Storia degli Italiani, vol. 02 (di 15) - 19
onoranze rendute allo ucciso zio: ma al tempo stesso, per pagare i
legati, gliene ridomanda il denaro; e perchè Antonio lo mena a belle
parole, e' vende case, terre, tutto il proprio patrimonio, dichiarando
accettava l'eredità soltanto per non defraudare tante famiglie dei
pingui lasciti dello zio: e così versa tant'odio sopra Antonio, quanto
amore a sè procaccia.
E già i rancori trapelano: Ottaviano scredita Antonio quasi perfidiasse
alle intenzioni ed alla causa di Cesare; Antonio taccia l'altro
di garzone temerario, imprudente, sedizioso: Ottaviano, per quanto
desiderasse vendicare il prozio, non soffriva di vedere Antonio a capo
d'un partito che il potesse rendere arbitro della repubblica; Antonio,
fingendosi vindice di Cesare per ingrazianire il popolo e i soldati,
agognava al poter sovrano. I senatori che favorivano i congiurati
come restauratori della prisca libertà, ridevano di que' dissensi che
fiaccherebbero i Cesariani.
Bruto, alzando il pugnale con cui avea trafitto Cesare, aveva
esclamato: — Eccoti, o Cicerone, vendicata la repubblica», quasi
volesse acquistar credito col mostrarsi appoggiato dal voto
dell'uccisore di Catilina; ma in fatto temendo che o pavido guastasse
o presuntuoso volesse dirigere, nulla si era comunicato della congiura
a Cicerone. Questi, che sì pomposamente avea magnificato la clemenza
di Cesare, e assicuratolo che nessun mai oserebbe attentare alla vita
di lui, o tutti i petti de' senatori gli sarebbero di scudo[265], or
ripetutamente querelasi di non essere stato convitato al _bellissimo
banchetto_ degli idi di marzo, massime perchè avrebbe persuaso a
tôr di mezzo anche Antonio[266], contro del quale allora scrisse
le Filippiche; professava aver esultato nel vedere quell'uccisione
in senato[267]; ma una rivoluzione non preparata, non condotta da
lui andavagli poco a garbo, e colla solita oscillazione non tardò
a mostrarsene nojato, e dire: — L'albero è abbattuto, sussistono le
radici». Come poi Ottaviano andò in villa a fargli visita e lo chiamò
padre, egli ne sposò a fronte aperta la causa, disse che i congiurati
avevano finito con coraggio d'eroi un'impresa da fanciulli, e per
avversione ad Antonio si diede a sorreggere il giovane, e in senato
diceva: — Prometto, assicuro, garantisco che Ottaviano sarà sempre
tal cittadino, quale oggi è, e quale la patria il desidera»[268].
Bruto ne mosse querela, e — Non è un padrone che Tullio tema, ma un
padrone che non lo careggi; mentre gli avi non soffrivano la servitù,
comunque dolce»; e gli scriveva: — Tu, scalzando Antonio, non tendi che
a consolidare Ottaviano: aborrisci la guerra civile, e non una pace
infame»; e ad Attico: — L'eminente ingegno di Tullio come posso io
stimarlo, se così poco seppe mettere in pratica ciò che aveva scritto
a proposito della libertà della patria, del vero onore, della morte
e dell'esiglio? morte, esiglio, povertà, pajono gran mali a Tullio; e
purchè egli abbia il suo desiderio, e si veda riverito e lodato, non
teme una servitù onorata, quasi l'onore potesse conciliarsi con cosa
tanto infame com'è la servitù . . . Quanto a me, non ho risolto se
farò guerra o manterrò la pace: ma o l'una o l'altra, servo non sarò
giammai»[269].
Evitare la guerra civile più non stava in lui. (43)
Ottaviano, raccolti nella Campania diecimila veterani, e accostatosi
a Roma sotto ombra di proteggerla dal console ambizioso, vi entrò
colla permissione del popolo; e persuadente Cicerone, il senato
gli decretò una statua, e di poter salire console dieci anni prima
dell'età. Antonio, a capo d'altri fazionieri, si spinse nella Gallia
Cisalpina per toglierla a Decimo Bruto, adducendo che sconveniva il
lasciarla a un uccisore di Cesare, ma in fatto perchè sentiva quanto
fosse importante quel paese, donde congiuntosi a Lepido governatore
della Narbonese, e a Planco della Gallia Transalpina, si volterebbe
a minacciar Roma; e assediò il proconsole in Modena «fortissima e
splendidissima colonia del popolo romano»[270].
Il senato, che, come tutti gli atti di Cesare, aveva confermato quel
comando a Decimo Bruto, guardò quest'impresa per un atto ostile,
e dall'animosità di Cicerone, che esagerava e i vizj privati e
l'ambizione di Antonio, e mostrava codardo e pericoloso qualunque
tentativo di conciliazione, si lasciò spingere a troncare ogni accordo,
chiarir nemici il console Antonio e il collega Dolabella creatura di
lui, che in Asia aveva ucciso Cajo Tribonio, uno de' congiurati, ed
affidare la punizione del primo ad Ottaviano, dell'altro a Marco Bruto
e Cassio.
Adunque si bandiva guerra a cittadini romani, e si promoveva il futuro
tiranno della patria in nome della libertà: di questa mostravasi
infervorato Cicerone (43), che con eloquenza fatta
inesauribile dal nuovo pericolo, quattordici Filippiche animò d'ira e
di patriotismo[271]; di questa il senato; di questa tutti in parole,
nessuno in effetti.
Fortuna fu per Ottaviano che, garzone, anzi fanciullo come Cicerone
lo intitolava, nessun'ombra desse ai senatori, ai quali porgevasi
sommesso, nè al popolo, di cui professava tutelare i diritti; i diritti
cioè alle largizioni e ai testamenti, mentre ne invadeva i più sodi
e reali. Il senato adunque se ne volea servire come d'una bandiera,
che poi getterebbe a terra appena cessato di giovarsene: i soldati
stessi presero a volergli bene quantunque timido, quasi compiacendosi
di vedersi a lui necessarj. Egli si mostrava docile ad ogni cenno dei
nuovi consoli Irzio e Pansa (27 aprile) nella spedizione
della Gallia Cisalpina, ove tra Bologna e Modena sconfisse il prode
Antonio, e la morte de' due consoli (talmente opportuna, che gli fu
imputata) diedegli in mano le legioni, quindi il merito della vittoria
e il titolo d'imperatore; e il vulgo ad applaudire a lui e a Cicerone,
quali restitutori della libertà. Antonio ebbe però tempo di prendere la
via delle Alpi, presentissimo com'era ne' disastri; persuase, sedusse,
incoraggi; trasse a sè Lepido, che pur seguitava a protestarsi devoto
alla libertà e alla pace; e ventitre legioni e diecimila cavalli
incamminò verso l'Italia.
È sempre grande il numero di quelli che ne' capi desiderano la
debolezza per poterli dominare. Come Ottaviano cessò di parere
insufficiente, molti intravvidero le sue ambizioni, e come fosse
necessario che chiunque odiava Cesare e i suoi divisamenti si
stringesse ad una sola bandiera per impedire che altri gli attuasse.
Pertanto, dimenticatine l'orgoglio e i trasporti, Antonio fu
considerato come tutore della buona causa, e gli aristocratici negarono
ad Ottaviano l'ovazione ed il consolato. Ma egli diffidando delle
coloro interessate blandizie, erasi posto in grado di farne senza e
riuscire per forza. Lamentandosi dunque che il senato favorisse agli
assassini di suo padre, e tentasse distruggere un dopo l'altro i capi
degli eserciti, scrive amicamente a Lepido, Planco e Asinio Pollione;
rinvia ad Antonio varj uffiziali, fattigli prigionieri nell'ultima
battaglia; e — Venga, venga al più presto, e messa una pietra sul
passato, umilieremo insieme i nemici comuni; io col grosso esercito
parteggerò seco, affinchè gli amici di mio padre non siano distrutti
da' suoi assassini». Pensava insomma abbattere i repubblicani col mezzo
di que' soldati, salvo poi a disfarsi di questi.
Andato fin a Bologna incontro ad Antonio e Lepido, combinò con essi
per cinque anni un nuovo _triumvirato per ristabilire la repubblica_
(ottobre), in memoria di ciò fondando la colonia di Concordia
ne' Veneti; e senza consultare senato o popolo, fra sè spartirono
le provincie, conservando indivisa l'Italia. Ottaviano, a capo
dell'esercito, passa il Rubicone, entra in Roma, occupa il tesoro, e si
fa dichiarar console a voti unanimi: e subito processa i congiurati, e
inascoltati li condanna a perpetuo bando e alla confisca.
I repubblicanti eransi invigoriti in Oriente, ed era convenuto
che Antonio e Ottaviano andrebbero a osteggiarli, mentre Lepido
custodirebbe l'Italia; ma prima di movere ad opprimerli, bisognava
non lasciare nemici in casa, nè aperti nè nascosti. Già Decimo
Bruto, abbandonato dai soldati, era stato tradito da Antonio, che
il mandò a morte. I triumviri promisero che ciascun legionario, al
fine della guerra, toccherebbe cinquemila dramme, ciascun centurione
venticinquemila, ciascun tribuno il doppio; verrebbero distribuiti
in diciotto delle migliori città d'Italia, snidandone i prischi
possessori, fra le quali Reggio, Capua, Venosa, Nocera, Benevento,
Rimini, Mantova, Cremona.
Queste erano promesse: ma i soldati, ricordando Silla, e riprovando
la mansuetudine di Cesare, invocavano oro e sangue; sangue e oro
spasimavano i triumviri: onde, col pretesto di vendicare il dittatore
sopra la faziosa nobiltà, proscrissero trecento senatori e duemila
cavalieri, e spedirono a Roma alcune masnade col seguente decreto:
— Lepido, Antonio, Ottaviano, eletti triumviri a ripristinar la
repubblica, fanno sapere: se ai benefizj non si fosse risposto
coll'odio poi colle insidie, se quei che Cesare avea salvi e premiati
non lo avessero ucciso, noi pure vorremmo dimenticar le ingiurie di
coloro che ci dissero nemici della patria: ma chiariti che la costoro
malignità non può esser vinta, volemmo prevenirli, e non lasciar nemici
qua, mentre oltremare combattiamo i parricidi. Ma più clementi di
Silla, non colpiremo le moltitudini, nè tutti i ricchi e dignitarj,
ma solo i più iniqui; e perchè la licenza militare non confonda
gl'innocenti coi rei, qui divisiamo le persone da colpire. Sia dunque
colla buona ventura. Dei proscritti nessuno sia ricoverato nelle
case. Le loro teste ci sieno portate; e per ciascuna i liberi avranno
centomila sesterzj, i servi quarantamila e la libertà e i diritti
di cittadinanza. Egual premio ai rivelatori; e i nomi resteranno
segreti»[272].
Prima apparvero centrenta nomi, e subito la città fu riempita di sangue
e di costernazione: poi altri cencinquanta furono designati, poi altri.
L'esser ricco o sospetto di parteggiare coi congiurati bastava per
meritare la morte; fellonia il salvarne uno, merito il tradirlo; e
abbominandi esempj si videro di conculcata pietà domestica, di violate
amicizie, di clienti e schiavi che godevano vedersi ai piedi uomini
consolari, patroni e signori, chiedenti pietà, e poterla ad essi
negare. Una donna fa proscrivere il marito per isposarne un altro. Uno
assumeva il vestimento virile colla consueta festività, allorchè sulle
tavole si legge il nome di lui; e detto fatto il corteggio l'abbandona,
sua madre gli chiude la porta in faccia: riparatosi ai campi, è preso
da alcuni padroni di schiavi, e messo a tali fatiche, ch'e' preferisce
recare il suo capo ai manigoldi. Un pretore, mentre sollecita suffragi
per suo figlio, vede il proprio nome sulle tavole, onde ricovera
presso un amico: ma il figlio stesso vi conduce i satelliti, e n'è
ricompensato coll'eredità. Un altro assalito, implora un sol momento
per mandare suo figlio a chiedere pietà da Antonio, di cui era grande
amico; — Ma se è lui appunto che ti ha denunziato», gli si risponde.
Di rimpatto Cajo Geta salvò il padre dando voce fosse stato ucciso, e
spendendo ogni ben suo nell'esequiarlo.
Ad Anzio, Apulejo, Antistio, Tito Vinio, Quinto Vipsallione e ad altri
recò salvezza la coraggiosa fedeltà delle mogli. Acilio fu tradito
dai servi, ma la donna sua il ricomprò dando tutte le gioje: dando
l'onestà ricomprò il suo la moglie del senatore Caponio, vagheggiata
già da un pezzo da Antonio. Quella di Quinto Ligario, visto il marito
consegnato dagli schiavi e decollato, dichiarò ai triumviri d'averlo
tenuto nascosto, e perciò meritato il supplizio; e negatole per quanto
buttasse loro in volto la crudeltà, si lasciò morir di fame.
Gli schiavi di Menejo e di Appio si posero nel letto dei padroni,
lasciandosi trucidare invece di questi (43): altri vestiti
da littori accompagnarono Pomponio, che, fingendosi un pretore mandato
in provincia, salvossi in Sicilia: altri con Irzio, Apulejo ed Arunzio
opposero forza a forza: Papio, sannita ottagenario, si bruciò colla
propria casa: alcuni colle spade s'aprirono il passo fin al mare. Un
fanciullo, mentre andava a scuola col precettore, è arrestato da'
sicarj, e il precettore si fa uccidere difendendolo. Uno, fatto da
Restio bollare in fronte per fuggiasco, venne al nascosto padrone,
e poichè lo vide pauroso d'esserne tradito, — Pensate voi (disse)
che il marchio mi stia fisso sulla fronte più che nel cuore i favori
ricevuti?» e ridottolo in salvo, più giorni il mantenne delle sue
fatiche; poi vedendo i sicarj ronzare in quel dintorno, piomba sopra
un passeggiero, gli mozza il capo, e recandolo a quei cagnotti,
ed accennando le cicatrici della propria fronte, dice: — Eccomi
vendicato», lasciando credere avesse ucciso il padrone, il quale
dall'inumana gratitudine campato, potè giungere al mare.
Non era furor di partiti quella proscrizione, non ispirata da
alto scopo, ma puramente per denaro e basse passioni. I triumviri
sacrificarono l'un all'altro un particolare amico, onde farsi
abbandonare i particolari nemici. Lepido tradì agli sgozzatori il
proprio fratello Emilio Paolo. Ottaviano, per veder morto Lucio Cesare
zio di Antonio, permise a questo di sfogare il lungo astio contro
Cicerone; ma Giulia, madre di Antonio, salvò Lucio Cesare ponendosi
avanti alla camera ove l'avea nascosto, e gridando ai soldati: — Non
giungerete a lui che uccidendo me, me madre del vostro generale»; poi
corsa al tribunale, ove suo figlio sedeva colle teste sanguinose da un
lato, e in mano l'oro da pagarle, gli intimò che o salvasse lo zio, od
uccidesse lei pure, rea d'averlo campato.
Cicerone, (43) udito nella villa di Tusculo la condanna
propria e del fratello Quinto, pensò camparsi con questo in Macedonia
presso i repubblicanti. Ma Quinto non era uscito ancora di casa quando
i satelliti sopravvennero, che cercatolo invano, presero suo figlio, e
lo torturavano perchè rivelasse il nascondiglio paterno. Il giovinetto
non parlava: ma le grida strappategli dal tormento straziavano il
padre, che si consegnò per risparmiare il magnanimo figliuolo. I
manigoldi li uccisero entrambi, uno perchè proscritto, l'altro perchè
disobbediente.
Cicerone era riuscito ad imbarcarsi: ma poi, o dubbioso o timido o
confidando più in Ottaviano suo protetto che in Cassio e Bruto da lui
abbandonati, si fece rimettere a terra a Circeo, e riprese la via di
Roma: poi esitando fra diverse paure, ripiegò verso il mare, (7 xbre) ondeggiando fra l'idea d'uccidersi, di affidarsi ad Ottaviano,
o di rifuggire in un tempio. Intanto sopraggiunto presso Formia da
una banda, guidata dal centurione Erennio e dal colonnello Popilio
Lena, che altre volte egli aveva difeso di parricidio, fu indicato
dal liberto Filologo. I servi disponeansi a proteggerlo coll'armi, ma
egli: — No, obbediamo al destino; non si versi sangue più di quello
che i numi dimandano»; e senza frasi, e col coraggio che fu l'ultima e
la men rara virtù de' Romani, sporse la testa dalla lettiga, dicendo a
Popilio: — Qua, veterano; mostra come sai ferire».
Il capo suo e la destra mano furono portate ad Antonio: e questo, che,
vivo lui, non credea potersi dire sicuro della tirannide, esclamò:
— Ecco finite le proscrizioni; deponete ormai la tema, o Romani»;
contemplò con selvaggia compiacenza quel teschio, poi l'inviò a Fulvia
moglie sua, già moglie di Clodio. Costei avea chiesto ad Antonio il
capo d'uno che ricusò venderle la propria casa; e ottenutolo, il fece
configgere sulla casa stessa, acciocchè niuno ne ignorasse il vero
reato. Veduto lo spento viso di Cicerone, atrocemente schernì il nemico
de' suoi mariti, e ne traforò la lingua con uno spillone; indi quel
teschio e la mano furono collocati sulla ringhiera, donde egli avea le
tante volte strascinato la volontà della moltitudine.
Accanto, qual altra destra è confitta? quella di Verre: l'accusato
presso l'accusatore in quella terribile eguaglianza che i padri nostri
hanno spesso veduta nella Rivoluzione francese. Esulato ventiquattro
anni, Verre profittò dell'amnistia di Cesare per tornare: Antonio il
richiese di certi vasi corintj, strascico degli antichi latrocinj;
avutone rifiuto, lo scriveva sulle tavole, e uno scellerato puniva
scelleraggini contro cui si era spuntata la legge.
Benchè in quella proscrizione, atroce più dell'altre, fosse perfino
ordinato di gioire delle commesse crudeltà, Cicerone fu pianto dai
senatori e dal popolo: Antonio stesso, per una spietata riparazione,
consegnò il liberto delatore a Sempronia vedova di esso, la quale,
dopo squisiti tormenti, lo obbligò a recidersi da se stesso brani della
propria carne, cuocerli e mangiarseli. Ottaviano dovette sentirne, se
non rimorso, indelebile vergogna: nessuno osava con lui nominarlo;
Orazio, lodatore universale, non fa pur motto di Cicerone; Virgilio
rammentando le glorie romane, cede alla Grecia il vanto di perorar le
cause meglio. Un nipote di Ottaviano, sorpreso un giorno da questo
colle opere di Tullio alla mano, tentò nasconderle; ma egli, preso
il libro e scorse alquante pagine, glielo restituì dicendo: — Fu
grand'uomo ed amante la patria».
Queste dimostrazioni dell'insolente Antonio e dell'atroce Ottaviano
erano tributi resi all'opinione pubblica, le cui grida obbligarono
gl'inumani triumviri a punire due schiavi traditori dei loro padroni, e
premiare uno che avea salvato il suo. Molti proscritti furono protetti
dalla plebe: Oppio, che avea portato suo padre in ispalla fin allo
stretto ove imbarcarlo per la Sicilia, fu revocato, ed essendo concorso
all'edilità, il popolo si esibì a sostenere le spese degli spettacoli
che quella carica portava, e gli offerse quanto dodici volte il valore
dei beni confiscatigli.
Se dunque a tale abisso di mali potea sperarsi riparo, se una dottrina
doveva redimere l'immensa corruzione romana, non era ad aspettarsi dai
palagi o dalle scuole, non dal coltello d'aristocratici, ma dal vulgo,
dagl'ignoranti, dai poveri di spirito; e di là sonò.
Que' territoristi s'inebbriavano nel delitto; ed i loro guerrieri,
dalla strage e dal saccheggio irritati al saccheggio e alla strage,
ardirono fin chiedere ad Ottaviano i beni di sua madre, morta allora.
Ma la proscrizione, il rapire quant'oro od argento si trovasse monetato
o in vasi, e le somme deposte nelle sacre mani delle Vestali, non
aveano prodotto gli ottocento milioni di sesterzj, occorrenti alle
spese della guerra: onde i triumviri imposero una contribuzione a mille
quattrocento delle più ricche dame, parenti de' proscritti. Esse non
tralasciarono via alcuna per esimersene: da ultimo si presentarono
al tribunale de' triumviri, dove Ortensia, figliuola dell'oratore, a
nome di tutte espose quanto fosse iniquo l'avvilupparle nella colpa
dei parenti e nelle civili dissensioni, fra le quali nè Mario nè
Pompeo nè Cesare avevanle obbligate a patteggiare; e — Ben seppero
le donne offrir altre volte i loro giojelli per salvare la patria da
Annibale; ma ora sovrastano forse i Parti? forse i Galli? E son queste
le guise con cui voi aspirate al titolo glorioso di riformatori della
repubblica?»
A quella sicurezza di ragioni i triumviri opposero la forza de'
littori: ma il popolo fremette all'indegnità, sostenne le donne; la
multa fu applicata a sole quattrocento, alle altre surrogando centomila
uomini, tassati smisuratamente. Gli esattori armati trascorsero a tali
violenze, che i triumviri dovettero imporre al console di reprimerle:
ma questo, nulla osando contro i terribili legionarj, s'accontentò di
far crocifiggere qualche schiavo.
Satolli di sangue e d'oro, i triumviri raccolsero i senatori
sopravissuti, e dichiararono finita la proscrizione: solo Ottaviano,
cui il titolo di vindice di Cesare esimeva dalla compassione,
dall'umanità la vigliaccheria, dichiarò riserbavasi di punire
qualc'altro. Poi, senza domandarne il popolo, designarono i consoli per
l'anno vegnente, pretori e edili per molto tempo, acciocchè, assenti
loro, queste cariche non sortissero a persone mal affette. Ripartitosi
l'oro e i soldati, e lasciando a Roma Lepido come console, Ottaviano
mosse per Brindisi, Antonio per Reggio, affine di recare in Oriente
l'ordine e la pace che avevano in Italia stabilita.
In Oriente dunque tornavasi a competere la dominazione del mondo,
come già tra Cesare e Pompeo. Cassio e Bruto, non secondati dal
popolo romano, s'erano ricoverati ad Anzio, e il senato, volendo pure
appoggiarli, (44) affidò loro la commissione di mandar biade
alla città, Bruto dall'Asia, Cassio dalla Sicilia; il che porgeva
loro un mezzo di amicarsi i governatori delle provincie, e di poter
raccogliere navi. Ma attraversati dai fautori d'Ottaviano, passarono
in Grecia; e Bruto staccatosi da Porzia, la quale virilmente sopportò
anche quel dolore[273], approdò ad Atene.
Classica era colà l'ammirazione dei tirannicidi, onde fu accolto con
gran festa; ebbe una statua fra quelle d'Armodio ed Aristogitone; si
deliziava alle scuole dei filosofi, e cattivavasi la gioventù romana
che vi stava a studio. Trasse dalla sua l'esercito di Macedonia
(44); fece leve per tutte le città di Grecia, che a molti
Romani scontenti aveano aperto ricovero; s'appropriò i tributi spediti
dall'Asia, e le armi adunate da Cesare in Tessaglia contro i Parti; e
colle diserzioni e colle reliquie de' Pompejani ingrossato l'esercito,
lo confortò con qualche vittoria. In una di queste, avuto prigioniero
Cajo Antonio fratello del suo nemico, non che ucciderlo come il
consigliavano Cicerone e la prudenza, l'onorò, e quando s'accorse
ch'e' macchinava nel campo, non fece che metterlo in custodia sopra
un vascello; e sol dopo udita la morte di Cicerone, permise che
l'irrequieto venisse ucciso. Ai legionarj sediziosi perdonò, sebbene
stesse ancora nel forte del pericolo. Chiesto di venire a patti con
Ottaviano, rispondeva: — Gli Dei mi tolgano ogni cosa, prima della
ferma risoluzione di non concedere all'erede di quel che uccisi ciò che
non comportai in questo, e che non comporterei tampoco in mio padre se
rivivesse; d'avere, per la sofferenza mia, maggior potenza che le leggi
ed il senato».
Affidato dai primi successi, il senato (43) decretò a Bruto
la Macedonia, l'Illiria e la Grecia come a proconsole, facendo autorità
a lui ed a Cassio di valersi del denaro pubblico, e farsi assistere
dalle provincie e dagli alleati. Cassio, passato nell'Asia, mosse
contro Dolabella, che a malgrado del senato aveva dal popolo ottenuta
la Siria, e che assediato in Laodicea, si fece uccidere con alcuni
primarj uffiziali; gli altri ebbero da Cassio perdono, compassione gli
estinti; la città fu posta a sacco e a taglia, la Siria in soggezione.
Questi due repubblicanti adunque fuggiti ignudi da Roma, trovavansi in
obbedienza estese provincie, venti legioni, e poteano tener testa ai
triumviri: tanto più che Sesto Pompeo, uscito dal suo nascondiglio,
erasi fatto capo di pirati, e coll'autorità del senato s'impadroniva
delle isole.
Ma come condurre una rivoluzione senza crudeltà? Cassio, per mantenere
l'esercito o punire avversarj, mandò ad uccidere Ariobarzane re di
Cappadocia, e tassò enormemente quel regno; a Tarso impose mille
cinquecento talenti, raccogliendoli dal vendere i terreni pubblici,
gli ornamenti del tempio, poi i fanciulli, le donne, i vecchi, persino
garzoni atti alle armi. Da Rodi, vinta più volte, in fine presa, gli fu
esibito il titolo di re, ch'egli sdegnosamente rifiutò, dicendo esser
anzi suo assunto di distruggere i re ed i tiranni: e cinquanta primarj
cittadini mandò a morte, altri all'esiglio, tutto il paese a ruba:
infine obbligò tutte le provincie d'Asia ad anticipare il tributo di
dieci anni.
Intanto Bruto invase la Licia che gli aveva negato soccorsi, e assediò
Xanto, ove il fior del paese ricusava ogni accomodamento proposto da
lui, benchè egli avesse persin rilasciati senza riscatto i prigionieri.
La città fortissima con eroica ostinazione si difese; e quando i Romani
penetrarono di forza, gli abitanti appiccarono il fuoco, trucidarono
donne, fanciulli, schiavi, poi si avventarono nelle fiamme. Bruto,
promettendo un regalo a chiunque salvasse uno Xantio, non campò che
alquanti schiavi e donne le quali non avessero un marito da ucciderle.
Poi coll'esempio di Xanto e colle cortesie tentò indurre la città di
Pàtara alla sua amicizia, esibendo anche cederle i cittadini presi
di quella: ricusato, cominciò a mettere gli Xantj all'incanto, ma
non gli reggendo il cuore di condannare a perpetua servitù così prodi
guerrieri, li restituì in libertà. Avendo poi i suoi corridori côlte
alcune donne pataresi, le rimandò senz'altro; ond'esse persuasero i
cittadini a sottomettersi.
Dalla Licia Bruto entrò nella Jonia e fece scannare il retore Teodoto,
che si vantava consigliatore della morte di Pompeo. A Sardi si
ricongiunse con Cassio; nè gli dissimulò il suo scontento, perocchè,
mentre egli volea mantenere stretta giustizia, l'altro vi sorpassava
ogniqualvolta convenisse, chiudeva gli occhi sulle iniquità dei suoi
amici. — Neppur Cesare opprimeva nessuno (dicea Bruto), ma era reo
di proteggere gli oppressori. Che se mai fosse permesso mancare alla
giustizia, tornerebbe meglio soffrire le iniquità de' fautori di
Cesare, che permetterle agli amici nostri».
Quell'anima generosamente illusa, quanto dovea soffrire a queste
vessazioni, o allorchè i soldati suoi lo costringevano ad uccidere
qualche turbolento, o nel contemplare gli orrori d'una guerra civile
nascere da un fatto ch'egli reputava non solo glorioso, ma giusto,
e che si protestava pronto a rinnovare! Dalla stomachevole realtà
rifuggiva nell'ideale dello stoicismo; ma l'immaginazione perturbata
gli presentava fantasmi e il maligno suo genio che minacciava disastri:
onde, comunque il confortasse o lo deridesse l'epicureo Cassio, egli
pieno di apprensioni per la patria, per gli amici, per la causa,
sentendo avere sacrificato l'umanità, la gratitudine, fin la coscienza,
invocava la fine d'una lotta, a cui non reggeva il suo vigore di
filosofo e di cittadino.
I due capi repubblicani sentivano che solo in Italia potea difendersi
la causa italiana: laonde, padroni delle provincie d'Oriente
dall'Olimpo all'Eufrate, risolsero farsi incontro ad Antonio ed
Ottaviano (42); e incoraggiato l'esercito con discorsi,
sagrifizj e largizioni, tragittato l'Ellesponto, menarono ottantamila
fanti e duemila cavalli nella Macedonia, e nelle vicinanze di Filippi
si trovarono a fronte l'inimico. Forze quasi eguali, ma più vistoso
l'esercito repubblicano; e l'abilità dei generali, la padronanza dei
mari, per cui ai triumviri intercettava i viveri e i rinforzi, potevano
dargli vittoria, se, giusta il parere di Cassio, si fosse evitata la
battaglia, costringendo i triumviri a sloggiare per fame. Ma Bruto
anelava di metter un fine a sì diuturne miserie del popolo; bisognoso
dell'altrui approvazione, non reggeva alle accuse di timidità, e temeva
la diserzione de' soldati, cui gli antichi commilitoni rinfacciavano di
servire agli assassini del loro generale. Il sajo rosso sventolò dunque
sul padiglione dei generali, accintisi alla giornata non tanto colla
fiducia di vincere, quanto coll'espressa risoluzione di non sopravivere
alla sconfitta.
Bruto, ragionando quanto sia dolce l'acquistar la libertà, e decoroso
il morire per la patria, tanto infervorò i suoi, che con impeto
avventatisi sui nemici, penetrarono fin nel campo d'Ottaviano, e ne
bersagliarono la lettiga a dardi e giavellotti, sicchè fu creduto
ucciso; ma la lettiga era vuota (42), avendo sinistri sogni
allontanato il triumviro dalla pugna. Antonio accorso al riparo,
disfece l'ala di Cassio, indarno valorosissimo; il quale da una
collina mirando lo sterminio de' suoi e credendo ogni cosa perduta, si
uccise. Bruto sopragiunto trionfante, pianse il collega, qualificandolo
_l'ultimo dei Romani_; e si pose in luogo da poter aspettare che il
nemico andasse a fasci. Perocchè già la flotta era stata battuta
affatto, talchè nessun sussidio poteano aspettarne i triumviri,
accampati fra i pantani dello Strimone, dove pullulavano le malattie,
e scarseggiavano i viveri. Non avendo dunque speranza che nella
battaglia, provocavano con incessanti avvisaglie i soldati di Bruto, i
legati, gliene ridomanda il denaro; e perchè Antonio lo mena a belle
parole, e' vende case, terre, tutto il proprio patrimonio, dichiarando
accettava l'eredità soltanto per non defraudare tante famiglie dei
pingui lasciti dello zio: e così versa tant'odio sopra Antonio, quanto
amore a sè procaccia.
E già i rancori trapelano: Ottaviano scredita Antonio quasi perfidiasse
alle intenzioni ed alla causa di Cesare; Antonio taccia l'altro
di garzone temerario, imprudente, sedizioso: Ottaviano, per quanto
desiderasse vendicare il prozio, non soffriva di vedere Antonio a capo
d'un partito che il potesse rendere arbitro della repubblica; Antonio,
fingendosi vindice di Cesare per ingrazianire il popolo e i soldati,
agognava al poter sovrano. I senatori che favorivano i congiurati
come restauratori della prisca libertà, ridevano di que' dissensi che
fiaccherebbero i Cesariani.
Bruto, alzando il pugnale con cui avea trafitto Cesare, aveva
esclamato: — Eccoti, o Cicerone, vendicata la repubblica», quasi
volesse acquistar credito col mostrarsi appoggiato dal voto
dell'uccisore di Catilina; ma in fatto temendo che o pavido guastasse
o presuntuoso volesse dirigere, nulla si era comunicato della congiura
a Cicerone. Questi, che sì pomposamente avea magnificato la clemenza
di Cesare, e assicuratolo che nessun mai oserebbe attentare alla vita
di lui, o tutti i petti de' senatori gli sarebbero di scudo[265], or
ripetutamente querelasi di non essere stato convitato al _bellissimo
banchetto_ degli idi di marzo, massime perchè avrebbe persuaso a
tôr di mezzo anche Antonio[266], contro del quale allora scrisse
le Filippiche; professava aver esultato nel vedere quell'uccisione
in senato[267]; ma una rivoluzione non preparata, non condotta da
lui andavagli poco a garbo, e colla solita oscillazione non tardò
a mostrarsene nojato, e dire: — L'albero è abbattuto, sussistono le
radici». Come poi Ottaviano andò in villa a fargli visita e lo chiamò
padre, egli ne sposò a fronte aperta la causa, disse che i congiurati
avevano finito con coraggio d'eroi un'impresa da fanciulli, e per
avversione ad Antonio si diede a sorreggere il giovane, e in senato
diceva: — Prometto, assicuro, garantisco che Ottaviano sarà sempre
tal cittadino, quale oggi è, e quale la patria il desidera»[268].
Bruto ne mosse querela, e — Non è un padrone che Tullio tema, ma un
padrone che non lo careggi; mentre gli avi non soffrivano la servitù,
comunque dolce»; e gli scriveva: — Tu, scalzando Antonio, non tendi che
a consolidare Ottaviano: aborrisci la guerra civile, e non una pace
infame»; e ad Attico: — L'eminente ingegno di Tullio come posso io
stimarlo, se così poco seppe mettere in pratica ciò che aveva scritto
a proposito della libertà della patria, del vero onore, della morte
e dell'esiglio? morte, esiglio, povertà, pajono gran mali a Tullio; e
purchè egli abbia il suo desiderio, e si veda riverito e lodato, non
teme una servitù onorata, quasi l'onore potesse conciliarsi con cosa
tanto infame com'è la servitù . . . Quanto a me, non ho risolto se
farò guerra o manterrò la pace: ma o l'una o l'altra, servo non sarò
giammai»[269].
Evitare la guerra civile più non stava in lui. (43)
Ottaviano, raccolti nella Campania diecimila veterani, e accostatosi
a Roma sotto ombra di proteggerla dal console ambizioso, vi entrò
colla permissione del popolo; e persuadente Cicerone, il senato
gli decretò una statua, e di poter salire console dieci anni prima
dell'età. Antonio, a capo d'altri fazionieri, si spinse nella Gallia
Cisalpina per toglierla a Decimo Bruto, adducendo che sconveniva il
lasciarla a un uccisore di Cesare, ma in fatto perchè sentiva quanto
fosse importante quel paese, donde congiuntosi a Lepido governatore
della Narbonese, e a Planco della Gallia Transalpina, si volterebbe
a minacciar Roma; e assediò il proconsole in Modena «fortissima e
splendidissima colonia del popolo romano»[270].
Il senato, che, come tutti gli atti di Cesare, aveva confermato quel
comando a Decimo Bruto, guardò quest'impresa per un atto ostile,
e dall'animosità di Cicerone, che esagerava e i vizj privati e
l'ambizione di Antonio, e mostrava codardo e pericoloso qualunque
tentativo di conciliazione, si lasciò spingere a troncare ogni accordo,
chiarir nemici il console Antonio e il collega Dolabella creatura di
lui, che in Asia aveva ucciso Cajo Tribonio, uno de' congiurati, ed
affidare la punizione del primo ad Ottaviano, dell'altro a Marco Bruto
e Cassio.
Adunque si bandiva guerra a cittadini romani, e si promoveva il futuro
tiranno della patria in nome della libertà: di questa mostravasi
infervorato Cicerone (43), che con eloquenza fatta
inesauribile dal nuovo pericolo, quattordici Filippiche animò d'ira e
di patriotismo[271]; di questa il senato; di questa tutti in parole,
nessuno in effetti.
Fortuna fu per Ottaviano che, garzone, anzi fanciullo come Cicerone
lo intitolava, nessun'ombra desse ai senatori, ai quali porgevasi
sommesso, nè al popolo, di cui professava tutelare i diritti; i diritti
cioè alle largizioni e ai testamenti, mentre ne invadeva i più sodi
e reali. Il senato adunque se ne volea servire come d'una bandiera,
che poi getterebbe a terra appena cessato di giovarsene: i soldati
stessi presero a volergli bene quantunque timido, quasi compiacendosi
di vedersi a lui necessarj. Egli si mostrava docile ad ogni cenno dei
nuovi consoli Irzio e Pansa (27 aprile) nella spedizione
della Gallia Cisalpina, ove tra Bologna e Modena sconfisse il prode
Antonio, e la morte de' due consoli (talmente opportuna, che gli fu
imputata) diedegli in mano le legioni, quindi il merito della vittoria
e il titolo d'imperatore; e il vulgo ad applaudire a lui e a Cicerone,
quali restitutori della libertà. Antonio ebbe però tempo di prendere la
via delle Alpi, presentissimo com'era ne' disastri; persuase, sedusse,
incoraggi; trasse a sè Lepido, che pur seguitava a protestarsi devoto
alla libertà e alla pace; e ventitre legioni e diecimila cavalli
incamminò verso l'Italia.
È sempre grande il numero di quelli che ne' capi desiderano la
debolezza per poterli dominare. Come Ottaviano cessò di parere
insufficiente, molti intravvidero le sue ambizioni, e come fosse
necessario che chiunque odiava Cesare e i suoi divisamenti si
stringesse ad una sola bandiera per impedire che altri gli attuasse.
Pertanto, dimenticatine l'orgoglio e i trasporti, Antonio fu
considerato come tutore della buona causa, e gli aristocratici negarono
ad Ottaviano l'ovazione ed il consolato. Ma egli diffidando delle
coloro interessate blandizie, erasi posto in grado di farne senza e
riuscire per forza. Lamentandosi dunque che il senato favorisse agli
assassini di suo padre, e tentasse distruggere un dopo l'altro i capi
degli eserciti, scrive amicamente a Lepido, Planco e Asinio Pollione;
rinvia ad Antonio varj uffiziali, fattigli prigionieri nell'ultima
battaglia; e — Venga, venga al più presto, e messa una pietra sul
passato, umilieremo insieme i nemici comuni; io col grosso esercito
parteggerò seco, affinchè gli amici di mio padre non siano distrutti
da' suoi assassini». Pensava insomma abbattere i repubblicani col mezzo
di que' soldati, salvo poi a disfarsi di questi.
Andato fin a Bologna incontro ad Antonio e Lepido, combinò con essi
per cinque anni un nuovo _triumvirato per ristabilire la repubblica_
(ottobre), in memoria di ciò fondando la colonia di Concordia
ne' Veneti; e senza consultare senato o popolo, fra sè spartirono
le provincie, conservando indivisa l'Italia. Ottaviano, a capo
dell'esercito, passa il Rubicone, entra in Roma, occupa il tesoro, e si
fa dichiarar console a voti unanimi: e subito processa i congiurati, e
inascoltati li condanna a perpetuo bando e alla confisca.
I repubblicanti eransi invigoriti in Oriente, ed era convenuto
che Antonio e Ottaviano andrebbero a osteggiarli, mentre Lepido
custodirebbe l'Italia; ma prima di movere ad opprimerli, bisognava
non lasciare nemici in casa, nè aperti nè nascosti. Già Decimo
Bruto, abbandonato dai soldati, era stato tradito da Antonio, che
il mandò a morte. I triumviri promisero che ciascun legionario, al
fine della guerra, toccherebbe cinquemila dramme, ciascun centurione
venticinquemila, ciascun tribuno il doppio; verrebbero distribuiti
in diciotto delle migliori città d'Italia, snidandone i prischi
possessori, fra le quali Reggio, Capua, Venosa, Nocera, Benevento,
Rimini, Mantova, Cremona.
Queste erano promesse: ma i soldati, ricordando Silla, e riprovando
la mansuetudine di Cesare, invocavano oro e sangue; sangue e oro
spasimavano i triumviri: onde, col pretesto di vendicare il dittatore
sopra la faziosa nobiltà, proscrissero trecento senatori e duemila
cavalieri, e spedirono a Roma alcune masnade col seguente decreto:
— Lepido, Antonio, Ottaviano, eletti triumviri a ripristinar la
repubblica, fanno sapere: se ai benefizj non si fosse risposto
coll'odio poi colle insidie, se quei che Cesare avea salvi e premiati
non lo avessero ucciso, noi pure vorremmo dimenticar le ingiurie di
coloro che ci dissero nemici della patria: ma chiariti che la costoro
malignità non può esser vinta, volemmo prevenirli, e non lasciar nemici
qua, mentre oltremare combattiamo i parricidi. Ma più clementi di
Silla, non colpiremo le moltitudini, nè tutti i ricchi e dignitarj,
ma solo i più iniqui; e perchè la licenza militare non confonda
gl'innocenti coi rei, qui divisiamo le persone da colpire. Sia dunque
colla buona ventura. Dei proscritti nessuno sia ricoverato nelle
case. Le loro teste ci sieno portate; e per ciascuna i liberi avranno
centomila sesterzj, i servi quarantamila e la libertà e i diritti
di cittadinanza. Egual premio ai rivelatori; e i nomi resteranno
segreti»[272].
Prima apparvero centrenta nomi, e subito la città fu riempita di sangue
e di costernazione: poi altri cencinquanta furono designati, poi altri.
L'esser ricco o sospetto di parteggiare coi congiurati bastava per
meritare la morte; fellonia il salvarne uno, merito il tradirlo; e
abbominandi esempj si videro di conculcata pietà domestica, di violate
amicizie, di clienti e schiavi che godevano vedersi ai piedi uomini
consolari, patroni e signori, chiedenti pietà, e poterla ad essi
negare. Una donna fa proscrivere il marito per isposarne un altro. Uno
assumeva il vestimento virile colla consueta festività, allorchè sulle
tavole si legge il nome di lui; e detto fatto il corteggio l'abbandona,
sua madre gli chiude la porta in faccia: riparatosi ai campi, è preso
da alcuni padroni di schiavi, e messo a tali fatiche, ch'e' preferisce
recare il suo capo ai manigoldi. Un pretore, mentre sollecita suffragi
per suo figlio, vede il proprio nome sulle tavole, onde ricovera
presso un amico: ma il figlio stesso vi conduce i satelliti, e n'è
ricompensato coll'eredità. Un altro assalito, implora un sol momento
per mandare suo figlio a chiedere pietà da Antonio, di cui era grande
amico; — Ma se è lui appunto che ti ha denunziato», gli si risponde.
Di rimpatto Cajo Geta salvò il padre dando voce fosse stato ucciso, e
spendendo ogni ben suo nell'esequiarlo.
Ad Anzio, Apulejo, Antistio, Tito Vinio, Quinto Vipsallione e ad altri
recò salvezza la coraggiosa fedeltà delle mogli. Acilio fu tradito
dai servi, ma la donna sua il ricomprò dando tutte le gioje: dando
l'onestà ricomprò il suo la moglie del senatore Caponio, vagheggiata
già da un pezzo da Antonio. Quella di Quinto Ligario, visto il marito
consegnato dagli schiavi e decollato, dichiarò ai triumviri d'averlo
tenuto nascosto, e perciò meritato il supplizio; e negatole per quanto
buttasse loro in volto la crudeltà, si lasciò morir di fame.
Gli schiavi di Menejo e di Appio si posero nel letto dei padroni,
lasciandosi trucidare invece di questi (43): altri vestiti
da littori accompagnarono Pomponio, che, fingendosi un pretore mandato
in provincia, salvossi in Sicilia: altri con Irzio, Apulejo ed Arunzio
opposero forza a forza: Papio, sannita ottagenario, si bruciò colla
propria casa: alcuni colle spade s'aprirono il passo fin al mare. Un
fanciullo, mentre andava a scuola col precettore, è arrestato da'
sicarj, e il precettore si fa uccidere difendendolo. Uno, fatto da
Restio bollare in fronte per fuggiasco, venne al nascosto padrone,
e poichè lo vide pauroso d'esserne tradito, — Pensate voi (disse)
che il marchio mi stia fisso sulla fronte più che nel cuore i favori
ricevuti?» e ridottolo in salvo, più giorni il mantenne delle sue
fatiche; poi vedendo i sicarj ronzare in quel dintorno, piomba sopra
un passeggiero, gli mozza il capo, e recandolo a quei cagnotti,
ed accennando le cicatrici della propria fronte, dice: — Eccomi
vendicato», lasciando credere avesse ucciso il padrone, il quale
dall'inumana gratitudine campato, potè giungere al mare.
Non era furor di partiti quella proscrizione, non ispirata da
alto scopo, ma puramente per denaro e basse passioni. I triumviri
sacrificarono l'un all'altro un particolare amico, onde farsi
abbandonare i particolari nemici. Lepido tradì agli sgozzatori il
proprio fratello Emilio Paolo. Ottaviano, per veder morto Lucio Cesare
zio di Antonio, permise a questo di sfogare il lungo astio contro
Cicerone; ma Giulia, madre di Antonio, salvò Lucio Cesare ponendosi
avanti alla camera ove l'avea nascosto, e gridando ai soldati: — Non
giungerete a lui che uccidendo me, me madre del vostro generale»; poi
corsa al tribunale, ove suo figlio sedeva colle teste sanguinose da un
lato, e in mano l'oro da pagarle, gli intimò che o salvasse lo zio, od
uccidesse lei pure, rea d'averlo campato.
Cicerone, (43) udito nella villa di Tusculo la condanna
propria e del fratello Quinto, pensò camparsi con questo in Macedonia
presso i repubblicanti. Ma Quinto non era uscito ancora di casa quando
i satelliti sopravvennero, che cercatolo invano, presero suo figlio, e
lo torturavano perchè rivelasse il nascondiglio paterno. Il giovinetto
non parlava: ma le grida strappategli dal tormento straziavano il
padre, che si consegnò per risparmiare il magnanimo figliuolo. I
manigoldi li uccisero entrambi, uno perchè proscritto, l'altro perchè
disobbediente.
Cicerone era riuscito ad imbarcarsi: ma poi, o dubbioso o timido o
confidando più in Ottaviano suo protetto che in Cassio e Bruto da lui
abbandonati, si fece rimettere a terra a Circeo, e riprese la via di
Roma: poi esitando fra diverse paure, ripiegò verso il mare, (7 xbre) ondeggiando fra l'idea d'uccidersi, di affidarsi ad Ottaviano,
o di rifuggire in un tempio. Intanto sopraggiunto presso Formia da
una banda, guidata dal centurione Erennio e dal colonnello Popilio
Lena, che altre volte egli aveva difeso di parricidio, fu indicato
dal liberto Filologo. I servi disponeansi a proteggerlo coll'armi, ma
egli: — No, obbediamo al destino; non si versi sangue più di quello
che i numi dimandano»; e senza frasi, e col coraggio che fu l'ultima e
la men rara virtù de' Romani, sporse la testa dalla lettiga, dicendo a
Popilio: — Qua, veterano; mostra come sai ferire».
Il capo suo e la destra mano furono portate ad Antonio: e questo, che,
vivo lui, non credea potersi dire sicuro della tirannide, esclamò:
— Ecco finite le proscrizioni; deponete ormai la tema, o Romani»;
contemplò con selvaggia compiacenza quel teschio, poi l'inviò a Fulvia
moglie sua, già moglie di Clodio. Costei avea chiesto ad Antonio il
capo d'uno che ricusò venderle la propria casa; e ottenutolo, il fece
configgere sulla casa stessa, acciocchè niuno ne ignorasse il vero
reato. Veduto lo spento viso di Cicerone, atrocemente schernì il nemico
de' suoi mariti, e ne traforò la lingua con uno spillone; indi quel
teschio e la mano furono collocati sulla ringhiera, donde egli avea le
tante volte strascinato la volontà della moltitudine.
Accanto, qual altra destra è confitta? quella di Verre: l'accusato
presso l'accusatore in quella terribile eguaglianza che i padri nostri
hanno spesso veduta nella Rivoluzione francese. Esulato ventiquattro
anni, Verre profittò dell'amnistia di Cesare per tornare: Antonio il
richiese di certi vasi corintj, strascico degli antichi latrocinj;
avutone rifiuto, lo scriveva sulle tavole, e uno scellerato puniva
scelleraggini contro cui si era spuntata la legge.
Benchè in quella proscrizione, atroce più dell'altre, fosse perfino
ordinato di gioire delle commesse crudeltà, Cicerone fu pianto dai
senatori e dal popolo: Antonio stesso, per una spietata riparazione,
consegnò il liberto delatore a Sempronia vedova di esso, la quale,
dopo squisiti tormenti, lo obbligò a recidersi da se stesso brani della
propria carne, cuocerli e mangiarseli. Ottaviano dovette sentirne, se
non rimorso, indelebile vergogna: nessuno osava con lui nominarlo;
Orazio, lodatore universale, non fa pur motto di Cicerone; Virgilio
rammentando le glorie romane, cede alla Grecia il vanto di perorar le
cause meglio. Un nipote di Ottaviano, sorpreso un giorno da questo
colle opere di Tullio alla mano, tentò nasconderle; ma egli, preso
il libro e scorse alquante pagine, glielo restituì dicendo: — Fu
grand'uomo ed amante la patria».
Queste dimostrazioni dell'insolente Antonio e dell'atroce Ottaviano
erano tributi resi all'opinione pubblica, le cui grida obbligarono
gl'inumani triumviri a punire due schiavi traditori dei loro padroni, e
premiare uno che avea salvato il suo. Molti proscritti furono protetti
dalla plebe: Oppio, che avea portato suo padre in ispalla fin allo
stretto ove imbarcarlo per la Sicilia, fu revocato, ed essendo concorso
all'edilità, il popolo si esibì a sostenere le spese degli spettacoli
che quella carica portava, e gli offerse quanto dodici volte il valore
dei beni confiscatigli.
Se dunque a tale abisso di mali potea sperarsi riparo, se una dottrina
doveva redimere l'immensa corruzione romana, non era ad aspettarsi dai
palagi o dalle scuole, non dal coltello d'aristocratici, ma dal vulgo,
dagl'ignoranti, dai poveri di spirito; e di là sonò.
Que' territoristi s'inebbriavano nel delitto; ed i loro guerrieri,
dalla strage e dal saccheggio irritati al saccheggio e alla strage,
ardirono fin chiedere ad Ottaviano i beni di sua madre, morta allora.
Ma la proscrizione, il rapire quant'oro od argento si trovasse monetato
o in vasi, e le somme deposte nelle sacre mani delle Vestali, non
aveano prodotto gli ottocento milioni di sesterzj, occorrenti alle
spese della guerra: onde i triumviri imposero una contribuzione a mille
quattrocento delle più ricche dame, parenti de' proscritti. Esse non
tralasciarono via alcuna per esimersene: da ultimo si presentarono
al tribunale de' triumviri, dove Ortensia, figliuola dell'oratore, a
nome di tutte espose quanto fosse iniquo l'avvilupparle nella colpa
dei parenti e nelle civili dissensioni, fra le quali nè Mario nè
Pompeo nè Cesare avevanle obbligate a patteggiare; e — Ben seppero
le donne offrir altre volte i loro giojelli per salvare la patria da
Annibale; ma ora sovrastano forse i Parti? forse i Galli? E son queste
le guise con cui voi aspirate al titolo glorioso di riformatori della
repubblica?»
A quella sicurezza di ragioni i triumviri opposero la forza de'
littori: ma il popolo fremette all'indegnità, sostenne le donne; la
multa fu applicata a sole quattrocento, alle altre surrogando centomila
uomini, tassati smisuratamente. Gli esattori armati trascorsero a tali
violenze, che i triumviri dovettero imporre al console di reprimerle:
ma questo, nulla osando contro i terribili legionarj, s'accontentò di
far crocifiggere qualche schiavo.
Satolli di sangue e d'oro, i triumviri raccolsero i senatori
sopravissuti, e dichiararono finita la proscrizione: solo Ottaviano,
cui il titolo di vindice di Cesare esimeva dalla compassione,
dall'umanità la vigliaccheria, dichiarò riserbavasi di punire
qualc'altro. Poi, senza domandarne il popolo, designarono i consoli per
l'anno vegnente, pretori e edili per molto tempo, acciocchè, assenti
loro, queste cariche non sortissero a persone mal affette. Ripartitosi
l'oro e i soldati, e lasciando a Roma Lepido come console, Ottaviano
mosse per Brindisi, Antonio per Reggio, affine di recare in Oriente
l'ordine e la pace che avevano in Italia stabilita.
In Oriente dunque tornavasi a competere la dominazione del mondo,
come già tra Cesare e Pompeo. Cassio e Bruto, non secondati dal
popolo romano, s'erano ricoverati ad Anzio, e il senato, volendo pure
appoggiarli, (44) affidò loro la commissione di mandar biade
alla città, Bruto dall'Asia, Cassio dalla Sicilia; il che porgeva
loro un mezzo di amicarsi i governatori delle provincie, e di poter
raccogliere navi. Ma attraversati dai fautori d'Ottaviano, passarono
in Grecia; e Bruto staccatosi da Porzia, la quale virilmente sopportò
anche quel dolore[273], approdò ad Atene.
Classica era colà l'ammirazione dei tirannicidi, onde fu accolto con
gran festa; ebbe una statua fra quelle d'Armodio ed Aristogitone; si
deliziava alle scuole dei filosofi, e cattivavasi la gioventù romana
che vi stava a studio. Trasse dalla sua l'esercito di Macedonia
(44); fece leve per tutte le città di Grecia, che a molti
Romani scontenti aveano aperto ricovero; s'appropriò i tributi spediti
dall'Asia, e le armi adunate da Cesare in Tessaglia contro i Parti; e
colle diserzioni e colle reliquie de' Pompejani ingrossato l'esercito,
lo confortò con qualche vittoria. In una di queste, avuto prigioniero
Cajo Antonio fratello del suo nemico, non che ucciderlo come il
consigliavano Cicerone e la prudenza, l'onorò, e quando s'accorse
ch'e' macchinava nel campo, non fece che metterlo in custodia sopra
un vascello; e sol dopo udita la morte di Cicerone, permise che
l'irrequieto venisse ucciso. Ai legionarj sediziosi perdonò, sebbene
stesse ancora nel forte del pericolo. Chiesto di venire a patti con
Ottaviano, rispondeva: — Gli Dei mi tolgano ogni cosa, prima della
ferma risoluzione di non concedere all'erede di quel che uccisi ciò che
non comportai in questo, e che non comporterei tampoco in mio padre se
rivivesse; d'avere, per la sofferenza mia, maggior potenza che le leggi
ed il senato».
Affidato dai primi successi, il senato (43) decretò a Bruto
la Macedonia, l'Illiria e la Grecia come a proconsole, facendo autorità
a lui ed a Cassio di valersi del denaro pubblico, e farsi assistere
dalle provincie e dagli alleati. Cassio, passato nell'Asia, mosse
contro Dolabella, che a malgrado del senato aveva dal popolo ottenuta
la Siria, e che assediato in Laodicea, si fece uccidere con alcuni
primarj uffiziali; gli altri ebbero da Cassio perdono, compassione gli
estinti; la città fu posta a sacco e a taglia, la Siria in soggezione.
Questi due repubblicanti adunque fuggiti ignudi da Roma, trovavansi in
obbedienza estese provincie, venti legioni, e poteano tener testa ai
triumviri: tanto più che Sesto Pompeo, uscito dal suo nascondiglio,
erasi fatto capo di pirati, e coll'autorità del senato s'impadroniva
delle isole.
Ma come condurre una rivoluzione senza crudeltà? Cassio, per mantenere
l'esercito o punire avversarj, mandò ad uccidere Ariobarzane re di
Cappadocia, e tassò enormemente quel regno; a Tarso impose mille
cinquecento talenti, raccogliendoli dal vendere i terreni pubblici,
gli ornamenti del tempio, poi i fanciulli, le donne, i vecchi, persino
garzoni atti alle armi. Da Rodi, vinta più volte, in fine presa, gli fu
esibito il titolo di re, ch'egli sdegnosamente rifiutò, dicendo esser
anzi suo assunto di distruggere i re ed i tiranni: e cinquanta primarj
cittadini mandò a morte, altri all'esiglio, tutto il paese a ruba:
infine obbligò tutte le provincie d'Asia ad anticipare il tributo di
dieci anni.
Intanto Bruto invase la Licia che gli aveva negato soccorsi, e assediò
Xanto, ove il fior del paese ricusava ogni accomodamento proposto da
lui, benchè egli avesse persin rilasciati senza riscatto i prigionieri.
La città fortissima con eroica ostinazione si difese; e quando i Romani
penetrarono di forza, gli abitanti appiccarono il fuoco, trucidarono
donne, fanciulli, schiavi, poi si avventarono nelle fiamme. Bruto,
promettendo un regalo a chiunque salvasse uno Xantio, non campò che
alquanti schiavi e donne le quali non avessero un marito da ucciderle.
Poi coll'esempio di Xanto e colle cortesie tentò indurre la città di
Pàtara alla sua amicizia, esibendo anche cederle i cittadini presi
di quella: ricusato, cominciò a mettere gli Xantj all'incanto, ma
non gli reggendo il cuore di condannare a perpetua servitù così prodi
guerrieri, li restituì in libertà. Avendo poi i suoi corridori côlte
alcune donne pataresi, le rimandò senz'altro; ond'esse persuasero i
cittadini a sottomettersi.
Dalla Licia Bruto entrò nella Jonia e fece scannare il retore Teodoto,
che si vantava consigliatore della morte di Pompeo. A Sardi si
ricongiunse con Cassio; nè gli dissimulò il suo scontento, perocchè,
mentre egli volea mantenere stretta giustizia, l'altro vi sorpassava
ogniqualvolta convenisse, chiudeva gli occhi sulle iniquità dei suoi
amici. — Neppur Cesare opprimeva nessuno (dicea Bruto), ma era reo
di proteggere gli oppressori. Che se mai fosse permesso mancare alla
giustizia, tornerebbe meglio soffrire le iniquità de' fautori di
Cesare, che permetterle agli amici nostri».
Quell'anima generosamente illusa, quanto dovea soffrire a queste
vessazioni, o allorchè i soldati suoi lo costringevano ad uccidere
qualche turbolento, o nel contemplare gli orrori d'una guerra civile
nascere da un fatto ch'egli reputava non solo glorioso, ma giusto,
e che si protestava pronto a rinnovare! Dalla stomachevole realtà
rifuggiva nell'ideale dello stoicismo; ma l'immaginazione perturbata
gli presentava fantasmi e il maligno suo genio che minacciava disastri:
onde, comunque il confortasse o lo deridesse l'epicureo Cassio, egli
pieno di apprensioni per la patria, per gli amici, per la causa,
sentendo avere sacrificato l'umanità, la gratitudine, fin la coscienza,
invocava la fine d'una lotta, a cui non reggeva il suo vigore di
filosofo e di cittadino.
I due capi repubblicani sentivano che solo in Italia potea difendersi
la causa italiana: laonde, padroni delle provincie d'Oriente
dall'Olimpo all'Eufrate, risolsero farsi incontro ad Antonio ed
Ottaviano (42); e incoraggiato l'esercito con discorsi,
sagrifizj e largizioni, tragittato l'Ellesponto, menarono ottantamila
fanti e duemila cavalli nella Macedonia, e nelle vicinanze di Filippi
si trovarono a fronte l'inimico. Forze quasi eguali, ma più vistoso
l'esercito repubblicano; e l'abilità dei generali, la padronanza dei
mari, per cui ai triumviri intercettava i viveri e i rinforzi, potevano
dargli vittoria, se, giusta il parere di Cassio, si fosse evitata la
battaglia, costringendo i triumviri a sloggiare per fame. Ma Bruto
anelava di metter un fine a sì diuturne miserie del popolo; bisognoso
dell'altrui approvazione, non reggeva alle accuse di timidità, e temeva
la diserzione de' soldati, cui gli antichi commilitoni rinfacciavano di
servire agli assassini del loro generale. Il sajo rosso sventolò dunque
sul padiglione dei generali, accintisi alla giornata non tanto colla
fiducia di vincere, quanto coll'espressa risoluzione di non sopravivere
alla sconfitta.
Bruto, ragionando quanto sia dolce l'acquistar la libertà, e decoroso
il morire per la patria, tanto infervorò i suoi, che con impeto
avventatisi sui nemici, penetrarono fin nel campo d'Ottaviano, e ne
bersagliarono la lettiga a dardi e giavellotti, sicchè fu creduto
ucciso; ma la lettiga era vuota (42), avendo sinistri sogni
allontanato il triumviro dalla pugna. Antonio accorso al riparo,
disfece l'ala di Cassio, indarno valorosissimo; il quale da una
collina mirando lo sterminio de' suoi e credendo ogni cosa perduta, si
uccise. Bruto sopragiunto trionfante, pianse il collega, qualificandolo
_l'ultimo dei Romani_; e si pose in luogo da poter aspettare che il
nemico andasse a fasci. Perocchè già la flotta era stata battuta
affatto, talchè nessun sussidio poteano aspettarne i triumviri,
accampati fra i pantani dello Strimone, dove pullulavano le malattie,
e scarseggiavano i viveri. Non avendo dunque speranza che nella
battaglia, provocavano con incessanti avvisaglie i soldati di Bruto, i
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