Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 04
nuove, qual è l'avvicendarsi delle pitture, per cui dalla desolazione
di Troja incendiata s'insinua ad una scena di famiglia; di mezzo
all'ira disperata, Enea è rattenuto dalla vista di Elena; alla
procella succedono la placidissima descrizione del porto, e le ospitali
accoglienze; l'episodio puramente guerresco dell'esplorazione notturna
nel campo, è risanguato dall'affettuoso episodio di Niso ed Eurialo;
perocchè il patetico è il vero dominio dell'arte, siccome la cosa
essenzialmente efficace nella vita umana.
Di là un'altra delle vaghezze più care in questo amabilissimo
poeta; quel condurre la realtà esteriore alla spiritualità, quel
tradurre l'idea in immagini che offre vive vive all'occhio, e in cui
forse consiste quel _bello stile_ che Dante riconosce aver tolto
da lui, e che Virgilio avea forse dedotto dall'assiduo suo studio
ne' tragici[91]. Quella fanciulla che getta al pastore un pomo e si
nasconde fra' salici, ma prima desidera d'esser veduta; quel bambino
che col primo riso conosce la madre; quell'Apollo che tira l'orecchio
al poeta per avvertirlo di non trascendere i pastorali argomenti;
quel garzoncello che a fatica attinge i fragili rami; quell'idea della
speranza, rappresentata in Dafni che innesta i peri, di cui coglieranno
le frutta i nipoti; que' pastorelli che incidono sulle piante i cari
nomi, le piante cresceranno e gli amori con esse[92]; sono idillj
compiuti, che il pittore può rendervi in altrettanti quadretti. Poi,
per belli che sieno i paesaggi, Virgilio sente quanto vi manchi finchè
non siano avvivati dalla presenza dell'uomo: adunque tra i noti fiumi
e i sacri fonti non mancherà un fortunato vecchio, godente l'opaca
frescura; o un afflitto che, sotto l'ombra di densi faggi, alle selve
e ai monti sparge inutili querele; e i molli prati e i limpidi fonti
e i boschi gli dilettano solo in riflettere qual sarebbe dolcezza il
vivervi eternamente colla sua Licori[93].
Eccetto le primissime composizioni, non volse egli la musa a
particolari sue affezioni ed avventure; ma sappiamo che placida
fluì la sua vita, più che non soglia in poeta. Caro ad Augusto e
copiosissimamente da lui rimunerato[94], non prendeasi briga delle
_romane cose_ e dei _perituri regni_, ma ritirato presso Táranto, fra i
pineti dell'ombroso Galéso[95] cantava Tirsi e Dafni, come l'usignuolo
che, senz'altro pensiero, la sera empie il bosco de' suoi gorgheggi.
Lo mordevano i Mevj e i Bavj, peste d'ogni tempo? ma di encomj lo
elevavano a gara i migliori dell'età sua, la curiosità ammiratrice
veniva a cercarlo nel suo ritiro, ed una volta, al suo entrare in
teatro, il popolo tutto s'alzò, come all'arrivo dell'imperatore[96].
Ammirando però quella forma così temperata, così pudica della sua
bellezza, non per questo diremo superasse i suoi modelli. Come noi
esaltiamo l'Ariosto per la forma, pur ridendoci delle sue favole,
così, mentre si smarriva la tradizione religiosa d'Omero, durava,
anzi cresceva di reputazione l'artistica, e Virgilio non se ne volle
staccare. Ma in Omero quell'inserire s'un fatto pubblico passioni
personali, quell'elevare l'individualità mediante la grandezza dello
scopo e la serietà del destino, quell'equilibrare la natura collo
spirito, ci portano ben più in là che non un'epopea dotta, la quale
in fatto non potè divenire il libro de' Latini, come divennero Omero
e Dante. Quella parola de' genj contemplativi e creatori, che è
possente a trarre in terra l'ideale, è negata a Virgilio, il quale
riesce soltanto a magnificare la restaurazione d'Augusto, avvenimento
passeggero.
Con Omero versiamo continuo nel mondo greco, dov'egli passeggia da
padrone; non così con Virgilio, costretto a lavorare d'erudizione.
Omero è più universale ne' suoi concetti, e se vuole il meraviglioso
infernale, fa da Ulisse evocar le ombre entro una fossa ch'egli
medesimo scavò e asperse di sangue; mentre Virgilio guida Enea per
regolare viaggio ai morti regni.
Il cuore dell'uomo deve rivelarsi ne' suoi Dei, forme generali,
personificazione degli interni suoi motori, nel qual caso sono gli Dei
del proprio sentimento, delle proprie passioni: in Omero son essi una
cosa sola cogli eroi; in Virgilio convivono ancora, intervengono ancora
in avvenimenti semplici, come per indicare la via di Cartagine. Pure,
non foss'altro, la diligenza del verso avvisa che si è già a quel punto
di civiltà ove più non vi si crede; e quegli Dei appajono macchine,
inserite nella ragione positiva, non altrimenti che i prodigi in Tito
Livio. Circe e Calipso sono abbandonate come Didone, ma in modo ben più
naturale e ingenuo.
Alla descrizione dei giuochi, tanto semplice nel Meonio, Virgilio
oppone un tale affastellamento di artifizii, che sarebbero troppi a
narrare la distruzione d'un impero. Chi non ha sentito la sublimità
delle battaglie d'Omero? ogni uomo che cade v'ha il suo compianto,
al tempo stesso che tutt'insieme è un fragore, una mescolanza di
cielo e terra, che rimbomba nei versi e nelle parole. Quale assurdità
invece i serpenti che strozzano Laocoonte in mezzo a un popolo! qual
meschino spediente quel cavallo di legno! cento prodi che si chiudono
in una macchina, esponendo lor vita ai nemici: Sinone che intesse la
più inverosimile menzogna: Trojani così ciechi, da non mandar fino
a Tenedo, che dico? da non salire sopra una torre per avverare se la
flotta nemica abbia preso il largo nell'Ellesponto: in brev'ora, sì
smisurata mole è trascinata dal lido fin alla ròcca di Troja, superando
due fiumi e gli aperti spaldi; poi non appena Sinone l'ha schiusa, è
incendiata e presa quella città vastissima, folta di popolo, con un
esercito intatto; avanti l'alba ogni resistenza cessò, i vincitori
ridussero le spoglie ne' magazzini e i prigionieri; i vinti raccolsero
altrove quel che poterono sottrarre.
In Omero ciascuno ha un carattere; benchè Agamennone sia re dei re,
ciascuno serba volontà e compie imprese personali; ogni minima cosa
è contraddistinta, il mare, la rôcca, lo scettro, le vesti, le porte
e i cardini loro, semplice la vita degli eroi, e perciò interessante
ogni loro atto, e per da poco che sembri alla raffinatezza odierna,
serve però a intrattenere sopra quel personaggio. Nei caratteri invece
sta il debole di Virgilio. Giunone al principio è triviale, nè tutta
la sua enfasi esprime quanto il sacerdote Crise che torna mortificato
verso il lido, e prega vendetta, e l'ottiene dal Dio. Evandro nel
congedare Pallante mostrasi femminetta al confronto di Priamo a' piedi
di Achille. Ettore che bacia Astianatte e invoca che chi lo vedrà
dica — Non fu sì valoroso il padre», ha ben altro decoro che Enea
nello staccarsi dal figlio. Enea poi combatte per tôrre ad un altro
il regno e la sposa, mentre Ettore per difendere la patria. Nè forse
un solo carattere riscontriamo in Virgilio ben ideato e a se medesimo
consentaneo: Acate non sai che è _fido_ se non dall'epiteto del poeta:
chi il _pio_ applicato ad Enea non intenda nel primo senso di religioso
ed obbediente agli Dei, dee scandolezzarsi al vederlo applicato ad uomo
il quale, ospitalmente accolto in terra straniera, seduce la donna che
sa di dover abbandonare; approdato altrove, rapisce quella d'un altro.
Ma per tutta ragione sta il comando degli Dei, che lo destinavano a
creare i padri Albani, e le alte mura di Roma, e la grandezza d'Italia,
gravida d'imperi e fremente di guerra.
Molti di questi difetti appartengono all'essenza del suo componimento;
alcuni sarebbero scomparsi se avesse potuto dare l'ultima mano
all'opera sua. La quale, com'è stile dei grandi, pareagli sì discosta
dalla perfezione, che, morendo ancor fresco, raccomandava ad Augusto di
bruciarla; voto che l'imperatore si guardò bene di adempire. Tal quale
la lasciò, male ordinata nell'insieme, e ad ora ad ora imperfetta nella
rappresentazione e nelle espressioni, è squisito lavoro, e come epopea
definitiva servì di norma e talvolta di ceppo agli epici posteriori,
che professavano seguirla da lungi e adorarne le vestigia[97].
In somma la letteratura romana può considerarsi come una fasi della
greca. Nei Greci si trovavano in armonia il sentimento dell'ordine
generale qual base della moralità, e il sentimento della libertà
personale, non ancora essendosi manifestata l'opposizione fra la legge
politica e la legge morale; sicchè ciascuno cercava la propria libertà
nel trionfo dell'interesse generale. In questo istante dell'umanità,
fu prodotta nel suo più splendido fiore la bellezza sotto la forma
dell'individualità plastica; gli Dei ottennero un aspetto armonizzante
colle idee che rappresentavano, sicchè la greca fu la religione
dell'arte; la poesia che ha per oggetto l'impero indefinito dello
spirito, raggiunse il perfetto equilibrio fra l'immaginativa e la
ragione; la civiltà profittò di tutti i passi precedenti, unificandoli
e perfezionandoli in quel patriotismo che della greca fu lo scopo più
elevato.
I Romani, stupiti a quella incomparabile bellezza, non credettero
potere far meglio che imitarla. Il linguaggio della magistratura,
dell'imperio, era il latino; ma il greco quel della coltura, della
eleganza; sarebbe parso sacrilegio il parlare altro che latino dal
tribunale o dalla ringhiera; Tiberio cancella una parola greca scappata
in un senatoconsulto; Claudio toglie la cittadinanza ad uno che non
sa il latino: ma nella conversazione si parla il greco; in greco si
scrivono le note e le memorie; il greco si usa in famiglia, si usa
coll'amante, dicendole ζωὴ, φυχὴ; greci sono i maestri, nè i filosofi
di quella lingua si varrebbero mai della latina, anzi non la imparano;
e Plutarco, che tanto n'avea bisogno per iscrivere le sue vite, ben
tardi cominciò a leggere qualche scritto romano, comprendendolo dal
senso piuttosto che letteralmente. Cicerone affetta di non capire la
bellezza delle statue greche, d'ignorare i nomi de' loro artisti; ma
appena sceso dai rostri, parla greco, va in Grecia a perfezionare la
sua educazione, traduce i greci filosofi.
Se fosse prevalsa l'Etruria, Italia avrebbe serbato una poesia
originale, con forma e lingua proprie: Roma invece dal bel principio
s'acconciò all'imitazione, e ricevendo gli Dei della Grecia, dovette
pur riceverne l'arte che sulla religione era fondata. Ma la religione
fra i Greci era culto e dogma, ai Romani era favola e convenzione;
e tale si mostra in tutta la loro poesia. Potrebbe mai credersi che
Virgilio, Orazio, Ovidio prestassero fede a quei numi, che adopravano
per macchina ed ornamento? nè mai dalla lira latina uscì un inno
ove apparisse, non dirò la divota ispirazione ebraica, ma neppure la
convinzione che alita in Omero, in Eschilo, in Pindaro. Il poeta non
sentiva i numi nel cuore, non era ascoltato dal popolo, preoccupato
da positivi interessi; riducevasi dunque a pura arte, nè in ciò poteva
far di meglio che seguitare i Greci, i quali ne avevano esibito i più
squisiti esemplari.
— Questi esemplari sfoglia giorno e notte», raccomandasi ai giovani di
buone speranze; non già meditare sopra se stessi, sulla natura, sul
mondo: divenire per gloria eterni si confida non tanto per coscienza
delle proprie forze, quanto per la gran pratica coi capolavori dei
maestri, per averne scelto il meglio a guisa d'ape[98], e tradotte le
muse di quelli a favellare con intelligenza la lingua del Lazio. Che se
poniam mente a questa moderata pretensione, men vanitoso ci sembra quel
loro continuo assicurarsi dell'immortalità, e d'associare il proprio
nome all'eternità della romana fortuna[99].
Nè trattavasi soltanto dell'imitazione, naturale a chi, venendo dopo,
eredita dai predecessori, senza perdere quel che v'ha di proprio nello
spirito, nella lingua, nella tradizione, nel pensar nazionale; ma si
faceano ligi alle forme artistiche, particolari di quella gente, per
conseguenza non riuscivano coll'artifizio a raggiungere l'altezza, cui
soltanto colla naturale vivacità dell'ingegno si perviene. Quel bisogno
artistico di esprimere e di comunicare i sentimenti più nobili e più
profondi, dal quale è creata e conservata una letteratura, fu poco
sentito da' Romani, sprovveduti dello slancio ideale, dell'intuizione
calma della natura, e dello spirito estetico tanto proprio de' Greci;
l'elemento religioso vi rimaneva interamente subordinato al politico;
di rado seppero il semplice ed il naturale elevare all'idealità;
e diedero facilmente nel falso, e in quel sublime di parole scarso
d'idee, che costituisce il declamatorio. La poesia romana non differì
dalla greca per lo spirito, pel sentimento, pel modo di osservar
l'universo, per l'espressione; ma l'arte vi si scorge troppo, tutto è
riflesso e calcolato, nulla della semplicità di Omero, e l'abilità del
linguaggio e l'arte retorica mal suppliscono alla forza spontanea e
alla fecondità d'invenzione.
Eccettuata la satira, non un genere letterario apersero, e nessuno
raggiunse i loro modelli. Ai quali taluno si attenne senza restrizione,
come Livio, Virgilio, Orazio, mentre più nazionali si conservarono
Ennio, Varrone, Lucrezio, poi Giovenale e Lucano, perciò più robusti
ma meno colti. Povero fu il teatro, il quale non può reggersi che su
tradizioni e sentimenti nazionali. La lirica massimamente ne risentì,
poichè a quest'armonica espressione degl'intimi sentimenti nulla più
nuoce che il trovare la reminiscenza ove si cercava l'ispirazione, ed
esser frenati nella commozione dal pensare che il poeta non s'ispira ma
ricorda.
Ma in tutti costoro quale squisita verità di sentimento! qual perfetta
aggiustatezza di pensiero! qual compiuta venustà di forme, e purezza
ed eleganza e nobile armonia di stile, e variazioni di ritmo! Un alito
di regola e di calma penetra ogni particolarità, un ordine semplice ed
austero dà a conoscere che l'autore è padrone di sè e del suo soggetto.
Tutti poi s'improntano d'un marchio, che li fa originali da ogni altro;
ed è l'idea di Roma, che in tutti predomina, e che supplisce al difetto
di quel tipo particolare che distingue ciascuno dei grandi autori di
Grecia. La quale differenza è portata naturalmente dal diverso vivere
d'un popolo eminentemente individuale e libero nell'esercitare come gli
piace le forze del suo spirito, e d'un altro fra cui ad ogni altra idea
predomina quella della patria grandezza.
A stampare questo carattere assai valse l'esser le romane lettere
fiorite per opera de' principali cittadini, i quali abbracciando intera
la vita nazionale, considerano ogni cosa nelle più ampie sue relazioni,
a differenza di que' meri scrittori che rimpicciniscono la letteratura
riducendola a semplice arte. E la letteratura latina, a tacere di noi
pei quali è un vanto patrio, merita maggiore studio che non la greca,
perchè, provenendo da un grandissimo centro di civiltà, meglio rivela
la condizione sociale del genere umano.
Ma quando una letteratura si regge sull'artifizio, prontamente decade.
Augusto ben poco merito ebbe all'apparire dei genj, di cui esso fu il
contemporaneo, non il creatore, e che, nati nella repubblica, aveano
lasciato il campo senza successori prima ch'egli morisse. Già egli
derideva lo stile pretensivo di qualcheduno e le parole antiquate
di Tiberio; e alla nipote Agrippina diceva: — Il più che cerco è
di parlare e scrivere naturalmente»; ma le idee che contenevano,
faceangli mal gradito lo studio degli antichi. Poi Mecenate suo
dilettavasi di uno stile floscio e ricercato. Come avviene allorchè
cessa la produzione, si sottigliava la critica: Asinio Pollione poeta e
storico appuntava Sallustio di vecchiume, Livio di padovanità, Cesare
di negligenza e mala fede; singolarmente professava nimicizia per
Cicerone; egli poi scriveva stecchito, oscuro, balzellante[100]; ma era
l'amico dell'imperatore, avea buona biblioteca, bella villa, esperto
cuoco; sicchè dovea trovar non solo l'indulgenza che agli altri negava,
ma anche lode, e ai suoi giudizj forza di oracolo.
Ritiratosi dalla vita pubblica, scriveva orazioni, somiglianti agli
articoli di fondo de' nostri giornali, cioè di lettura amena, e che
diffondessero certe idee di politica e di letteratura. Così svoltavansi
gli spiriti dall'eloquenza pubblica verso quella di scuola. Di quella
conservavano ancora qualche ombra Azzio Labieno libero parlatore
«unendo il colore della vecchia orazione col vigore della nuova»
(SENECA); e Cassio Severo amico suo e altrettanto franco dicitore, che
satireggiava anche le persone cospicue, onde Augusto fe bruciare gli
scritti di esso, ne' quali gli antichi ammiravano lo stile vigoroso,
oltre la mordacità; e fu lui veramente che schiuse la nuova via, alla
quale l'eloquenza si trovò ridotta dopo respinta dalla tribuna[101].
Perocchè, mutata la pubblica attività nella monarchica sonnolenza,
cessato il giudizio tremendo e inappellabile delle assemblee, si
sentenziava degli autori secondo l'aura delle consorterie e dei grandi
che davano da pranzo ai letterati.
Quando Augusto morì, più non sonava che la piangolosa voce d'Ovidio,
cui l'infingarda abbondanza, lo sminuzzamento, i contorcimenti della
lingua, i giocherelli di parole collocano lontano da Orazio, Virgilio e
Tibullo, quanto Euripide da Sofocle e il Tasso dall'Ariosto. Così breve
tempo era bastato perchè la letteratura romana passasse da Catullo non
ancor dirozzato ad Ovidio già corrotto.
CAPITOLO XXXII.
Tiberio.
Augusto non osò sistemare il governo monarchico mediante uno statuto,
il quale ponendo limiti a' suoi successori, avrebbe fatto conoscere
ai Romani ch'egli non ne aveva. In conseguenza non si ebbe nè
elezione legale, nè ordine prefinito di successione, nè contrappesi
politici: la repubblica assoluta mutavasi in assoluta monarchia,
costituita unicamente sulla forza, dalla forza unicamente frenata;
l'imperatore, rappresentante del popolo, poteva quel che volesse[102],
e dell'onnipotenza valeasi a pareggiare tutti i sudditi nel diritto, e
a togliere al popolo ed al senato e l'autorità e l'apparenza.
Tanti anni d'assoluto dominio, mascherato con forme repubblicane,
aveano indocilito i Romani al giogo, sicchè vedeasi senza repugnanza
che l'impero passerebbe da Augusto in un altro. Tiberio, rampollo
dell'illustre casa Claudia, illustre egli stesso per imprese
guerresche, rivestito di molti onori e della tribunizia podestà,
figliastro e genero d'Augusto, tenevasi sicuro d'esserne chiamato
successore, quando lo vide voltar le sue grazie sopra gli orfani
d'Agrippa. Tra per dispetto e per rimuovere ogni gelosia, s'allontanò
da Roma, come dicemmo, e visse otto anni a Rodi, deposte armi, cavalli,
toga: lontano dal mare, in una casa posta fra dirupi, dal tetto di
quella faceva che gl'indovini investigassero negli astri l'avvenire;
e se la risposta riuscivagli sospetta, nel ritorno il liberto
scaraventava per le balze l'astrologo mal avvisato.
Morti i figli d'Agrippa (forse non senza opera sua) (4 d. C.), torna
a Roma, è adottato da Augusto, il quale pretendono sel destinasse
successore acciocchè la propria moderazione traesse risalto dal
lento strazio di costui[103], ch'e' conosceva pauroso, diffidente,
irresoluto, simulato. Alla morte dunque del patrigno (14), Tiberio
si trova padrone del mondo a cinquantasei anni. Non volendo accettar
l'impero dagl'intrighi d'una donna e dall'imbecillità d'un vecchio,
modestamente convoca il senato, come tribuno ch'egli era; e la
offertagli dominazione ricusa, come peso a cui poteva a pena bastare
il divin genio d'Augusto; solo dalle lunghe istanze lascia indursi ad
accettare, e purchè i senatori gli promettano assistenza in ogni passo.
Di fatto li consultava continuo, ne incoraggiva l'opposizione, gli
esortava a ripristinare la repubblica; cedeva la destra ai consoli, e
sorgeva al loro comparire in senato o al teatro; assisteva ai processi,
massime ove sperasse salvare il reo; non soffrì il titolo di signore,
nè di padre della patria, nè tampoco quello di Dio, dicendo: — Io
sono signore de' miei schiavi, imperatore de' soldati, primo fra gli
altri cittadini romani; mio uffizio è curar l'ordine, la giustizia,
la pubblica pace». Alleggeriva da' tributi i sudditi, e avvisava i
governatori delle provincie che un buon pastore tosa non iscortica
le pecore. Riformò i costumi, diminuendo le innumerevoli taverne,
restituendo ai padri l'autorità di punire le figliuole discole,
benchè maritate; vietò il baciarsi per saluto in pubblico; ai senatori
interdisse di comparire fra i pantomimi, e ai cavalieri di corteggiare
pubblicamente le commedianti; e per raffaccio allo scialacquo de'
banchetti, faceasi servire i rilievi del giorno antecedente, dicendo
che la parte non ha men sapore che il tutto. Spargonsi satire contro di
lui? — In libero Stato, liberi devono essere i pensieri e la parola».
Vuolsi in senato portar querela contro suoi diffamatori? — Non ci basta
ozio per tali bagattelle. Se aprite la porta ai delatori, non avrete
ad occuparvi d'altro che delle costoro denunzie; e col pretesto di
difendere me, ognuno vi recherà le proprie ingiurie da vendicare».
Ma per quanto dissimulatore e simulatore, non seppe mai comparire
grazioso; le larghezze e l'affabilità di Augusto disapprovava; non
diede molti spettacoli al popolo, non donativi ai soldati; nè tampoco
soddisfece ai legati del predecessore; e avendo uno de' legatarj detto
per celia all'orecchio d'un morto, annunziasse ad Augusto che l'ultima
sua volontà rimaneva inadempita, Tiberio gli pagò il lascito, poi di
presente lo fece trucidare perchè riferisse ad Augusto notizie più
fresche e più vere. Non soffrì si concedesse il littore o l'altare od
altra prerogativa a sua madre, la quale da tanti intrighi e delitti
non colse che l'amarezza d'aver posto in trono un ingrato. A Giulia,
indegna sua moglie, da tre lustri relegata, sospese la modica pensione
assegnatale dal padre, sicchè morì di fame; di ferro Sempronio Gracco,
drudo antico di lei.
Erano quasi le primizie d'una crudeltà, che ben tosto mostrossi
calcolata, inesorabile; e prima contro i pretendenti. Agrippa, nipote
d'Augusto, fu ucciso. Le legioni di Germania e di Pannonia avevano
offerto l'impero a Germanico, ma questi ne chetò la violenta sedizione:
pure Tiberio, che avea dovuto adottarlo, adombrato della popolarità
e del valore di lui, lo richiamò di mezzo ai trionfi per mandarlo a
calmare l'insorto Oriente. Ivi gli pose a fianco Gneo Pisone, uomo
tracotante e violento, il quale col profonder oro e calunnie ne
attraversava tutte le azioni, infine lo fece morire di veleno o di
crepacuore a trentaquattr'anni (19). Tutti, fin i nemici, piansero
il generoso giovane, e in Roma il dolore si rivelò con clamorose
dimostrazioni. Il giorno che le ceneri sue si riponevano nel sepolcro
d'Augusto, la città pareva, ora per lo silenzio una spelonca, ora
pel pianto un inferno; correvano per le vie; Campo Marzio ardeva di
doppieri; quivi soldati in arme, magistrati senza insegne, popolo
diviso per le sue tribù gridavano, esser la repubblica approfondata,
arditi e scoperti, come dimenticassero ch'ei v'era padrone. Ma nulla
punse Tiberio quanto l'ardor del popolo verso Agrippina moglie di
Germanico: chi la diceva ornamento della patria, chi unica reliquia del
sangue d'Augusto, specchio unico d'antichità; e vôlto al cielo e agli
Dei, pregava salvassero que' figliuoli, li lasciassero sopravivere agli
iniqui[104].
Tiberio, assicurato, strappò al despotismo la maschera lasciata da
Augusto: tolse al popolo l'eleggere i magistrati e il sanzionar le
leggi, trasferendo questi atti nel senato, sovvertimento radicale
della costituzione romana[105], sebbene già prima i comizj fossero
resi illusorj dacchè a spade non a voci si decideva. Il senato così
divenne legislatore e giudice dei delitti di maestà: affine poi che
neppur esso s'arrischiasse a libere sentenze, i senatori doveano votare
ad alta voce, e presente l'imperatore o suoi fidati. Per tal passo
quell'assemblea, augusta un tempo, allora si trovò avvilita a segno che
Tiberio medesimo ne prendeva nausea: pure se ne giovava per gli atti
legislativi, davanti ad essa proponendo o ventilando leggi, che nessuno
osava contraddire.
L'imperatore non era il popolo? adunque la legge contro chi menomasse
la maestà del popolo fu applicata all'imperatore, e gli offri modo
legale a grandi atrocità e a minute vessazioni. Prima l'applicò a
cavalieri oscuri o ribaldi, pubblicani rapaci, governatori infedeli,
adultere famigerate: e il popolo applause al severo mantenitore della
legge. Ma appena trapelò l'inclinazione del principe, ecco una fungaja
d'accusatori. I giovani educati a scuola nelle figure retoriche e in
un mondo ideale, insoffrenti di passare alla realtà dell'avvocatura
e alla prosa della vita, eppure avidi d'adoprare l'abilità imparata
per acquistarsi onori, fama, piaceri, levar rumore di sè, emulare il
lusso dei grandi, correvano, all'usanza antica[106], ad accusare chi
primeggiasse per gloria, virtù, ricchezze; sfogo delle invidie plebee
contro l'aristocrazia di averi o di merito.
Le ire, sopravissute alla libertà, insegnavano mille tranelli; traevasi
appicco dai dissidj delle famiglie; tenuissime prove bastavano dove
così piaceva al padrone; e ogni fatto, per quanto semplice, traducevasi
in caso di Stato. Tu ti spogliasti o vestisti al cospetto d'una statua
d'Augusto; tu soddisfacesti a un bisogno del corpo od entrasti in
postribolo con un anello o con una moneta portante l'effigie imperiale;
tu in una tragedia sparlasti di Agamennone; tu hai venduto un giardino,
nel quale sorgeva il simulacro dell'imperatore; tu interrogavi i
Caldei se un giorno potrai divenir re, e tanto ricco da lastricare
d'argento la via Appia: dunque sei reo di maestà; reo Aulo Cremuzio
Cordo che, nella storia delle guerre civili di Roma, intitolò Bruto
l'ultimo de' Romani. Cremuzio nel difendersi diceva: — Sono talmente
incolpevole di fatti, che m'accusano di parole», ed evitò la condanna
col lasciarsi morir di fame: gli edili arsero i libri di lui, ma il
divieto li fece più preziosi e cercati; ove Tacito esclama: — Ben è
folle la tirannia nel credere che il suo potere d'un momento possa
estinguere nell'avvenire il grido, la memoria. Punito l'ingegno, ne
cresce l'autorità; nè i re che lo punirono, riuscirono ad altro che a
procacciar gloria alle vittime, infamia a sè»[107].
Chi nomina libertà, medita rimettere la repubblica; chi piange Augusto,
riprova Tiberio; che tace, macchina; chi mostrasi mesto, è scontento;
chi allegro, confida in prossimi mutamenti. Fra straniero o fratello,
fra amico o sconosciuto non mettevasi divario nelle delazioni; anche
i primi del senato le esercitavano o all'aperta o alla macchia; ben
presto si accusò senza nè timore nè speranza, unicamente perchè era
l'andazzo; furono processate persone, non si sapeva di che, condannate,
non si sapeva perchè.
Appena uno fosse querelato, vedeasi cansato da amici e da parenti,
timorosi d'andare involti nella sua ruina. Fuggire era impossibile in
così vasto impero: la campagna ridondava di schiavi vendicativi: ognuno
agognava di cogliere il proscritto per salvare se stesso. Tradotto a
senatori complici o tremebondi, ostili fra di loro, a fronte di quattro
o cinque accusatori addestrati nelle scuole a trovare e ribattere
argomenti, ove nessuno ardiva assumere la difesa, ove la tortura
degli schiavi suppliva al difetto di prove, il convenuto quale scampo
poteva sperare? pensava dunque a vendicarsi coll'imputar di complicità
gli stessi accusatori o i giudici: scherma, di cui Tiberio prendeva
mirabile sollazzo. Solo gli facea noja che alcuni si sottraessero al
supplizio e quindi alla confisca coll'uccidersi; onde l'arte scherana
consisteva nel sorprenderli improvvisi. Uno si trafigge colla spada,
e i giudici s'avacciano di darlo al manigoldo: uno dinanzi ad essi
sorbisce il veleno, e senz'altro vien tradotto alle forche: di Carnuzio
che riuscì ad uccidersi, Tiberio disse, — E' m'è scappato»; a un altro
che il supplicava d'accelerargli il supplizio, — Non mi sono ancora
abbastanza rappattumato con te».
Come doveano andar calpesti gli affetti che serenano la vita e
alleggeriscono la sventura, allorchè in ciascuno si temeva un
traditore! Deboli e paurosi perchè isolati, piegano alla prepotenza,
o cospirano con essa; il senato, nel quale stavano accolti coloro che
poteano far fronte a Tiberio, glieli consegnava un dopo l'altro, lieto
di Troja incendiata s'insinua ad una scena di famiglia; di mezzo
all'ira disperata, Enea è rattenuto dalla vista di Elena; alla
procella succedono la placidissima descrizione del porto, e le ospitali
accoglienze; l'episodio puramente guerresco dell'esplorazione notturna
nel campo, è risanguato dall'affettuoso episodio di Niso ed Eurialo;
perocchè il patetico è il vero dominio dell'arte, siccome la cosa
essenzialmente efficace nella vita umana.
Di là un'altra delle vaghezze più care in questo amabilissimo
poeta; quel condurre la realtà esteriore alla spiritualità, quel
tradurre l'idea in immagini che offre vive vive all'occhio, e in cui
forse consiste quel _bello stile_ che Dante riconosce aver tolto
da lui, e che Virgilio avea forse dedotto dall'assiduo suo studio
ne' tragici[91]. Quella fanciulla che getta al pastore un pomo e si
nasconde fra' salici, ma prima desidera d'esser veduta; quel bambino
che col primo riso conosce la madre; quell'Apollo che tira l'orecchio
al poeta per avvertirlo di non trascendere i pastorali argomenti;
quel garzoncello che a fatica attinge i fragili rami; quell'idea della
speranza, rappresentata in Dafni che innesta i peri, di cui coglieranno
le frutta i nipoti; que' pastorelli che incidono sulle piante i cari
nomi, le piante cresceranno e gli amori con esse[92]; sono idillj
compiuti, che il pittore può rendervi in altrettanti quadretti. Poi,
per belli che sieno i paesaggi, Virgilio sente quanto vi manchi finchè
non siano avvivati dalla presenza dell'uomo: adunque tra i noti fiumi
e i sacri fonti non mancherà un fortunato vecchio, godente l'opaca
frescura; o un afflitto che, sotto l'ombra di densi faggi, alle selve
e ai monti sparge inutili querele; e i molli prati e i limpidi fonti
e i boschi gli dilettano solo in riflettere qual sarebbe dolcezza il
vivervi eternamente colla sua Licori[93].
Eccetto le primissime composizioni, non volse egli la musa a
particolari sue affezioni ed avventure; ma sappiamo che placida
fluì la sua vita, più che non soglia in poeta. Caro ad Augusto e
copiosissimamente da lui rimunerato[94], non prendeasi briga delle
_romane cose_ e dei _perituri regni_, ma ritirato presso Táranto, fra i
pineti dell'ombroso Galéso[95] cantava Tirsi e Dafni, come l'usignuolo
che, senz'altro pensiero, la sera empie il bosco de' suoi gorgheggi.
Lo mordevano i Mevj e i Bavj, peste d'ogni tempo? ma di encomj lo
elevavano a gara i migliori dell'età sua, la curiosità ammiratrice
veniva a cercarlo nel suo ritiro, ed una volta, al suo entrare in
teatro, il popolo tutto s'alzò, come all'arrivo dell'imperatore[96].
Ammirando però quella forma così temperata, così pudica della sua
bellezza, non per questo diremo superasse i suoi modelli. Come noi
esaltiamo l'Ariosto per la forma, pur ridendoci delle sue favole,
così, mentre si smarriva la tradizione religiosa d'Omero, durava,
anzi cresceva di reputazione l'artistica, e Virgilio non se ne volle
staccare. Ma in Omero quell'inserire s'un fatto pubblico passioni
personali, quell'elevare l'individualità mediante la grandezza dello
scopo e la serietà del destino, quell'equilibrare la natura collo
spirito, ci portano ben più in là che non un'epopea dotta, la quale
in fatto non potè divenire il libro de' Latini, come divennero Omero
e Dante. Quella parola de' genj contemplativi e creatori, che è
possente a trarre in terra l'ideale, è negata a Virgilio, il quale
riesce soltanto a magnificare la restaurazione d'Augusto, avvenimento
passeggero.
Con Omero versiamo continuo nel mondo greco, dov'egli passeggia da
padrone; non così con Virgilio, costretto a lavorare d'erudizione.
Omero è più universale ne' suoi concetti, e se vuole il meraviglioso
infernale, fa da Ulisse evocar le ombre entro una fossa ch'egli
medesimo scavò e asperse di sangue; mentre Virgilio guida Enea per
regolare viaggio ai morti regni.
Il cuore dell'uomo deve rivelarsi ne' suoi Dei, forme generali,
personificazione degli interni suoi motori, nel qual caso sono gli Dei
del proprio sentimento, delle proprie passioni: in Omero son essi una
cosa sola cogli eroi; in Virgilio convivono ancora, intervengono ancora
in avvenimenti semplici, come per indicare la via di Cartagine. Pure,
non foss'altro, la diligenza del verso avvisa che si è già a quel punto
di civiltà ove più non vi si crede; e quegli Dei appajono macchine,
inserite nella ragione positiva, non altrimenti che i prodigi in Tito
Livio. Circe e Calipso sono abbandonate come Didone, ma in modo ben più
naturale e ingenuo.
Alla descrizione dei giuochi, tanto semplice nel Meonio, Virgilio
oppone un tale affastellamento di artifizii, che sarebbero troppi a
narrare la distruzione d'un impero. Chi non ha sentito la sublimità
delle battaglie d'Omero? ogni uomo che cade v'ha il suo compianto,
al tempo stesso che tutt'insieme è un fragore, una mescolanza di
cielo e terra, che rimbomba nei versi e nelle parole. Quale assurdità
invece i serpenti che strozzano Laocoonte in mezzo a un popolo! qual
meschino spediente quel cavallo di legno! cento prodi che si chiudono
in una macchina, esponendo lor vita ai nemici: Sinone che intesse la
più inverosimile menzogna: Trojani così ciechi, da non mandar fino
a Tenedo, che dico? da non salire sopra una torre per avverare se la
flotta nemica abbia preso il largo nell'Ellesponto: in brev'ora, sì
smisurata mole è trascinata dal lido fin alla ròcca di Troja, superando
due fiumi e gli aperti spaldi; poi non appena Sinone l'ha schiusa, è
incendiata e presa quella città vastissima, folta di popolo, con un
esercito intatto; avanti l'alba ogni resistenza cessò, i vincitori
ridussero le spoglie ne' magazzini e i prigionieri; i vinti raccolsero
altrove quel che poterono sottrarre.
In Omero ciascuno ha un carattere; benchè Agamennone sia re dei re,
ciascuno serba volontà e compie imprese personali; ogni minima cosa
è contraddistinta, il mare, la rôcca, lo scettro, le vesti, le porte
e i cardini loro, semplice la vita degli eroi, e perciò interessante
ogni loro atto, e per da poco che sembri alla raffinatezza odierna,
serve però a intrattenere sopra quel personaggio. Nei caratteri invece
sta il debole di Virgilio. Giunone al principio è triviale, nè tutta
la sua enfasi esprime quanto il sacerdote Crise che torna mortificato
verso il lido, e prega vendetta, e l'ottiene dal Dio. Evandro nel
congedare Pallante mostrasi femminetta al confronto di Priamo a' piedi
di Achille. Ettore che bacia Astianatte e invoca che chi lo vedrà
dica — Non fu sì valoroso il padre», ha ben altro decoro che Enea
nello staccarsi dal figlio. Enea poi combatte per tôrre ad un altro
il regno e la sposa, mentre Ettore per difendere la patria. Nè forse
un solo carattere riscontriamo in Virgilio ben ideato e a se medesimo
consentaneo: Acate non sai che è _fido_ se non dall'epiteto del poeta:
chi il _pio_ applicato ad Enea non intenda nel primo senso di religioso
ed obbediente agli Dei, dee scandolezzarsi al vederlo applicato ad uomo
il quale, ospitalmente accolto in terra straniera, seduce la donna che
sa di dover abbandonare; approdato altrove, rapisce quella d'un altro.
Ma per tutta ragione sta il comando degli Dei, che lo destinavano a
creare i padri Albani, e le alte mura di Roma, e la grandezza d'Italia,
gravida d'imperi e fremente di guerra.
Molti di questi difetti appartengono all'essenza del suo componimento;
alcuni sarebbero scomparsi se avesse potuto dare l'ultima mano
all'opera sua. La quale, com'è stile dei grandi, pareagli sì discosta
dalla perfezione, che, morendo ancor fresco, raccomandava ad Augusto di
bruciarla; voto che l'imperatore si guardò bene di adempire. Tal quale
la lasciò, male ordinata nell'insieme, e ad ora ad ora imperfetta nella
rappresentazione e nelle espressioni, è squisito lavoro, e come epopea
definitiva servì di norma e talvolta di ceppo agli epici posteriori,
che professavano seguirla da lungi e adorarne le vestigia[97].
In somma la letteratura romana può considerarsi come una fasi della
greca. Nei Greci si trovavano in armonia il sentimento dell'ordine
generale qual base della moralità, e il sentimento della libertà
personale, non ancora essendosi manifestata l'opposizione fra la legge
politica e la legge morale; sicchè ciascuno cercava la propria libertà
nel trionfo dell'interesse generale. In questo istante dell'umanità,
fu prodotta nel suo più splendido fiore la bellezza sotto la forma
dell'individualità plastica; gli Dei ottennero un aspetto armonizzante
colle idee che rappresentavano, sicchè la greca fu la religione
dell'arte; la poesia che ha per oggetto l'impero indefinito dello
spirito, raggiunse il perfetto equilibrio fra l'immaginativa e la
ragione; la civiltà profittò di tutti i passi precedenti, unificandoli
e perfezionandoli in quel patriotismo che della greca fu lo scopo più
elevato.
I Romani, stupiti a quella incomparabile bellezza, non credettero
potere far meglio che imitarla. Il linguaggio della magistratura,
dell'imperio, era il latino; ma il greco quel della coltura, della
eleganza; sarebbe parso sacrilegio il parlare altro che latino dal
tribunale o dalla ringhiera; Tiberio cancella una parola greca scappata
in un senatoconsulto; Claudio toglie la cittadinanza ad uno che non
sa il latino: ma nella conversazione si parla il greco; in greco si
scrivono le note e le memorie; il greco si usa in famiglia, si usa
coll'amante, dicendole ζωὴ, φυχὴ; greci sono i maestri, nè i filosofi
di quella lingua si varrebbero mai della latina, anzi non la imparano;
e Plutarco, che tanto n'avea bisogno per iscrivere le sue vite, ben
tardi cominciò a leggere qualche scritto romano, comprendendolo dal
senso piuttosto che letteralmente. Cicerone affetta di non capire la
bellezza delle statue greche, d'ignorare i nomi de' loro artisti; ma
appena sceso dai rostri, parla greco, va in Grecia a perfezionare la
sua educazione, traduce i greci filosofi.
Se fosse prevalsa l'Etruria, Italia avrebbe serbato una poesia
originale, con forma e lingua proprie: Roma invece dal bel principio
s'acconciò all'imitazione, e ricevendo gli Dei della Grecia, dovette
pur riceverne l'arte che sulla religione era fondata. Ma la religione
fra i Greci era culto e dogma, ai Romani era favola e convenzione;
e tale si mostra in tutta la loro poesia. Potrebbe mai credersi che
Virgilio, Orazio, Ovidio prestassero fede a quei numi, che adopravano
per macchina ed ornamento? nè mai dalla lira latina uscì un inno
ove apparisse, non dirò la divota ispirazione ebraica, ma neppure la
convinzione che alita in Omero, in Eschilo, in Pindaro. Il poeta non
sentiva i numi nel cuore, non era ascoltato dal popolo, preoccupato
da positivi interessi; riducevasi dunque a pura arte, nè in ciò poteva
far di meglio che seguitare i Greci, i quali ne avevano esibito i più
squisiti esemplari.
— Questi esemplari sfoglia giorno e notte», raccomandasi ai giovani di
buone speranze; non già meditare sopra se stessi, sulla natura, sul
mondo: divenire per gloria eterni si confida non tanto per coscienza
delle proprie forze, quanto per la gran pratica coi capolavori dei
maestri, per averne scelto il meglio a guisa d'ape[98], e tradotte le
muse di quelli a favellare con intelligenza la lingua del Lazio. Che se
poniam mente a questa moderata pretensione, men vanitoso ci sembra quel
loro continuo assicurarsi dell'immortalità, e d'associare il proprio
nome all'eternità della romana fortuna[99].
Nè trattavasi soltanto dell'imitazione, naturale a chi, venendo dopo,
eredita dai predecessori, senza perdere quel che v'ha di proprio nello
spirito, nella lingua, nella tradizione, nel pensar nazionale; ma si
faceano ligi alle forme artistiche, particolari di quella gente, per
conseguenza non riuscivano coll'artifizio a raggiungere l'altezza, cui
soltanto colla naturale vivacità dell'ingegno si perviene. Quel bisogno
artistico di esprimere e di comunicare i sentimenti più nobili e più
profondi, dal quale è creata e conservata una letteratura, fu poco
sentito da' Romani, sprovveduti dello slancio ideale, dell'intuizione
calma della natura, e dello spirito estetico tanto proprio de' Greci;
l'elemento religioso vi rimaneva interamente subordinato al politico;
di rado seppero il semplice ed il naturale elevare all'idealità;
e diedero facilmente nel falso, e in quel sublime di parole scarso
d'idee, che costituisce il declamatorio. La poesia romana non differì
dalla greca per lo spirito, pel sentimento, pel modo di osservar
l'universo, per l'espressione; ma l'arte vi si scorge troppo, tutto è
riflesso e calcolato, nulla della semplicità di Omero, e l'abilità del
linguaggio e l'arte retorica mal suppliscono alla forza spontanea e
alla fecondità d'invenzione.
Eccettuata la satira, non un genere letterario apersero, e nessuno
raggiunse i loro modelli. Ai quali taluno si attenne senza restrizione,
come Livio, Virgilio, Orazio, mentre più nazionali si conservarono
Ennio, Varrone, Lucrezio, poi Giovenale e Lucano, perciò più robusti
ma meno colti. Povero fu il teatro, il quale non può reggersi che su
tradizioni e sentimenti nazionali. La lirica massimamente ne risentì,
poichè a quest'armonica espressione degl'intimi sentimenti nulla più
nuoce che il trovare la reminiscenza ove si cercava l'ispirazione, ed
esser frenati nella commozione dal pensare che il poeta non s'ispira ma
ricorda.
Ma in tutti costoro quale squisita verità di sentimento! qual perfetta
aggiustatezza di pensiero! qual compiuta venustà di forme, e purezza
ed eleganza e nobile armonia di stile, e variazioni di ritmo! Un alito
di regola e di calma penetra ogni particolarità, un ordine semplice ed
austero dà a conoscere che l'autore è padrone di sè e del suo soggetto.
Tutti poi s'improntano d'un marchio, che li fa originali da ogni altro;
ed è l'idea di Roma, che in tutti predomina, e che supplisce al difetto
di quel tipo particolare che distingue ciascuno dei grandi autori di
Grecia. La quale differenza è portata naturalmente dal diverso vivere
d'un popolo eminentemente individuale e libero nell'esercitare come gli
piace le forze del suo spirito, e d'un altro fra cui ad ogni altra idea
predomina quella della patria grandezza.
A stampare questo carattere assai valse l'esser le romane lettere
fiorite per opera de' principali cittadini, i quali abbracciando intera
la vita nazionale, considerano ogni cosa nelle più ampie sue relazioni,
a differenza di que' meri scrittori che rimpicciniscono la letteratura
riducendola a semplice arte. E la letteratura latina, a tacere di noi
pei quali è un vanto patrio, merita maggiore studio che non la greca,
perchè, provenendo da un grandissimo centro di civiltà, meglio rivela
la condizione sociale del genere umano.
Ma quando una letteratura si regge sull'artifizio, prontamente decade.
Augusto ben poco merito ebbe all'apparire dei genj, di cui esso fu il
contemporaneo, non il creatore, e che, nati nella repubblica, aveano
lasciato il campo senza successori prima ch'egli morisse. Già egli
derideva lo stile pretensivo di qualcheduno e le parole antiquate
di Tiberio; e alla nipote Agrippina diceva: — Il più che cerco è
di parlare e scrivere naturalmente»; ma le idee che contenevano,
faceangli mal gradito lo studio degli antichi. Poi Mecenate suo
dilettavasi di uno stile floscio e ricercato. Come avviene allorchè
cessa la produzione, si sottigliava la critica: Asinio Pollione poeta e
storico appuntava Sallustio di vecchiume, Livio di padovanità, Cesare
di negligenza e mala fede; singolarmente professava nimicizia per
Cicerone; egli poi scriveva stecchito, oscuro, balzellante[100]; ma era
l'amico dell'imperatore, avea buona biblioteca, bella villa, esperto
cuoco; sicchè dovea trovar non solo l'indulgenza che agli altri negava,
ma anche lode, e ai suoi giudizj forza di oracolo.
Ritiratosi dalla vita pubblica, scriveva orazioni, somiglianti agli
articoli di fondo de' nostri giornali, cioè di lettura amena, e che
diffondessero certe idee di politica e di letteratura. Così svoltavansi
gli spiriti dall'eloquenza pubblica verso quella di scuola. Di quella
conservavano ancora qualche ombra Azzio Labieno libero parlatore
«unendo il colore della vecchia orazione col vigore della nuova»
(SENECA); e Cassio Severo amico suo e altrettanto franco dicitore, che
satireggiava anche le persone cospicue, onde Augusto fe bruciare gli
scritti di esso, ne' quali gli antichi ammiravano lo stile vigoroso,
oltre la mordacità; e fu lui veramente che schiuse la nuova via, alla
quale l'eloquenza si trovò ridotta dopo respinta dalla tribuna[101].
Perocchè, mutata la pubblica attività nella monarchica sonnolenza,
cessato il giudizio tremendo e inappellabile delle assemblee, si
sentenziava degli autori secondo l'aura delle consorterie e dei grandi
che davano da pranzo ai letterati.
Quando Augusto morì, più non sonava che la piangolosa voce d'Ovidio,
cui l'infingarda abbondanza, lo sminuzzamento, i contorcimenti della
lingua, i giocherelli di parole collocano lontano da Orazio, Virgilio e
Tibullo, quanto Euripide da Sofocle e il Tasso dall'Ariosto. Così breve
tempo era bastato perchè la letteratura romana passasse da Catullo non
ancor dirozzato ad Ovidio già corrotto.
CAPITOLO XXXII.
Tiberio.
Augusto non osò sistemare il governo monarchico mediante uno statuto,
il quale ponendo limiti a' suoi successori, avrebbe fatto conoscere
ai Romani ch'egli non ne aveva. In conseguenza non si ebbe nè
elezione legale, nè ordine prefinito di successione, nè contrappesi
politici: la repubblica assoluta mutavasi in assoluta monarchia,
costituita unicamente sulla forza, dalla forza unicamente frenata;
l'imperatore, rappresentante del popolo, poteva quel che volesse[102],
e dell'onnipotenza valeasi a pareggiare tutti i sudditi nel diritto, e
a togliere al popolo ed al senato e l'autorità e l'apparenza.
Tanti anni d'assoluto dominio, mascherato con forme repubblicane,
aveano indocilito i Romani al giogo, sicchè vedeasi senza repugnanza
che l'impero passerebbe da Augusto in un altro. Tiberio, rampollo
dell'illustre casa Claudia, illustre egli stesso per imprese
guerresche, rivestito di molti onori e della tribunizia podestà,
figliastro e genero d'Augusto, tenevasi sicuro d'esserne chiamato
successore, quando lo vide voltar le sue grazie sopra gli orfani
d'Agrippa. Tra per dispetto e per rimuovere ogni gelosia, s'allontanò
da Roma, come dicemmo, e visse otto anni a Rodi, deposte armi, cavalli,
toga: lontano dal mare, in una casa posta fra dirupi, dal tetto di
quella faceva che gl'indovini investigassero negli astri l'avvenire;
e se la risposta riuscivagli sospetta, nel ritorno il liberto
scaraventava per le balze l'astrologo mal avvisato.
Morti i figli d'Agrippa (forse non senza opera sua) (4 d. C.), torna
a Roma, è adottato da Augusto, il quale pretendono sel destinasse
successore acciocchè la propria moderazione traesse risalto dal
lento strazio di costui[103], ch'e' conosceva pauroso, diffidente,
irresoluto, simulato. Alla morte dunque del patrigno (14), Tiberio
si trova padrone del mondo a cinquantasei anni. Non volendo accettar
l'impero dagl'intrighi d'una donna e dall'imbecillità d'un vecchio,
modestamente convoca il senato, come tribuno ch'egli era; e la
offertagli dominazione ricusa, come peso a cui poteva a pena bastare
il divin genio d'Augusto; solo dalle lunghe istanze lascia indursi ad
accettare, e purchè i senatori gli promettano assistenza in ogni passo.
Di fatto li consultava continuo, ne incoraggiva l'opposizione, gli
esortava a ripristinare la repubblica; cedeva la destra ai consoli, e
sorgeva al loro comparire in senato o al teatro; assisteva ai processi,
massime ove sperasse salvare il reo; non soffrì il titolo di signore,
nè di padre della patria, nè tampoco quello di Dio, dicendo: — Io
sono signore de' miei schiavi, imperatore de' soldati, primo fra gli
altri cittadini romani; mio uffizio è curar l'ordine, la giustizia,
la pubblica pace». Alleggeriva da' tributi i sudditi, e avvisava i
governatori delle provincie che un buon pastore tosa non iscortica
le pecore. Riformò i costumi, diminuendo le innumerevoli taverne,
restituendo ai padri l'autorità di punire le figliuole discole,
benchè maritate; vietò il baciarsi per saluto in pubblico; ai senatori
interdisse di comparire fra i pantomimi, e ai cavalieri di corteggiare
pubblicamente le commedianti; e per raffaccio allo scialacquo de'
banchetti, faceasi servire i rilievi del giorno antecedente, dicendo
che la parte non ha men sapore che il tutto. Spargonsi satire contro di
lui? — In libero Stato, liberi devono essere i pensieri e la parola».
Vuolsi in senato portar querela contro suoi diffamatori? — Non ci basta
ozio per tali bagattelle. Se aprite la porta ai delatori, non avrete
ad occuparvi d'altro che delle costoro denunzie; e col pretesto di
difendere me, ognuno vi recherà le proprie ingiurie da vendicare».
Ma per quanto dissimulatore e simulatore, non seppe mai comparire
grazioso; le larghezze e l'affabilità di Augusto disapprovava; non
diede molti spettacoli al popolo, non donativi ai soldati; nè tampoco
soddisfece ai legati del predecessore; e avendo uno de' legatarj detto
per celia all'orecchio d'un morto, annunziasse ad Augusto che l'ultima
sua volontà rimaneva inadempita, Tiberio gli pagò il lascito, poi di
presente lo fece trucidare perchè riferisse ad Augusto notizie più
fresche e più vere. Non soffrì si concedesse il littore o l'altare od
altra prerogativa a sua madre, la quale da tanti intrighi e delitti
non colse che l'amarezza d'aver posto in trono un ingrato. A Giulia,
indegna sua moglie, da tre lustri relegata, sospese la modica pensione
assegnatale dal padre, sicchè morì di fame; di ferro Sempronio Gracco,
drudo antico di lei.
Erano quasi le primizie d'una crudeltà, che ben tosto mostrossi
calcolata, inesorabile; e prima contro i pretendenti. Agrippa, nipote
d'Augusto, fu ucciso. Le legioni di Germania e di Pannonia avevano
offerto l'impero a Germanico, ma questi ne chetò la violenta sedizione:
pure Tiberio, che avea dovuto adottarlo, adombrato della popolarità
e del valore di lui, lo richiamò di mezzo ai trionfi per mandarlo a
calmare l'insorto Oriente. Ivi gli pose a fianco Gneo Pisone, uomo
tracotante e violento, il quale col profonder oro e calunnie ne
attraversava tutte le azioni, infine lo fece morire di veleno o di
crepacuore a trentaquattr'anni (19). Tutti, fin i nemici, piansero
il generoso giovane, e in Roma il dolore si rivelò con clamorose
dimostrazioni. Il giorno che le ceneri sue si riponevano nel sepolcro
d'Augusto, la città pareva, ora per lo silenzio una spelonca, ora
pel pianto un inferno; correvano per le vie; Campo Marzio ardeva di
doppieri; quivi soldati in arme, magistrati senza insegne, popolo
diviso per le sue tribù gridavano, esser la repubblica approfondata,
arditi e scoperti, come dimenticassero ch'ei v'era padrone. Ma nulla
punse Tiberio quanto l'ardor del popolo verso Agrippina moglie di
Germanico: chi la diceva ornamento della patria, chi unica reliquia del
sangue d'Augusto, specchio unico d'antichità; e vôlto al cielo e agli
Dei, pregava salvassero que' figliuoli, li lasciassero sopravivere agli
iniqui[104].
Tiberio, assicurato, strappò al despotismo la maschera lasciata da
Augusto: tolse al popolo l'eleggere i magistrati e il sanzionar le
leggi, trasferendo questi atti nel senato, sovvertimento radicale
della costituzione romana[105], sebbene già prima i comizj fossero
resi illusorj dacchè a spade non a voci si decideva. Il senato così
divenne legislatore e giudice dei delitti di maestà: affine poi che
neppur esso s'arrischiasse a libere sentenze, i senatori doveano votare
ad alta voce, e presente l'imperatore o suoi fidati. Per tal passo
quell'assemblea, augusta un tempo, allora si trovò avvilita a segno che
Tiberio medesimo ne prendeva nausea: pure se ne giovava per gli atti
legislativi, davanti ad essa proponendo o ventilando leggi, che nessuno
osava contraddire.
L'imperatore non era il popolo? adunque la legge contro chi menomasse
la maestà del popolo fu applicata all'imperatore, e gli offri modo
legale a grandi atrocità e a minute vessazioni. Prima l'applicò a
cavalieri oscuri o ribaldi, pubblicani rapaci, governatori infedeli,
adultere famigerate: e il popolo applause al severo mantenitore della
legge. Ma appena trapelò l'inclinazione del principe, ecco una fungaja
d'accusatori. I giovani educati a scuola nelle figure retoriche e in
un mondo ideale, insoffrenti di passare alla realtà dell'avvocatura
e alla prosa della vita, eppure avidi d'adoprare l'abilità imparata
per acquistarsi onori, fama, piaceri, levar rumore di sè, emulare il
lusso dei grandi, correvano, all'usanza antica[106], ad accusare chi
primeggiasse per gloria, virtù, ricchezze; sfogo delle invidie plebee
contro l'aristocrazia di averi o di merito.
Le ire, sopravissute alla libertà, insegnavano mille tranelli; traevasi
appicco dai dissidj delle famiglie; tenuissime prove bastavano dove
così piaceva al padrone; e ogni fatto, per quanto semplice, traducevasi
in caso di Stato. Tu ti spogliasti o vestisti al cospetto d'una statua
d'Augusto; tu soddisfacesti a un bisogno del corpo od entrasti in
postribolo con un anello o con una moneta portante l'effigie imperiale;
tu in una tragedia sparlasti di Agamennone; tu hai venduto un giardino,
nel quale sorgeva il simulacro dell'imperatore; tu interrogavi i
Caldei se un giorno potrai divenir re, e tanto ricco da lastricare
d'argento la via Appia: dunque sei reo di maestà; reo Aulo Cremuzio
Cordo che, nella storia delle guerre civili di Roma, intitolò Bruto
l'ultimo de' Romani. Cremuzio nel difendersi diceva: — Sono talmente
incolpevole di fatti, che m'accusano di parole», ed evitò la condanna
col lasciarsi morir di fame: gli edili arsero i libri di lui, ma il
divieto li fece più preziosi e cercati; ove Tacito esclama: — Ben è
folle la tirannia nel credere che il suo potere d'un momento possa
estinguere nell'avvenire il grido, la memoria. Punito l'ingegno, ne
cresce l'autorità; nè i re che lo punirono, riuscirono ad altro che a
procacciar gloria alle vittime, infamia a sè»[107].
Chi nomina libertà, medita rimettere la repubblica; chi piange Augusto,
riprova Tiberio; che tace, macchina; chi mostrasi mesto, è scontento;
chi allegro, confida in prossimi mutamenti. Fra straniero o fratello,
fra amico o sconosciuto non mettevasi divario nelle delazioni; anche
i primi del senato le esercitavano o all'aperta o alla macchia; ben
presto si accusò senza nè timore nè speranza, unicamente perchè era
l'andazzo; furono processate persone, non si sapeva di che, condannate,
non si sapeva perchè.
Appena uno fosse querelato, vedeasi cansato da amici e da parenti,
timorosi d'andare involti nella sua ruina. Fuggire era impossibile in
così vasto impero: la campagna ridondava di schiavi vendicativi: ognuno
agognava di cogliere il proscritto per salvare se stesso. Tradotto a
senatori complici o tremebondi, ostili fra di loro, a fronte di quattro
o cinque accusatori addestrati nelle scuole a trovare e ribattere
argomenti, ove nessuno ardiva assumere la difesa, ove la tortura
degli schiavi suppliva al difetto di prove, il convenuto quale scampo
poteva sperare? pensava dunque a vendicarsi coll'imputar di complicità
gli stessi accusatori o i giudici: scherma, di cui Tiberio prendeva
mirabile sollazzo. Solo gli facea noja che alcuni si sottraessero al
supplizio e quindi alla confisca coll'uccidersi; onde l'arte scherana
consisteva nel sorprenderli improvvisi. Uno si trafigge colla spada,
e i giudici s'avacciano di darlo al manigoldo: uno dinanzi ad essi
sorbisce il veleno, e senz'altro vien tradotto alle forche: di Carnuzio
che riuscì ad uccidersi, Tiberio disse, — E' m'è scappato»; a un altro
che il supplicava d'accelerargli il supplizio, — Non mi sono ancora
abbastanza rappattumato con te».
Come doveano andar calpesti gli affetti che serenano la vita e
alleggeriscono la sventura, allorchè in ciascuno si temeva un
traditore! Deboli e paurosi perchè isolati, piegano alla prepotenza,
o cospirano con essa; il senato, nel quale stavano accolti coloro che
poteano far fronte a Tiberio, glieli consegnava un dopo l'altro, lieto
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