Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 17

In un corpo non eletto dal popolo, non sostenuto da truppe, la
depressione nè trovava contrasto nè eccitava lamenti. Accomunati
i diritti alle provincie lontane, v'entravano persone stranie
affatto alle memorie della libertà e della repubblica, e devotamente
riconoscenti agl'imperatori. Già l'ordine di Claudio che priva della
dignità equestre chi ricusi la senatoria, mostra come fosse divenuto
un peso quel che prima costituiva la suprema ambizione; e sotto
Comodo si disse che un tale «fu relegato nel senato». Invece dunque
di presentarsi custodi della tradizione e tutori della libertà, i
padri coscritti coll'esempio e colle dottrine confermarono l'assoluta
padronanza del monarca sopra la vita e i beni. Dione si direbbe
scrivesse la sua storia a quest'unico intento; i giureconsulti diedero
legale fondamento all'esorbitanza imperiale; e la monarchia al tempo di
Severo potè gettare la maschera, di cui Augusto l'aveva coperta.
Gl'imperatori, per togliersi gl'impedimenti della nobiltà privilegiata,
promossero le ragioni della comune natura umana, favorirono i peculj
de' figliuoli di famiglia e le emancipazioni, ampliarono gli effetti
e restrinsero le solennità delle manumissioni, migliorarono la
condizione degli schiavi a fronte dei padroni. Anche in ciò il capo
dello Stato operava in senso popolare, col voler tutti eguagliati nel
diritto, umiliare i prepotenti, non concedere privilegi a particolari
persone, ma erigere alle dignità chiunque ne paresse degno, garantire
la moltitudine da oppressioni private, e tenerla soddisfatta circa
i bisogni della vita e gli usi della libertà naturale. Lo zelo
degl'imperatori per la giustizia civile riparava a non pochi altri
abusi, incuteva salutare apprensione ai magistrati, e avvicinava ognor
più il diritto all'equità naturale e al senso comune. In tal modo
progrediva l'umanità anche fra codardi patimenti, e col gran nome
dell'impero estendevasi l'idea dell'eguaglianza sotto un unico governo,
opposta a quanto praticò l'antichità, e che dovea costituire l'indole
delle società moderne.
Coll'impero cangiarono aspetto anche le finanze. Le spese furono
a dismisura aumentate dal mantenere un esercito stanziale ed una
corte[244], dal pagarsi gl'impiegati, e dalle crescenti distribuzioni
di grano; ignorando quegli augusti che il mettere i poveri in
grado di comprare il vitto coll'aumentare i lavori costa meno che
non l'abbassare i prezzi del grano. È peccato che siasi perduto il
_Rationarium totius imperii_, dove Augusto avea divisato l'entrata e
l'uscita[245]; e fra le divergentissime opinioni, la media darebbe
novecentosessanta milioni di lire d'entrata generale. Vespasiano,
principe economo, diceva l'amministrazione e la difesa dell'impero
costare quattromila milioni di sesterzj, cioè ottocento milioni di
lire l'anno[246]: or che doveva essere sotto imperatori pazzamente
scialacquatori?
Augusto effettuò l'idea di Giulio Cesare di far misurare tutto
l'impero; e Zenodoxo in trentun anno e mezzo compì la misura delle
parti orientali, Teodoto quella delle settentrionali in ventinove e
otto mesi, Policleto delle meridionali in venticinque e un mese. Balbo
coordinò in Roma i loro lavori, ed eretto il catasto, prescrisse i
regolamenti censuarj. Agrippa, preside a questa grand'operazione, ne
trasse un mappamondo, che fece dipingere sotto il portico d'Ottavia,
sicchè ciascuno potea vedervi l'estensione dell'impero: i governatori
delle provincie riceveano la descrizione del loro paese colle distanze,
lo stato delle strade grandi e delle vicinali, delle montagne, dei
fiumi.
Contemporaneamente si fece per tutto l'impero il registro delle persone
coi loro beni mobili e immobili, bestiame, schiavi, affittajuoli,
casiliani, e il numero, il sesso, l'età de' figliuoli: il qual
censo dovea rinnovarsi ogni decennio, e serviva di base al riparto
dell'imposta. Un censitore e un perequatore riceveano i reclami, e
rettificavano gli errori; la falsa dichiarazione era punita colla
morte e la confisca; ogni cambiamento di possesso doveva notificarsi;
e poc'a poco si perfezionò quest'azienda in modo, che il vastissimo
impero restava regolato con altrettanta diligenza quanto una piccola
casa[247].
Ma l'impero non possedeva gli spedienti, pei quali i moderni possono
levar tanto denaro senza gravissimo incomodo: dall'imposta personale,
la più rilevante, rimanevano esenti sei o sette milioni di famiglie
romane, che erano le più ricche; le altre rendite appartenevano a
quelle di difficile e costosa esazione, dove è facile la frode, e dove
il prodotto diminuisce se la tassa si aggravi.
L'Italia dapprima andava immune da imposta fondiaria stabile
(_numerarium_); l'Italia annonaria doveva una prestazione in derrate;
dell'_ager provincialis_ era carattere un tributo fondiario, variante
di misura e condizione: ma gl'imperatori adottarono una base uniforme;
poi l'Italia, come dicemmo, cessò d'essere privilegiata. Già anche
a questa Augusto aveva imposto gabelle e tasse sulle vendite, e una
generale sui beni e sulle persone de' cittadini romani, che da un
secolo e mezzo non pagavano aggravj; anzi talmente pesavano le imposte,
che gl'imperatori trovavansi costretti ogni tratto a condonare ingenti
debiti ai privati. Sulle somme, sopra le quali nasceva litigio,
prelevavasi il due e mezzo per cento; tasse imponeansi sui mercati,
gli artigiani, i facchini, le meretrici, sulle latrine pubbliche,
sull'orina, sul concio di cavallo; ogni sorta mercanzie entrando pagava
di dazio dal quarantesimo fin a un ottavo del valore; e grandioso
doveva esserne il ritratto quando dall'India si traeva annualmente per
ventiquattro milioni di lire in merci, esitate a Roma al centuplo del
valore primitivo[248].
La tassa sulle vendite non soleva eccedere l'un per cento, ma non
v'avea sì minuto oggetto che vi si sottraesse. Era destinata a
mantenere l'esercito; poi non bastando, s'introdusse la vicesima, cioè
un cinque per cento sopra tutti i legati e le eredità eccedenti una
certa somma, e che non cadessero nel più prossimo parente. Tra famiglie
ricchissime, dove la rilassatezza dei legami domestici faceva spesso ai
proprj figliuoli preferire i liberti o gli estranei che avevano saputo
blandire le passioni o accontentarle, quella tassa riusciva talmente
ingorda, che nel volgere di pochi anni versava l'intero retaggio
nell'erario. Molto pure ingrassavano il fisco le multe della legge
Papia-Poppea contro gli smogliati.
Secondo il genio degl'imperatori e col crescere dei bisogni aumentarono
tutte le imposizioni e fisse ed eventuali; sussistette sempre l'abuso
d'affittarle ad appaltatori, de' cui gravi e feroci abusi enormemente
soffrivano i sudditi. Era caduco al fisco, 1º tutto ciò che, in
forza di testamento, avrebbe dovuto toccare a persona premorta alla
pubblicazione di quello; 2º le donazioni e i legati a persone indegne,
o sotto illecite condizioni; 3º quel che venisse ricusato dall'erede
o legatario, come spesso avveravasi nei casi di ribellione, per non
mostrarsi amici del reo; 4º quanto fosse lasciato in testamento a
celibi che entro un anno non si fossero ammogliati, e metà de' lasciti
fatti a consorti senza figli; in fine quanto sarebbe toccato a chi
sopprimeva un testamento, o impediva alcuno dal testare liberamente.
Oltre le frequentissime colpe di Stato, portavano la confisca
innumerevoli delitti; e fra questi il parricidio, l'incendio, la
moneta falsa, il ratto, lo stupro, la pederastia, il sacrilegio,
la prevaricazione, il peculato, lo stellionato, il monopolio, e
l'incetta del grano destinato a Roma o all'esercito, il plagiato, ossia
l'attentare contro l'altrui libertà. Così punivasi il magistrato che
subornasse testimonj contro un innocente, il padrone che esponesse
gli schiavi nell'anfiteatro, i falsarj; e dopo Alessandro Severo
gli adulteri, chi evirasse o si lasciasse evirare, chi supponeva un
bambino, chi usava violenza armata mano, chi mutava domicilio per
sottrarsi al tributo, chi prendeva denaro a prestanza dalle pubbliche
casse, chi occultava i beni d'un proscritto, chi trasportava oro fuori
dell'impero o vendeva armi a stranieri, chi di mala fede acquistava
una cosa in litigio, chi vendeva porpora, o apriva il testamento d'un
vivo, o spogliava de' suoi ornamenti un edifizio urbano per abbellire
una villa. E tanti erano i beni ricadenti al tesoro per legge o per
confisca, che s'istituirono _procuratori de' beni caduchi_ per raccorli
ed amministrarli nelle provincie; carica non già di gente di vile
affare, ma affidata a persone di gran recapito, e sino a consolari.
Diritto particolare dell'imperatore era il batter moneta d'oro e
d'argento: di rame potè farne il senato fin a Gallieno: le colonie
e alcune città conservarono il privilegio di monete particolari. Le
terre dell'antico agro pubblico in Italia erano occupate da colonie
e specialmente da militari, sicchè non davano verun frutto diretto
allo Stato. Anche nelle provincie i dominj pubblici erano stati in
gran parte usurpati durante la guerra civile da privati; Augusto e i
successori fecero altrettanto, ingrandendo il possesso del principe,
che fruttava unicamente pe' favoriti. S'introdussero poi regalie a
vantaggio dell'imperatore, e fabbriche d'armi, di stoffe, di gomene,
tinture, dorature, nelle quali adopravansi soli schiavi imperiali.
Anche pingui legati soleano farsi agl'imperatori; e se per tal via
Augusto raccolse in vent'anni quattromila milioni di sesterzj, pensate
che dovessero fruttare sotto imperatori ribaldi, alcuni dei quali
cassavano i testamenti ove non si trovassero considerati! Pure talvolta
l'erario difettava; e Marco Aurelio si trovò in tali strette, che fece
vendere all'asta gli ornamenti della reggia, i vasi preziosi, le gemme,
fin le vesti di sua moglie; poi, finita la guerra, invitò i compratori
a restituirli al prezzo stesso, e a chi ricusasse non risparmiò
vessazioni. Operazione che noi avremmo semplificata mediante viglietti
del tesoro.
La servitù era abbellita da tutti i vantaggi compatibili colla
tranquillità. In ogni parte sorgevano fabbriche, le cui reliquie
formano la meraviglia di noi tardi nipoti; quali per opera de'
magistrati, quali dei Comuni, quali ancora dei privati: a quelle de'
Cesari i sudditi erano obbligati a contribuire braccia e carri. Tali
edifizj ci porgono una riprova del sistema politico antico, pel quale
si aveva ogni riguardo alle città, nessuno alla campagna. Dopo il
medioevo, non trovi spazio ove non sorga un villaggio con una chiesa,
un palazzo o un castello: allora invece tutto concentravasi nelle
città, alle città mettevano capo le grandi strade, senza quella rete
di minori che oggi congiungono le minime borgate: insomma allora i
cittadini, ora il popolo; allora pochi privilegiati, ora chiunque è
uomo.
Chi dunque, abbagliato da tali splendidezze, giudicasse ricchissimi
quei nostri antenati, dimenticherebbe che non le molte dovizie
accumulate in mano di pochi, ma la equabile diffusione di ciò che serve
alle necessità, ai comodi, forma la prosperità delle nazioni.
La violenza poteva esser la colpa d'un proconsole o d'un imperatore,
non era il carattere della dominazione romana, troppo aliena dal
volersi fondare soltanto sull'esercito, sulla polizia, e regolamentare
tutto. Pertanto nell'Italia e nelle provincie restava luogo a dignità
e ad autorità più che in Roma; e il municipio conservava una vita
che era scomparsa dalla metropoli; n'era rispettata l'indipendenza;
la legge municipale rimaneva illesa dai capricci dell'imperatore e
dalle sottigliezze de' giureconsulti; liberamente vi si faceano le
elezioni, teneano adunanze: gli Olconj e gli Arrj a Pompej, i Sergj
a Pola fabbricavano portici, archi, anfiteatri, come ne' bei tempi a
Roma i Pompei ed i Lentuli; ai Nonj, ai Celsinj, ai Balbi, ai Vitruvj
ergeansi monumenti in Pompej, in Ercolano, in Verona, quando a Roma le
onorificenze erano serbate a cesare.
Già accennammo in che modo i possessi mutassero di padroni, dal che
sotto l'impero trovaronsi innovate l'economia e le finanze. Gli antichi
aristocrati per tradizione seguitavano a coltivare i campi per mano
di schiavi, diretti da schiavi: i nuovi, non pensando che a godere in
lusso le sfondolate dovizie, davano i beni a fitto a lavoratori nati
liberi, che li coltivassero a proprie spese e pericolo. Ordinariamente
l'affitto facevasi per cinque anni, e pagavasi in denaro, e a
proporzione degli schiavi ond'era _vestito_ il podere.
Divenendo sempre più difficile l'affidare la direzione de' proprj
beni a fittajuoli liberi e garanti, dopo il II secolo s'introdusse
un metodo nuovo d'economia rurale, mutando lo schiavo in colono
servile, permettendogli di menar moglie, tenere figliuoli, disporre
del suo peculio, purchè retribuisse un canone annuo: da ciò sarebbe
potuta venire la redenzione dello schiavo; ma poichè sempre maggiore
facevasi la sproporzione fra poveri e ricchi, e l'aumentava la
fiscalità introdotta coi crescenti bisogni della repubblica, si
venne a temere che il proprietario vendesse gli schiavi e lasciasse
incoltivati i campi. Fu dunque provveduto che il colono restasse
colla sua discendenza affisso alla gleba, e con essa venduto: il che,
oltre ribadire la schiavitù, produsse una funesta disuguaglianza nella
distribuzione dei lavoratori, accumulati in alcune contrade, mentre
altre ne rimanevano deserte. Pertanto al fine di quest'età giacevano
selvatiche le campagne, esercitate un tempo dalla popolosa solerzia
degli Equi, de' Sabini, de' Volsci, degli Etruschi, de' Cisalpini;
altri immensi spazj erano occupati da giardini d'infruttifere
voluttà, ai quali aggregavansi via via i camperelli vicini, i cui
proprietarj correvano a Roma a sprecar quel poco ricavo, per poi
ridursi alla limosina. Svigorita dalla lunga coltivazione a braccia, nè
sufficientemente rianimata dalla concimazione, la terra poco rendeva;
un cattivo sistema di rotazione agraria, la coltura resa costosissima
dall'imperfezione de' metodi e degli stromenti, per cui richiedeasi il
quadruplo delle braccia odierne, le meschine strade vicinali, bastanti
appena ai somieri, il divieto di asportar grani e l'incoraggiamento a
importarne di stranieri, rendevano cattiva speculazione la coltura a
grano, talchè Catone la colloca appena al sesto luogo, e preferivansi
i pascoli, che non importano spese; sebbene vogliasi dimostrato che i
migliori non rendevano più di sessanta franchi per arpento[249].
Un paese la più parte montuoso come il nostro, non può prosperare
che mediante la piccola coltura a mano, la quale si vantaggia de' più
angusti spazj, e varia a seconda del terreno e dell'esposizione; come
non è possibile colle macchine o con una direzione in grande. Sparendo
dunque la proprietà minuta, diminuivano sempre più la ricchezza
d'Italia e la popolazione laboriosa ed onesta: donde quel detto di
Plinio, che i latifondi furono la rovina dell'Italia. Che se ci si
opponesse l'Inghilterra, ricchissima malgrado gli amplissimi poderi,
mentre è misera la Corsica ove sono sminuzzati, faremmo riflettere
come della popolazione inglese appena un quarto attenda ai campi, il
resto vive dietro al commercio e all'industria; e che l'estensione
delle praterie è proporzionata colle terre a biada, e i numerosi
armenti offrono abbondanza d'ingrassi. Vero è bene che sono gli uomini
che fecondano la terra; e dove nulla li impedisca di giungere alla
ricchezza per via della fatica, ne seguirà un generale prosperamento.
Allora, come oggi, v'avea piagnoloni che ripeteano essere isteriliti
i campi, peggiorata la temperie del cielo, spossata la natura dal
lungo produrre. Ai così fatti Lucio Giunio Moderato Columella da
Cadice rispose, che la colpa consisteva nel lasciare trascurato lo
studio dell'agricoltura: — V'ha scuole di filosofia, di retorica, di
geometria, di musica; v'ha persone occupate in null'altro che preparare
cibi pruriginosi, altre in acconciare i capelli, e nessuno che insegni
l'agricoltura. Eppure senz'arti di diletto abbastanza felici furono
un tempo e saranno dappoi le città; ma senza agricoltori gli uomini
non possono reggere nè alimentarsi. E qual via migliore di conservare
e di crescere il patrimonio? Che se oggi men frutta la terra, non è
spossatezza, come alcuni si danno ad intendere, nè invecchiamento, ma
inerzia nostra».
Stese dunque un trattato _De re rustica_, il cui primo libro discorre
dei vantaggi e dei piaceri dell'agricoltura; il secondo dei campi,
del seminare e mietere; il terzo e quarto delle vigne e degli orti;
il quinto del dividere e misurare il tempo; poi degli alberi, del
bestiame grosso e minuto e delle sue malattie, delle api e dei
polli distintamente, dei doveri d'un buon fittajuolo; e finisce con
istruzioni per chi attende all'economia rurale. Il decimo, in versi,
tratta degli orti. Scrive puro, semplice talvolta sino al triviale, tal
altra elegante sino all'affettazione; ma se diletta i letterati, poco o
nulla istruisce l'agricoltore. Ai prati, che Catone riputava la coltura
più lucrosa, Columella preferisce i vigneti, anche a confronto del
grano[250]. Palladio compendiò poi quell'opera, distribuendo le fatiche
agresti per ciascun mese.
Realmente però non si produce se non quando v'induca o la necessità o
l'interesse. Ora, il denaro era affluito in Italia, e in parte ancora
vi si conservava, per modo che grandissime somme si richiedevano
a far piccole imprese, mentre nelle provincie bastava a gran cose
poco denaro. Traevasi dunque ogni genere da fuori; l'entrata era
resa incerta dalle distribuzioni gratuite che si moltiplicavano,
la munificenza dell'imperatore o de' ricchi strozzando la
speculazione privata: poi monopolj, poi tesori gettati dalla vittoria
improvvisamente in circolazione, alteravano di punto in bianco
il valore delle derrate che il proprietario mandasse sul mercato.
Sfruttata l'Italia, si dovettero cercar di fuori anche il vino e la
lana, già vantata produzione degli armenti dell'Apulia, di Parma e
dell'Euganea[251]; e alle precipue famiglie erasi accomunato il lusso,
un tempo regio, di adoperarla tinta di porpora, quale veniva da Tiro,
dalla Getulia, dalla Laconia, al costo fin di mille dramme la libbra.
Nel tempo che, o per ingegni fiscali o per necessità, si trasformava
così l'agricoltura, anche l'industria subiva un radicale mutamento.
L'associazione, eretta in istituzione pubblica, s'incontra in ogni
dove al nascere e al decadere delle società; determinata in prima
dalla debolezza, stretta poi dalla tirannia; e per sostenere l'esterna
concorrenza, o per riparare all'interna dissoluzione; sempre a scapito
dell'individuale libertà. Le corporazioni d'operaj liberi, antichissime
in Roma, non avevano potuto prosperare, perchè ogni ricco teneva
in casa chi fabbricasse quanto occorreva a' bisogni od al lusso.
Tardi la gente nuova affluente a Roma s'accôrse che una stoffa od
un utensile comprati alla bottega costavano meno che non fabbricati
da' proprj schiavi, onde venne ad abbandonarsi l'industria servile
casalinga; il che moltiplicando i liberi lavoranti, avrebbe coadjuvato
al sistema d'uguaglianza, adottato dall'impero. Ma la libertà
che erasi tolta a' campagnuoli non volle lasciarsi a quella folla
d'artigiani; e sotto aspetto di darvi un ordine, furono incatenati
ciascuno al loro telonio, come i coloni alla gleba. Senz'idea della
libera concorrenza, e reputando necessario che la legge intervenga
dappertutto per assicurare quella pubblica prosperità, cui oggi noi
crediamo bastare l'accorgimento del privato interesse, si riformarono
le corporazioni, costituendo in ciascuna città quelle che reputavansi
necessarie acciocchè ben servito rimanesse il pubblico; alle principali
se n'aggiunsero d'accessorie, e vennero graduate categoricamente,
considerando come privilegio il passare dall'una all'altra.
L'imperatore o il Comune o i consociati costituiscono un fondo sociale;
e stante che può parteciparvi anche chi nulla vi reca, ed ogni uom
libero può entrare in una di queste comandite, ne consegue che anche il
minimo lavoro acquista prezzo. Ma che? l'associato non può nè vendere
nè lasciare il suo peculio se non ad uno del collegio stesso, talchè
l'industrioso appartiene al suo uffizio, non l'uffizio all'industrioso
come oggi. Inoltre diede appiglio ad uno degli sciagurati spedienti, a
cui ricorreva l'ingordigia del fisco; perocchè ciascuna di esse scuole
veniva gravata d'enormi imposizioni, dovendo, oltre le gabelle di
vendita e pedaggio, la _collazione auraria_, così detta perchè pagavasi
in oro, e vi erano obbligati in solido tutti i membri, tenendosi per
essa ipotecati tutti i beni stabili della comunità.
Mancavano dunque molte delle sorgenti di ricchezza, per le quali da noi
in continua operosità si rinnova sempre la classe media. La proprietà
fondiaria scapitava ogni giorno di valore, la fatica agricola perdeva
occasioni, capitali non aveansi che ad esorbitante interesse; talchè
l'agiatezza popolare diminuiva più sempre, e vi sottentrava la miseria.
Fra ciò cresceva il lusso, e moltiplicavansi i ministri dell'opulenza
e delle lascivie. Veri eserciti di schiavi popolavano le case de'
primarj, tanto che bisognava un nomenclatore per rammentarne il nome.
Dall'Italia, da tutto il mondo concorreva gente a Roma per vivere di
largizioni o d'infamia. Nutrire e contentare la folla doveva essere
il pensiero supremo degl'imperatori, che perciò traevano continuamente
grano dalla Sicilia, dall'Egitto, dall'Africa; e guaj al giorno in cui
di là non giungesse pascolo a tante bocche. Sacra dicevasi la flotta
che trasportava il grano all'Italia; esenti da ogni gabella le navi
che afferrassero a Roma cariche di frumento; i principi quanto erano
peggiori, tanto più largheggiavano, riponendo in ciò il buon governo e
la giustizia[252].
Testimonio eloquente della miseria d'allora ci resta un editto di
Diocleziano, che, in tempo di caro, prefigge il massimo prezzo della
sussistenza e dei lavori[253]. Le cose necessarie alla vita costano da
dieci a venti volte più che oggi; e sebbene la quantità del denaro e la
scarsezza dell'industria levassero ad esorbitante prezzo il lavoro, un
villano od un bracciante poteva appena colla sua giornata procurarsi
un cibo grossolano ed insalubre. Gran fatto per una gente, tre quarti
della quale era ridotta a nutrirsi di pane, formaggio e pesce, mentre
Vitellio per la sua tavola consumava l'anno censessantacinque milioni.
Trajano, nel decreto conservatoci in una famosa tavola, destina un
milione e cenquarantaquattromila sesterzj per comprar terre onde
nutrire ducenquarantacinque fanciulli e trentaquattro ragazze orfani
e legittimi, oltre uno ed una illegittimi; assegnando ai maschi sedici
sesterzj, e dodici alle femmine ogni mese, cioè dodici e nove centesimi
il giorno.
Unico mezzo di rifarsi sarebbe stato il commercio: e veramente i
provinciali, abbastanza discosti dagl'imperatori per non sentirne le
personali malvagità, e giovati dalla pace, volentieri dirizzavano al
traffico i loro figli da che era chiusa od angustiata la carriera
pubblica, ed affinchè a minor contatto venissero coi pericolosi
monarchi. Per la Mesopotamia, traverso al deserto, continuavasi la via,
battuta fin dai primordj della società, verso i paesi delle spezierie e
delle gemme: e una tariffa delle merci che allora traevansi dall'India,
ce ne prova la variata qualità[254], attestata pure da un _Periplo_
dell'Eritreo, che si attribuisce ad Arriano.
Quando Roma ebbe ridotto tutto il mondo sotto di sè, l'unità tolse via
molti ostacoli e le interruzioni cagionate dalle gelosie e dalle guerre
delle nazioni; quella direzione uniforme spinse e tutelò il commercio,
e ancor più il bisogno di provvigionare l'innumerevole popolazione
d'una metropoli ricca e voluttosa, che consumava senza produrre, che
cercava con avidità le delicatezze orientali e quanto stuzzica il
lusso ed il capriccio. L'incenso che fumava sui mille altari; gli
aromi con cui s'ardevano i cadaveri, perchè anche il morire fosse
costoso a chi era vissuto nelle suntuosità; i balsami onde le belle
conservavano e riparavano i loro vezzi; le gemme in cui profondevansi
interi patrimonj; la seta che reputavasi esuberante lusso per gli
uomini fin dopo Elagabalo, erano i principali oggetti che si traevano
dalle rive del Gange, mentre dal Fasi venivano i tessuti della Cina,
venduti da Persi e Parti; da Dioscuria le produzioni dell'Eusino e del
Caspio; dall'Etiopia profumi, avorio, cotone e fiere; porpora da Tiro.
Delle spezierie tratte di là, il cinnamomo vendevasi millecinquecento
denari la libbra; in proporzione la mirra, il nardo, il cardamomo, il
garofano, la cassia balsamode, il calanco, il mirobalano, il mazir,
il carcamo, il gizir, ed altre gomme o legni di cui si componevano gli
unguenti.
Gli Arabi non accettavano che monete; così i paesi del Gange e i
Seri non bisognosi di cosa che loro manchi: talchè Plinio asserisce
che almeno cento milioni di sesterzj (25 milioni di lire) migravano
annualmente dall'impero in quelle contrade[255]. Computo impossibile
a verificarsi, ma basti ad indicare l'enorme uscita del denaro
romano, per cui tornava a paesi lontani quello che erasi portato nei
nostri dalle vittorie e dai trionfi. Dovette l'uscita aumentare a
proporzione del lusso, che giunse al colmo quando le Corti imperiali si
moltiplicarono, e Diocleziano credette necessario mascherare col fasto
orientale la decadenza.
Non che i Romani negligessero affatto il commercio come si dice[256],
anzi ne' popoli soggetti lo favorivano di buone ordinanze e di libertà;
adottarono la legge marittima de' Rodj, fecero spedizioni lontane, e
ricevettero ambascerie da Seri, Sarmati, Sciti, Taprobani, vogliosi di
tenere aperte le vie per cui tant'oro colava ne' loro paesi. Augusto,
acquistato l'Egitto, ch'era lo scalo più frequentato alle produzioni
dell'India, tentò nuove vie per arrivare a questa, ed Elio Gallo fece
uscire una squadra di cenventi legni mercantili dal porto di Myoshormos
sulla costa egizia del golfo Arabico, tracciando una via che altri
seguirono[257]. A quel porto i Romani conducevano ogn'anno per cinque
milioni di mercanzie, e guadagnavano il centuplo: lo che rende ragione
della gelosia con cui interdissero agli stranieri l'entrata nel mar
Rosso.
I Romani sono i primi, di cui s'accertino comunicazioni colla Cina;
e Cosma Indicopleuste afferma che i navigatori del golfo Persico
passavano fin colà per difficile e lungo tragitto, e i Cinesi venivano
nei porti dell'India e di esso golfo. Romani erano pure quei che
faceano il traffico per tutto l'impero; e le città da loro stabilite
in Germania attestano ancora uno scopo commerciale, sulla destra del
Danubio o sulla sinistra del Reno, stando in faccia allo sbocco de'
grandi fiumi che dall'interno paese recavano le produzioni naturali,
come Treveri, Colonia, Bonna, Coblenza, Magonza, Strasburgo, Passavia,
Ratisbona. L'Istria ci mandava vino dolce e fragrante; vino e legname
la Rezia; schiavi l'Illiria; pelli, armenti, ferro il Norico. La
Spagna ci porgeva abbondanza d'argento e d'oro, miele, cera, allume,
zafferano, pece, canape e lino; e biade molte, e vini squisiti, e
cavalli. Dalle Gallie traevamo rame, ferro, bestiame, lana, panni,
tela, liquori, prosciutti. Le isole britanniche ci provvedeano di
stagno e piombo. Ricco e variato era il traffico colla Grecia e
coll'Asia Minore. E già il Settentrione ci spediva pelliccie, ambra,
legname; all'uopo nuovi scali aprendosi da quelle bande (pag. 133).
Pure in tanta agevolezza di operare un attivissimo commercio fra popoli
che avea riuniti, il nobile romano non cessò di credere abjezione
il portar le mani alle arti; ancora al tempo di Costantino teneansi
infami quei che si applicassero a vendere di ritaglio e a guadagnare
d'industria, e le figlie loro eguagliavansi alle saltatrici e alle
schiave; Onorio e Teodosio vietarono a nobili e ricchi il mercatare,
come cosa pregiudicevole allo Stato. Aggiungi che gli appaltatori delle
pubbliche entrate impacciavano la circolazione con continue gabelle e
pedaggi; altri compravano dagli imperatori il monopolio d'una o d'altra
merce; infine l'industria venne rovinata dalle fabbriche imperiali, che
vedremo introdotte.


CAPITOLO XLI.
Coltura de' Romani. Età d'argento della loro letteratura.