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Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15) - 03

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  poeta latino; e tale lo rivela pure la sua _Arte d'amare_, di cui
  troppo parlammo. Le _Eroidi_ sono epistole che suppone scritte da
  antichi, ma senza investirsi dell'indole de' tempi, nè indovinare il
  sentimento delle età remote; e dall'erudizione lasciando soffocare
  l'affetto, che si riduce a lamenti lambiccati per separazioni.
  Nelle _Metamorfosi_, in dodicimila esametri canta le forme mutate
  degli Dei e degli uomini; scioglimento troppo uniforme alle
  ducentoquarantasei favole, raccozzate con intrecci poco naturali, nè
  quasi altro collegamento che della successione. Le forme sotto cui
  vengono rappresentati gli Dei nella mitologia primitiva, appartengono
  al simbolo, o derivano dall'idea della metempsicosi: ma in Ovidio
  alcune son mere favole della mitologia, in altre i personaggi perdono
  il carattere simbolico e il senso religioso, o lo alterano coll'unione
  di elementi disparati; le tradizioni non vengono nobilitate; spesso
  oscene, avventure si applicano a divinità morali; ogni cosa poi
  è dedotta da poemi e drammi d'antichi e di contemporanei, eccetto
  forse il bellissimo episodio di Piramo e Tisbe. Nei _Fasti_ espone
  il calendario e l'origine delle feste romane, come già avevano fatto
  altri in Alessandria, e a Roma Properzio ed Aulo Sabino: ma nulla
  suggerendo di elevato o di recondito, lascia dominarvi la leggenda e
  la menzogna consacrata dai sacerdoti; e poichè gli Dei e la religione
  al suo tempo erano sferre da antiquarj, egli se ne valse celiando, come
  della cavalleria fece l'Ariosto che tanto gli somiglia. Pure dovendo di
  preferenza toccare a favole latine pastorizie, ce ne conservò alcune,
  che altrimenti ignoreremmo. Come in tutti i componimenti del tempo, vi
  predomina l'idea di Roma: questa è la sola unità de' Fasti; di questa
  intesse i destini nella troppo facile orditura delle Metamorfosi[66],
  che finiscono con Romolo e Numa, colla stella di Giulio Cesare, e colle
  preci per la conservazione d'Augusto.
  La favola nasce dall'osservare le relazioni tra un fatto della natura,
  e particolarmente del regno animale, e un fatto analogo della vita
  umana, di modo che, preso nel suo carattere generale, acquisti una
  significazione per l'uomo, e segni una regola pratica. N'abbiamo
  un esempio antico in Menenio Agrippa, ma neppur qui troviamo alcuna
  originalità romana. Fedro (30 a. C.-14 d. C.), che s'intitola liberto
  di Augusto e nato in Pieria di Macedonia, trovando occupato ogn'altro
  campo della greca imitazione[67], tradusse le favole esopiane in
  candidissimo stile, con felice epitetare e brevità arguta e proprietà
  costante, non disgiunta da varietà[68], spargendole qui e qua
  d'allusioni; ma non possiede quell'arguzia e quel frizzo che colpisce e
  passa. Talvolta si eleva a maggior grandezza e a morale sublime, come
  là dove canta: — O Febo, che abiti Delfo e il bel Parnaso, dinne, ti
  preghiamo, qual cosa a noi sia più utile. Che? le sacrate chiome della
  profetessa si fanno irte, scuotonsi i tripodi, mugge la religione dai
  penetrali, tremano i lauri, e il giorno s'offusca: la Pitia, tocca dal
  nume, scioglie le voci: _Udite, o genti, gli avvisi del dio di Delo.
  Osservate la pietà; rendete voti ai celesti; la patria, i padri, le
  caste mogli, i figliuoli difendete colle armi, respingete il nemico
  col ferro; soccorrete agli amici, compassionate i miseri, favorite
  ai buoni; resistete ai tristi, vendicate le colpe, frenate gli empj,
  punite quei che stuprano i talami, schivate i malvagi, non credete
  troppo a nessuno._ Ciò detto, cadde la vergine forsennata: forsennata
  da vero, giacchè quelle parole furono gittate al vento».
  Marco Manilio, sebbene si sentisse angustiato fra il rigore del
  soggetto e le esigenze del verso, pure vedendo preoccupato ogn'altro
  genere, tentò un trattato d'astronomia, ove l'aridità dell'insegnamento
  di rado è illeggiadrita dallo stile[69]. Pochissimi pure leggeranno il
  _Cinegetico_ di Grazio Falisco.
  Di molti poeti latini andarono smarrite le opere; e le commedie di
  Fendanio, le tragedie di Pollione e di Vario, e le epopee di Vario
  stesso, di Rabirio, di Cornelio Severo, di Pedo Albinovano, il poema
  di Cicerone sopra Mario, le didascaliche di Marco, i versi di Giulio
  Calido, riputato il più elegante poeta dopo Catullo, non ci son noti
  che di nome. Cornelio Gallo, confidente di Virgilio, combattè contro
  Antonio ed ebbe il governo dell'Egitto, poi caduto in disfavore, si
  uccise.
  Da quelli che ci restano e che erano i migliori, siam chiariti come
  in Roma dominasse una letteratura di tradizione e d'imitazione,
  sicchè tutti si esercitavano in eguali generi, eguali soggetti,
  quasi eguali sentimenti. In generale imitavano i poeti della scuola
  Alessandrina, e più che dell'invenzione si occupavano della forma,
  mostrando maggiore erudizione che originalità; letterati insomma, non
  genj. Della loro vita conosciamo poco più di quel ch'essi medesimi ce
  ne tramandarono per incidenza; e in un tempo in cui dotti e indotti
  faceano versi, ma pochissimi leggevano, altro pubblico non aveano
  che i pochi ricchi, altro applauso che di qualche consorteria, a
  meritar il quale bisognava sagrificassero l'indipendenza. Ammusolata
  l'eloquenza, la poesia per sopravivere si fa stromento alla corruzione,
  onestata col nome di pacificamento; e colle blandizie e colle armonie
  delicate abitua la pubblica opinione a lodare il fortunato, il quale
  s'annojava di questi adulatori, ma per interesse li proteggeva e
  concedeva loro i piccoli onori, avendo della letteratura fatto uno
  spediente di governo. Da tutti trapela una società infracidita dai
  vizj del conquistato universo, fiaccata dalla guerra civile, assopita
  dall'elegante despotismo, indifferente ai pubblici interessi e ai gravi
  doveri, anelante al riposo, ai godimenti del senso, allo stordimento
  delle voluttà. Sulle iniquità passate hanno cura di stendere un velo
  recamato, di scusare o anche giustificare l'ingiustizia, e travolgere
  o pervertire i giudizj. Quale oserà lodare chi è disfavorito dal
  principe? Al comparire d'una cometa il popolo si sgomenta? i poeti
  canteranno che è la stella di Giulio Cesare. Augusto ha paura?
  ripeteranno quanto sia necessaria la sua vita, che tardi ascenda ai
  meritati onori dell'Olimpo, e (cosa strana, non singolare) vanteranno
  la beatitudine d'un tempo, del quale gli storici s'accordano a piangere
  la decadenza.
  Del resto que' poeti non s'affannino troppo a perseverare in opinioni
  meditate e di coscienza; vaghino di scuola in scuola, sfiorino tutto,
  non approfondiscano nulla; principalmente persuadano che il godere la
  vita, usar moderatamente de' piaceri, fare germogliar rose di mezzo
  alle spine, è il fiore della sapienza: uffizio tanto più efficace,
  quanto che adempiuto con giusto equilibrio delle locuzioni patrie colle
  forestiere, e colla correzione delle forme e la finezza del gusto, che
  sì breve doveano durare.
  Tali vizj compajono anche nei due maggiori, Orazio e Virgilio. Il
  liberto padre di Quinto Orazio Flacco da Venosa (66-8 a. C.), lo fece
  accuratamente educare col _magro camperello_; si trasferì egli medesimo
  a Roma, e cercò un impieguccio di usciere all'aste pubbliche, acciocchè
  il figlio fosse istrutto non altrimenti che i cavalieri ed i patrizj,
  e per vesti e servi non discomparisse dagli altri. Esso padre lo
  vigilava, lo istruiva, e lo pose sotto Pupilio Orbilio, che spoverito
  dalle proscrizioni, s'era messo soldato, poi grammatico, e che
  severamente educando senza risparmiar lo staffile, meritò una statua.
  Da questo conobbe Orazio i vecchi Latini, ma li sentì inferiori ai
  Greci, e massime ad Omero, nel quale esso trovava poesia, morale,
  politica, tutto, siccome avviene dei libri che spesso si rileggono.
  Entrato nella milizia, di ventitre anni capitanò una legione[70]
  nelle file pompejane, come la gioventù che imita, non sceglie: ma
  nella giornata di Filippi gettò lo scudo e fuggì. Pacificate le cose,
  toltogli dai soldati il modesto retaggio, nè rimastegli che le lettere,
  si tenne alcun tempo colle vittime e cogli imbronciati, reso audace
  dalla povertà[71]: e se fosse perdurato in questo eroismo negativo,
  sarebbe riuscito inopportuno come Catone, mentre invece si immortalò
  coll'accostarsi ai potenti e trascendere in adulazioni. Perocchè
  Virgilio e Vario lo introdussero a Mecenate, che accolse freddamente
  questo partigiano di Bruto; ma conosciutone l'ingegno, se lo guadagnò,
  e presentollo ad Augusto. In quel vivere pubblico sul fôro, al portico,
  nel campo, era facile che s'accomunassero i cittadini anche in gran
  diversità di nascita e di posizione; ed Orazio, gioviale e tollerante,
  divenne amico senza invidia e senza bassezza del buon Virgilio, come
  del dovizioso Mecenate e d'Augusto stesso; gli uni invitava a cena,
  dagli altri riceveva e anche domandava pranzi, campagne, ville, quando
  tante ce n'era da distribuire, confiscate, occupate militarmente,
  vacanti per padroni uccisi.
  E un podere sulle colline di quel Tivoli che una volta s'intitolava
  superbo e allora solitario (_vacuum Tibur_), bastante al lavoro di
  cinque famiglie[72], ebbe Orazio in dono, e colà godeva i suoi giorni,
  gustando il più che potesse della vita, non pretendendo sottoporre a sè
  le circostanze, ma a quelle sottoponendosi; tanto scarco d'ambizione e
  aborrente da legami, che nè tampoco volle essere segretario di Augusto:
  ma alle lusinghe di questo non potè negar le lodi, anzi divenne il
  poeta di Corte, che nella sua faretra aveva pronto uno strale per ogni
  evento; per celebrar natalizj o vittorie de' nipoti del suo padrone,
  da buon Romano esecrando tutto ciò ch'era forestiero, e pregando che il
  sole non potesse veder cosa più grande di Roma[73].
  Fedele alle regole d'un gusto squisitissimo, del resto egli vaga
  per ogni tono della sua lira, per ogni varietà d'opinioni[74]: ora
  vagheggia la tracia Cloe a dispetto della romana Lidia, e sberteggia
  l'invecchiata Lice e la mal paventata strega Canidia; poi di repente
  vanta a Licino l'aurea mediocrità, o tesse un inno ai numi: aborre
  dal lusso persiano e dall'avorio e dalle travi dorate, e desidera che
  Tivoli dia riposo alla sua vecchiaja, stancata nell'armi: una volta
  dipinge le delizie campestri, in modo che tu nel credi sinceramente
  innamorato e già già per divenire campagnuolo; ma due versi di chiusa
  ti rivelano che tutto fu ironia. A Mecenate, suo sostegno e suo decoro,
  egli ricanta che senza lui non può vivere, che vuole con lui morire; ma
  il genio suo l'assicura d'avere alzato un monumento più perenne che di
  bronzo.
  Come dell'esser nato da padre liberto, così celia dello scudo che gettò
  via a Filippi, e chiama se stesso un ciacco delle stalle d'Epicuro,
  mentre raccomanda che la gioventù romana si educhi a soffrire l'augusta
  povertà, e faccia impallidire la sposa del purpureo tiranno, allorchè,
  come lione entro un branco di pecore, egli s'avventa fra' nemici. Per
  blandire Augusto, si astiene dal lodar Cicerone: agli Offelj, dalla
  rapace largizione del triumviro convertiti da possessori in fittajuoli,
  predica di vivere con poco, d'opporre saldo petto all'avversa fortuna:
  tratta da pazzo il gran giureconsulto Labeone, perchè non si mostra
  ligio all'imperatore: di Cassio Parmense fa un sommo poeta sinchè
  favorito, lo vilipende quando cade in disgrazia: colla stessa meditata
  facilità geme se minacciano rinnovarsi le guerre civili, e solleva il
  velo che copre gli arcani della politica. Ma quando encomia la virtù
  originale di Regolo o la imitatrice di Catone, e coloro che furono
  prodighi della grand'anima per la patria, e geme su' guaj che toccano
  al popolo pe' delirj dei re, vien di credere che vagasse nella lirica
  per disviarsi dal cantare epicamente le glorie, su cui il secolo d'oro
  voleva disteso l'oblio.
  E sempre più ci si palesa che la lirica romana non era impeto spontaneo
  di devozione, d'affetto, di patriotismo, sibbene un godimento preparato
  all'intelletto, un artifizio di gusto, sopra una mitologia forestiera.
  Anche Orazio in tutto questo imitò, anzi le più volte tradusse i
  Greci[75], sebbene sentisse che invano aspirerebbe ad emulare Pindaro.
  In fatti questo si lancia con un entusiasmo spontaneo che appare fin
  anche dal ritmo, animato, vario nella robusta misura; mentre Orazio
  sentesi calmo e riflessivo colà appunto ove più vuole elevarsi,
  ed invano nell'imitazione artifiziosa cerca mascherare il calcolo
  che guida la sua composizione: in Pindaro è un onore pe' vincitori
  l'esser lodati da esso e fatti partecipi della sua gloria; Orazio loda
  d'uffizio, sebbene abbia l'arte di dissimularlo col cacciar avanti se
  stesso[76]; e poichè scrive all'occasione di avvenimenti giornalieri,
  generalmente s'attiene alla personalità degli affetti e delle
  sensazioni, parla ogni tratto di sè e de' suoi, talchè c'introduce e
  addomestica colla vita degli antichi; e viepiù nelle _Epistole_ e nelle
  _Satire_, dove ripigliando la libera misura e il tono famigliare di
  Lucilio, riuscì incomparabile maestro del fare difficilmente facili
  versi.
  La satira, poesia dei tempi critici, o coopera a distruggere e
  riformare; o associandosi colla elegia, sorge alla sublimità della
  poesia civile; oppure si contenta di ridere, come fece con Orazio.
  Conservando la finezza di cortigiano e la docilità di liberto anche in
  questo genere essenzialmente democratico, mostrasi dedito a frequentare
  la società, il che ne scopre il ridicolo, anzichè al vivere solitario,
  che ne scopre i vizj. E perchè i vizj di Roma erano dalla prosperità
  pubblica ammantati, potevasi ancora sorridere di quello onde al tempo
  di Giovenale un'anima onesta non poteva se non bestemmiare. Poi le
  monarchie tendono sempre a diffondere uno spirito di moderazione; e
  come Augusto col lodare gli antichi costumi adottava i nuovi, Orazio
  il secondò scalfendo senza ferire, ponendo se stesso in prima fila tra
  que' peccatori; sicchè punzecchia le colpe senza mostrarne aborrimento,
  esorta alla virtù senza farsene apostolo, rimprovera la onnipotenza
  attribuita al denaro[77], ma i denarosi corteggia e ne implora le cene
  e i doni; e colloca la morale nel fuggire gli eccessi, i desiderj
  misurare ai mezzi di soddisfarvi, viver pago di sè e accetto agli
  altri; e pingue e lucido in ben curata pelle, ingagliardisce nelle
  lussurie e non si dà un pensiero dell'avvenire. Nel che, lontano
  dallo stoicismo desolante di Persio, dall'atrabile di Giovenale, e
  dal cinismo in cui alcuni ripongono la forza della satira, mai non si
  scosta da quella finezza di vedere e aggiustatezza d'esprimere, che non
  si possono cogliere se non nelle grandi città e nella conversazione. E
  poichè i mediocri, sì nei meriti sì nei peccati, sono sempre il numero
  maggiore, perciò dura eterno il morso ch'egli diede ai costumi, e gli
  originali suoi ci troviamo accanto tuttodì; sicchè, in fuori della
  settima del libro primo, composta a ventitre anni, nessuna delle sue
  satire invecchiò[78].
  L'autorità dittatoria da alcuni attribuitale, rese insigne l'epistola
  ai Pisoni, che meno propriamente s'intitola _Dell'arte poetica_;
  componimento didascalico con episodj satirici, ove di famigliarità e
  di sali sono conditi i precetti. Ivi, colla varietà che alle epistole
  s'addice, Orazio discorre sopra la letteratura, nella quale, diremmo
  oggi, egli apparteneva alla scuola romantica, alla giovane Roma, che
  disapprovava i sali di Plauto e i versi zoppicanti di Ennio, e beffava
  gli ammiratori di ciò che sentisse d'arcaico, e quei che rincresceansi
  di disimparare maturi ciò che avean imparato a scuola, e asceticamente
  deploravano la perdita del buon gusto[79]. Principalmente egli
  insiste sulla drammatica: ma il vero talento non è mai esclusivo, e
  mentre sembra che in questa ponga ceppi arbitrarj al genio, tende a
  svincolarlo dalla paura dei pedanti, i quali pretendevano la lingua si
  restringesse ad un tempo solo e a certi autori, anzichè riconoscerne
  supremo arbitro l'uso[80]; chiamavano sacrilegio il negar venerazione
  agli antichi, quanto il concederla a coloro il cui nome non fosse
  ancora dalla morte consacrato[81]; al censore cianciero e petulante
  attribuivano maggiore autorità che al giudizio de' pochi savj modesti.
  Molto egli trae da Aristotele, ma molto dalla propria sperienza;
  nè quell'epistola è inutile in tempo che, salite ai primi posti
  l'erudizione e la storia, molti sostengono non darsi principj certi
  di critica, canoni non potersi dedurre che dai capolavori, ed esser
  tiranniche tutte le regole antiche, per verità nulla più severe di
  quelle che s'impongono a nome della libertà.
  In quel gran latrocinio contro i prischi Italiani, per cui i campi
  furono ripartiti fra i soldati d'Ottaviano, Publio Virgilio Marone
  (70-19 a. C.), nato nel villaggio d'Andes (_Piétola_) presso Mantova,
  educato a Cremona e a Milano, venne a Roma a reclamare l'avito suo
  poderetto; e coll'ingegno trovato grazia appo Augusto, l'ebbe come un
  dio e ne accettò i favori. Candido, forbito, innamorato dell'arte e
  della pace, era il poeta nato fatto per quei tempi, in cui dal mareggio
  civile importava richiamare alle operose dolcezze della villa, e
  mutare le spade in aratri, l'attualità in memorie. Quest'era l'uffizio
  a cui Augusto convitava le Muse: e tutti i poeti dell'età sua si
  mostrano credenti a tutta la litania degli Dei, fin nelle più beffate
  loro trasformazioni; predicatori del buon costume e della sobrietà
  degli antenati, plaudenti al ritorno della pace, del pudore antico,
  della casta famiglia; encomiatori dell'agricoltura, e di quel vivere
  campagnuolo che avea prodotto i vincitori di Cartagine[82].
  Pertanto Mecenate con insistenza persuase Virgilio a nobilitare
  l'agricoltura, e cantare i campi; e Virgilio scrisse le _Georgiche_,
  capolavoro di gusto, di retto senso e di stile, il monumento più
  forbito di qualsiasi letteratura, la disperazione di quelli che si
  ostinano alla poesia didattica, e che delle apparenti difficoltà
  ottengono agevole vittoria se si considerino isolati, ma messi a petto
  a Virgilio restano d'infinito spazio inferiori. Nelle _Bucoliche_
  copia Greci e Siciliani; colle frequenti allegorie ed allusioni alle
  proprie venture dissipa l'illusione, e svisa i pastori facendoli colti
  e raffinati tanto, da esprimere i sentimenti proprj dell'autore; mai
  non dimentica Roma sua, fra i campi cresciuta; i pastori stupiranno
  alle fortune di essa e alla magnificenza di Augusto; ciò che spiace a
  questo, verrà disapprovato anche dal poeta; ed esaltando la beatitudine
  campestre, ne farà raffaccio alle abitudini repubblicane de' clienti
  affollantisi, dell'ambir le magistrature e i fragori forensi, al lusso
  delle case e del vestire, alle guerre civili che fanno le case vuote di
  famiglie[83].
  Come gli altri Romani, Virgilio non si propone d'inventare, ma di far
  una poesia finita; copia le bellezze di quei che lo precedettero[84],
  aggiungendovi finezze tutte sue; collo studio migliora ciò che a quelli
  il genio somministrò, eliminandone ogni scabrezza, ogni sconvenienza; e
  col maggior garbo lusinga il lettore, il quale s'affeziona ad un poeta
  tutto occupato nel recargli diletto. E qual altri conobbe sì addentro
  ogni artifizio dello stile? Con varietà inesauribile di voci, di frasi,
  di ritmo, carezza gli orecchi del lettore, non lasciandone un istante
  rallentare la schizzinosa attenzione, senza per questo solleticarla
  con lambiccamenti o con pruriginose vivezze. Quel che imparò nella
  colta conversazione dell'aula d'Augusto, egli nella solitudine raffina
  col delicato sentire; e dalla maestosa onda del suo esametro fino
  alla scelta de' vocaboli ben equilibrati di vocali e consonanti, e di
  dolci ed aspre, tutto è nel dimostrare che di pari sieno proceduti il
  pensiero e l'espressione.
  Ma opera maggiore gli chiedevano i suoi protettori, la quale non
  lasciasse a Roma alcuna invidia delle greche ricchezze; un'epopea.
  I popoli raffinandosi perdono quell'ingenua credenza nell'immediata
  intervenzione degli Dei, sopra la quale si fondano le epopee
  primitive, storia ed enciclopedia delle nazioni ancor prive di critica
  e d'annali; la scienza ingrandendo spiega ciò che pareva mistero;
  l'industria toglie la grazia infantile ai famigliari nonnulla della
  società nascente: laonde all'epica grandiosa devono succedere i lavori
  d'erudizione ragionatamente condotti, e gran pezza lontani dalla
  generosa sprezzatura dei poemi popolari e nazionali. Il genio di
  Virgilio e il suo tempo non portavano ad un'epopea naturale; ma a forza
  di studio, cognizioni, arte, conducevano ad armonizzare quanto sin là
  erasi fatto di meglio.
  E fatto già s'era in Roma. Moderni critici vollero la fanciullezza di
  questa dotare di poemi primitivi, dove le idee fossero personificate in
  tipi, quali i sette re e gli altri eroi fino alla battaglia del lago
  Regillo, accettati poi come storia. Un popolo tutto giurisprudenza,
  il cui _carme_ sono le XII Tavole, le cui imprese caratteristiche
  sono contese di diritto, non dovette cullarsi in fasce poetiche, nè
  possedette quel sentimento elevato dell'esistenza, il cui più insigne
  frutto sono i poemi eroici. A questi, come al resto, si applicarono
  i Romani per imitazione, e nell'intento di conciliare l'esempio di
  Omero colla favola ausonia, il meraviglioso dell'epopea colla storica
  realtà. Nevio cantò la prima guerra punica, Ennio la seconda e la
  etolica[85], in via episodica risalendo alle origini di Roma. Ma al
  costoro tempo già si scriveva la storia, onde non potevano che esporre
  in versi i fasti romani: Ennio poi, traduttore d'Eveemero e d'Epicarmo,
  i quali scomponevano il cielo in simboli o apoteosi, come poteva
  usare sinceramente la macchina? Nè l'innesto de' fatti storici coi
  soprannaturali, fondamento dell'epopea greca, avea più luogo quando
  s'attuarono grandi eventi, degnissimi di poema. Ben alcuni assunsero
  a tema la guerra dei Cimri, o il consolato di Cicerone; le costui
  lodi celebrò Cornelio Severo nella Guerra di Sicilia; Archia cantò
  le spedizioni di Lucullo, Teofane quelle di Pompeo, Furio Bibaculo
  le imprese di Catulo, altri quelle di Cesare, le vittorie d'Antonio o
  quelle d'Ottaviano, come fece Cotta nella _Farsaglia_: ma la vicinanza
  delle imprese riduceva il poeta a storiografo, a tradurre in versi i
  commentarj di qualche famiglia; e la protezione imponeva di adulare un
  uomo o una fazione, anzichè sublimare la nazione tutta, o interessare
  l'umanità.
  Altri, dietro a Lucio Andronico, assumevano soggetti mitologici,
  rifritti e non creduti, come Varrone d'Atace che riprodusse le
  Argonautiche, Cicerone gli Alcioni e Glauco, Calvo l'Io, Cinna
  la Mirra, Catullo il Teti e Peleo, e tante Tebaidi, Ercoleidi,
  Amazonidi[86], dove al racconto si associavano movimenti lirici e
  tragici. Fra i quali va distinto Rabirio, che Ovidio chiama grande e
  Vellejo Patercolo appaja a Virgilio, e del quale non conosciamo che
  alcuni versi sulla guerra d'Alessandro, ritrovati ad Ercolano. Altri
  ricorrevano le antiche memorie patrie, e i fievoli cominciamenti di
  Roma, mettendoli a fronte della presente grandezza: di ciò un Sabino
  fece soggetto a canti, tronchi dalla morte; su ciò fondansi i _Fasti_
  d'Ovidio; Properzio si proponeva di celebrare le antiche feste e i
  prischi nomi dei luoghi[87].
  Virgilio, venuto al tempo che la vecchia Roma perisce, e la
  trasformazione dell'impero eccita vaghi presentimenti d'un avvenire
  incomprensibile, pensò combinare gli elementi che gli altri adoperavano
  distinti. Le memorie repubblicane poteano recar ombra al pacificatore
  fortunato, e a troppe passioni avrebbe dato di cozzo se, come Lucano,
  avesse tolto a cantare armi tinte di sangue non ancora espiato. Si
  gittò dunque sull'antichità, da Omero desumendo il soggetto, gli
  eroi, l'orditura persino e il verso e il tono, come era consueto da'
  suoi predecessori; ideò di unire i viaggi dell'_Odissea_ e le guerre
  dell'_Iliade_, ma collocarsi nella favola omerica per mirare fatti
  storici lontani e vicini, e cantando Trojani essere eminentemente
  romano. Il trarre la favola iliaca a significazione italiana era
  tutt'altro che cosa nuova[88], e ne restava blandita la vanità di
  tutta la nazione, e specialmente di questa gente Giulia, giganteggiata
  sulle rovine dell'aristocrazia. Più non basta però che la musa gli
  canti le origini della romana gente, ma deve accertarle; onde esamina
  la tradizione, vaglia, ordina, sicchè rimane buon testimonio delle
  tradizioni antiche, e fa un esercizio d'arte, non una poesia di getto.
  A quella lontananza, favorevole all'immaginazione, per via d'episodj
  potrà facilmente annestare i nomi di coloro per cui crebbe e s'assodò
  la romana cosa; potrà coll'episodio di Didone adombrare la guerra
  punica, il cui esito accertò la grandezza di Roma; e colle antichissime
  cagioni delle nimistà e colle imprecazioni di Elisa che invocava
  irreconciliabili gli odj e le vendette contro la schiatta d'Enea,
  giustificare la distruzione di Cartagine per titolo di sicurezza.
  Infine metterà a confronto la Roma non nata ancora presso al regio
  tugurio d'Evandro, con quella meravigliosamente marmorea di Augusto,
  sulla quale egli concentrerà tutto lo splendore della storia italica e
  del tempo de' semidei.
  Orditura così compassata, quanto dovea restare di sotto della spontanea
  ispirazione di Omero! In questo terra e cielo uniti cospirano a
  comun fine, e le divinità perpetuamente intervengono alle azioni e ai
  consigli de' mortali. Perduta quella iniziazione divina, in Virgilio
  gli Dei s'affacciano solo tratto tratto per macchina d'arte; e lo
  scetticismo filosofico gli accetta come spediente letterario. Virgilio
  vede ed ammira la grande unità di Omero, ed esclama esser più facile
  togliere la clava ad Ercole che un verso a quello: eppure compagina un
  poema di frammenti, di erudizione avvivata con grand'ingegno, ma non
  riuscendo a idealizzare le raccozzate rimembranze.
  Se, invece d'imitare separatamente i didascalici di Alessandria, i
  bucolici siciliani e l'epico Meonio, avesse fuso gli uni coll'altro,
  e nell'esposizione della civiltà italica antica (dove rimase tanto
  inferiore) non introdotte in forma precettiva, ma atteggiate le ingenue
  dipinture del viver campestre dei prischi Italiani, avrebbe fatto opera
  non soltanto romana ma italica, causato il troppo immediato confronto
  coi poeti imitati, e la dissonanza che, come negli altri Latini, vi
  si scorge fra quello che ha di proprio o quel che toglie a prestanza.
  Nè tampoco si propose egli di ritrarre particolarmente veruna età,
  non la sua, non quella che descrive[89], né di aprire un nuovo calle
  ai successori; ma fu tutto amor dell'arte, tutto romana predilezione:
  l'adulazione stessa non fece sguajata come quella onde Ariosto cantò
  gl'indegni suoi mecenati, ma fina e convenevole alla forbita corte
  d'Augusto.
  Nella quale vivendo, Virgilio ingentilisce gli eroi: Enea depose la
  pelasgica rozzezza: la donna non è più una Criseide che passi a chi
  vince; non un'Andromaca che, da vedova di Ettore, si contenti di
  divenire la sposa di Elleno; ma una regina che giurò fede al perduto
  consorte, che soccombe solo alla potenza dell'amore, e all'amore
  tradito non sa sopravivere[90]. Nell'inferno di Omero, Achille ribrama
  avidamente la vita: nell'Eliso di Virgilio, Didone guata silenziosa il
  suo traditore e passa.
  In quest'ultimo tratto scorgiamo un merito che renderà Virgilio
  eternamente prezioso a chi è capace di sentire. Fra tanti poeti
  che menzionammo, i quali cantarono prolissamente i loro amori, pur
  uno non troviamo che tratteggi al vero il procedere della passione,
  accontentandosi essi di ritrarne qualche accidente o le crisi più
  rilevate, e sfogarsi in sentenze, in lamenti ingegnosi, in ricche
  descrizioni, in tutto ciò che è esterno. La meditata conoscenza della
  vita interiore doveva ai moderni venire da una fonte nuova; e parve
  preludervi Virgilio, che, impedito dai tempi d'essere ingenuo, si
  conservò semplice, eloquente, patetico; trasfuse nella poesia il
  proprio cuore, e ciò che dapprima era soltanto esteriore, ridusse
  subjettivo coll'insistere sopra un sentimento, e scovar dai cuori i
  secreti più ritrosi, e seguir passo passo il crescere e il declinare
  d'una passione. Vedetelo in quell'amore di Didone, del quale son
  gettati i primi semi colla pietà nata dalla fama, poi cresce colla
  vista, col racconto, colla consuetudine, col raziocinio, finchè deluso,
  non può cessare che colla vita.
  A questo fino sentire va debitore Virgilio d'un genere di bellezze
  
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