetendo
tre volte: _Tetune resonco bregan gresso,_ e ad ogni volta sputare;
oppure: _In mondercomarcos axatison_. Per l'orzajuolo sull'occhio
destro, tocchisi con tre dita della mano sinistra, sputando e dicendo
tre volte: _Nec mula parit, nec lapis lanam fert, nec huic morbo caput
crescat, aut si creverit tabescat_. Pel panereccio si tocchi tre volte
il muro dicendo: _Pu pu pu; numquam ego te videam per parietem repere_.
Per la colica si ripeta tre volte: _Stolpus a cœlo cecidit; hunc morbum
pastores invenerunt, sine manibus collegerunt, sine igne coxerunt,
sine dentibus comederunt._ Prescrive i giorni appunto in cui preparare
i farmachi, le preghiere da dirsi al Capodanno e al primo cantar
delle rondini, e come usare il _rhamnus spina Christi_, di miracolose
proprietà, perchè fu stromento alla passione del Redentore.
Il napoletano Pantoro, esaminati gli stromenti chirurgici trovati a
Pompej, asserì che già conosceansi allora di quelli che si credono
invenzione recente. All'Accademia di medicina a Parigi furono da
Scoutetten presentati i seguenti stromenti, disotterrati a Pompej ed
Ercolano: una sonda curva, una dritta, pei due sessi e per bambino; la
lima per togliere le asprezze ossee; lo specillo dell'ano e dell'utero
a tre branche; tre modelli di aghi da passar corde o setoni; la
lancetta ed il cucchiajo, di cui i medici si servivano costantemente
per esaminare la natura del sangue dopo il salasso; uncini ricurvi di
varia lunghezza, destinati a sollevar le vene nella recisione delle
varici; una cucchiaja (_curette_) terminata al lato opposto da un
rigonfiamento a oliva, all'uopo di cauterizzare; tre ventose di forma e
grandezza diversa; la sonda terminata da una lamina metallica piatta e
fessa, per sollevare la lingua nel taglio del frenulo; molti modelli di
spatule; scalpelli a doccia piccolissimi per segare le ossa; coltelli
dritti e convessi; il cauterio nummolare; il trequarti; la fiamma
dei veterinarj per salassare i cavalli; l'elevatore pel trapanamento;
una scatola da chirurgo per contenere trocisci e diversi medicamenti;
pinzette depilatorie, pinzette mordenti a dente di sorcio, una a becco
di grua, una che forma cucchiajo colla riunione delle branche; molti
modelli di martelli taglienti da un lato; tubi conduttori per dirigere
gli stromenti cauterizzanti.
Lautissima professione il medico. Manlio Cornuto promise ducentomila
sesterzj a chi lo guarisse dal lichene, malattia della faccia,
introdottasi sotto Tiberio: Carmi fecesi pagare altrettanto un viaggio
in provincia: in pochi anni Alcmeone ammassò dieci milioni di sesterzj.
Quinto Stertinio lodavasi agli imperatori di esiger da essi non più
di cinquecentomila sesterzj, mentre la sua clientela in Roma gliene
produceva seicentomila; l'ugual salario ricevette suo fratello da
Claudio, sicchè essi poterono abbellir molto Napoli, e in eredità
lasciarono trenta milioni di sesterzj: dieci milioni ne lasciò Crina
marsigliese, dopo spesone altrettanti a rialzar le mura della sua
patria[277].
Più volte avvertimmo che la coltura fra i Romani non ebbe nulla di
spontaneo, nè derivò da slancio o da amor del bello, ma da imitazione,
da ostentazione. Dei grammatici nominati da Svetonio, due terzi sono
- Parts
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 01
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 02
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 03
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 04
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 05
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 06
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 07
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 08
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 09
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 10
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 11
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 12
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 13
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 14
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 15
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 16
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 17
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 18
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 19
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 20
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 21
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 22
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 23
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 24
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 25
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 26
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 27
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 28
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 29
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 30
- Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 31