Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 11
primi devono considerarsi ultimi.
«Tutti gli uomini sono originalmente contaminati d'un peccato, dal
quale provengono l'errore, l'ignoranza, la morte. Ma ad espiare quel
peccato, a dare all'uomo il potere di convertir l'errore, l'ignoranza,
l'infermità in mezzi di santificazione mediante la ripristinata
libertà, Iddio stesso s'incarnò, versò il sangue e la vita. Tutti
peccatori, tutti redenti del pari, gli uomini vengono da uno stesso
luogo, tornano al luogo stesso per sentieri diversi. La vera giustizia
nasce da tale eguaglianza; come ne nasce la libertà dall'essere ognuno
responsale de' proprj atti.
«Niuno è servo per natura; e quelli che la legale iniquità rese tali,
devonsi sollevare immediatamente col farli partecipi ai riti sacri
e all'istruzione religiosa, preparandoli così all'emancipamento. La
società non abbraccia intero l'uomo, il quale ha in sè qualche cosa di
più sublime, di superiore alle leggi civili; e indipendentemente da
queste aspira ad un fine più eccelso, ad una destinazione superiore
a quella degli Stati che nascono e muojono. L'uomo, alito di Dio,
non trae importanza soltanto dalla società, ma possiede una dignità
propria, che lo obbliga a perfezionare se stesso, dar vigore alla
propria coscienza, appoggiata sopra una legge suprema.
«La riforma non deve dunque cominciare dallo Stato, ma dall'individuo;
perchè questo, allorchè sia buono, è libero sotto qualsiasi reggimento;
sa fin dove obbedire; ha la coscienza della propria dignità e
responsabilità. Nè la morale si limita ai grandi misfatti che nuociono
alla società civile, e pei quali soli il gentilesimo stabilisce le pene
dell'inferno, insegnando che _Dii magna curant, parva negligunt_; ma
abbraccia tutte le opere, i pensieri, le parole, fin le ommissioni,
attesochè l'uomo sta perpetuamente al cospetto d'un Dio, che deve poi
giudicarlo e punirlo. Voi chiamate la vendetta voluttà degli Dei? ed io
vi annunzio che dovete concedere perdono universale, se volete ottenere
perdono da Dio.
«Ogni scostumatezza è colpa, giacchè l'uomo deve rispettare in sè
e negli altri la divinità; nè vi è stato di mezzo fra la verginità
e il matrimonio. In conseguenza i nodi domestici saranno purificati
e rassodati, si perpetuerà il conjugale, diretto a ben più sublime
fine che la soddisfazione istintiva. La donna non sarà più esposta a'
voluttuosi capricci dell'uomo, e l'illibatezza deve portarla a libertà:
ornamento suo più bello considererà quel pudore, che ora è vilipeso
nelle cortigiane, nelle schiave, fin nelle dee; per conservarlo, morrà
anche; e i meriti di essa consisteranno non in eroiche, ma in virtù
miti e conformi alla natura sua.
«L'amor proprio dominante ceda il luogo alla carità, virtù che dai
filosofi è considerata come una debolezza. E questa carità universale,
paziente, benigna, operosa, ordina d'amare il prossimo come noi stessi;
cerca i soffrenti al carcere, all'ospedale; raccoglie i projetti,
sepellisce i morti; dà il pane agli affamati, l'istruzione agli
ignoranti, il consiglio ai dubbiosi, il buon esempio a tutti. Da essa
affratellati, il povero non invidii al ricco; il ricco sappia che tutto
il superfluo deve darlo a chi non ha, ma che ogni stilla d'acqua che
darà ad un bisognoso, gli sarà computata per la vita futura. In vista
della quale è necessario operare continuamente, cercare la purezza in
terra, e tollerare i mali di questa vita, che non è se non un esiglio e
un preparamento.
«Quel che importa, non è la città, non la patria, ma l'uomo; e nazione
e tribù e famiglia esistono per l'uomo, non egli per esse. Il dovere
supremo non concerne quelle astrazioni che si chiamano patria, nazione,
bandiera, ma l'essere reale che chiamasi il prossimo. Allo Stato non
si può sagrificar più nemmanco un uomo, non la moralità personale
alla pubblica: verità e giustizia sono bisogni più urgenti che non
la civiltà materiale. La giustizia ha radici più salde e antiche, che
non i patti e le leggi umane. La verità non deve rimanere privilegio
di pochi, ma comunicarsi a tutti; a tutti insegnare a ingagliardirsi
contro le passioni, quetare i malvagi appetiti, posporre il ben proprio
al generale, l'utile all'onesto, la vita transitoria all'eterna. Voi
dal Campidoglio gridate, _La salute del popolo è norma suprema_; noi
all'opposto diciamo, _Perisca il mondo, ma si faccia la giustizia_».
Chi avesse annunziato tali verità, sarebbe parso poco meno che
mentecatto al romano orgoglio e all'universale corruttela. Eppure
in fatto erano state predicate in una delle più piccole e sprezzate
dipendenze dell'impero romano, la Palestina, diffamata per credulità;
e non già da un guerriero che attirasse il rispetto de' guerrieri
romani, non da un filosofo che ne eccitasse la curiosità, ma dal
figlio d'un artigiano, nato in una grotta in occasione che sua
madre era ita a Betlemme, montuosa cittadina della Giudea, per farsi
iscrivere nel ruolo della sua tribù, allorquando Augusto ordinò il
censo generale (Anno di Roma 754? 25 xbre) affine di conoscere quanta
gente gli dovesse obbedienza e tributi. Questo _uomo_, che si chiamava
Gesù, era figlio di Maria, fanciulla ebrea, stirpe di Davide ma in
povera fortuna, e sposata a Giuseppe fabbro di Nazaret. Egli crebbe
nell'oscurità e nell'obbedienza fin verso i trent'anni; allora cominciò
a predicare a pescatori e simil vulgo, e diceva: — Beati i poveri di
spirito; beati i miti; beati i misericordiosi; beati i mondi di cuore;
beati i pacifici, perchè saranno chiamati figliuoli di Dio; beati
quelli che soffrono persecuzioni per la giustizia, perchè il regno
de' cieli è per essi. Imparate da me che sono mite ed umile di cuore,
e troverete requie alle anime vostre. Chi si corruccia col proprio
fratello, è reo di giudizio. Misericordia io voglio, non sacrifizj.
Finora v'hanno detto, _Occhio per occhio, dente per dente_: io vi dico
che a chi vi percuote una guancia, anche l'altra presentiate. Finora
vi fu imposto d'amare il fratello, e odiare il nemico: io v'ingiungo
d'amare il nemico, beneficare chi vi nuoce, pregare per chi vi
persegue, imitando Dio che fa nascere il sole sui buoni e sui malvagi.
Io vi do un precetto nuovo, che vi amiate un l'altro come io ho amato
voi: vi conosceranno miei discepoli se vi amerete a vicenda. Chi ha
due tuniche, ne porga una a chi n'è sprovvisto. Fate l'elemosina, ma
in secreto, e che la vostra mano sinistra non sappia ciò che fa la
destra. Date a prestito senza speranza di ricambio, e largo sarà il
vostro frutto. Alla fine de' secoli poi verrà il Figliuol dell'uomo
a giudicare, e dirà: _Io ebbi fame, e mi saziaste; ebbi sete, e mi
deste a bere; pellegrino mi albergaste, nudo mi vestiste, mi visitaste
infermo e carcerato; venite, o benedetti del Padre mio, al gaudio che
vi è preparato_».
Chi così diceva, camminava come un peccatore fra i peccatori,
confabulava col bestemmiatore, sedeva a banchetto coi pubblicani;
rimandava assolta l'adultera, lasciavasi lavare i piedi dalla
meretrice; intingeva il dito nel piattello stesso col traditore, e gli
dava il bacio; prometteva il paradiso a un ladrone: oh! ben doveva egli
sentire i dolori dell'umanità, se così la compativa.
Gli Ebrei perdettero l'indipendenza allorchè il magno Pompeo li
sottopose alle aquile latine; e, pur conservando un re proprio,
stavano soggetti a un preside o procuratore romano, che allora era
Ponzio Pilato (28). Allo spettacolo delle assidue vicende d'allora,
alla caduta di tanti regni, allo sterminio di tante città, i Gentili
si approfondavano in quel sentimento d'un progressivo deteriorare del
mondo, che era stato ad essi lasciato dalla tradizione primitiva;
e perfino coloro che idolatravano Roma e «l'eternità dell'ingente
Campidoglio», a cui pareva aggiungere solidità ogni re che incatenato
ascendesse per la via Sacra, pure vedevano ogni generazione
peggiorare, e il mondo avviarsi a rovina inevitabile. Gli Ebrei
invece, fra gravissimi disastri esteriori ed interni, perdute le armi
e l'indipendenza, insieme col dogma della caduta teneano vivo quel
della rigenerazione; unici fra i popoli antichi che conoscessero quella
dottrina del progresso, ch'è carattere e vanto della moderna civiltà.
Nei loro libri profetici, da antico scritti nella più sublime poesia,
leggevano la promessa che verrebbe un salvatore, e appunto intorno a
questi tempi: ma accecati da angusto amor di patria, e nel dispetto
dell'oltraggiata nazionalità, nell'_aspettato_ non presagivano altro
che un eroe, secondo la carne non secondo la fede, il quale spezzasse
le catene del suo popolo come avea fatto Mosè liberandoli dall'Egitto,
o Ciro mentre stavano schiavi in Babilonia, e tornasse i gloriosi tempi
di Davide e di Salomone in quella Gerusalemme che restava sempre la più
insigne città dell'Oriente[200]; un messia insomma trionfante degli
stranieri, anzichè il Figlio dell'uomo, proclamatore dell'universale
fratellanza, e d'una legge d'amore indipendente da tempi, da luoghi, da
condizione.
Questo orgoglio carnale fece che non fosse conosciuto il Dio umanato,
anzi si disprezzasse un Cristo mansueto ed umile, il quale parlava di
rassegnazione, di benevolenza, d'un regno che non è di questo mondo;
consigliava a pagare ancora il tributo, e dare a Cesare quel ch'era di
Cesare: ma al tempo stesso egli imponeva si desse a Dio quel ch'era
di Dio, purgava la legge patria dalle frivole osservanze, e mentre
flagellava coloro che faceano traffico nel tempio, chiamava superbi
e ipocriti i sacerdoti e i dottori, i quali riponevano ogni moralità
nella foggia del vestire, nello astenersi da certi cibi, e gonfiavano i
cuori nella persuasione di loro virtù.
Costoro dunque cospirarono contro di lui, ed ai tribunali patrj
l'accusarono di bestemmiare contro la religione, di corrompere la
gioventù; ai tribunali romani, di turbare la dominazione straniera col
parlare d'un altro regno e di glorie diverse. I principi dei sacerdoti,
gli anziani del popolo e i giudici, cui i Romani ne lasciavano
l'autorità, dichiarano Cristo degno di morte, e chiedono a Pilato che
lo condanni. Questi esamina l'imputato, e gli domanda: — Sei tu il re
de' Giudei?» e Cristo risponde: — Il mio regno non è di questo mondo;
altrimenti i miei ministri non soffrirebbero ch'io fossi consegnato a'
Giudei. — Ma dunque sei re?» ripiglia Pilato; e Cristo: — Tu il dici;
e venni al mondo per rendere testimonianza della verità; e chi è dalla
verità, ascolta la mia voce».
In tempo che altro legame non credeasi poter frenare il mondo, fuor
quello della forza, qual mai timore poteva incutere al governatore
romano un regno non di questo mondo, un re che altro impero non
aveva fuorchè la verità, altri sudditi che quelli dalla verità
assoggettatigli? Pilato avea inteso che il precursore di Cristo
intimava: — Fate penitenza, preparate le vie del Signore», che Cristo
diceva ai poveri: — Voi siete beati», ai ricchi: — Siate misericordiosi
con tutti; chi vuoi essere mio discepolo, lasci ogni cosa, prenda la
croce e mi segua», e che il popolo lo amava perchè scioglieva gli occhi
ai ciechi, la lingua ai muti. Nulla affatto restava dunque minacciata
la potenza ch'egli rappresentava, nè l'immortalità di Cesare: che cosa
aveva mai a fare la religione colla politica? Costui non potea dunque
sembrargli meglio che un lunatico, un paradossale.
Ma quei primati divennero zelanti del poter temporale quando occorreva
di opporlo allo spirituale: astiosi allo straniero che comprimeva le
loro passioni, ora per passione s'accorsero che una novità religiosa
porterebbe novità politica, e minacciarono di denunziare Pilato a Roma
se non condannasse il riottoso. Il popolo, come chiamavansi pochi
scioperati schiamazzanti in piazza, chiede ch'egli condanni costui,
il quale mette a repentaglio il dominio di Tiberio; e Pilato, che
nell'egoismo personale e governativo non vuol porre a repentaglio la
pubblica quiete per nulla meglio che per un uomo, nè pericolare il
proprio impiego per salvare un innocente, condiscende che l'uccidano,
protestandosi però mondo del sangue di lui. E Cristo è crocifisso (35)
dal popolo tra cui era passato beneficando; — vittima della legalità
romana, acciocchè questa sia in perpetuo condannata.
Fra le imprecazioni egli morì, non imperterrito come Trasea o Seneca,
ma confessando il dolore, ma desiderando fossegli risparmiato quel
calice, ma gemendo di sentirsi abbandonato dal Padre, e perdonando
a quelli che l'uccidevano: e tutto fu consumato, come da secoli era
stato simboleggiato e predetto. Lo sgomento invade i discepoli suoi, i
quali mondanamente giudicano le cose dalla riuscita; talchè nascosti
non fidano che nell'essere o sprezzati o dimentichi, e piangono
sull'estinto maestro, finchè questi, come avea promesso, risorge,
e salito al Padre, manda lo Spirito divino che tramuta i timidi ed
ignoranti pescatori di Galilea in dottori intrepidi, i quali, vestiti
della forza di lassù ed obbedendo al maestro che avea detto — Andate
e insegnate a tutte le nazioni», spargonsi per le vie di Gerusalemme,
annunziando compita la legge, cessate le figure, cominciata la nuova
alleanza, venuto il lume dal lume, il Dio da Dio, e spiegano quella
dottrina che doveva essere salvezza del mondo. Così il più stupendo
miracolo del cristianesimo, qual è il potere di trasformazione,
comincia ad operarsi negli Apostoli per estendersi a tutta la società.
Pilato ragguagliò il senato romano del caso; e Tiberio, udendo che
Cristo avea fatto miracoli ed era risorto, disse — Ebbene, ponetelo
fra gli Dei». Sì poco importava l'aggiungerne un altro alla caterva
affluita di Grecia, di Siria, d'Egitto! Cristo però non era un dio,
ma il Dio; e la sua dottrina e l'esempio suo repugnavano talmente ai
dominanti, che il trionfo di quelli doveva portare la rovina di questi;
e raccogliendo i pensieri di tutte le generazioni, di tutti i secoli,
avvincere il mondo in un legame di fede, di speranza, d'amore, il cui
nodo è in cielo.
Finchè ogni gente adorava un dio diverso, ciascuna associazione
rimaneva isolata, nè sentiva verso le altre que' doveri, che da Dio
solo traggono la sanzione: partecipando anzi alle gelosie de' loro
Iddj, non vedeano negli stranieri che nemici da abbattere, schiavi
da incatenare. Pel cristianesimo invece tutti gli uomini s'accordano
nella medesima credenza, si uniscono in una sola Chiesa; solennità
inditte a tutti i paesi, segni che distinguono il credente ovunque
sia, preghiere comuni, e spesso a tempi ed ore eguali in tutto l'orbe.
La religione non restringesi più ad un luogo, è predicata a tutti,
e non annunzia conquiste, cioè predominio d'alcun popolo; non fonda
una tribù sacerdotale, non indispensabile solennità di riti; ma
semplici preghiere, ma cerimonie schiette ed affettuose rimembranze
congiungeranno i fedeli dovunque e quandunque sollevino a Dio la mente.
Il cristianesimo non ha dottrine arcane, non han velo i suoi tempj, non
v'è profani nella Chiesa. L'uniforme e solido insegnamento della scuola
armonizza colla predicazione e col culto, il mistero colla dottrina
esteriore, le cerimonie colla reale consumazione del sagrifizio.
Insegnato ai bambini colle prime parole, si radica nei cuori, insinua
una morale dolce quanto sublime, un'affettuosa eguaglianza che nel
mondo non lascia vedere se non figli d'un Dio. Da qui la purezza d'una
morale, non soggetta a varietà di tempi nè di persone, e sempre intesa
al perfezionamento di sè ed alla carità verso altrui. Nè la virtù è
più un affare di convenzione, ma la pratica della verità, conosciuta e
ponderata con giudizio retto; una buona qualità della mente, di cui non
si può abusare[201]: è peccato il preferire al bene sommo il proprio,
all'oggettivo il subjettivo.
Sotto le maestose pieghe della società romana quale la dipingemmo,
ne covava dunque un'altra affatto differente, che all'amor proprio
di quella opponeva il sagrifizio e la carità; al libertinaggio la
penitenza; all'opinione, al dubbio, al timore le tre virtù ignote,
fede, speranza, carità; alla superbia l'umiliazione; alla violenza
la convinzione; al diritto del forte l'eguaglianza dei deboli;
all'ambizione di ricchezze, di godimenti, di potere, persecuzione,
pazienza, austerità.
Le due società non tardarono a trovarsi a fronte. Perocchè gli
Apostoli, appena furono innovati dallo Spirito consolatore, uscirono
predicando, e sparso il buon seme nella Giudea, recarono la fausta
novella (_euangelio_) alle genti, cui il Cristo non si era mostrato.
Pietro, il maggiore fra essi, s'avvia ad Antiochia, poi a Roma (42?),
il pescatore di Genesaret alla metropoli del mondo, per istabilirla
centro di un'altra unità, per opporre alle infamie di Messalina ed alle
atrocità di Nerone il raffronto dell'alta ragione e della sublime virtù
che perdona, istruisce e consola, e che sacrificando se stessa per
l'umanità, rende inutili gli altri sagrifizj cruenti. La irrequietudine
degli Ebrei in Roma, e massime contro i convertiti, indusse Claudio
a cacciarli, e allora Pietro sarà tornato nell'Asia[202]. Esprimo in
via di probabilità, giacchè, nell'età dell'orgoglio, questi grandi
rinnovatori del mondo lasciarono ignorare il loro cammino.
Saulo o Paolo, di Tarso in Cilicia, municipio romano, da fiero
persecutore de' Cristiani ne divenne apostolo (35), e fu eletto a
diffondere il vangelo tra i Gentili; il che egli fece non soltanto
colla parola, ma con quattordici epistole, dove chiarisce molte
dottrine che erano custodite per tradizione, e inculca che veruna fede
non è ristretta a veruna nazionalità. Gallione proconsole dell'Acaja
risedeva in Corinto, quando Paolo v'andò a predicare, e molti gli
credevano e battezzavansi. Gli Ebrei lo presero in ira: l'ira consueta
degli oppressi contro chi cerca rigenerarli moralmente; e il condussero
al proconsole, imputandolo d'insegnare un diverso modo d'adorar Dio;
ma Gallione li rimbrottò, e — Se costui ha commesso qualche delitto,
indicatelo; ma se si tratta delle vostre solite quistioni di parole e
casi della legge vostra, sbrigatevela fra voi»[203].
Un'altra volta, mentre predicava nel tempio di Gerusalemme (38), gli
Ebrei lo assalsero e maltrattarono, finchè s'interpose la guarnigione
romana. Lisia, colonnello di questa, al cui arbitrio era commessa la
quiete della città, volea farlo bastonare, ma Paolo disse: — No, perchè
io son cittadino romano». Verificata tale asserzione, il colonnello
lo sottopose a un concilio di sacerdoti; ma tra questi alcuni erano
sadducei che negavano l'immortalità, altri farisei che ammettevano
la resurrezione de' morti; perocchè gli Ebrei pativano di quell'altra
scabbia degli oppressi, la sconcordia d'opinioni e i rancori reciproci:
onde cominciarono abbaruffarsi fra loro. Il colonnello, vedendo non si
trattava d'alcuna colpa, tolse seco Paolo perchè non soffrisse nuove
ingiurie, e lo mandò a Felice governatore della Giudea. Accorse il
gransacerdote ebreo con altri ad accusarlo; ma Felice, visto che erano
dispute religiose, tenne Paolo in larga custodia a Cesarea per due
anni, intanto ascoltandolo discutere sulla giustizia, sulla castità,
sul giudizio futuro: avviata poi la processura, Paolo appellò al
tribunale di Cesare, laonde fu da Festo, successore di Felice, mandato
a Roma. Tra molti prodigi egli vi approdò; e lasciato alla libera
custodia d'un soldato, con ogni fidanza e senza verun divieto[204] vi
stette due anni predicando.
Reduce in Asia, da Corinto diresse ai Romani una celebre epistola, in
cui rinfaccia a' Giudei convertiti la carnalità e il volere angustiarsi
nelle cerimonie, mentre quel che importa è la grazia del Signore,
necessaria per essere santificati in virtù della fede in Cristo, la
qual fede è il principio della giustificazione: ai Gentili rimprovera
la soverchia fidanza nella propria ragione, mentre le cognizioni di
cui superbivano, traevanli a peccato; la scienza di suprema importanza
esser quella di Dio; i savj, quando s'ingloriarono de' proprj
pensamenti, caddero nell'accecamento e nella superstizione, e Dio
li lasciò in balìa delle passioni loro: pertanto e Gentili e Giudei
convertiti si rispettino a vicenda, nè in altro si glorifichino che in
Cristo Gesù. Tornato poi a Roma e messo prigione, Paolo di là scrisse
una lettera agli Ebrei, mostrando l'insufficienza della legge mosaica
dopo venuto chi la perfezionava e compiva.
Di queste missioni poco si brigava l'orgoglio romano, finchè non venne
occasione di perseguitarne i proseliti. Da poi che Nerone ebbe messo
fuoco a Roma, nè sacrifizj agli Dei nè ordini ai magistrati nè profuso
denaro o promesse di più elegante ricostruzione chetarono il dispetto
della plebe. «Si ricorse anche ai Libri Sibillini; fu supplicato a
Vulcano, Cerere, Proserpina; e da matrone prima in Campidoglio, poi
alla più pressa marina, fatta Giunone favorevole; e di quell'acqua
fu asperso il tempio e l'immagine della dea, poi da maritate vi si
fecero i lettisternj e le vigilie. Ma nè opera umana, nè prece divina,
nè larghezza da principe gli scemava l'infame taccia dell'avere
arso Roma». L'imperatore, che poteva ridurre al silenzio i senatori
coll'ucciderli, era costretto rispettare il popolo; onde, con un
artifizio unico e sempre nuovo, pensò stornare da sè quella colpa col
versarla sopra cotesta nuova setta di filosofi, la quale, aborrendo
dalla sozza corruttela e dal vigliacco umiliarsi, e non riconoscendo
nei Romani una natura superiore alle altre genti, nè quindi il
diritto di opprimerle, faceva dispetto alla tiranna del mondo. Adunque
«processò e con isquisitissime pene castigò quegli odiati malfattori,
che il vulgo chiamava Cristiani da un Cristo, il quale, regnante
Tiberio, fu crocifisso da Ponzio Pilato procuratore. Per allora fu
repressa quella semenza; ma rinverziva non pure nella Giudea dove
nacque quel male, ma anche a Roma, dove tutte le cose atroci e brutte
concorrono e acquistano celebrità. Furono dunque prima catturati i
Cristiani che professavano apertamente, quindi gran turba, indicati non
come colpevoli dell'incendio, ma come nemici del genere umano».
Per l'odio dunque cominciavano i Romani a conoscere una religione,
che tutti voleva congiungere nell'amore. Con supplizj della peggior
guisa li perseguitarono, e imitando quel che il loro padrone
faceva ai patrizj, unirono all'atrocità l'insulto; quali avvolti in
pelli d'animali esibendo ai cani, quali esponendo nel circo, quali
bruciando vivi, e de' loro corpi servendosi la sera come di fanali
ne' voluttuosi giardini di Nerone, posti in quel colle Vaticano, su
cui la religione allora nascente doveva poi piantare il suo trionfale
padiglione. «Nerone vi celebrò la festa Circense, vestito da cocchiere
in sul carro, e spettatore fra la plebe; onde di que' tristi, sebbene
meritevoli di ogni più nuovo supplizio, veniva pietà, non morendo essi
per pubblico bene, ma per crudeltà di lui solo»[205]. Vuole la costante
tradizione che in quell'occasione Pietro e Paolo suggellassero la fede
loro col martirio (67 — 29 giugno), consacrando del loro sangue una
terra, che da tant'altro era contaminata.
Ma già eransi moltiplicati i Cristiani in Roma, in Italia. Da principio
adoperavano ogn'arte per nascondersi, convegni segreti, segni di
convenzione, lettere e tessere di riconoscimento, scatole in cui
portare il viatico agl'infermi, ai prigionieri, a chi non poteva uscir
di casa; intanto si estendevano fra i poveri, fra i giovani, fra le
donne. La donna convertita è seme che germoglia presso al focolare
domestico; e se non può al consorte, ispira ai servi ed ai figliolini
nuove massime, nuove ammirazioni, desiderj nuovi. La famiglia di
Priscilla fu la prima che, dalle idee orgogliose su cui riposava il
patriziato antico, passò ai sentimenti della fraternità umana che
costituiscono la cristiana uguaglianza. Tre Priscille, molte Lucine,
Ilaria, Flavia, Severina, Firmina, Giusta, Ciriaca, altre ricche vedove
trasformate in diaconesse, passavano i giorni pregando sulle tombe dei
martiri, che aveano ornate colla cura e col segreto onde altre loro
pari allestivano i gabinetti lascivi; madri e vergini sante espiavano
per quelle che si prostituivano in onor delle dee, pregando assidue, e
soccorrendo chiunque abbisognava o soffriva. Quando la dea Vesta più
non trovava chi volesse votarle la verginità, molte fanciulle a gara
s'offrivano alla custodia delle ossa dei martiri. Più tardi colle loro
ricchezze fondarono spedali, monumenti di carità opposti a quelli di
strage e di contaminazione. Di tal passo la donna recuperava la libertà
naturale, sottraevasi, foss'anche schiava, all'arbitrio d'un padrone, e
cancellava la legale sua inferiorità[206].
L'adorazione dell'uomo è l'adorazione del male; il culto dei Cesari
è l'infimo grado dell'idolatria; i costumi dell'età loro sono la
cloaca dell'impurità, dell'inumanità e della divisione, le tre grandi
conseguenze dell'idolatria. Da un lato dunque «opere della carne,
dimenticanza di Dio, incostanza di matrimonj, avvelenamenti, sangue ed
omicidj, furti ed inganni, orgie, sacrifizj tenebrosi, uomini uccisi
per gelosia, o contristati coll'adulterio, tutte le cose confuse, e
una gran guerra d'ignoranza che la follia degli uomini chiama pace»;
dall'altro lato «tutti i frutti dello Spirito, carità, gioja, pace,
pazienza, benignità, bontà, longanimità, dolcezza, fede, modestia,
temperanza, castità»[207]; ai quattro caratteri dell'antichità se ne
oppongono quattro nuovi, fede pura all'idolatria, carità allo spirito
di malevolenza, giustizia al disprezzo delle vite, castità alla
corruzione. Siffatta guerra cominciava col Vangelo.
Nella Roma incestuosa e micidiale, anime che il mondo non era degno
di possedere viveano nelle caverne, aspettando intrepide, ma non
accelerando l'ora di fecondare del loro sangue la pianta della
rigenerazione. Attorno alle città d'Ostia, di Velletri, di Tivoli,
di Preneste e Palestrina, e nelle valli che con cento flessuosità
sboccano nella pianura del Lazio; accanto alle tane, ove i padroni
chiudevano la sera centinaja di schiavi alla bestemmia ed agli
indistinti concubiti, trovi altre caverne, scavate nel tufo di cui si
fabbricavano le voluttuose ville: e dentro quelle nei gemiti e nella
preghiera si rigenerava l'umanità. Colà i Cristiani sepellivano i morti
entro nicchie che poi muravano, chiudendovi insieme gli strumenti
del supplizio, un'ampolla del sangue, le insegne della dignità o
dello stato; e questi asili della morte denominavano _cimiterj_, cioè
dormitorj, espressione d'una coscienza pura, consolata nella certezza
di svegliarsi ad altra vita; e colà venivano ad orare. Ivi nessun
altro ornamento che l'avello d'un martire, pochi fiori, alcuni vasi di
legno, qualche cero o lampada, al cui lume leggere il Vangelo, cioè i
libri nei quali i compagni di Cristo o i loro discepoli aveano esposto
semplicemente la vita e gl'insegnamenti di lui, i precetti e l'esempio;
ed invocavano la grazia di adempirli e d'imitarlo. E in quel leggere e
in quel pregare consisteva la loro cospirazione.
Uniti nella credenza stessa, nella stessa morale, nella stessa
speranza, davano bando alle inumane distinzioni del secolo: il ricco
sedeva presso al povero cui sostentava coll'aver suo: le vergini del
vulgo, coperte di bianco lino, con al collo gli amuleti dell'agnello
di Dio che toglie i peccati, alternavano litanie colle matrone e colle
vedove de' senatori e dei proconsoli, che avevano data ogni ricchezza
all'assemblea de' fedeli, e spargevano i ristori della carità: e mentre
l'egoismo rodeva a morte la società antica, qual sovrabbondanza di
vigore in quella nuova, dove l'amore nasceva dall'inesausta fonte della
fede, e dove convincendosi della debolezza dell'uomo, acquistavano
la forza che viene da Dio! Il vescovo, il prete, il diacono, cioè a
dire l'ispettore, il vecchio, il servo, presedevano all'adunanza, non
distinti se non per maggior virtù, carità e dottrina nel soffrire, nel
rimetter pace, nel compatire e consolare, nello spezzare il pane della
parola, e per lo stupendo privilegio d'immolare il Figlio al Padre,
vittima incessante per le colpe, e di legare o sciogliere i peccatori
tra l'effusione della Grazia.
Quivi entro, la vigilia delle solennità i sacerdoti davansi lo scambio
per cantar tutta notte inni al loro Signore; e quella melodìa serviva
di guida ai fedeli, che sbucati di piatto dalla città o dall'ergastolo
«Tutti gli uomini sono originalmente contaminati d'un peccato, dal
quale provengono l'errore, l'ignoranza, la morte. Ma ad espiare quel
peccato, a dare all'uomo il potere di convertir l'errore, l'ignoranza,
l'infermità in mezzi di santificazione mediante la ripristinata
libertà, Iddio stesso s'incarnò, versò il sangue e la vita. Tutti
peccatori, tutti redenti del pari, gli uomini vengono da uno stesso
luogo, tornano al luogo stesso per sentieri diversi. La vera giustizia
nasce da tale eguaglianza; come ne nasce la libertà dall'essere ognuno
responsale de' proprj atti.
«Niuno è servo per natura; e quelli che la legale iniquità rese tali,
devonsi sollevare immediatamente col farli partecipi ai riti sacri
e all'istruzione religiosa, preparandoli così all'emancipamento. La
società non abbraccia intero l'uomo, il quale ha in sè qualche cosa di
più sublime, di superiore alle leggi civili; e indipendentemente da
queste aspira ad un fine più eccelso, ad una destinazione superiore
a quella degli Stati che nascono e muojono. L'uomo, alito di Dio,
non trae importanza soltanto dalla società, ma possiede una dignità
propria, che lo obbliga a perfezionare se stesso, dar vigore alla
propria coscienza, appoggiata sopra una legge suprema.
«La riforma non deve dunque cominciare dallo Stato, ma dall'individuo;
perchè questo, allorchè sia buono, è libero sotto qualsiasi reggimento;
sa fin dove obbedire; ha la coscienza della propria dignità e
responsabilità. Nè la morale si limita ai grandi misfatti che nuociono
alla società civile, e pei quali soli il gentilesimo stabilisce le pene
dell'inferno, insegnando che _Dii magna curant, parva negligunt_; ma
abbraccia tutte le opere, i pensieri, le parole, fin le ommissioni,
attesochè l'uomo sta perpetuamente al cospetto d'un Dio, che deve poi
giudicarlo e punirlo. Voi chiamate la vendetta voluttà degli Dei? ed io
vi annunzio che dovete concedere perdono universale, se volete ottenere
perdono da Dio.
«Ogni scostumatezza è colpa, giacchè l'uomo deve rispettare in sè
e negli altri la divinità; nè vi è stato di mezzo fra la verginità
e il matrimonio. In conseguenza i nodi domestici saranno purificati
e rassodati, si perpetuerà il conjugale, diretto a ben più sublime
fine che la soddisfazione istintiva. La donna non sarà più esposta a'
voluttuosi capricci dell'uomo, e l'illibatezza deve portarla a libertà:
ornamento suo più bello considererà quel pudore, che ora è vilipeso
nelle cortigiane, nelle schiave, fin nelle dee; per conservarlo, morrà
anche; e i meriti di essa consisteranno non in eroiche, ma in virtù
miti e conformi alla natura sua.
«L'amor proprio dominante ceda il luogo alla carità, virtù che dai
filosofi è considerata come una debolezza. E questa carità universale,
paziente, benigna, operosa, ordina d'amare il prossimo come noi stessi;
cerca i soffrenti al carcere, all'ospedale; raccoglie i projetti,
sepellisce i morti; dà il pane agli affamati, l'istruzione agli
ignoranti, il consiglio ai dubbiosi, il buon esempio a tutti. Da essa
affratellati, il povero non invidii al ricco; il ricco sappia che tutto
il superfluo deve darlo a chi non ha, ma che ogni stilla d'acqua che
darà ad un bisognoso, gli sarà computata per la vita futura. In vista
della quale è necessario operare continuamente, cercare la purezza in
terra, e tollerare i mali di questa vita, che non è se non un esiglio e
un preparamento.
«Quel che importa, non è la città, non la patria, ma l'uomo; e nazione
e tribù e famiglia esistono per l'uomo, non egli per esse. Il dovere
supremo non concerne quelle astrazioni che si chiamano patria, nazione,
bandiera, ma l'essere reale che chiamasi il prossimo. Allo Stato non
si può sagrificar più nemmanco un uomo, non la moralità personale
alla pubblica: verità e giustizia sono bisogni più urgenti che non
la civiltà materiale. La giustizia ha radici più salde e antiche, che
non i patti e le leggi umane. La verità non deve rimanere privilegio
di pochi, ma comunicarsi a tutti; a tutti insegnare a ingagliardirsi
contro le passioni, quetare i malvagi appetiti, posporre il ben proprio
al generale, l'utile all'onesto, la vita transitoria all'eterna. Voi
dal Campidoglio gridate, _La salute del popolo è norma suprema_; noi
all'opposto diciamo, _Perisca il mondo, ma si faccia la giustizia_».
Chi avesse annunziato tali verità, sarebbe parso poco meno che
mentecatto al romano orgoglio e all'universale corruttela. Eppure
in fatto erano state predicate in una delle più piccole e sprezzate
dipendenze dell'impero romano, la Palestina, diffamata per credulità;
e non già da un guerriero che attirasse il rispetto de' guerrieri
romani, non da un filosofo che ne eccitasse la curiosità, ma dal
figlio d'un artigiano, nato in una grotta in occasione che sua
madre era ita a Betlemme, montuosa cittadina della Giudea, per farsi
iscrivere nel ruolo della sua tribù, allorquando Augusto ordinò il
censo generale (Anno di Roma 754? 25 xbre) affine di conoscere quanta
gente gli dovesse obbedienza e tributi. Questo _uomo_, che si chiamava
Gesù, era figlio di Maria, fanciulla ebrea, stirpe di Davide ma in
povera fortuna, e sposata a Giuseppe fabbro di Nazaret. Egli crebbe
nell'oscurità e nell'obbedienza fin verso i trent'anni; allora cominciò
a predicare a pescatori e simil vulgo, e diceva: — Beati i poveri di
spirito; beati i miti; beati i misericordiosi; beati i mondi di cuore;
beati i pacifici, perchè saranno chiamati figliuoli di Dio; beati
quelli che soffrono persecuzioni per la giustizia, perchè il regno
de' cieli è per essi. Imparate da me che sono mite ed umile di cuore,
e troverete requie alle anime vostre. Chi si corruccia col proprio
fratello, è reo di giudizio. Misericordia io voglio, non sacrifizj.
Finora v'hanno detto, _Occhio per occhio, dente per dente_: io vi dico
che a chi vi percuote una guancia, anche l'altra presentiate. Finora
vi fu imposto d'amare il fratello, e odiare il nemico: io v'ingiungo
d'amare il nemico, beneficare chi vi nuoce, pregare per chi vi
persegue, imitando Dio che fa nascere il sole sui buoni e sui malvagi.
Io vi do un precetto nuovo, che vi amiate un l'altro come io ho amato
voi: vi conosceranno miei discepoli se vi amerete a vicenda. Chi ha
due tuniche, ne porga una a chi n'è sprovvisto. Fate l'elemosina, ma
in secreto, e che la vostra mano sinistra non sappia ciò che fa la
destra. Date a prestito senza speranza di ricambio, e largo sarà il
vostro frutto. Alla fine de' secoli poi verrà il Figliuol dell'uomo
a giudicare, e dirà: _Io ebbi fame, e mi saziaste; ebbi sete, e mi
deste a bere; pellegrino mi albergaste, nudo mi vestiste, mi visitaste
infermo e carcerato; venite, o benedetti del Padre mio, al gaudio che
vi è preparato_».
Chi così diceva, camminava come un peccatore fra i peccatori,
confabulava col bestemmiatore, sedeva a banchetto coi pubblicani;
rimandava assolta l'adultera, lasciavasi lavare i piedi dalla
meretrice; intingeva il dito nel piattello stesso col traditore, e gli
dava il bacio; prometteva il paradiso a un ladrone: oh! ben doveva egli
sentire i dolori dell'umanità, se così la compativa.
Gli Ebrei perdettero l'indipendenza allorchè il magno Pompeo li
sottopose alle aquile latine; e, pur conservando un re proprio,
stavano soggetti a un preside o procuratore romano, che allora era
Ponzio Pilato (28). Allo spettacolo delle assidue vicende d'allora,
alla caduta di tanti regni, allo sterminio di tante città, i Gentili
si approfondavano in quel sentimento d'un progressivo deteriorare del
mondo, che era stato ad essi lasciato dalla tradizione primitiva;
e perfino coloro che idolatravano Roma e «l'eternità dell'ingente
Campidoglio», a cui pareva aggiungere solidità ogni re che incatenato
ascendesse per la via Sacra, pure vedevano ogni generazione
peggiorare, e il mondo avviarsi a rovina inevitabile. Gli Ebrei
invece, fra gravissimi disastri esteriori ed interni, perdute le armi
e l'indipendenza, insieme col dogma della caduta teneano vivo quel
della rigenerazione; unici fra i popoli antichi che conoscessero quella
dottrina del progresso, ch'è carattere e vanto della moderna civiltà.
Nei loro libri profetici, da antico scritti nella più sublime poesia,
leggevano la promessa che verrebbe un salvatore, e appunto intorno a
questi tempi: ma accecati da angusto amor di patria, e nel dispetto
dell'oltraggiata nazionalità, nell'_aspettato_ non presagivano altro
che un eroe, secondo la carne non secondo la fede, il quale spezzasse
le catene del suo popolo come avea fatto Mosè liberandoli dall'Egitto,
o Ciro mentre stavano schiavi in Babilonia, e tornasse i gloriosi tempi
di Davide e di Salomone in quella Gerusalemme che restava sempre la più
insigne città dell'Oriente[200]; un messia insomma trionfante degli
stranieri, anzichè il Figlio dell'uomo, proclamatore dell'universale
fratellanza, e d'una legge d'amore indipendente da tempi, da luoghi, da
condizione.
Questo orgoglio carnale fece che non fosse conosciuto il Dio umanato,
anzi si disprezzasse un Cristo mansueto ed umile, il quale parlava di
rassegnazione, di benevolenza, d'un regno che non è di questo mondo;
consigliava a pagare ancora il tributo, e dare a Cesare quel ch'era di
Cesare: ma al tempo stesso egli imponeva si desse a Dio quel ch'era
di Dio, purgava la legge patria dalle frivole osservanze, e mentre
flagellava coloro che faceano traffico nel tempio, chiamava superbi
e ipocriti i sacerdoti e i dottori, i quali riponevano ogni moralità
nella foggia del vestire, nello astenersi da certi cibi, e gonfiavano i
cuori nella persuasione di loro virtù.
Costoro dunque cospirarono contro di lui, ed ai tribunali patrj
l'accusarono di bestemmiare contro la religione, di corrompere la
gioventù; ai tribunali romani, di turbare la dominazione straniera col
parlare d'un altro regno e di glorie diverse. I principi dei sacerdoti,
gli anziani del popolo e i giudici, cui i Romani ne lasciavano
l'autorità, dichiarano Cristo degno di morte, e chiedono a Pilato che
lo condanni. Questi esamina l'imputato, e gli domanda: — Sei tu il re
de' Giudei?» e Cristo risponde: — Il mio regno non è di questo mondo;
altrimenti i miei ministri non soffrirebbero ch'io fossi consegnato a'
Giudei. — Ma dunque sei re?» ripiglia Pilato; e Cristo: — Tu il dici;
e venni al mondo per rendere testimonianza della verità; e chi è dalla
verità, ascolta la mia voce».
In tempo che altro legame non credeasi poter frenare il mondo, fuor
quello della forza, qual mai timore poteva incutere al governatore
romano un regno non di questo mondo, un re che altro impero non
aveva fuorchè la verità, altri sudditi che quelli dalla verità
assoggettatigli? Pilato avea inteso che il precursore di Cristo
intimava: — Fate penitenza, preparate le vie del Signore», che Cristo
diceva ai poveri: — Voi siete beati», ai ricchi: — Siate misericordiosi
con tutti; chi vuoi essere mio discepolo, lasci ogni cosa, prenda la
croce e mi segua», e che il popolo lo amava perchè scioglieva gli occhi
ai ciechi, la lingua ai muti. Nulla affatto restava dunque minacciata
la potenza ch'egli rappresentava, nè l'immortalità di Cesare: che cosa
aveva mai a fare la religione colla politica? Costui non potea dunque
sembrargli meglio che un lunatico, un paradossale.
Ma quei primati divennero zelanti del poter temporale quando occorreva
di opporlo allo spirituale: astiosi allo straniero che comprimeva le
loro passioni, ora per passione s'accorsero che una novità religiosa
porterebbe novità politica, e minacciarono di denunziare Pilato a Roma
se non condannasse il riottoso. Il popolo, come chiamavansi pochi
scioperati schiamazzanti in piazza, chiede ch'egli condanni costui,
il quale mette a repentaglio il dominio di Tiberio; e Pilato, che
nell'egoismo personale e governativo non vuol porre a repentaglio la
pubblica quiete per nulla meglio che per un uomo, nè pericolare il
proprio impiego per salvare un innocente, condiscende che l'uccidano,
protestandosi però mondo del sangue di lui. E Cristo è crocifisso (35)
dal popolo tra cui era passato beneficando; — vittima della legalità
romana, acciocchè questa sia in perpetuo condannata.
Fra le imprecazioni egli morì, non imperterrito come Trasea o Seneca,
ma confessando il dolore, ma desiderando fossegli risparmiato quel
calice, ma gemendo di sentirsi abbandonato dal Padre, e perdonando
a quelli che l'uccidevano: e tutto fu consumato, come da secoli era
stato simboleggiato e predetto. Lo sgomento invade i discepoli suoi, i
quali mondanamente giudicano le cose dalla riuscita; talchè nascosti
non fidano che nell'essere o sprezzati o dimentichi, e piangono
sull'estinto maestro, finchè questi, come avea promesso, risorge,
e salito al Padre, manda lo Spirito divino che tramuta i timidi ed
ignoranti pescatori di Galilea in dottori intrepidi, i quali, vestiti
della forza di lassù ed obbedendo al maestro che avea detto — Andate
e insegnate a tutte le nazioni», spargonsi per le vie di Gerusalemme,
annunziando compita la legge, cessate le figure, cominciata la nuova
alleanza, venuto il lume dal lume, il Dio da Dio, e spiegano quella
dottrina che doveva essere salvezza del mondo. Così il più stupendo
miracolo del cristianesimo, qual è il potere di trasformazione,
comincia ad operarsi negli Apostoli per estendersi a tutta la società.
Pilato ragguagliò il senato romano del caso; e Tiberio, udendo che
Cristo avea fatto miracoli ed era risorto, disse — Ebbene, ponetelo
fra gli Dei». Sì poco importava l'aggiungerne un altro alla caterva
affluita di Grecia, di Siria, d'Egitto! Cristo però non era un dio,
ma il Dio; e la sua dottrina e l'esempio suo repugnavano talmente ai
dominanti, che il trionfo di quelli doveva portare la rovina di questi;
e raccogliendo i pensieri di tutte le generazioni, di tutti i secoli,
avvincere il mondo in un legame di fede, di speranza, d'amore, il cui
nodo è in cielo.
Finchè ogni gente adorava un dio diverso, ciascuna associazione
rimaneva isolata, nè sentiva verso le altre que' doveri, che da Dio
solo traggono la sanzione: partecipando anzi alle gelosie de' loro
Iddj, non vedeano negli stranieri che nemici da abbattere, schiavi
da incatenare. Pel cristianesimo invece tutti gli uomini s'accordano
nella medesima credenza, si uniscono in una sola Chiesa; solennità
inditte a tutti i paesi, segni che distinguono il credente ovunque
sia, preghiere comuni, e spesso a tempi ed ore eguali in tutto l'orbe.
La religione non restringesi più ad un luogo, è predicata a tutti,
e non annunzia conquiste, cioè predominio d'alcun popolo; non fonda
una tribù sacerdotale, non indispensabile solennità di riti; ma
semplici preghiere, ma cerimonie schiette ed affettuose rimembranze
congiungeranno i fedeli dovunque e quandunque sollevino a Dio la mente.
Il cristianesimo non ha dottrine arcane, non han velo i suoi tempj, non
v'è profani nella Chiesa. L'uniforme e solido insegnamento della scuola
armonizza colla predicazione e col culto, il mistero colla dottrina
esteriore, le cerimonie colla reale consumazione del sagrifizio.
Insegnato ai bambini colle prime parole, si radica nei cuori, insinua
una morale dolce quanto sublime, un'affettuosa eguaglianza che nel
mondo non lascia vedere se non figli d'un Dio. Da qui la purezza d'una
morale, non soggetta a varietà di tempi nè di persone, e sempre intesa
al perfezionamento di sè ed alla carità verso altrui. Nè la virtù è
più un affare di convenzione, ma la pratica della verità, conosciuta e
ponderata con giudizio retto; una buona qualità della mente, di cui non
si può abusare[201]: è peccato il preferire al bene sommo il proprio,
all'oggettivo il subjettivo.
Sotto le maestose pieghe della società romana quale la dipingemmo,
ne covava dunque un'altra affatto differente, che all'amor proprio
di quella opponeva il sagrifizio e la carità; al libertinaggio la
penitenza; all'opinione, al dubbio, al timore le tre virtù ignote,
fede, speranza, carità; alla superbia l'umiliazione; alla violenza
la convinzione; al diritto del forte l'eguaglianza dei deboli;
all'ambizione di ricchezze, di godimenti, di potere, persecuzione,
pazienza, austerità.
Le due società non tardarono a trovarsi a fronte. Perocchè gli
Apostoli, appena furono innovati dallo Spirito consolatore, uscirono
predicando, e sparso il buon seme nella Giudea, recarono la fausta
novella (_euangelio_) alle genti, cui il Cristo non si era mostrato.
Pietro, il maggiore fra essi, s'avvia ad Antiochia, poi a Roma (42?),
il pescatore di Genesaret alla metropoli del mondo, per istabilirla
centro di un'altra unità, per opporre alle infamie di Messalina ed alle
atrocità di Nerone il raffronto dell'alta ragione e della sublime virtù
che perdona, istruisce e consola, e che sacrificando se stessa per
l'umanità, rende inutili gli altri sagrifizj cruenti. La irrequietudine
degli Ebrei in Roma, e massime contro i convertiti, indusse Claudio
a cacciarli, e allora Pietro sarà tornato nell'Asia[202]. Esprimo in
via di probabilità, giacchè, nell'età dell'orgoglio, questi grandi
rinnovatori del mondo lasciarono ignorare il loro cammino.
Saulo o Paolo, di Tarso in Cilicia, municipio romano, da fiero
persecutore de' Cristiani ne divenne apostolo (35), e fu eletto a
diffondere il vangelo tra i Gentili; il che egli fece non soltanto
colla parola, ma con quattordici epistole, dove chiarisce molte
dottrine che erano custodite per tradizione, e inculca che veruna fede
non è ristretta a veruna nazionalità. Gallione proconsole dell'Acaja
risedeva in Corinto, quando Paolo v'andò a predicare, e molti gli
credevano e battezzavansi. Gli Ebrei lo presero in ira: l'ira consueta
degli oppressi contro chi cerca rigenerarli moralmente; e il condussero
al proconsole, imputandolo d'insegnare un diverso modo d'adorar Dio;
ma Gallione li rimbrottò, e — Se costui ha commesso qualche delitto,
indicatelo; ma se si tratta delle vostre solite quistioni di parole e
casi della legge vostra, sbrigatevela fra voi»[203].
Un'altra volta, mentre predicava nel tempio di Gerusalemme (38), gli
Ebrei lo assalsero e maltrattarono, finchè s'interpose la guarnigione
romana. Lisia, colonnello di questa, al cui arbitrio era commessa la
quiete della città, volea farlo bastonare, ma Paolo disse: — No, perchè
io son cittadino romano». Verificata tale asserzione, il colonnello
lo sottopose a un concilio di sacerdoti; ma tra questi alcuni erano
sadducei che negavano l'immortalità, altri farisei che ammettevano
la resurrezione de' morti; perocchè gli Ebrei pativano di quell'altra
scabbia degli oppressi, la sconcordia d'opinioni e i rancori reciproci:
onde cominciarono abbaruffarsi fra loro. Il colonnello, vedendo non si
trattava d'alcuna colpa, tolse seco Paolo perchè non soffrisse nuove
ingiurie, e lo mandò a Felice governatore della Giudea. Accorse il
gransacerdote ebreo con altri ad accusarlo; ma Felice, visto che erano
dispute religiose, tenne Paolo in larga custodia a Cesarea per due
anni, intanto ascoltandolo discutere sulla giustizia, sulla castità,
sul giudizio futuro: avviata poi la processura, Paolo appellò al
tribunale di Cesare, laonde fu da Festo, successore di Felice, mandato
a Roma. Tra molti prodigi egli vi approdò; e lasciato alla libera
custodia d'un soldato, con ogni fidanza e senza verun divieto[204] vi
stette due anni predicando.
Reduce in Asia, da Corinto diresse ai Romani una celebre epistola, in
cui rinfaccia a' Giudei convertiti la carnalità e il volere angustiarsi
nelle cerimonie, mentre quel che importa è la grazia del Signore,
necessaria per essere santificati in virtù della fede in Cristo, la
qual fede è il principio della giustificazione: ai Gentili rimprovera
la soverchia fidanza nella propria ragione, mentre le cognizioni di
cui superbivano, traevanli a peccato; la scienza di suprema importanza
esser quella di Dio; i savj, quando s'ingloriarono de' proprj
pensamenti, caddero nell'accecamento e nella superstizione, e Dio
li lasciò in balìa delle passioni loro: pertanto e Gentili e Giudei
convertiti si rispettino a vicenda, nè in altro si glorifichino che in
Cristo Gesù. Tornato poi a Roma e messo prigione, Paolo di là scrisse
una lettera agli Ebrei, mostrando l'insufficienza della legge mosaica
dopo venuto chi la perfezionava e compiva.
Di queste missioni poco si brigava l'orgoglio romano, finchè non venne
occasione di perseguitarne i proseliti. Da poi che Nerone ebbe messo
fuoco a Roma, nè sacrifizj agli Dei nè ordini ai magistrati nè profuso
denaro o promesse di più elegante ricostruzione chetarono il dispetto
della plebe. «Si ricorse anche ai Libri Sibillini; fu supplicato a
Vulcano, Cerere, Proserpina; e da matrone prima in Campidoglio, poi
alla più pressa marina, fatta Giunone favorevole; e di quell'acqua
fu asperso il tempio e l'immagine della dea, poi da maritate vi si
fecero i lettisternj e le vigilie. Ma nè opera umana, nè prece divina,
nè larghezza da principe gli scemava l'infame taccia dell'avere
arso Roma». L'imperatore, che poteva ridurre al silenzio i senatori
coll'ucciderli, era costretto rispettare il popolo; onde, con un
artifizio unico e sempre nuovo, pensò stornare da sè quella colpa col
versarla sopra cotesta nuova setta di filosofi, la quale, aborrendo
dalla sozza corruttela e dal vigliacco umiliarsi, e non riconoscendo
nei Romani una natura superiore alle altre genti, nè quindi il
diritto di opprimerle, faceva dispetto alla tiranna del mondo. Adunque
«processò e con isquisitissime pene castigò quegli odiati malfattori,
che il vulgo chiamava Cristiani da un Cristo, il quale, regnante
Tiberio, fu crocifisso da Ponzio Pilato procuratore. Per allora fu
repressa quella semenza; ma rinverziva non pure nella Giudea dove
nacque quel male, ma anche a Roma, dove tutte le cose atroci e brutte
concorrono e acquistano celebrità. Furono dunque prima catturati i
Cristiani che professavano apertamente, quindi gran turba, indicati non
come colpevoli dell'incendio, ma come nemici del genere umano».
Per l'odio dunque cominciavano i Romani a conoscere una religione,
che tutti voleva congiungere nell'amore. Con supplizj della peggior
guisa li perseguitarono, e imitando quel che il loro padrone
faceva ai patrizj, unirono all'atrocità l'insulto; quali avvolti in
pelli d'animali esibendo ai cani, quali esponendo nel circo, quali
bruciando vivi, e de' loro corpi servendosi la sera come di fanali
ne' voluttuosi giardini di Nerone, posti in quel colle Vaticano, su
cui la religione allora nascente doveva poi piantare il suo trionfale
padiglione. «Nerone vi celebrò la festa Circense, vestito da cocchiere
in sul carro, e spettatore fra la plebe; onde di que' tristi, sebbene
meritevoli di ogni più nuovo supplizio, veniva pietà, non morendo essi
per pubblico bene, ma per crudeltà di lui solo»[205]. Vuole la costante
tradizione che in quell'occasione Pietro e Paolo suggellassero la fede
loro col martirio (67 — 29 giugno), consacrando del loro sangue una
terra, che da tant'altro era contaminata.
Ma già eransi moltiplicati i Cristiani in Roma, in Italia. Da principio
adoperavano ogn'arte per nascondersi, convegni segreti, segni di
convenzione, lettere e tessere di riconoscimento, scatole in cui
portare il viatico agl'infermi, ai prigionieri, a chi non poteva uscir
di casa; intanto si estendevano fra i poveri, fra i giovani, fra le
donne. La donna convertita è seme che germoglia presso al focolare
domestico; e se non può al consorte, ispira ai servi ed ai figliolini
nuove massime, nuove ammirazioni, desiderj nuovi. La famiglia di
Priscilla fu la prima che, dalle idee orgogliose su cui riposava il
patriziato antico, passò ai sentimenti della fraternità umana che
costituiscono la cristiana uguaglianza. Tre Priscille, molte Lucine,
Ilaria, Flavia, Severina, Firmina, Giusta, Ciriaca, altre ricche vedove
trasformate in diaconesse, passavano i giorni pregando sulle tombe dei
martiri, che aveano ornate colla cura e col segreto onde altre loro
pari allestivano i gabinetti lascivi; madri e vergini sante espiavano
per quelle che si prostituivano in onor delle dee, pregando assidue, e
soccorrendo chiunque abbisognava o soffriva. Quando la dea Vesta più
non trovava chi volesse votarle la verginità, molte fanciulle a gara
s'offrivano alla custodia delle ossa dei martiri. Più tardi colle loro
ricchezze fondarono spedali, monumenti di carità opposti a quelli di
strage e di contaminazione. Di tal passo la donna recuperava la libertà
naturale, sottraevasi, foss'anche schiava, all'arbitrio d'un padrone, e
cancellava la legale sua inferiorità[206].
L'adorazione dell'uomo è l'adorazione del male; il culto dei Cesari
è l'infimo grado dell'idolatria; i costumi dell'età loro sono la
cloaca dell'impurità, dell'inumanità e della divisione, le tre grandi
conseguenze dell'idolatria. Da un lato dunque «opere della carne,
dimenticanza di Dio, incostanza di matrimonj, avvelenamenti, sangue ed
omicidj, furti ed inganni, orgie, sacrifizj tenebrosi, uomini uccisi
per gelosia, o contristati coll'adulterio, tutte le cose confuse, e
una gran guerra d'ignoranza che la follia degli uomini chiama pace»;
dall'altro lato «tutti i frutti dello Spirito, carità, gioja, pace,
pazienza, benignità, bontà, longanimità, dolcezza, fede, modestia,
temperanza, castità»[207]; ai quattro caratteri dell'antichità se ne
oppongono quattro nuovi, fede pura all'idolatria, carità allo spirito
di malevolenza, giustizia al disprezzo delle vite, castità alla
corruzione. Siffatta guerra cominciava col Vangelo.
Nella Roma incestuosa e micidiale, anime che il mondo non era degno
di possedere viveano nelle caverne, aspettando intrepide, ma non
accelerando l'ora di fecondare del loro sangue la pianta della
rigenerazione. Attorno alle città d'Ostia, di Velletri, di Tivoli,
di Preneste e Palestrina, e nelle valli che con cento flessuosità
sboccano nella pianura del Lazio; accanto alle tane, ove i padroni
chiudevano la sera centinaja di schiavi alla bestemmia ed agli
indistinti concubiti, trovi altre caverne, scavate nel tufo di cui si
fabbricavano le voluttuose ville: e dentro quelle nei gemiti e nella
preghiera si rigenerava l'umanità. Colà i Cristiani sepellivano i morti
entro nicchie che poi muravano, chiudendovi insieme gli strumenti
del supplizio, un'ampolla del sangue, le insegne della dignità o
dello stato; e questi asili della morte denominavano _cimiterj_, cioè
dormitorj, espressione d'una coscienza pura, consolata nella certezza
di svegliarsi ad altra vita; e colà venivano ad orare. Ivi nessun
altro ornamento che l'avello d'un martire, pochi fiori, alcuni vasi di
legno, qualche cero o lampada, al cui lume leggere il Vangelo, cioè i
libri nei quali i compagni di Cristo o i loro discepoli aveano esposto
semplicemente la vita e gl'insegnamenti di lui, i precetti e l'esempio;
ed invocavano la grazia di adempirli e d'imitarlo. E in quel leggere e
in quel pregare consisteva la loro cospirazione.
Uniti nella credenza stessa, nella stessa morale, nella stessa
speranza, davano bando alle inumane distinzioni del secolo: il ricco
sedeva presso al povero cui sostentava coll'aver suo: le vergini del
vulgo, coperte di bianco lino, con al collo gli amuleti dell'agnello
di Dio che toglie i peccati, alternavano litanie colle matrone e colle
vedove de' senatori e dei proconsoli, che avevano data ogni ricchezza
all'assemblea de' fedeli, e spargevano i ristori della carità: e mentre
l'egoismo rodeva a morte la società antica, qual sovrabbondanza di
vigore in quella nuova, dove l'amore nasceva dall'inesausta fonte della
fede, e dove convincendosi della debolezza dell'uomo, acquistavano
la forza che viene da Dio! Il vescovo, il prete, il diacono, cioè a
dire l'ispettore, il vecchio, il servo, presedevano all'adunanza, non
distinti se non per maggior virtù, carità e dottrina nel soffrire, nel
rimetter pace, nel compatire e consolare, nello spezzare il pane della
parola, e per lo stupendo privilegio d'immolare il Figlio al Padre,
vittima incessante per le colpe, e di legare o sciogliere i peccatori
tra l'effusione della Grazia.
Quivi entro, la vigilia delle solennità i sacerdoti davansi lo scambio
per cantar tutta notte inni al loro Signore; e quella melodìa serviva
di guida ai fedeli, che sbucati di piatto dalla città o dall'ergastolo
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