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Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 12

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  degli atroci padroni, venivano a trovarvi gli anziani mutili nel
  martirio, i vescovi rapiti miracolosamente al rogo, i filosofi che,
  mutati in apostoli, avevano finalmente rinvenuto il nodo delle agitate
  quistioni, e che s'accingevano a recare il vero alle genti assise
  nell'ombra della morte, e a confermarlo col proprio sangue.
  Le feste dell'idolatria erano allusioni a fenomeni naturali, ovvero
  patriotiche rimembranze, spesso contaminate da impurità e bagordi:
  nelle cristiane, l'esultanza era espressione del rinascimento
  spirituale. Là interrogavasi con ansietà il futuro; qui si confidava
  nell'onniscienza divina; e lo spirito, sgombro dal timore di sinistri
  presagi, trovava la spiegazione della vita in ciò che dee venire dopo
  di essa. Chi potesse, recava qualche denaro ogni mese onde nodrire e
  sotterrare i poveri, sostentare gli orfani, i naufraghi, gli esuli,
  gl'imprigionati. Come fratelli, erano disposti a morire gli uni per gli
  altri: tutto avevano in comune, eccetto le donne: nel loro mangiare
  insieme, che chiamavasi far carità (agape), libavano il calice del
  sacrosanto sangue; poi i cibi, ricevuti a gloria di Colui che li dà,
  rallegravano la sacra accolta nella fratellanza dell'affetto e nella
  gioja del perdono e del sagrifizio.
  La società periva per l'egoismo e l'isolamento? eccola salvata
  dallo spirito d'associazione e da quell'amore che mancò sempre al
  gentilesimo, perchè Dio solo poteva insegnarlo. Il cristianesimo è
  dottrina di redenzione, sicchè primo merito pone il praticare la carità
  fino a dar la vita. Per accrescere il bene del prossimo, ognuno ha
  l'obbligo d'esercitare l'industria, scoprire, progredire; è pertanto
  anche dottrina d'attività e d'avanzamento, mentre gli antichi, fondati
  sopra l'idea del decadimento, vedevano il male e la disuguaglianza
  fra gli uomini come una necessità, soffrivano e lasciavano soffrire.
  Colla parola «Siate perfetti come il Padre mio celeste», è imposta
  alle età nuove la missione di procedere, di lottare; e se il verbo
  di Dio non mente, andrà svolgendosi ed effettuandosi ognor meglio
  la legge di giustizia e d'amore; e poichè in questa consiste il
  perfezionamento anche dell'ordine temporale, indefettibile ne sarà il
  progresso, divenuto legge naturale dell'umanità. Ne conseguiva anche la
  libertà[208], la quale, sbandita d'ogni luogo pel deleterico influsso
  dell'egoismo, ricovera nel santuario, protetta dalla fede di Colui pel
  quale regnano i re.
  Veramente Cristo, la cui riforma era morale e non politica, non
  mutò l'ordinamento materiale del mondo visibile: ma la scienza delle
  intime relazioni della terra col cielo, del tempo coll'eternità, del
  contingente col necessario, riesce ad innovarlo, porgendo un canone di
  eterna giustizia; e coll'impedire che mai più gli uomini si considerino
  altri come fine, altri come mezzi, pianta la libertà vera, generata
  dalla fede, dalla pratica della virtù e dalla cognizione della verità.
  — Chi vorrà esser primo, si farà servo degli altri, come il Figliuol
  dell'uomo che venne non per essere servito ma per servire, e dar la
  vita ad altrui redenzione». Queste parole segnano il rigeneramento
  della società, sostituendo alla tirannide, ove pochi godono e molti
  patiscono, il governo per vantaggio di tutti; e rendendo un dovere non
  un piacere il diriger gli uomini. Il superiore sa d'essere obbligato
  a servire alla grande società umana, nè quindi inorgoglisce della
  sua posizione; l'inferiore vede nel magistrato l'uomo costituito a
  vantaggio di lui, e quindi lo ama e seconda: i potenti riconoscono i
  diritti dei sudditi, questi la soggezione, dovuta per riguardo a Colui
  che è unica fonte della podestà: e gli uni e gli altri s'accordano nel
  volere soltanto ciò che è volontà del comun padrone.
  Cristo designò l'uomo che, lui morto, dovea farsi _servo dei servi_;
  e così fondò l'unità del governo visibile, che non avendo il suo
  regno in questo mondo, avvicinasse più sempre gli uomini al regno di
  Dio, il quale consisterà nell'unità di credenze e d'affetti. A tal
  uopo è stabilito un potere sulle coscienze, al quale appartenga il
  risolvere ogni dubbio e determinare le credenze. Nulla esso possiede
  di violento; uniche armi sue la persuasione, e la Grazia invocata, e la
  infallibilità promessa da Colui, che prega in cielo affinchè la fede di
  Pietro non venga meno.
  A prima vista parrebbe dispotico cotesto governo della Chiesa, che
  impone quanto s'ha da credere, estende l'imperio sulla coscienza,
  e proscrive il dissenso: ma l'infallibilità sua esso trae da un
  principio superiore all'uomo, e tale da acquetar la ragione; tutto
  fa pubblicamente per lettere, dibattimenti, concilj, tanto che non
  si prende alcuna determinazione se non per deliberazioni comuni: le
  assemblee diocesane, provinciali, nazionali, ecumeniche adombrano quel
  governo rappresentativo, che divisavasi testè come il più alto punto
  del politico progresso.
  Esso governo spirituale, non che contrastare col governo terreno,
  imporrà d'attribuire a Cesare ciò che gli appartiene; ma a fronte
  di Cesare ergerà dottrine che, insinuandosi nella vita sociale, la
  modifichino, ed esempj, la cui santa evidenza trascini ad imitarli.
  Pertanto nella società mondana v'avrà nazioni distinte; nella religiosa
  un'_adunanza universale_ (Chiesa cattolica): colà il lignaggio dà
  potenza e decoro; qui tutto deriva dal merito personale, senza gradi nè
  privilegi ereditarj, talchè il nato nell'infimo grado potrà ascendere
  al primato e fin agli altari: colà la forza impone i regnanti, e
  il talento di questi destina i magistrati; qui tutto va per libera
  elezione, dall'acòlito sino al pontefice: colà eserciti che soggiogano
  i corpi, qui apostoli che convincono l'intelletto e inducono la
  volontà: colà imperatori che decretano, qui diaconi, preti, vescovi che
  istruiscono e consigliano: colà giudizj che puniscono, qui un tribunale
  ove il confessare i delitti li espia; e se v'ha chi persiste nella
  nequizia e scandalizza i fratelli, la pena più severa sarà l'escluderlo
  dalla Chiesa, sicchè non partecipi alla preghiera ed al convito de'
  buoni: ivi insomma la materia, qui lo spirito; ivi la coazione, qui
  la coscienza. La carità cristiana toglie dunque l'uomo dal giogo
  dell'uomo; come contro la propria debolezza, così lo difende contro
  l'oppressura altrui, intimando, — Guaj a chi sprezzerà uno di questi
  piccoli».
  Cristo, imponendo ai discepoli la propria indigenza volontaria,
  una legge di patimento e d'abnegazione, ruppe il fascino delle
  grandezze pagane; il livello della povertà, sotto cui abbassava tutti,
  diveniva livello d'indipendenza; sicchè agli splendori dell'antichità
  sottentrassero la fraternità e l'eguaglianza. Allora il diritto succede
  al fatto; il pensiero e la coscienza umana, volontariamente sottomessi
  a Dio, da Dio solo vogliono dipendere, vero e primo sovrano, dal quale
  Cristo fu investito della suprema podestà. Da Dio dunque soltanto e dal
  suo Verbo deriva agli uomini il diritto di comandare. I principi aveano
  fin allora dominato solo sui corpi colla forza; allora governerebbero
  anche gli spiriti col diritto che deducevano da una fonte superiore.
  A vicenda i popoli dall'obbedienza forzata passavano alla consentita,
  prestandola non ad un uomo fallibile e peccatore, ma a Dio, e spegnendo
  così i due demoni della tirannia e della rivolta.
  L'obbedienza nascendo dalla persuasione, non avvilisce col sommettere
  l'uomo ai capricci dell'uomo[209]; riduce il principe a ministro di Dio
  pel bene, e i governi a provvedere che sia rettamente distribuita la
  giustizia, senza potestà nè azione sopra il pensiero e le coscienze.
  Ma se Dio è la potenza, non sempre è di Dio l'uomo che la esercita, nè
  l'uso che ne fa; e quegli e questo sono subordinati al diritto eterno.
  Nessun uomo possedendo autorità per se stesso, qualvolta surroghi
  all'eterno diritto la potenza propria, si fa usurpatore; demerita
  l'obbedienza qualvolta l'arroganza propria sostituisca a quella legge
  superna, di cui è interprete la Chiesa[210].
  Perocchè al di sopra di questi criterj del vero, di quest'autorità del
  giusto è collocata la Chiesa, società delle anime legate al cospetto
  di Dio dalle medesime credenze, depositaria immutabile delle verità
  eterne, e insieme oracolo vivente nelle dispute a cui soggiace ogni
  verità quando è consegnata all'uomo; affinchè, assicurando la libertà
  nel vero, repudii la libertà nell'errore, combattuto sotto qualsiasi
  forma perchè gli manca il diritto. Rappresentando la natura umana
  ancora scevra dal peccato, essa è incapace di errare come di morire; e
  afferma o nega competentemente i primi veri, su cui si fondano non solo
  la religione, ma la famiglia, la società civile e la politica; una nel
  capo, molteplice nei membri.
  Erano dunque finalmente riconciliati scienza e dovere, filosofia e
  religione, morale e politica; derivate tutte dalla medesima sorgente;
  era costituito il criterio del sapere, degli affetti, delle azioni.
  Quanti secoli però, quanto sangue, prima che la verità divenisse
  trionfante, s'inviscerasse nella società, e portasse le indefinite
  sue conseguenze e le applicazioni morali e civili! Ma ancora ne' mali
  inseparabili dalla condizione umana recherà balsami la carità, intenta
  a diminuirli o a consolarli coll'elevare gli occhi del soffrente al
  Cielo che è per lui.
  
  
  CAPITOLO XXXVI.
  Galba. — Otone. — Vitellio.
  
  Fin qui erano succeduti imperatori della famiglia Giulia, o imparentati
  o adottivi di essa; e il senato davasi l'aria di eleggerli: ma ora,
  al vedere una persona nuova, creata dai soldati, il senato comprende
  essersi rivelato che l'imperatore si può fare anche fuor di Roma[211].
  Servio Sulpizio Galba da Terracina, nobile, ricco, preconizzato
  all'impero da mille augurj, nella sua pretura avea ben meritato del
  popolo col l'introdurre il nuovo spettacolo d'elefanti che ballavano
  sulla corda. Buon capitano, sotto Nerone fece l'addormentato per non
  attirarsi sospetti; e governando la Spagna Tarragonese, represse i
  concussori, ed acquistò l'amore della provincia. Insorto contro Nerone
  (68) per restituire (diceva) il massimo dei beni, la libertà rapita da
  un mostro, come l'udì morto assunse il titolo d'imperatore, ed avviossi
  a Roma, auspicando male il regno col punire le persone e le città che
  aveano ricusato secondarlo nella sollevazione, e trucidare i complici
  e fautori di Ninfidio Sabino, comandante ai pretoriani, il quale avea
  voluto farsi gridare imperatore.
  Un corpo di marinaj, che Nerone aveva ordinati in legione, gli va
  incontro a Ponte Milvio chiedendo essere confermati; e perchè al suo
  niego si ammutinano, Galba li fa assalire dalla cavalleria, settemila
  uccidere tra in battaglia e per castigo, i restanti in prigione
  finch'egli visse. Altri supplizj tennero dietro, ordinati freddamente:
  pregato a risparmiare ad un cavaliere l'infamia, comanda che il palco
  sia dipinto, e ornato di fiori.
  Il popolo esultò quando vide messi a morte gli strumenti di Nerone,
  fra cui Narcisso e l'avvelenatrice Locusta; e qualora Galba uscisse in
  pubblico, gli chiedeva a gran voce il supplizio di Tigellino: ma costui
  a grosse somme comprò lo scampo. Di ciò fu scontenta la plebe, come
  della parsimonia che Galba credeva necessaria dopo i pazzi scialacqui
  precedenti. A un senatore che il ricreò tutta una cena, regalò una
  moneta, avvertendolo, — È di mia borsa, non dell'erario». Se vedesse
  imbandigione più dispendiosa del solito, soffiava. Le prodigalità del
  suo antecessore volle cincischiare, ordinando che, chiunque n'avea
  ricevuto doni, ne restituisse nove decimi, creando per questo un
  tribunale che turbò i possedimenti, e più scontentò che non arricchisse
  l'erario. Negò ai pretoriani il donativo, rispondendo: — Ho scelto
  i soldati, non li voglio comperare»; voce degna d'un prisco Romano,
  s'egli l'avesse coi fatti sostenuta.
  Ma avea messo il capo in grembo a favoriti indegni, i quali non era
  malvagità che non si permettessero; nei giudizj e negli impieghi non
  guardavano a merito, a diritto o a torto, ma a chi più desse: laonde
  si rinnovavano le miserie e gli orrori del tempo di Nerone; e l'odio
  de' costoro delitti accumulandosi sopra Galba col disprezzo per la sua
  inerzia, faceva intollerabile il dominio. Vedendosi sprezzato ed esoso,
  e udita la rivolta d'alcune legioni di Germania, Galba stabilì adottare
  un successore. E fu Pisone Liciniano, giovane reputato per modestia e
  severità: e l'esortò a portare la superba fortuna, come sin là aveva
  l'umile sostenuta; essere accorciatojo al ben regnare l'osservar quali
  cose si condannerebbero in principi; ricordasse di aver a governare
  gente che nè la libertà sapeva tollerare, nè la servitù.
  I soldati e i senatori annuirono alla scelta, ma Marco Salvio Otone,
  inveterato negl'intrighi di Corte, essendo stato caldo sostenitore
  di Galba, sperava da lui quel premio: deluso, e nulla avendo a
  sperare nella quiete, tutto nel sovvertimento, macchinò; i debiti,
  le insinuazioni dei liberti, i presagi d'indovini e di pianeti, la
  scadente autorità di Galba, la non ancora assodata di Pisone, lo
  fecero ardito a lasciarsi proclamare imperatore (69) da non più che
  ventitre guardie pretoriane. Ben tosto altri ed altri si aggiunsero;
  gl'indifferenti non si opponeano, i contrarj stavano a guardare. Pisone
  uscì, mostrando di che turpe esempio sarebbe il tollerare che non
  trenta disertori dessero il padrone al mondo; sicchè il popolo empì
  il palazzo gridando morte a Otone, siccom'era solito nei teatri, e non
  già per amore o per idea del meglio, ma per la consuetudine di adulare
  i principi con vano favore, pronti a gridare il contrario un'ora
  appresso.
  E Otone esce con mani tese e picchiar petto e gittar baci e ogni
  umiltà: se gli fa turba intorno di curiosi o di fautori; e prima
  i pretoriani, poi la legione de' marinaj, memore dell'insulto,
  gli prestano giuramento. Galba, svigorito dai settantatre anni e
  dall'infingardaggine, compare armato in sedia; è forbottato senza
  consiglio (69 — 15 genn.) fra una moltitudine non tumultuante, non
  quieta; e da tutti abbandonato, agli assassini presenta tranquillamente
  il petto, dicendo: — Ferite, se così comple alla repubblica». Regnò
  otto mesi, piuttosto scevro di vizj che dotato di virtù; e fu detto di
  lui, che parve degno dell'impero finchè nol conseguì.
  Senato, popolo, cavalieri, come fossero tutt'altra gente, corsero a
  chi prima al campo, bestemmiando Galba, ad Otone baciando la mano e
  ammassando titoli e applausi, più vivi quanto meno sinceri. Otone gli
  accoglieva cortese, e procurava rattenere i soldati dal sangue e dalla
  ruba; ma aveva autorità di comandare il delitto, non d'impedirlo, e
  dovette a lor capriccio deporre ed alzare magistrati. Vinnio, Laco,
  Icelo, Pisone, indegni favoriti, furono trucidati, e con loro molti
  innocenti e rei, come avviene nelle sommosse: la giornata micidiale si
  conchiuse con feste e falò: al domani il pretore, convocati i padri,
  fece decretare la podestà tribunizia ad Otone, che, attraverso le
  insanguinate vie di Roma, salì al Campidoglio, ove ottenne il titolo di
  cesare augusto, perdonò le ingiurie, o forse differì la vendetta, che
  dalla brevità del regno gli fu impedita.
  Gli eserciti che davano l'impero, potevano anche ricusarlo. Nella
  Bassa Germania, Aulo Vitellio, tratti dalla sua i governatori della
  Gallia Belgica e della Lionese, e i campi dell'Alta Germania, della
  Rezia e della Britannia (69), si fece gridare imperatore, e prese
  l'autorità, premiando e punendo; poi avviò verso Italia Fabio Valente
  pel Cenisio, Alieno Cecina pel Sanbernardo cogli eserciti; e presto udì
  che i paesi fra l'Alpi e il Po si sottometteano, non per benevolenza
  od ira, ma perchè indifferenti a qual obbedire fra due pretendenti,
  egualmente spregevoli. Otone, strappatosi dai voluttuosi ozj, mostrasi
  assiduo agli affari, blandisce il popolo con elocuzioni, il senato
  colle dignità, colle largizioni i pretoriani; perdona ad alcuni;
  ordina a Tigellino di morire; tenta smovere Vitellio dall'impresa con
  larghe promesse, fin d'associarselo all'impero: patti simili propone
  Vitellio; poi l'uno all'altro avventano ingiurie enormi e meritate,
  l'uno all'altro spediscono assassini. I pretoriani tumultuano; i
  cittadini rimangono col batticuore d'una guerra civile; nessun partito
  osava prendere il senato, perchè ogni parzialità, mostrata oggi a un
  imperatore, poteva domani dar pretesto alle vendette dell'altro. Lo
  sgomento era cresciuto da fantasmi apparsi, statue rivoltesi, mostri
  nati; un bove parlò in Etruria; il Tevere traboccando portò via i
  viveri. La gente, fiaccata dalla lunga pace, vuol mostrarsi bellicosa
  col comprare belle armi, insigni cavalli, e banchettare, dissimulando
  la paura quanto più n'avea.
  Per togliersi a quell'intradue, Otone mosse incontro al pericolo
  colla più parte de' magistrati e de' consolari, e colle coorti
  pretoriane. La guerra fu atroce come sogliono le civili, sostenute
  da stranieri ausiliarj: finalmente a Bedriaco[212] l'esercito d'Otone
  andò squarciato (20 aprile). A questo in Brescello ne recò notizia un
  soldato, il quale vedendosi non creduto, quasi fosse fuggito per viltà,
  si trafisse colla propria spada. L'imperatore a quell'atto esclamò: —
  Non sia mai che gente sì prode e affezionata resti, per mia cagione,
  esposta a nuovi pericoli». E per quanto i soldati lo confortassero,
  mostrando che non era a disperare, che tutti voleano dar la vita per
  esso, e gliel provassero coll'uccidersi, altri gli dicessero essere
  grandezza d'animo il soffrire le calamità, non il sottrarvisi, egli li
  supplicava a lasciarlo sagrificare la sua per salvare la vita di tanti,
  e, — Non trattasi di combattere Pirro o i Galli, ma concittadini, nè
  la vittoria può venire senza molto sangue fraterno. Vitellio prese le
  armi; io dovetti difendermi; ma la posterità sappia che una sola volta
  esposi per me Romani contro Romani. Vitellio troverà vivi il fratello,
  i figli, la donna sua. Se altri l'impero tenne più a lungo, nessuno
  l'abbandonò più generosamente. Di veruno io mi lagno; chè il querelarsi
  degli uomini o degli Dei al venir della morte, è un mostrarsi cupidi
  della vita».
  Chi così parlava era stato mezzano e parte alle turpitudini di Nerone,
  che gli affidò Poppea sinchè non si fosse tolta d'attorno Ottavia;
  s'era affogato nei debiti; spelavasi tutto il corpo e radeva la faccia
  ogni dì, rammorbidiva la pelle con mollica bagnata, portavasi sempre
  a lato uno specchio, e a quello componevasi in aria marziale prima di
  camminare al nemico. Indotti i suoi a non ritardare la risoluzione sua,
  s'accinge ad uccidersi la sera, poi dice: — Aggiungiamo anche questa
  notte alla vita»; colloca sull'origliere due pugnali, s'addormenta, e
  la mattina si trafigge (21 aprile).
  Piangendo un imperatore che a trentasette anni moriva per salvarli,
  i guerrieri suoi levarono un rumore, pericolosissimo perchè non era
  chi li quietasse; esibirono l'impero senza trovare chi l'aggradisse; e
  mentre il senato si chiariva per Vitellio, e decretava ringraziamenti
  alle legioni di Germania, la militare licenza infieriva d'ambe le
  parti col pretesto di punire gli avversi. Vitellio accorso, perdonò
  ai primarj uffiziali dell'emulo, gli altri punì di morte; nel campo
  di Bedriaco, tuttavia coperto degli insepolti, compiaceasi vederne le
  ferite, e diceva: — Il cadavere d'un nemico sa buono, più buono se è un
  cittadino»; e fatto recar vino, bevve e ne distribuì, rivelandosi qual
  era goloso e crudele.
  Su tutto il suo cammino fu una gara di portargli quel che di squisito
  porgesse il contorno; i migliori cittadini erano raccolti a splendidi
  banchetti; ed i soldati l'imitavano, sicchè il suo campo sarebbesi
  detto un baccanale. Sebbene n'avesse congedato e sbrancato parte,
  pure settantamila armati, oltre i saccomanni e i servi, attraversando
  l'Italia al tempo della messe, la sperperarono, svergognando,
  saccheggiando, vendendo come in guerra rotta. L'imperatore entrava in
  Roma con corazza e spada, a foggia di conquistatore che si cacciasse
  innanzi il senato e il popolo, se non l'avessero gli amici avvertito
  di risparmiare questo nuovo insulto ed assumere abito di pace.
  Nell'arringa al popolo e al senato sciorinò la solerzia e la temperanza
  sua; e popolo e senato, che ne sapevano la gola e le disonestà,
  applaudirono.
  Con uno de' primi decreti proibì ai cavalieri romani di darsi
  spettacolo sul teatro e nell'arena; con un altro sbandiva gli
  astrologi; ed essendosi affisso un cartello che annunziava Vitellio
  morrebbe il giorno che gli astrologi uscissero di Roma, egli fece
  ammazzare quanti ne colse. Era frequente al teatro e al circo, assiduo
  al senato, ove avendolo Elvidio Prisco contraddetto, egli soggiunse: —
  Nessuna meraviglia che due senatori tengano contrario avviso». Trovato
  un catalogo delle persone che avevano sollecitato premj da Otone come
  uccisori di Galba, li fece morire, men per punizione del passato che
  per riparo all'avvenire. Inetto però a gravi cure, le lasciava ai
  favoriti Valente e Cécina che gli avevano dato l'impero, e ad Asiatico
  di cui aveva usato in turpi servizj; e forse alle costoro suggestioni
  vanno imputati i tanti omicidj di cui Vitellio si macchiò, fin della
  propria madre.
  Egli intanto badava agli aguzzamenti dell'appetito. Immaginò un
  piatto, detto lo scudo di Minerva per la prodigiosa capacità, dove
  si raccoglieva quanto potesse meglio solleticare palato o capriccio
  d'uomo; cervella di fagiano, fegati di scaro, latte di lamprede, lingue
  di rari uccelli a mille colori, pigliati dalla muda ad una cert'ora;
  femmine sorprese sulla covata, maschi interrotti nel sonno, perchè
  l'agitazione ne fa il fegato d'un mangiare delizioso; fregoli di pesce,
  staccati dal fondo dei laghi al modo che si pescano le perle; altri
  pesci spediti a Roma coll'acqua stessa in cui furono côlti; poi funghi,
  di cui si spiava il nascere nelle umide notti; poma imbarcate cogli
  alberi loro e col giardino ove crebbero, affinchè Cesare le cogliesse
  di propria mano e godesse le primizie della fragranza e della lanugine.
  Fin a cinque desinari sedeva in un giorno, e ciascuno d'ingente
  dispendio; invitavasi da un amico a colazione, dall'altro a pranzo, dal
  terzo a merenda, a cena dal quarto nel giorno stesso, e gareggiavano
  a chi più lautamente gl'imbandisse; ma tutti vinse Lucio suo fratello,
  che gli allestì duemila piatti di pesci, e settemila degli uccelli più
  squisiti al mondo. Ovunque egli passasse, bisognava riporre i cibi,
  altrimenti dava del dente in tutto, sparecchiava le are degli Dei, e
  nove milioni di sesterzj in pochi mesi ingolò. Altro denaro straziò in
  murare stalle, dar corse e spettacoli di gladiatori e di fiere, e nelle
  splendide esequie di Nerone, liete alla ciurma, esecrate dai buoni.
  Gli turbarono, non ruppero i sozzi riposi le notizie d'Oriente.
  Vespasiano, che osteggiava i Giudei, udita la morte di Nerone, mandò
  Tito suo figlio a congratularsi con Galba; ma avendo saputo per via
  il tracollo di questo e l'accapigliarsi di Vitellio e Otone, Tito
  diede volta per esortare il padre a mettersi anch'egli competitore. Le
  legioni d'Oriente non aveano diritto d'imporre all'orbe il padrone,
  quanto quelle della Germania e della Gallia? Vespasiano, tenuto
  alquanto in bilancia dalla gravezza de' sessant'anni e del rischio,
  alfine lasciò da esse proclamarsi imperatore. Le provincie d'Oriente
  fino all'Asia e all'Acaja non esitarono a giurargli obbedienza; a
  Berito stabilì un senato per dibattere gli affari, richiamò veterani,
  cernì novizj, fabbricò armi, battè moneta, e postosi in Egitto, contro
  di Vitellio spedì Crasso Muciano, comandante agli eserciti nella Siria.
  Il quale, crescendo di forze alla giornata e imponendo tasse, venne in
  Europa (69), ove le legioni, dall'Illiria alla Spagna e alla Bretagna,
  acclamarono Vespasiano. L'esercito illirico, guidato da Antonio Primo,
  calasi dalle Alpi; Aquileja, Altino, Este, Padova, Vicenza, Verona sono
  sorprese, e così separate da Vitellio l'Alemagna e le Rezie; Cecina,
  che comandava gli eserciti di esso, lo tradì; la flotta di Ravenna
  gridò Vespasiano; finalmente sotto Cremona si fe giornata. Trentamila
  Vitelliani caddero (29 8bre) uccisi da compatrioti ed amici; un figlio
  ammazzò il proprio padre, e riconosciutolo nello spogliarlo, il pregò
  di non maledirlo, e gli scavò la fossa. Preso il campo de' Vitelliani,
  Cremona fu assalita, e per quanto Antonio Primo desiderasse campare una
  città cinta di amenissime ville, piena di gente accorsa ad una solenne
  fiera, e dove erano riposte tante ricchezze, non potè frenare l'agonia
  delle prede e l'odio antico; e saccheggiata per quattro giorni, fu
  distrutta. Primo vietò ai soldati di tener prigioniero verun Cremonese:
  ed essi gli ammazzavano.
  Vitellio, come altri potenti di altre età, credeva ovviare il pericolo
  col non parlarne; guaj a chi in Corte toccasse delle atroci novelle!
  mandava spie a scandagliare nel campo di Vespasiano, e tosto le faceva
  uccidere perchè non palesassero. Fra ciò designava consoli per dieci
  anni, dava la cittadinanza a stranieri con larghissime concessioni, e
  nelle sale di Roma e nei parchi di Aricia, dimenticando il passato, il
  presente, l'avvenire, bagordava, lussuriava. Giulio Agreste centurione,
  cercato invano di scuoterlo, gli chiese licenza d'andar a verificare
  coi proprj occhi le forze e la postura del nemico; e visto Cremona
  ruinata, le legioni prigioniere e il campo vigoroso, tornò, ne diede
  certezza a Vitellio, e trovandolo incredulo, per testimonio di sua
  veracità si uccise. In sì lieve conto tenevasi la vita!
  Alfine l'imperatore mandò ad abbarrare i valichi dell'Appennino;
  poi incalzato, raggiunse l'esercito con un codazzo di senatori che
  lo rendeano viepiù spregevole; ed ora a questi, ora a quelli si
  volgeva per pareri; poi, ad ogni annunzio dell'avvicinar del nemico,
  sgomentavasi e s'ubriacava. Udito che anche la flotta di Miseno avea
  voltato bandiera, tornò a Roma intenerendo il popolo con preghiere, con
  lagrime, con promesse, più esorbitanti quanto meno pensava mantenerle;
  e così raccozzò una ciurma cui diede il nome di legione. Ma come Primo
  fulminando varcò l'Appennino, costoro disertarono a frotte.
  Sabino, governatore di Roma, benchè fratello di Vespasiano, si tenne
  in fede: sol quando si bucinò che, per cessare il sangue, Vitellio
  abdicava, egli assunse le armi; ma il popolo, invaso da subita
  frenesia, lo chiuse in Campidoglio, e nell'assalto s'incendiarono le
  case vicine e i portici, tra le cui fiamme penetrati, i Vitelliani
  passarono per le spade chiunque resisteva; Sabino fu trucidato a rabbia
  del popolo, il quale mal si potrebbe dire perchè con nuovo furore
  proteggesse una causa non sua, e principi che domani avrebbe forse
  trascinati nel Tevere.
  Primo, come ode arso il Campidoglio e ucciso Sabino, difila sopra Roma:
  Vitellio, sebbene rimbaldanzito da quel furore vulgare, mandò colle
  Vestali un ambasciatore chiedendo un sol giorno per risolvere; ma non
  l'ottenne, e i suoi furono rincacciati nella città. Presa anche questa,
  si battagliò per le vie, e cinquantamila uomini perirono; mentre il
  vulgo, cui la sua bassezza faceva sicuro, applaudiva o fischiava i
  colpi, piacevasi scovare se alcuno si rimpiattasse nelle case, gridando
  viva e muoja, come cosa pazza.
  Vitellio, scoperto in un canile (20 xbre), fu menato per la città
  con abiti laceri, corda al collo, braccia al dosso, fra gli urli
  della plebaglia che due giorni prima l'adorava. Al moltiplicare degli
  insulti, quest'unica voce oppose, — Eppure io fui vostro imperatore».
  Di otto imperatori di Roma, era il sesto che periva di morte violenta.
  Coll'uccisione di suo fratello Lucio Vitellio che comandava un esercito
  a Terracina, fu terminata la guerra, ma senza che fosse pace. I soldati
  vincitori inseguivano i nemici, scannandoli ovunque li scontrassero;
  col pretesto di cercarli sforzavano le case; e la ciurma gli avviava
  ed emulava. Primo valevasi del comando per rubare più degli altri:
  Domiziano, figlio del nuovo imperatore, che nella sollevazione erasi
  trafugato in abito di sacristano d'Iside, allora dichiarato cesare,
  tuffavasi nelle laidezze. Scompigli sovra scompigli, fra' quali alla
  povera Italia restava appena fiato per acclamare Vespasiano augusto.
  
  
  CAPITOLO XXXVII.
  I Flavj.
  
  La casa Flavia, nè antica nè illustre, proveniva da Rieti. Tito
  
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