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Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 12
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degli atroci padroni, venivano a trovarvi gli anziani mutili nel
martirio, i vescovi rapiti miracolosamente al rogo, i filosofi che,
mutati in apostoli, avevano finalmente rinvenuto il nodo delle agitate
quistioni, e che s'accingevano a recare il vero alle genti assise
nell'ombra della morte, e a confermarlo col proprio sangue.
Le feste dell'idolatria erano allusioni a fenomeni naturali, ovvero
patriotiche rimembranze, spesso contaminate da impurità e bagordi:
nelle cristiane, l'esultanza era espressione del rinascimento
spirituale. Là interrogavasi con ansietà il futuro; qui si confidava
nell'onniscienza divina; e lo spirito, sgombro dal timore di sinistri
presagi, trovava la spiegazione della vita in ciò che dee venire dopo
di essa. Chi potesse, recava qualche denaro ogni mese onde nodrire e
sotterrare i poveri, sostentare gli orfani, i naufraghi, gli esuli,
gl'imprigionati. Come fratelli, erano disposti a morire gli uni per gli
altri: tutto avevano in comune, eccetto le donne: nel loro mangiare
insieme, che chiamavasi far carità (agape), libavano il calice del
sacrosanto sangue; poi i cibi, ricevuti a gloria di Colui che li dà,
rallegravano la sacra accolta nella fratellanza dell'affetto e nella
gioja del perdono e del sagrifizio.
La società periva per l'egoismo e l'isolamento? eccola salvata
dallo spirito d'associazione e da quell'amore che mancò sempre al
gentilesimo, perchè Dio solo poteva insegnarlo. Il cristianesimo è
dottrina di redenzione, sicchè primo merito pone il praticare la carità
fino a dar la vita. Per accrescere il bene del prossimo, ognuno ha
l'obbligo d'esercitare l'industria, scoprire, progredire; è pertanto
anche dottrina d'attività e d'avanzamento, mentre gli antichi, fondati
sopra l'idea del decadimento, vedevano il male e la disuguaglianza
fra gli uomini come una necessità, soffrivano e lasciavano soffrire.
Colla parola «Siate perfetti come il Padre mio celeste», è imposta
alle età nuove la missione di procedere, di lottare; e se il verbo
di Dio non mente, andrà svolgendosi ed effettuandosi ognor meglio
la legge di giustizia e d'amore; e poichè in questa consiste il
perfezionamento anche dell'ordine temporale, indefettibile ne sarà il
progresso, divenuto legge naturale dell'umanità. Ne conseguiva anche la
libertà[208], la quale, sbandita d'ogni luogo pel deleterico influsso
dell'egoismo, ricovera nel santuario, protetta dalla fede di Colui pel
quale regnano i re.
Veramente Cristo, la cui riforma era morale e non politica, non
mutò l'ordinamento materiale del mondo visibile: ma la scienza delle
intime relazioni della terra col cielo, del tempo coll'eternità, del
contingente col necessario, riesce ad innovarlo, porgendo un canone di
eterna giustizia; e coll'impedire che mai più gli uomini si considerino
altri come fine, altri come mezzi, pianta la libertà vera, generata
dalla fede, dalla pratica della virtù e dalla cognizione della verità.
— Chi vorrà esser primo, si farà servo degli altri, come il Figliuol
dell'uomo che venne non per essere servito ma per servire, e dar la
vita ad altrui redenzione». Queste parole segnano il rigeneramento
della società, sostituendo alla tirannide, ove pochi godono e molti
patiscono, il governo per vantaggio di tutti; e rendendo un dovere non
un piacere il diriger gli uomini. Il superiore sa d'essere obbligato
a servire alla grande società umana, nè quindi inorgoglisce della
sua posizione; l'inferiore vede nel magistrato l'uomo costituito a
vantaggio di lui, e quindi lo ama e seconda: i potenti riconoscono i
diritti dei sudditi, questi la soggezione, dovuta per riguardo a Colui
che è unica fonte della podestà: e gli uni e gli altri s'accordano nel
volere soltanto ciò che è volontà del comun padrone.
Cristo designò l'uomo che, lui morto, dovea farsi _servo dei servi_;
e così fondò l'unità del governo visibile, che non avendo il suo
regno in questo mondo, avvicinasse più sempre gli uomini al regno di
Dio, il quale consisterà nell'unità di credenze e d'affetti. A tal
uopo è stabilito un potere sulle coscienze, al quale appartenga il
risolvere ogni dubbio e determinare le credenze. Nulla esso possiede
di violento; uniche armi sue la persuasione, e la Grazia invocata, e la
infallibilità promessa da Colui, che prega in cielo affinchè la fede di
Pietro non venga meno.
A prima vista parrebbe dispotico cotesto governo della Chiesa, che
impone quanto s'ha da credere, estende l'imperio sulla coscienza,
e proscrive il dissenso: ma l'infallibilità sua esso trae da un
principio superiore all'uomo, e tale da acquetar la ragione; tutto
fa pubblicamente per lettere, dibattimenti, concilj, tanto che non
si prende alcuna determinazione se non per deliberazioni comuni: le
assemblee diocesane, provinciali, nazionali, ecumeniche adombrano quel
governo rappresentativo, che divisavasi testè come il più alto punto
del politico progresso.
Esso governo spirituale, non che contrastare col governo terreno,
imporrà d'attribuire a Cesare ciò che gli appartiene; ma a fronte
di Cesare ergerà dottrine che, insinuandosi nella vita sociale, la
modifichino, ed esempj, la cui santa evidenza trascini ad imitarli.
Pertanto nella società mondana v'avrà nazioni distinte; nella religiosa
un'_adunanza universale_ (Chiesa cattolica): colà il lignaggio dà
potenza e decoro; qui tutto deriva dal merito personale, senza gradi nè
privilegi ereditarj, talchè il nato nell'infimo grado potrà ascendere
al primato e fin agli altari: colà la forza impone i regnanti, e
il talento di questi destina i magistrati; qui tutto va per libera
elezione, dall'acòlito sino al pontefice: colà eserciti che soggiogano
i corpi, qui apostoli che convincono l'intelletto e inducono la
volontà: colà imperatori che decretano, qui diaconi, preti, vescovi che
istruiscono e consigliano: colà giudizj che puniscono, qui un tribunale
ove il confessare i delitti li espia; e se v'ha chi persiste nella
nequizia e scandalizza i fratelli, la pena più severa sarà l'escluderlo
dalla Chiesa, sicchè non partecipi alla preghiera ed al convito de'
buoni: ivi insomma la materia, qui lo spirito; ivi la coazione, qui
la coscienza. La carità cristiana toglie dunque l'uomo dal giogo
dell'uomo; come contro la propria debolezza, così lo difende contro
l'oppressura altrui, intimando, — Guaj a chi sprezzerà uno di questi
piccoli».
Cristo, imponendo ai discepoli la propria indigenza volontaria,
una legge di patimento e d'abnegazione, ruppe il fascino delle
grandezze pagane; il livello della povertà, sotto cui abbassava tutti,
diveniva livello d'indipendenza; sicchè agli splendori dell'antichità
sottentrassero la fraternità e l'eguaglianza. Allora il diritto succede
al fatto; il pensiero e la coscienza umana, volontariamente sottomessi
a Dio, da Dio solo vogliono dipendere, vero e primo sovrano, dal quale
Cristo fu investito della suprema podestà. Da Dio dunque soltanto e dal
suo Verbo deriva agli uomini il diritto di comandare. I principi aveano
fin allora dominato solo sui corpi colla forza; allora governerebbero
anche gli spiriti col diritto che deducevano da una fonte superiore.
A vicenda i popoli dall'obbedienza forzata passavano alla consentita,
prestandola non ad un uomo fallibile e peccatore, ma a Dio, e spegnendo
così i due demoni della tirannia e della rivolta.
L'obbedienza nascendo dalla persuasione, non avvilisce col sommettere
l'uomo ai capricci dell'uomo[209]; riduce il principe a ministro di Dio
pel bene, e i governi a provvedere che sia rettamente distribuita la
giustizia, senza potestà nè azione sopra il pensiero e le coscienze.
Ma se Dio è la potenza, non sempre è di Dio l'uomo che la esercita, nè
l'uso che ne fa; e quegli e questo sono subordinati al diritto eterno.
Nessun uomo possedendo autorità per se stesso, qualvolta surroghi
all'eterno diritto la potenza propria, si fa usurpatore; demerita
l'obbedienza qualvolta l'arroganza propria sostituisca a quella legge
superna, di cui è interprete la Chiesa[210].
Perocchè al di sopra di questi criterj del vero, di quest'autorità del
giusto è collocata la Chiesa, società delle anime legate al cospetto
di Dio dalle medesime credenze, depositaria immutabile delle verità
eterne, e insieme oracolo vivente nelle dispute a cui soggiace ogni
verità quando è consegnata all'uomo; affinchè, assicurando la libertà
nel vero, repudii la libertà nell'errore, combattuto sotto qualsiasi
forma perchè gli manca il diritto. Rappresentando la natura umana
ancora scevra dal peccato, essa è incapace di errare come di morire; e
afferma o nega competentemente i primi veri, su cui si fondano non solo
la religione, ma la famiglia, la società civile e la politica; una nel
capo, molteplice nei membri.
Erano dunque finalmente riconciliati scienza e dovere, filosofia e
religione, morale e politica; derivate tutte dalla medesima sorgente;
era costituito il criterio del sapere, degli affetti, delle azioni.
Quanti secoli però, quanto sangue, prima che la verità divenisse
trionfante, s'inviscerasse nella società, e portasse le indefinite
sue conseguenze e le applicazioni morali e civili! Ma ancora ne' mali
inseparabili dalla condizione umana recherà balsami la carità, intenta
a diminuirli o a consolarli coll'elevare gli occhi del soffrente al
Cielo che è per lui.
CAPITOLO XXXVI.
Galba. — Otone. — Vitellio.
Fin qui erano succeduti imperatori della famiglia Giulia, o imparentati
o adottivi di essa; e il senato davasi l'aria di eleggerli: ma ora,
al vedere una persona nuova, creata dai soldati, il senato comprende
essersi rivelato che l'imperatore si può fare anche fuor di Roma[211].
Servio Sulpizio Galba da Terracina, nobile, ricco, preconizzato
all'impero da mille augurj, nella sua pretura avea ben meritato del
popolo col l'introdurre il nuovo spettacolo d'elefanti che ballavano
sulla corda. Buon capitano, sotto Nerone fece l'addormentato per non
attirarsi sospetti; e governando la Spagna Tarragonese, represse i
concussori, ed acquistò l'amore della provincia. Insorto contro Nerone
(68) per restituire (diceva) il massimo dei beni, la libertà rapita da
un mostro, come l'udì morto assunse il titolo d'imperatore, ed avviossi
a Roma, auspicando male il regno col punire le persone e le città che
aveano ricusato secondarlo nella sollevazione, e trucidare i complici
e fautori di Ninfidio Sabino, comandante ai pretoriani, il quale avea
voluto farsi gridare imperatore.
Un corpo di marinaj, che Nerone aveva ordinati in legione, gli va
incontro a Ponte Milvio chiedendo essere confermati; e perchè al suo
niego si ammutinano, Galba li fa assalire dalla cavalleria, settemila
uccidere tra in battaglia e per castigo, i restanti in prigione
finch'egli visse. Altri supplizj tennero dietro, ordinati freddamente:
pregato a risparmiare ad un cavaliere l'infamia, comanda che il palco
sia dipinto, e ornato di fiori.
Il popolo esultò quando vide messi a morte gli strumenti di Nerone,
fra cui Narcisso e l'avvelenatrice Locusta; e qualora Galba uscisse in
pubblico, gli chiedeva a gran voce il supplizio di Tigellino: ma costui
a grosse somme comprò lo scampo. Di ciò fu scontenta la plebe, come
della parsimonia che Galba credeva necessaria dopo i pazzi scialacqui
precedenti. A un senatore che il ricreò tutta una cena, regalò una
moneta, avvertendolo, — È di mia borsa, non dell'erario». Se vedesse
imbandigione più dispendiosa del solito, soffiava. Le prodigalità del
suo antecessore volle cincischiare, ordinando che, chiunque n'avea
ricevuto doni, ne restituisse nove decimi, creando per questo un
tribunale che turbò i possedimenti, e più scontentò che non arricchisse
l'erario. Negò ai pretoriani il donativo, rispondendo: — Ho scelto
i soldati, non li voglio comperare»; voce degna d'un prisco Romano,
s'egli l'avesse coi fatti sostenuta.
Ma avea messo il capo in grembo a favoriti indegni, i quali non era
malvagità che non si permettessero; nei giudizj e negli impieghi non
guardavano a merito, a diritto o a torto, ma a chi più desse: laonde
si rinnovavano le miserie e gli orrori del tempo di Nerone; e l'odio
de' costoro delitti accumulandosi sopra Galba col disprezzo per la sua
inerzia, faceva intollerabile il dominio. Vedendosi sprezzato ed esoso,
e udita la rivolta d'alcune legioni di Germania, Galba stabilì adottare
un successore. E fu Pisone Liciniano, giovane reputato per modestia e
severità: e l'esortò a portare la superba fortuna, come sin là aveva
l'umile sostenuta; essere accorciatojo al ben regnare l'osservar quali
cose si condannerebbero in principi; ricordasse di aver a governare
gente che nè la libertà sapeva tollerare, nè la servitù.
I soldati e i senatori annuirono alla scelta, ma Marco Salvio Otone,
inveterato negl'intrighi di Corte, essendo stato caldo sostenitore
di Galba, sperava da lui quel premio: deluso, e nulla avendo a
sperare nella quiete, tutto nel sovvertimento, macchinò; i debiti,
le insinuazioni dei liberti, i presagi d'indovini e di pianeti, la
scadente autorità di Galba, la non ancora assodata di Pisone, lo
fecero ardito a lasciarsi proclamare imperatore (69) da non più che
ventitre guardie pretoriane. Ben tosto altri ed altri si aggiunsero;
gl'indifferenti non si opponeano, i contrarj stavano a guardare. Pisone
uscì, mostrando di che turpe esempio sarebbe il tollerare che non
trenta disertori dessero il padrone al mondo; sicchè il popolo empì
il palazzo gridando morte a Otone, siccom'era solito nei teatri, e non
già per amore o per idea del meglio, ma per la consuetudine di adulare
i principi con vano favore, pronti a gridare il contrario un'ora
appresso.
E Otone esce con mani tese e picchiar petto e gittar baci e ogni
umiltà: se gli fa turba intorno di curiosi o di fautori; e prima
i pretoriani, poi la legione de' marinaj, memore dell'insulto,
gli prestano giuramento. Galba, svigorito dai settantatre anni e
dall'infingardaggine, compare armato in sedia; è forbottato senza
consiglio (69 — 15 genn.) fra una moltitudine non tumultuante, non
quieta; e da tutti abbandonato, agli assassini presenta tranquillamente
il petto, dicendo: — Ferite, se così comple alla repubblica». Regnò
otto mesi, piuttosto scevro di vizj che dotato di virtù; e fu detto di
lui, che parve degno dell'impero finchè nol conseguì.
Senato, popolo, cavalieri, come fossero tutt'altra gente, corsero a
chi prima al campo, bestemmiando Galba, ad Otone baciando la mano e
ammassando titoli e applausi, più vivi quanto meno sinceri. Otone gli
accoglieva cortese, e procurava rattenere i soldati dal sangue e dalla
ruba; ma aveva autorità di comandare il delitto, non d'impedirlo, e
dovette a lor capriccio deporre ed alzare magistrati. Vinnio, Laco,
Icelo, Pisone, indegni favoriti, furono trucidati, e con loro molti
innocenti e rei, come avviene nelle sommosse: la giornata micidiale si
conchiuse con feste e falò: al domani il pretore, convocati i padri,
fece decretare la podestà tribunizia ad Otone, che, attraverso le
insanguinate vie di Roma, salì al Campidoglio, ove ottenne il titolo di
cesare augusto, perdonò le ingiurie, o forse differì la vendetta, che
dalla brevità del regno gli fu impedita.
Gli eserciti che davano l'impero, potevano anche ricusarlo. Nella
Bassa Germania, Aulo Vitellio, tratti dalla sua i governatori della
Gallia Belgica e della Lionese, e i campi dell'Alta Germania, della
Rezia e della Britannia (69), si fece gridare imperatore, e prese
l'autorità, premiando e punendo; poi avviò verso Italia Fabio Valente
pel Cenisio, Alieno Cecina pel Sanbernardo cogli eserciti; e presto udì
che i paesi fra l'Alpi e il Po si sottometteano, non per benevolenza
od ira, ma perchè indifferenti a qual obbedire fra due pretendenti,
egualmente spregevoli. Otone, strappatosi dai voluttuosi ozj, mostrasi
assiduo agli affari, blandisce il popolo con elocuzioni, il senato
colle dignità, colle largizioni i pretoriani; perdona ad alcuni;
ordina a Tigellino di morire; tenta smovere Vitellio dall'impresa con
larghe promesse, fin d'associarselo all'impero: patti simili propone
Vitellio; poi l'uno all'altro avventano ingiurie enormi e meritate,
l'uno all'altro spediscono assassini. I pretoriani tumultuano; i
cittadini rimangono col batticuore d'una guerra civile; nessun partito
osava prendere il senato, perchè ogni parzialità, mostrata oggi a un
imperatore, poteva domani dar pretesto alle vendette dell'altro. Lo
sgomento era cresciuto da fantasmi apparsi, statue rivoltesi, mostri
nati; un bove parlò in Etruria; il Tevere traboccando portò via i
viveri. La gente, fiaccata dalla lunga pace, vuol mostrarsi bellicosa
col comprare belle armi, insigni cavalli, e banchettare, dissimulando
la paura quanto più n'avea.
Per togliersi a quell'intradue, Otone mosse incontro al pericolo
colla più parte de' magistrati e de' consolari, e colle coorti
pretoriane. La guerra fu atroce come sogliono le civili, sostenute
da stranieri ausiliarj: finalmente a Bedriaco[212] l'esercito d'Otone
andò squarciato (20 aprile). A questo in Brescello ne recò notizia un
soldato, il quale vedendosi non creduto, quasi fosse fuggito per viltà,
si trafisse colla propria spada. L'imperatore a quell'atto esclamò: —
Non sia mai che gente sì prode e affezionata resti, per mia cagione,
esposta a nuovi pericoli». E per quanto i soldati lo confortassero,
mostrando che non era a disperare, che tutti voleano dar la vita per
esso, e gliel provassero coll'uccidersi, altri gli dicessero essere
grandezza d'animo il soffrire le calamità, non il sottrarvisi, egli li
supplicava a lasciarlo sagrificare la sua per salvare la vita di tanti,
e, — Non trattasi di combattere Pirro o i Galli, ma concittadini, nè
la vittoria può venire senza molto sangue fraterno. Vitellio prese le
armi; io dovetti difendermi; ma la posterità sappia che una sola volta
esposi per me Romani contro Romani. Vitellio troverà vivi il fratello,
i figli, la donna sua. Se altri l'impero tenne più a lungo, nessuno
l'abbandonò più generosamente. Di veruno io mi lagno; chè il querelarsi
degli uomini o degli Dei al venir della morte, è un mostrarsi cupidi
della vita».
Chi così parlava era stato mezzano e parte alle turpitudini di Nerone,
che gli affidò Poppea sinchè non si fosse tolta d'attorno Ottavia;
s'era affogato nei debiti; spelavasi tutto il corpo e radeva la faccia
ogni dì, rammorbidiva la pelle con mollica bagnata, portavasi sempre
a lato uno specchio, e a quello componevasi in aria marziale prima di
camminare al nemico. Indotti i suoi a non ritardare la risoluzione sua,
s'accinge ad uccidersi la sera, poi dice: — Aggiungiamo anche questa
notte alla vita»; colloca sull'origliere due pugnali, s'addormenta, e
la mattina si trafigge (21 aprile).
Piangendo un imperatore che a trentasette anni moriva per salvarli,
i guerrieri suoi levarono un rumore, pericolosissimo perchè non era
chi li quietasse; esibirono l'impero senza trovare chi l'aggradisse; e
mentre il senato si chiariva per Vitellio, e decretava ringraziamenti
alle legioni di Germania, la militare licenza infieriva d'ambe le
parti col pretesto di punire gli avversi. Vitellio accorso, perdonò
ai primarj uffiziali dell'emulo, gli altri punì di morte; nel campo
di Bedriaco, tuttavia coperto degli insepolti, compiaceasi vederne le
ferite, e diceva: — Il cadavere d'un nemico sa buono, più buono se è un
cittadino»; e fatto recar vino, bevve e ne distribuì, rivelandosi qual
era goloso e crudele.
Su tutto il suo cammino fu una gara di portargli quel che di squisito
porgesse il contorno; i migliori cittadini erano raccolti a splendidi
banchetti; ed i soldati l'imitavano, sicchè il suo campo sarebbesi
detto un baccanale. Sebbene n'avesse congedato e sbrancato parte,
pure settantamila armati, oltre i saccomanni e i servi, attraversando
l'Italia al tempo della messe, la sperperarono, svergognando,
saccheggiando, vendendo come in guerra rotta. L'imperatore entrava in
Roma con corazza e spada, a foggia di conquistatore che si cacciasse
innanzi il senato e il popolo, se non l'avessero gli amici avvertito
di risparmiare questo nuovo insulto ed assumere abito di pace.
Nell'arringa al popolo e al senato sciorinò la solerzia e la temperanza
sua; e popolo e senato, che ne sapevano la gola e le disonestà,
applaudirono.
Con uno de' primi decreti proibì ai cavalieri romani di darsi
spettacolo sul teatro e nell'arena; con un altro sbandiva gli
astrologi; ed essendosi affisso un cartello che annunziava Vitellio
morrebbe il giorno che gli astrologi uscissero di Roma, egli fece
ammazzare quanti ne colse. Era frequente al teatro e al circo, assiduo
al senato, ove avendolo Elvidio Prisco contraddetto, egli soggiunse: —
Nessuna meraviglia che due senatori tengano contrario avviso». Trovato
un catalogo delle persone che avevano sollecitato premj da Otone come
uccisori di Galba, li fece morire, men per punizione del passato che
per riparo all'avvenire. Inetto però a gravi cure, le lasciava ai
favoriti Valente e Cécina che gli avevano dato l'impero, e ad Asiatico
di cui aveva usato in turpi servizj; e forse alle costoro suggestioni
vanno imputati i tanti omicidj di cui Vitellio si macchiò, fin della
propria madre.
Egli intanto badava agli aguzzamenti dell'appetito. Immaginò un
piatto, detto lo scudo di Minerva per la prodigiosa capacità, dove
si raccoglieva quanto potesse meglio solleticare palato o capriccio
d'uomo; cervella di fagiano, fegati di scaro, latte di lamprede, lingue
di rari uccelli a mille colori, pigliati dalla muda ad una cert'ora;
femmine sorprese sulla covata, maschi interrotti nel sonno, perchè
l'agitazione ne fa il fegato d'un mangiare delizioso; fregoli di pesce,
staccati dal fondo dei laghi al modo che si pescano le perle; altri
pesci spediti a Roma coll'acqua stessa in cui furono côlti; poi funghi,
di cui si spiava il nascere nelle umide notti; poma imbarcate cogli
alberi loro e col giardino ove crebbero, affinchè Cesare le cogliesse
di propria mano e godesse le primizie della fragranza e della lanugine.
Fin a cinque desinari sedeva in un giorno, e ciascuno d'ingente
dispendio; invitavasi da un amico a colazione, dall'altro a pranzo, dal
terzo a merenda, a cena dal quarto nel giorno stesso, e gareggiavano
a chi più lautamente gl'imbandisse; ma tutti vinse Lucio suo fratello,
che gli allestì duemila piatti di pesci, e settemila degli uccelli più
squisiti al mondo. Ovunque egli passasse, bisognava riporre i cibi,
altrimenti dava del dente in tutto, sparecchiava le are degli Dei, e
nove milioni di sesterzj in pochi mesi ingolò. Altro denaro straziò in
murare stalle, dar corse e spettacoli di gladiatori e di fiere, e nelle
splendide esequie di Nerone, liete alla ciurma, esecrate dai buoni.
Gli turbarono, non ruppero i sozzi riposi le notizie d'Oriente.
Vespasiano, che osteggiava i Giudei, udita la morte di Nerone, mandò
Tito suo figlio a congratularsi con Galba; ma avendo saputo per via
il tracollo di questo e l'accapigliarsi di Vitellio e Otone, Tito
diede volta per esortare il padre a mettersi anch'egli competitore. Le
legioni d'Oriente non aveano diritto d'imporre all'orbe il padrone,
quanto quelle della Germania e della Gallia? Vespasiano, tenuto
alquanto in bilancia dalla gravezza de' sessant'anni e del rischio,
alfine lasciò da esse proclamarsi imperatore. Le provincie d'Oriente
fino all'Asia e all'Acaja non esitarono a giurargli obbedienza; a
Berito stabilì un senato per dibattere gli affari, richiamò veterani,
cernì novizj, fabbricò armi, battè moneta, e postosi in Egitto, contro
di Vitellio spedì Crasso Muciano, comandante agli eserciti nella Siria.
Il quale, crescendo di forze alla giornata e imponendo tasse, venne in
Europa (69), ove le legioni, dall'Illiria alla Spagna e alla Bretagna,
acclamarono Vespasiano. L'esercito illirico, guidato da Antonio Primo,
calasi dalle Alpi; Aquileja, Altino, Este, Padova, Vicenza, Verona sono
sorprese, e così separate da Vitellio l'Alemagna e le Rezie; Cecina,
che comandava gli eserciti di esso, lo tradì; la flotta di Ravenna
gridò Vespasiano; finalmente sotto Cremona si fe giornata. Trentamila
Vitelliani caddero (29 8bre) uccisi da compatrioti ed amici; un figlio
ammazzò il proprio padre, e riconosciutolo nello spogliarlo, il pregò
di non maledirlo, e gli scavò la fossa. Preso il campo de' Vitelliani,
Cremona fu assalita, e per quanto Antonio Primo desiderasse campare una
città cinta di amenissime ville, piena di gente accorsa ad una solenne
fiera, e dove erano riposte tante ricchezze, non potè frenare l'agonia
delle prede e l'odio antico; e saccheggiata per quattro giorni, fu
distrutta. Primo vietò ai soldati di tener prigioniero verun Cremonese:
ed essi gli ammazzavano.
Vitellio, come altri potenti di altre età, credeva ovviare il pericolo
col non parlarne; guaj a chi in Corte toccasse delle atroci novelle!
mandava spie a scandagliare nel campo di Vespasiano, e tosto le faceva
uccidere perchè non palesassero. Fra ciò designava consoli per dieci
anni, dava la cittadinanza a stranieri con larghissime concessioni, e
nelle sale di Roma e nei parchi di Aricia, dimenticando il passato, il
presente, l'avvenire, bagordava, lussuriava. Giulio Agreste centurione,
cercato invano di scuoterlo, gli chiese licenza d'andar a verificare
coi proprj occhi le forze e la postura del nemico; e visto Cremona
ruinata, le legioni prigioniere e il campo vigoroso, tornò, ne diede
certezza a Vitellio, e trovandolo incredulo, per testimonio di sua
veracità si uccise. In sì lieve conto tenevasi la vita!
Alfine l'imperatore mandò ad abbarrare i valichi dell'Appennino;
poi incalzato, raggiunse l'esercito con un codazzo di senatori che
lo rendeano viepiù spregevole; ed ora a questi, ora a quelli si
volgeva per pareri; poi, ad ogni annunzio dell'avvicinar del nemico,
sgomentavasi e s'ubriacava. Udito che anche la flotta di Miseno avea
voltato bandiera, tornò a Roma intenerendo il popolo con preghiere, con
lagrime, con promesse, più esorbitanti quanto meno pensava mantenerle;
e così raccozzò una ciurma cui diede il nome di legione. Ma come Primo
fulminando varcò l'Appennino, costoro disertarono a frotte.
Sabino, governatore di Roma, benchè fratello di Vespasiano, si tenne
in fede: sol quando si bucinò che, per cessare il sangue, Vitellio
abdicava, egli assunse le armi; ma il popolo, invaso da subita
frenesia, lo chiuse in Campidoglio, e nell'assalto s'incendiarono le
case vicine e i portici, tra le cui fiamme penetrati, i Vitelliani
passarono per le spade chiunque resisteva; Sabino fu trucidato a rabbia
del popolo, il quale mal si potrebbe dire perchè con nuovo furore
proteggesse una causa non sua, e principi che domani avrebbe forse
trascinati nel Tevere.
Primo, come ode arso il Campidoglio e ucciso Sabino, difila sopra Roma:
Vitellio, sebbene rimbaldanzito da quel furore vulgare, mandò colle
Vestali un ambasciatore chiedendo un sol giorno per risolvere; ma non
l'ottenne, e i suoi furono rincacciati nella città. Presa anche questa,
si battagliò per le vie, e cinquantamila uomini perirono; mentre il
vulgo, cui la sua bassezza faceva sicuro, applaudiva o fischiava i
colpi, piacevasi scovare se alcuno si rimpiattasse nelle case, gridando
viva e muoja, come cosa pazza.
Vitellio, scoperto in un canile (20 xbre), fu menato per la città
con abiti laceri, corda al collo, braccia al dosso, fra gli urli
della plebaglia che due giorni prima l'adorava. Al moltiplicare degli
insulti, quest'unica voce oppose, — Eppure io fui vostro imperatore».
Di otto imperatori di Roma, era il sesto che periva di morte violenta.
Coll'uccisione di suo fratello Lucio Vitellio che comandava un esercito
a Terracina, fu terminata la guerra, ma senza che fosse pace. I soldati
vincitori inseguivano i nemici, scannandoli ovunque li scontrassero;
col pretesto di cercarli sforzavano le case; e la ciurma gli avviava
ed emulava. Primo valevasi del comando per rubare più degli altri:
Domiziano, figlio del nuovo imperatore, che nella sollevazione erasi
trafugato in abito di sacristano d'Iside, allora dichiarato cesare,
tuffavasi nelle laidezze. Scompigli sovra scompigli, fra' quali alla
povera Italia restava appena fiato per acclamare Vespasiano augusto.
CAPITOLO XXXVII.
I Flavj.
La casa Flavia, nè antica nè illustre, proveniva da Rieti. Tito
martirio, i vescovi rapiti miracolosamente al rogo, i filosofi che,
mutati in apostoli, avevano finalmente rinvenuto il nodo delle agitate
quistioni, e che s'accingevano a recare il vero alle genti assise
nell'ombra della morte, e a confermarlo col proprio sangue.
Le feste dell'idolatria erano allusioni a fenomeni naturali, ovvero
patriotiche rimembranze, spesso contaminate da impurità e bagordi:
nelle cristiane, l'esultanza era espressione del rinascimento
spirituale. Là interrogavasi con ansietà il futuro; qui si confidava
nell'onniscienza divina; e lo spirito, sgombro dal timore di sinistri
presagi, trovava la spiegazione della vita in ciò che dee venire dopo
di essa. Chi potesse, recava qualche denaro ogni mese onde nodrire e
sotterrare i poveri, sostentare gli orfani, i naufraghi, gli esuli,
gl'imprigionati. Come fratelli, erano disposti a morire gli uni per gli
altri: tutto avevano in comune, eccetto le donne: nel loro mangiare
insieme, che chiamavasi far carità (agape), libavano il calice del
sacrosanto sangue; poi i cibi, ricevuti a gloria di Colui che li dà,
rallegravano la sacra accolta nella fratellanza dell'affetto e nella
gioja del perdono e del sagrifizio.
La società periva per l'egoismo e l'isolamento? eccola salvata
dallo spirito d'associazione e da quell'amore che mancò sempre al
gentilesimo, perchè Dio solo poteva insegnarlo. Il cristianesimo è
dottrina di redenzione, sicchè primo merito pone il praticare la carità
fino a dar la vita. Per accrescere il bene del prossimo, ognuno ha
l'obbligo d'esercitare l'industria, scoprire, progredire; è pertanto
anche dottrina d'attività e d'avanzamento, mentre gli antichi, fondati
sopra l'idea del decadimento, vedevano il male e la disuguaglianza
fra gli uomini come una necessità, soffrivano e lasciavano soffrire.
Colla parola «Siate perfetti come il Padre mio celeste», è imposta
alle età nuove la missione di procedere, di lottare; e se il verbo
di Dio non mente, andrà svolgendosi ed effettuandosi ognor meglio
la legge di giustizia e d'amore; e poichè in questa consiste il
perfezionamento anche dell'ordine temporale, indefettibile ne sarà il
progresso, divenuto legge naturale dell'umanità. Ne conseguiva anche la
libertà[208], la quale, sbandita d'ogni luogo pel deleterico influsso
dell'egoismo, ricovera nel santuario, protetta dalla fede di Colui pel
quale regnano i re.
Veramente Cristo, la cui riforma era morale e non politica, non
mutò l'ordinamento materiale del mondo visibile: ma la scienza delle
intime relazioni della terra col cielo, del tempo coll'eternità, del
contingente col necessario, riesce ad innovarlo, porgendo un canone di
eterna giustizia; e coll'impedire che mai più gli uomini si considerino
altri come fine, altri come mezzi, pianta la libertà vera, generata
dalla fede, dalla pratica della virtù e dalla cognizione della verità.
— Chi vorrà esser primo, si farà servo degli altri, come il Figliuol
dell'uomo che venne non per essere servito ma per servire, e dar la
vita ad altrui redenzione». Queste parole segnano il rigeneramento
della società, sostituendo alla tirannide, ove pochi godono e molti
patiscono, il governo per vantaggio di tutti; e rendendo un dovere non
un piacere il diriger gli uomini. Il superiore sa d'essere obbligato
a servire alla grande società umana, nè quindi inorgoglisce della
sua posizione; l'inferiore vede nel magistrato l'uomo costituito a
vantaggio di lui, e quindi lo ama e seconda: i potenti riconoscono i
diritti dei sudditi, questi la soggezione, dovuta per riguardo a Colui
che è unica fonte della podestà: e gli uni e gli altri s'accordano nel
volere soltanto ciò che è volontà del comun padrone.
Cristo designò l'uomo che, lui morto, dovea farsi _servo dei servi_;
e così fondò l'unità del governo visibile, che non avendo il suo
regno in questo mondo, avvicinasse più sempre gli uomini al regno di
Dio, il quale consisterà nell'unità di credenze e d'affetti. A tal
uopo è stabilito un potere sulle coscienze, al quale appartenga il
risolvere ogni dubbio e determinare le credenze. Nulla esso possiede
di violento; uniche armi sue la persuasione, e la Grazia invocata, e la
infallibilità promessa da Colui, che prega in cielo affinchè la fede di
Pietro non venga meno.
A prima vista parrebbe dispotico cotesto governo della Chiesa, che
impone quanto s'ha da credere, estende l'imperio sulla coscienza,
e proscrive il dissenso: ma l'infallibilità sua esso trae da un
principio superiore all'uomo, e tale da acquetar la ragione; tutto
fa pubblicamente per lettere, dibattimenti, concilj, tanto che non
si prende alcuna determinazione se non per deliberazioni comuni: le
assemblee diocesane, provinciali, nazionali, ecumeniche adombrano quel
governo rappresentativo, che divisavasi testè come il più alto punto
del politico progresso.
Esso governo spirituale, non che contrastare col governo terreno,
imporrà d'attribuire a Cesare ciò che gli appartiene; ma a fronte
di Cesare ergerà dottrine che, insinuandosi nella vita sociale, la
modifichino, ed esempj, la cui santa evidenza trascini ad imitarli.
Pertanto nella società mondana v'avrà nazioni distinte; nella religiosa
un'_adunanza universale_ (Chiesa cattolica): colà il lignaggio dà
potenza e decoro; qui tutto deriva dal merito personale, senza gradi nè
privilegi ereditarj, talchè il nato nell'infimo grado potrà ascendere
al primato e fin agli altari: colà la forza impone i regnanti, e
il talento di questi destina i magistrati; qui tutto va per libera
elezione, dall'acòlito sino al pontefice: colà eserciti che soggiogano
i corpi, qui apostoli che convincono l'intelletto e inducono la
volontà: colà imperatori che decretano, qui diaconi, preti, vescovi che
istruiscono e consigliano: colà giudizj che puniscono, qui un tribunale
ove il confessare i delitti li espia; e se v'ha chi persiste nella
nequizia e scandalizza i fratelli, la pena più severa sarà l'escluderlo
dalla Chiesa, sicchè non partecipi alla preghiera ed al convito de'
buoni: ivi insomma la materia, qui lo spirito; ivi la coazione, qui
la coscienza. La carità cristiana toglie dunque l'uomo dal giogo
dell'uomo; come contro la propria debolezza, così lo difende contro
l'oppressura altrui, intimando, — Guaj a chi sprezzerà uno di questi
piccoli».
Cristo, imponendo ai discepoli la propria indigenza volontaria,
una legge di patimento e d'abnegazione, ruppe il fascino delle
grandezze pagane; il livello della povertà, sotto cui abbassava tutti,
diveniva livello d'indipendenza; sicchè agli splendori dell'antichità
sottentrassero la fraternità e l'eguaglianza. Allora il diritto succede
al fatto; il pensiero e la coscienza umana, volontariamente sottomessi
a Dio, da Dio solo vogliono dipendere, vero e primo sovrano, dal quale
Cristo fu investito della suprema podestà. Da Dio dunque soltanto e dal
suo Verbo deriva agli uomini il diritto di comandare. I principi aveano
fin allora dominato solo sui corpi colla forza; allora governerebbero
anche gli spiriti col diritto che deducevano da una fonte superiore.
A vicenda i popoli dall'obbedienza forzata passavano alla consentita,
prestandola non ad un uomo fallibile e peccatore, ma a Dio, e spegnendo
così i due demoni della tirannia e della rivolta.
L'obbedienza nascendo dalla persuasione, non avvilisce col sommettere
l'uomo ai capricci dell'uomo[209]; riduce il principe a ministro di Dio
pel bene, e i governi a provvedere che sia rettamente distribuita la
giustizia, senza potestà nè azione sopra il pensiero e le coscienze.
Ma se Dio è la potenza, non sempre è di Dio l'uomo che la esercita, nè
l'uso che ne fa; e quegli e questo sono subordinati al diritto eterno.
Nessun uomo possedendo autorità per se stesso, qualvolta surroghi
all'eterno diritto la potenza propria, si fa usurpatore; demerita
l'obbedienza qualvolta l'arroganza propria sostituisca a quella legge
superna, di cui è interprete la Chiesa[210].
Perocchè al di sopra di questi criterj del vero, di quest'autorità del
giusto è collocata la Chiesa, società delle anime legate al cospetto
di Dio dalle medesime credenze, depositaria immutabile delle verità
eterne, e insieme oracolo vivente nelle dispute a cui soggiace ogni
verità quando è consegnata all'uomo; affinchè, assicurando la libertà
nel vero, repudii la libertà nell'errore, combattuto sotto qualsiasi
forma perchè gli manca il diritto. Rappresentando la natura umana
ancora scevra dal peccato, essa è incapace di errare come di morire; e
afferma o nega competentemente i primi veri, su cui si fondano non solo
la religione, ma la famiglia, la società civile e la politica; una nel
capo, molteplice nei membri.
Erano dunque finalmente riconciliati scienza e dovere, filosofia e
religione, morale e politica; derivate tutte dalla medesima sorgente;
era costituito il criterio del sapere, degli affetti, delle azioni.
Quanti secoli però, quanto sangue, prima che la verità divenisse
trionfante, s'inviscerasse nella società, e portasse le indefinite
sue conseguenze e le applicazioni morali e civili! Ma ancora ne' mali
inseparabili dalla condizione umana recherà balsami la carità, intenta
a diminuirli o a consolarli coll'elevare gli occhi del soffrente al
Cielo che è per lui.
CAPITOLO XXXVI.
Galba. — Otone. — Vitellio.
Fin qui erano succeduti imperatori della famiglia Giulia, o imparentati
o adottivi di essa; e il senato davasi l'aria di eleggerli: ma ora,
al vedere una persona nuova, creata dai soldati, il senato comprende
essersi rivelato che l'imperatore si può fare anche fuor di Roma[211].
Servio Sulpizio Galba da Terracina, nobile, ricco, preconizzato
all'impero da mille augurj, nella sua pretura avea ben meritato del
popolo col l'introdurre il nuovo spettacolo d'elefanti che ballavano
sulla corda. Buon capitano, sotto Nerone fece l'addormentato per non
attirarsi sospetti; e governando la Spagna Tarragonese, represse i
concussori, ed acquistò l'amore della provincia. Insorto contro Nerone
(68) per restituire (diceva) il massimo dei beni, la libertà rapita da
un mostro, come l'udì morto assunse il titolo d'imperatore, ed avviossi
a Roma, auspicando male il regno col punire le persone e le città che
aveano ricusato secondarlo nella sollevazione, e trucidare i complici
e fautori di Ninfidio Sabino, comandante ai pretoriani, il quale avea
voluto farsi gridare imperatore.
Un corpo di marinaj, che Nerone aveva ordinati in legione, gli va
incontro a Ponte Milvio chiedendo essere confermati; e perchè al suo
niego si ammutinano, Galba li fa assalire dalla cavalleria, settemila
uccidere tra in battaglia e per castigo, i restanti in prigione
finch'egli visse. Altri supplizj tennero dietro, ordinati freddamente:
pregato a risparmiare ad un cavaliere l'infamia, comanda che il palco
sia dipinto, e ornato di fiori.
Il popolo esultò quando vide messi a morte gli strumenti di Nerone,
fra cui Narcisso e l'avvelenatrice Locusta; e qualora Galba uscisse in
pubblico, gli chiedeva a gran voce il supplizio di Tigellino: ma costui
a grosse somme comprò lo scampo. Di ciò fu scontenta la plebe, come
della parsimonia che Galba credeva necessaria dopo i pazzi scialacqui
precedenti. A un senatore che il ricreò tutta una cena, regalò una
moneta, avvertendolo, — È di mia borsa, non dell'erario». Se vedesse
imbandigione più dispendiosa del solito, soffiava. Le prodigalità del
suo antecessore volle cincischiare, ordinando che, chiunque n'avea
ricevuto doni, ne restituisse nove decimi, creando per questo un
tribunale che turbò i possedimenti, e più scontentò che non arricchisse
l'erario. Negò ai pretoriani il donativo, rispondendo: — Ho scelto
i soldati, non li voglio comperare»; voce degna d'un prisco Romano,
s'egli l'avesse coi fatti sostenuta.
Ma avea messo il capo in grembo a favoriti indegni, i quali non era
malvagità che non si permettessero; nei giudizj e negli impieghi non
guardavano a merito, a diritto o a torto, ma a chi più desse: laonde
si rinnovavano le miserie e gli orrori del tempo di Nerone; e l'odio
de' costoro delitti accumulandosi sopra Galba col disprezzo per la sua
inerzia, faceva intollerabile il dominio. Vedendosi sprezzato ed esoso,
e udita la rivolta d'alcune legioni di Germania, Galba stabilì adottare
un successore. E fu Pisone Liciniano, giovane reputato per modestia e
severità: e l'esortò a portare la superba fortuna, come sin là aveva
l'umile sostenuta; essere accorciatojo al ben regnare l'osservar quali
cose si condannerebbero in principi; ricordasse di aver a governare
gente che nè la libertà sapeva tollerare, nè la servitù.
I soldati e i senatori annuirono alla scelta, ma Marco Salvio Otone,
inveterato negl'intrighi di Corte, essendo stato caldo sostenitore
di Galba, sperava da lui quel premio: deluso, e nulla avendo a
sperare nella quiete, tutto nel sovvertimento, macchinò; i debiti,
le insinuazioni dei liberti, i presagi d'indovini e di pianeti, la
scadente autorità di Galba, la non ancora assodata di Pisone, lo
fecero ardito a lasciarsi proclamare imperatore (69) da non più che
ventitre guardie pretoriane. Ben tosto altri ed altri si aggiunsero;
gl'indifferenti non si opponeano, i contrarj stavano a guardare. Pisone
uscì, mostrando di che turpe esempio sarebbe il tollerare che non
trenta disertori dessero il padrone al mondo; sicchè il popolo empì
il palazzo gridando morte a Otone, siccom'era solito nei teatri, e non
già per amore o per idea del meglio, ma per la consuetudine di adulare
i principi con vano favore, pronti a gridare il contrario un'ora
appresso.
E Otone esce con mani tese e picchiar petto e gittar baci e ogni
umiltà: se gli fa turba intorno di curiosi o di fautori; e prima
i pretoriani, poi la legione de' marinaj, memore dell'insulto,
gli prestano giuramento. Galba, svigorito dai settantatre anni e
dall'infingardaggine, compare armato in sedia; è forbottato senza
consiglio (69 — 15 genn.) fra una moltitudine non tumultuante, non
quieta; e da tutti abbandonato, agli assassini presenta tranquillamente
il petto, dicendo: — Ferite, se così comple alla repubblica». Regnò
otto mesi, piuttosto scevro di vizj che dotato di virtù; e fu detto di
lui, che parve degno dell'impero finchè nol conseguì.
Senato, popolo, cavalieri, come fossero tutt'altra gente, corsero a
chi prima al campo, bestemmiando Galba, ad Otone baciando la mano e
ammassando titoli e applausi, più vivi quanto meno sinceri. Otone gli
accoglieva cortese, e procurava rattenere i soldati dal sangue e dalla
ruba; ma aveva autorità di comandare il delitto, non d'impedirlo, e
dovette a lor capriccio deporre ed alzare magistrati. Vinnio, Laco,
Icelo, Pisone, indegni favoriti, furono trucidati, e con loro molti
innocenti e rei, come avviene nelle sommosse: la giornata micidiale si
conchiuse con feste e falò: al domani il pretore, convocati i padri,
fece decretare la podestà tribunizia ad Otone, che, attraverso le
insanguinate vie di Roma, salì al Campidoglio, ove ottenne il titolo di
cesare augusto, perdonò le ingiurie, o forse differì la vendetta, che
dalla brevità del regno gli fu impedita.
Gli eserciti che davano l'impero, potevano anche ricusarlo. Nella
Bassa Germania, Aulo Vitellio, tratti dalla sua i governatori della
Gallia Belgica e della Lionese, e i campi dell'Alta Germania, della
Rezia e della Britannia (69), si fece gridare imperatore, e prese
l'autorità, premiando e punendo; poi avviò verso Italia Fabio Valente
pel Cenisio, Alieno Cecina pel Sanbernardo cogli eserciti; e presto udì
che i paesi fra l'Alpi e il Po si sottometteano, non per benevolenza
od ira, ma perchè indifferenti a qual obbedire fra due pretendenti,
egualmente spregevoli. Otone, strappatosi dai voluttuosi ozj, mostrasi
assiduo agli affari, blandisce il popolo con elocuzioni, il senato
colle dignità, colle largizioni i pretoriani; perdona ad alcuni;
ordina a Tigellino di morire; tenta smovere Vitellio dall'impresa con
larghe promesse, fin d'associarselo all'impero: patti simili propone
Vitellio; poi l'uno all'altro avventano ingiurie enormi e meritate,
l'uno all'altro spediscono assassini. I pretoriani tumultuano; i
cittadini rimangono col batticuore d'una guerra civile; nessun partito
osava prendere il senato, perchè ogni parzialità, mostrata oggi a un
imperatore, poteva domani dar pretesto alle vendette dell'altro. Lo
sgomento era cresciuto da fantasmi apparsi, statue rivoltesi, mostri
nati; un bove parlò in Etruria; il Tevere traboccando portò via i
viveri. La gente, fiaccata dalla lunga pace, vuol mostrarsi bellicosa
col comprare belle armi, insigni cavalli, e banchettare, dissimulando
la paura quanto più n'avea.
Per togliersi a quell'intradue, Otone mosse incontro al pericolo
colla più parte de' magistrati e de' consolari, e colle coorti
pretoriane. La guerra fu atroce come sogliono le civili, sostenute
da stranieri ausiliarj: finalmente a Bedriaco[212] l'esercito d'Otone
andò squarciato (20 aprile). A questo in Brescello ne recò notizia un
soldato, il quale vedendosi non creduto, quasi fosse fuggito per viltà,
si trafisse colla propria spada. L'imperatore a quell'atto esclamò: —
Non sia mai che gente sì prode e affezionata resti, per mia cagione,
esposta a nuovi pericoli». E per quanto i soldati lo confortassero,
mostrando che non era a disperare, che tutti voleano dar la vita per
esso, e gliel provassero coll'uccidersi, altri gli dicessero essere
grandezza d'animo il soffrire le calamità, non il sottrarvisi, egli li
supplicava a lasciarlo sagrificare la sua per salvare la vita di tanti,
e, — Non trattasi di combattere Pirro o i Galli, ma concittadini, nè
la vittoria può venire senza molto sangue fraterno. Vitellio prese le
armi; io dovetti difendermi; ma la posterità sappia che una sola volta
esposi per me Romani contro Romani. Vitellio troverà vivi il fratello,
i figli, la donna sua. Se altri l'impero tenne più a lungo, nessuno
l'abbandonò più generosamente. Di veruno io mi lagno; chè il querelarsi
degli uomini o degli Dei al venir della morte, è un mostrarsi cupidi
della vita».
Chi così parlava era stato mezzano e parte alle turpitudini di Nerone,
che gli affidò Poppea sinchè non si fosse tolta d'attorno Ottavia;
s'era affogato nei debiti; spelavasi tutto il corpo e radeva la faccia
ogni dì, rammorbidiva la pelle con mollica bagnata, portavasi sempre
a lato uno specchio, e a quello componevasi in aria marziale prima di
camminare al nemico. Indotti i suoi a non ritardare la risoluzione sua,
s'accinge ad uccidersi la sera, poi dice: — Aggiungiamo anche questa
notte alla vita»; colloca sull'origliere due pugnali, s'addormenta, e
la mattina si trafigge (21 aprile).
Piangendo un imperatore che a trentasette anni moriva per salvarli,
i guerrieri suoi levarono un rumore, pericolosissimo perchè non era
chi li quietasse; esibirono l'impero senza trovare chi l'aggradisse; e
mentre il senato si chiariva per Vitellio, e decretava ringraziamenti
alle legioni di Germania, la militare licenza infieriva d'ambe le
parti col pretesto di punire gli avversi. Vitellio accorso, perdonò
ai primarj uffiziali dell'emulo, gli altri punì di morte; nel campo
di Bedriaco, tuttavia coperto degli insepolti, compiaceasi vederne le
ferite, e diceva: — Il cadavere d'un nemico sa buono, più buono se è un
cittadino»; e fatto recar vino, bevve e ne distribuì, rivelandosi qual
era goloso e crudele.
Su tutto il suo cammino fu una gara di portargli quel che di squisito
porgesse il contorno; i migliori cittadini erano raccolti a splendidi
banchetti; ed i soldati l'imitavano, sicchè il suo campo sarebbesi
detto un baccanale. Sebbene n'avesse congedato e sbrancato parte,
pure settantamila armati, oltre i saccomanni e i servi, attraversando
l'Italia al tempo della messe, la sperperarono, svergognando,
saccheggiando, vendendo come in guerra rotta. L'imperatore entrava in
Roma con corazza e spada, a foggia di conquistatore che si cacciasse
innanzi il senato e il popolo, se non l'avessero gli amici avvertito
di risparmiare questo nuovo insulto ed assumere abito di pace.
Nell'arringa al popolo e al senato sciorinò la solerzia e la temperanza
sua; e popolo e senato, che ne sapevano la gola e le disonestà,
applaudirono.
Con uno de' primi decreti proibì ai cavalieri romani di darsi
spettacolo sul teatro e nell'arena; con un altro sbandiva gli
astrologi; ed essendosi affisso un cartello che annunziava Vitellio
morrebbe il giorno che gli astrologi uscissero di Roma, egli fece
ammazzare quanti ne colse. Era frequente al teatro e al circo, assiduo
al senato, ove avendolo Elvidio Prisco contraddetto, egli soggiunse: —
Nessuna meraviglia che due senatori tengano contrario avviso». Trovato
un catalogo delle persone che avevano sollecitato premj da Otone come
uccisori di Galba, li fece morire, men per punizione del passato che
per riparo all'avvenire. Inetto però a gravi cure, le lasciava ai
favoriti Valente e Cécina che gli avevano dato l'impero, e ad Asiatico
di cui aveva usato in turpi servizj; e forse alle costoro suggestioni
vanno imputati i tanti omicidj di cui Vitellio si macchiò, fin della
propria madre.
Egli intanto badava agli aguzzamenti dell'appetito. Immaginò un
piatto, detto lo scudo di Minerva per la prodigiosa capacità, dove
si raccoglieva quanto potesse meglio solleticare palato o capriccio
d'uomo; cervella di fagiano, fegati di scaro, latte di lamprede, lingue
di rari uccelli a mille colori, pigliati dalla muda ad una cert'ora;
femmine sorprese sulla covata, maschi interrotti nel sonno, perchè
l'agitazione ne fa il fegato d'un mangiare delizioso; fregoli di pesce,
staccati dal fondo dei laghi al modo che si pescano le perle; altri
pesci spediti a Roma coll'acqua stessa in cui furono côlti; poi funghi,
di cui si spiava il nascere nelle umide notti; poma imbarcate cogli
alberi loro e col giardino ove crebbero, affinchè Cesare le cogliesse
di propria mano e godesse le primizie della fragranza e della lanugine.
Fin a cinque desinari sedeva in un giorno, e ciascuno d'ingente
dispendio; invitavasi da un amico a colazione, dall'altro a pranzo, dal
terzo a merenda, a cena dal quarto nel giorno stesso, e gareggiavano
a chi più lautamente gl'imbandisse; ma tutti vinse Lucio suo fratello,
che gli allestì duemila piatti di pesci, e settemila degli uccelli più
squisiti al mondo. Ovunque egli passasse, bisognava riporre i cibi,
altrimenti dava del dente in tutto, sparecchiava le are degli Dei, e
nove milioni di sesterzj in pochi mesi ingolò. Altro denaro straziò in
murare stalle, dar corse e spettacoli di gladiatori e di fiere, e nelle
splendide esequie di Nerone, liete alla ciurma, esecrate dai buoni.
Gli turbarono, non ruppero i sozzi riposi le notizie d'Oriente.
Vespasiano, che osteggiava i Giudei, udita la morte di Nerone, mandò
Tito suo figlio a congratularsi con Galba; ma avendo saputo per via
il tracollo di questo e l'accapigliarsi di Vitellio e Otone, Tito
diede volta per esortare il padre a mettersi anch'egli competitore. Le
legioni d'Oriente non aveano diritto d'imporre all'orbe il padrone,
quanto quelle della Germania e della Gallia? Vespasiano, tenuto
alquanto in bilancia dalla gravezza de' sessant'anni e del rischio,
alfine lasciò da esse proclamarsi imperatore. Le provincie d'Oriente
fino all'Asia e all'Acaja non esitarono a giurargli obbedienza; a
Berito stabilì un senato per dibattere gli affari, richiamò veterani,
cernì novizj, fabbricò armi, battè moneta, e postosi in Egitto, contro
di Vitellio spedì Crasso Muciano, comandante agli eserciti nella Siria.
Il quale, crescendo di forze alla giornata e imponendo tasse, venne in
Europa (69), ove le legioni, dall'Illiria alla Spagna e alla Bretagna,
acclamarono Vespasiano. L'esercito illirico, guidato da Antonio Primo,
calasi dalle Alpi; Aquileja, Altino, Este, Padova, Vicenza, Verona sono
sorprese, e così separate da Vitellio l'Alemagna e le Rezie; Cecina,
che comandava gli eserciti di esso, lo tradì; la flotta di Ravenna
gridò Vespasiano; finalmente sotto Cremona si fe giornata. Trentamila
Vitelliani caddero (29 8bre) uccisi da compatrioti ed amici; un figlio
ammazzò il proprio padre, e riconosciutolo nello spogliarlo, il pregò
di non maledirlo, e gli scavò la fossa. Preso il campo de' Vitelliani,
Cremona fu assalita, e per quanto Antonio Primo desiderasse campare una
città cinta di amenissime ville, piena di gente accorsa ad una solenne
fiera, e dove erano riposte tante ricchezze, non potè frenare l'agonia
delle prede e l'odio antico; e saccheggiata per quattro giorni, fu
distrutta. Primo vietò ai soldati di tener prigioniero verun Cremonese:
ed essi gli ammazzavano.
Vitellio, come altri potenti di altre età, credeva ovviare il pericolo
col non parlarne; guaj a chi in Corte toccasse delle atroci novelle!
mandava spie a scandagliare nel campo di Vespasiano, e tosto le faceva
uccidere perchè non palesassero. Fra ciò designava consoli per dieci
anni, dava la cittadinanza a stranieri con larghissime concessioni, e
nelle sale di Roma e nei parchi di Aricia, dimenticando il passato, il
presente, l'avvenire, bagordava, lussuriava. Giulio Agreste centurione,
cercato invano di scuoterlo, gli chiese licenza d'andar a verificare
coi proprj occhi le forze e la postura del nemico; e visto Cremona
ruinata, le legioni prigioniere e il campo vigoroso, tornò, ne diede
certezza a Vitellio, e trovandolo incredulo, per testimonio di sua
veracità si uccise. In sì lieve conto tenevasi la vita!
Alfine l'imperatore mandò ad abbarrare i valichi dell'Appennino;
poi incalzato, raggiunse l'esercito con un codazzo di senatori che
lo rendeano viepiù spregevole; ed ora a questi, ora a quelli si
volgeva per pareri; poi, ad ogni annunzio dell'avvicinar del nemico,
sgomentavasi e s'ubriacava. Udito che anche la flotta di Miseno avea
voltato bandiera, tornò a Roma intenerendo il popolo con preghiere, con
lagrime, con promesse, più esorbitanti quanto meno pensava mantenerle;
e così raccozzò una ciurma cui diede il nome di legione. Ma come Primo
fulminando varcò l'Appennino, costoro disertarono a frotte.
Sabino, governatore di Roma, benchè fratello di Vespasiano, si tenne
in fede: sol quando si bucinò che, per cessare il sangue, Vitellio
abdicava, egli assunse le armi; ma il popolo, invaso da subita
frenesia, lo chiuse in Campidoglio, e nell'assalto s'incendiarono le
case vicine e i portici, tra le cui fiamme penetrati, i Vitelliani
passarono per le spade chiunque resisteva; Sabino fu trucidato a rabbia
del popolo, il quale mal si potrebbe dire perchè con nuovo furore
proteggesse una causa non sua, e principi che domani avrebbe forse
trascinati nel Tevere.
Primo, come ode arso il Campidoglio e ucciso Sabino, difila sopra Roma:
Vitellio, sebbene rimbaldanzito da quel furore vulgare, mandò colle
Vestali un ambasciatore chiedendo un sol giorno per risolvere; ma non
l'ottenne, e i suoi furono rincacciati nella città. Presa anche questa,
si battagliò per le vie, e cinquantamila uomini perirono; mentre il
vulgo, cui la sua bassezza faceva sicuro, applaudiva o fischiava i
colpi, piacevasi scovare se alcuno si rimpiattasse nelle case, gridando
viva e muoja, come cosa pazza.
Vitellio, scoperto in un canile (20 xbre), fu menato per la città
con abiti laceri, corda al collo, braccia al dosso, fra gli urli
della plebaglia che due giorni prima l'adorava. Al moltiplicare degli
insulti, quest'unica voce oppose, — Eppure io fui vostro imperatore».
Di otto imperatori di Roma, era il sesto che periva di morte violenta.
Coll'uccisione di suo fratello Lucio Vitellio che comandava un esercito
a Terracina, fu terminata la guerra, ma senza che fosse pace. I soldati
vincitori inseguivano i nemici, scannandoli ovunque li scontrassero;
col pretesto di cercarli sforzavano le case; e la ciurma gli avviava
ed emulava. Primo valevasi del comando per rubare più degli altri:
Domiziano, figlio del nuovo imperatore, che nella sollevazione erasi
trafugato in abito di sacristano d'Iside, allora dichiarato cesare,
tuffavasi nelle laidezze. Scompigli sovra scompigli, fra' quali alla
povera Italia restava appena fiato per acclamare Vespasiano augusto.
CAPITOLO XXXVII.
I Flavj.
La casa Flavia, nè antica nè illustre, proveniva da Rieti. Tito
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