Storia degli Italiani, vol. 02 (di 15) - 12
d'avere recato vantaggio. Tullio da troppi era preso in uggia, e ce
ne rimane testimonio una stizzosa invettiva, attribuita a Sallustio,
nella quale (lasciam da banda le ingiurie contro i costumi di lui,
della moglie, della figliuola) gli si diceva: — Vantarti della congiura
soffogata! dovresti vergognarti che, te console, la repubblica sia
stata sovversa. Tu in casa con Terenzia tua risolvevi le cose, e chi
condannare a morte, chi multare in denaro, secondo te ne entrava
talento. Un cittadino ti fabbricava l'abitazione, uno la villa di
Tuscolo, uno quella di Pompei, e costoro erano i belli e i buoni: chi
nol volesse, quello era un ribaldo che ti tendeva insidie in senato,
veniva ad assalirti in casa, minacciava fuoco alla città. E ch'io dica
il vero, qual patrimonio avevi, e quale or hai? quanto straricchisti
coll'azzeccare liti? con qual cosa ti procacciasti le ricche ville?
col sangue e colle viscere dei cittadini; tu supplice cogli inimici,
tu burbanzoso cogli amici, turpe in ogni tuo fatto. Ed osi dire, _O
fortunata Roma, me console nata?_ Sfortunatissima, che sostenne una
pessima persecuzione, allorchè tu ti recasti in mano i giudizj e le
leggi. E pur non rifini di tediarci esclamando, _Cedano l'armi alla
toga, i lauri alla favella_; tu che della repubblica pensi una cosa
stando, un'altra sedendo; banderuola non fedele a vento alcuno»[124].
Tullio rimaneva più esposto agli attacchi perchè non apparteneva
all'antica compatta aristocrazia, ma come _uomo nuovo_ munivasi solo
dei proprj meriti. Perciò il senato, per quanti servigi ne traesse,
amava vederlo umiliato, onde mostrare quanto poco potesse chi non
vantava gran natali e grandi ricchezze: l'egoista Pompeo lo facea
bersaglio di sdegni, coi quali voleva ostentare potenza e offendere il
senato, senza pericolo d'inimicarsi qualche gran casa: Cicerone stesso,
attonito d'un coraggio che non era nell'indole sua, aveva bisogno
d'appoggio per non parere barcollante, sicchè facea lo scontento eppure
curvavasi, parteggiava ora per l'uno ora per l'altro, com'è troppo
facile in tempi agitati, dove appajono più gli uomini che i partiti.
Avverso in origine a Cesare e a Crasso, quando li vide d'accordo li
blandi; fautore infervorato di Pompeo, sino a professare di creder
giusto e vero tutto ciò che era utile o piacevole a questo[125], dappoi
gli scoccava motti, accennava lo scopo ed i pericoli del triumvirato,
istigava Catone ad opporvisi, e ostentava coraggio ogniqualvolta non
fosse compromettente. Fece dispetto ai potenti quella libertà; e mentre
avrebbero potuto facilmente cattivarselo, per esempio col dargli la
carica d'augure che ambiva[126], stimarono meglio aizzargli incontro
Publio Clodio.
Costui, dell'illustre casa Claudia, rottosi alla petulanza
e al disordine, avea diffamato la sua gioventù con infando
libertinaggio[127]. Per costume antichissimo, allo scorcio dell'anno
consolare si radunavano le dame primarie colle Vestali, offrendo un
sacrifizio alla Bona Dea, il cui nome ad esse sole era conosciuto;
nè alcun uomo, foss'anco il padrone di casa, poteva entrare alle
religiosissime cerimonie; gettavasi persino un velo sopra le immagini
d'uomini o d'animali maschi. Celebrandosi questa solennità in casa di
Giulio Cesare sommo pontefice (59), Clodio, che amoreggiava
la costui terza moglie Pompea, e non avea modo di vederla, s'accontò
con lei per entrarvi travestito da cantatrice. Ma una schiava lo
scopre, i misteri sono interrotti, chiuse le porte, Clodio espulso
ad improperj, e tutta la città a rumore. Clodio viene accusato
come sacrilego; ma aveva e denari per corrompere, e lascivie per
guadagnare[128], e cagnotti per atterrire. Narrossi che il console
Calpurnio Pisone, invece delle due iniziali d'assoluzione e di
condanna, facesse distribuire al popolo sole lettere assolutorie;
invano Catone tentò sospendere il menzognero giudizio; Catulo diceva
esser poste le sentinelle non a prevenire un tumulto, ma a tutelare
il denaro, dai giudici ricevuto; Cesare stesso, per non disamicarsi
la moltitudine, dichiarò che nulla aveva da imputare a Clodio; pure
ripudiò la donna, dicendo: — Nemmanco sospetti devono cadere sulla
moglie di Cesare».
Così ogni avvenimento privato pigliava importanza di pubblico pel
mescolarvisi delle fazioni e per la potenza personale. Clodio in una
sommossa uccide un tribuno del partito di Pompeo; e temendo non ne
resti peggiorata la sua causa, fa assassinare un tribuno del partito
proprio, per incolpare gli avversarj: spediente non dimenticato ai
nostri giorni. Nel territorio di Rusella, paese della maremma già
spopolato, facea guerra alla strada Aurelia, tanto che non si potette
tampoco con sicurezza spedir un corriere a Decio Bruto proconsole
a Modena. Imbaldanzito poi dall'impunità, e stipendiato un branco
di gladiatori, facea tremare quei poveri liberti che ormai soli
rappresentavano nel fôro la maestà del popolo romano; e benchè nobile,
si fece adottare da un popolano (58), per essere eletto
tribuno della plebe. Allora, spalleggiato dai triumviri che sotto
la sua maschera esorbitavano, si affezionò il vulgo con proporre
distribuzioni che consumavano un quinto delle pubbliche entrate; i
ricchi corrotti col tôrre ai censori il diritto di degradare i senatori
e i cavalieri senza formale giudizio. La distribuzione delle provincie
che ai consoli facevasi a sorte, Clodio la fece attribuire ai comizj
tributi, nei quali si assegnarono estesissime regioni a ciascuno.
Tra per odio personale, tra per istigazione de' triumviri, tra per
ingrazianire la plebaglia, sempre smaniosa di buttar nel fango gl'idoli
di jeri, Clodio aguzzava i ferri contro Cicerone. Il quale vedendo in
aria il nembo, comprossi il tribuno Lucio Mummio perchè costantemente
si opponesse al collega: ma Clodio giurò a Cicerone che nulla
imprenderebbe contro di lui, purchè ritraesse Mummio dalla sistematica
opposizione. Pompeo e Cesare ne stettero mallevadori, e Cicerone
lasciossi cogliere al laccio; ma Clodio, toltosi quel contraddittore,
fa decretare dal popolo non esser mestieri d'augurj per le leggi
proposte ai comizj dai tribuni, mirando con ciò a rimovere l'ostacolo
della religione che potessero frammettere gli amici del nemico suo.
Allora porta una legge che dichiara reo chi avesse mandato al supplizio
un cittadino senza la conferma del popolo. Tullio comprese che era
macchina contro di sè, onde vestì a corrotto, lasciò crescersi la
barba, supplicava gli amici a difenderlo; il senato stesso s'abbrunò,
finchè i consoli ordinarono riprendesse la solita porpora; duemila
cavalieri in lutto pregavano per Cicerone, e gli faceano scorta
contro i bravacci di Clodio, che insultavano l'umiliato oratore,
e dispensavano coltellate. Cicerone, scoraggito quanto dianzi era
borioso, chiedeva dagli altri il consiglio che non trovava in se
stesso. Lucullo gli suggeriva di durar saldo, e a capo de' cavalieri
e de' ben intenzionati sperdere gli avversarj; Catone ed Ortensio
l'esortavano non imitasse Catilina, e si conservasse incontaminato;
Cesare proponeva sottrarlo al nembo, conducendolo seco come
luogotenente nella Gallia; onorevole proferta, che egli non accettò,
onde Cesare se gli fece apertamente nemico. Pompeo s'era ritirato ad
Alba, nè gli diede ascolto; sicchè Cicerone indispettivasi di costui,
che lodandolo in viso, dietro le spalle l'invidiava, e che al fondo non
avea nulla di onesto nella politica, nulla d'insigne, di vigoroso, di
franco[129].
Da Clodio accusato davanti alle tribù dell'uccisione di Lentulo, di
Cetego e degli altri cavalieri romani, Cicerone cedette alla procella,
e uscì di città nottetempo. Il terrore sparso da Clodio gli faceva
più amari i passi della fuga: si vide chiusa Vibona, città della
Lucania da cui era stato eletto protettore; si trovò respinto dalla
Sicilia, campo di sua gloria durante la questura, poi sua protetta
contro Verre[130]; ricevette intrepida ospitalità da Lenio Flacco a
Brindisi, ma non vi si credette sicuro, e prese il mare. Approdato
a Durazzo, non che la cortesia gli addolcisse il fiele dell'esiglio,
fiaccamente sconsolavasi, sempre gli occhi, sempre il parlare vôlti
alla patria[131]; onde quei Greci, dopo esaurite tutte le consolatorie
che la scuola insegnava, e di cui Cicerone stesso faceva parata
nelle filosofiche quistioni, mettevano in campo sogni ed augurj per
assicurarlo d'un sollecito richiamo. Aspettando il quale, si conduce
a Tessalonica: quivi piange, si dispera, desidera morire, vuole
uccidersi; tutti modi di far parlare di sè quando teme che il mondo lo
dimentichi.
Clodio, esultante come d'un trionfo, fece decretare bandito Cicerone
a quattrocento miglia dalla città e confiscati i suoi averi, demolirne
la casa e le ville, e consacrare dai pontefici l'area dov'erano sorte,
perchè più non potessero venirgli restituite. Dov'erano allora gli
amici, i beneficati di Tullio? dove i cavalieri ch'egli avea messi in
istato? Tristo il paese dove non si osa chiarirsi pel perseguitato!
sciagurata libertà dove l'ingiustizia fatta ad uno non si considera
comune! Solo Catone si opponeva e protestava; onde Clodio per
disfarsene (58) lo fece deputare a pigliar possesso del
regno di Cipro, che i Romani pretendeano per un testamento di Tolomeo
Alessandro II.
Ai triumviri più non rimase ostacolo; ma Clodio era una lama che
tagliava anche le mani che la impugnavano. Fattosi da Lucio Flavio
consegnare il figlio di re Tigrane affidatogli da Pompeo, il rimandò in
Armenia, fomite di turbolenze: Pompeo se ne tenne insultato, e pensò
vendicarsi dell'audace demagogo col revocare Cicerone. La proposta
fu dal senato ricevuta siccome una rivincita sopra la parte popolana.
Quando venne sporta alla plebe, Clodio comparve nel fôro circondato da'
suoi accoltellatori per atterrire gli amici di Cicerone, per frapporre,
come dicea questi, un lago di sangue al suo ritorno: ma Tito Annio
Milone, italiano di Lanuvio e genero di Silla, collega di Clodio e
non meno manesco, fece altrettanto; e mentre le due masnade stavano
guatandosi in cagnesco, il richiamo passò.
A volo Cicerone fu a Roma in un vero trionfo (57), di cui
non farà meraviglia chi abbia visto la leggerezza delle moltitudini
che festeggiano del pari un pontefice o un tavernajo. Per verità i
quotidiani battibugli aveano stancato a segno, che non Roma solo, ma
tutta Italia desiderava riposo, e avea chiesto il richiamo di Cicerone
come una riscossa contro la violenza, e perchè egli era simbolo della
libertà regolare, dell'alzamento d'un uomo nuovo contro la fazione
patrizia cui appartenevano Catilina, Clodio, Cesare, delle volontà
comuni e moderate contro le personali e violente. Già quando si erano
posti all'asta i suoi beni, nessuno avea voluto dirvi: allora poi tutte
le città municipali, tutte le colonie sul suo passaggio gareggiavano
a festeggiarlo; il senato gli uscì incontro fino a porta Capena, e il
condusse in Campidoglio, donde a spalle venne portato a casa. Fu una
delle più giuste sue compiacenze, e — Qual altro cittadino, da me in
fuori, il senato raccomandò alle nazioni straniere? per la salvezza
di quale, se non per la mia, il senato rese pubbliche grazie agli
alleati del popolo romano? Di me solo i padri coscritti decretarono
che i governatori delle provincie, i questori, i legati custodissero la
salute e la vita. Nella mia causa soltanto, da che Roma è Roma, avvenne
che per decreto del senato, con lettere consolari si convocassero
dall'Italia tutti quelli che amassero salva la repubblica. Quel che
il senato non mai decretò nel pericolo di tutta la repubblica, stimò
dover decretare per la mia salute. Chi più fu richiesto dalla curia?
più compianto dal fôro? più desiderato dai tribunali stessi? Ogni cosa
fu deserto, orrido, muto al mio partire, pieno di lutto e di mestizia.
Qual luogo è d'Italia, ove ne' pubblici documenti non sia perpetuata
la premura della mia salvezza, l'attestazione della dignità? A che
serve rammemorare quel divino consulto del senato intorno a me? o
quello fatto nel tempio di Giove ottimo massimo, quando il personaggio
che, con triplice trionfo, aggiunse a quest'impero le tre parti del
mondo, proferì una sentenza, per cui a me solo diede testimonianza di
aver conservata la patria: e quella sentenza fu dall'affollatissimo
senato approvata in modo, che un solo nemico dissentì, e ne' pubblici
registri fu la cosa tramandata a sempiterna memoria? o quel che il
domani fu decretato nella curia, per suggerimento del popolo romano e
di quelli accorsi dai municipj, che nessuno frapponesse ostacoli, o
causasse indugio in grazia degli auspicj; chi lo facesse, s'avrebbe
qual perturbatore della pubblica quiete, e il senato lo punirebbe
severamente? Colla quale gravità avendo il senato remorata la iniqua
audacia di alcuni, aggiunse che, se ne' cinque giorni in cui si poteva
trattare del fatto mio, nulla fosse risolto, io tornassi in patria
e in ogni dignità... Il mio ritorno poi chi ignora qual fosse? come
venendo, i Brindisini mi abbiano, per così dire, sporta la destra
di tutta l'Italia e della medesima patria? e per tutto il viaggio le
città italiche apparivano in festa pel mio ritorno, le vie affollate
di deputati spediti d'ogni onde, le vicinanze della città fiorenti
d'incredibile moltitudine congratulante: il passaggio dalla porta
Capena, l'ascesa al Campidoglio, il ritorno alla casa furono tali, che
fra la somma allegrezza io mi accorava che una città così riconoscente
fosse stata misera ed oppressa»[132].
Rimesso nel senato, e mal vôlto ai nobili che aveano favorito Clodio,
si pone coi triumviri che almeno non eran gente da tumulti e da
violenza, e che sopportati in pace, assicurerebbero il riposo: col
ringiovanito suo credito sostenne Pompeo, di cui il recente benefizio
redimeva l'anteriore abbandono; e forse esagerando la carestia, fecegli
attribuire la commissione di tenere provveduta di grani la città per
cinque anni, con pieno potere sui porti del Mediterraneo: commissione
amplissima, che rinnovava il governo personale. In compenso il Magno
gli fece dai pontefici restituire lo spazzo della casa, ed assegnare
dal pubblico due milioni di sesterzj per riedificarla, cinquecentomila
per la villa tusculana, ducencinquanta per quella di Formio.
Vanità smodata, oscillante volontà, debolezza di propendere sempre
alla parte fortunata, indifferenza per la causa popolare, scarsa
avvedutezza ne' politici maneggi, inettitudine a innestare sull'antico
ceppo patrio i nuovi talli, sono macchie sulla splendida memoria
di quest'uomo, d'altra parte meritevole di tanta stima ed affetto.
Intelligente del bene, amico del bello, cupido di sapere, instancabile
all'operare, per sete di gloria e di popolarità ogni cosa riconduce a
sè; egoista di buona fede, ambisce di comparire più che di comandare,
vuole il consolato non pel rigore de' fasci, ma per la pompa della
sedia curule; il rispetto umano gl'infonde un coraggio fittizio, in
cui qualche volta la codardia si unisce alla violenza, ma la vanità
lo rende stromento degli ambiziosi, dai quali ha molto da sperare
o da temere. Elevato non fermo, batte i nemici per gelosia anzichè
per rancore; a momenti vigoroso, più spesso vacillante e disilluso,
eppure ostentando coraggio, e dolendosi quando vede dubitarsene: sopra
ogni cosa distende lo splendido velo dell'arte e dell'eloquenza. Ben
comune doveva essere la crudeltà, se apparve persino in lui letterato
e timido, il quale sollecitò l'uccisione de' Catilinarj, consigliava
a colpire Antonio insieme con Cesare, e ripeteva: — Se vorremo esser
clementi, non mancheranno mai guerre civili». La posterità, malgrado
i difetti di lui, potrà dimenticare come spesso egli ardì farsi eco
della pubblica indignazione contro ribaldi, da' cui coltelli non era
chi l'assicurasse? E per noi è confortante il vedere quest'oscuro
Arpinate sorgere per forza d'ingegno sino a meritar il nome di padre
della patria, a primeggiare in senato, ad emulare inerme il trionfo de'
guerrieri, a subire la gloria d'un esiglio riguardato come pubblico
lutto, ad acquistare potenza colla parola dove tant'altri se la
procacciavano colle spade e coi coltelli.
Del resto egli era buon uomo, buon cortigiano, buon compagnone nelle
brigate[133]; e per Roma facevano fortuna le sue arguzie, raccolte poi
da Tirone, suo liberto e segretario. Ingenti ricchezze gli produssero
le arringhe, non per onorarj che ne traesse, essendo inusate le
sportule, ma pei legati che ciascun ricco testando lasciava a chi
avesse di lui ben meritato. Di questi Cicerone toccò per venti milioni
di sesterzj[134], onde crebbe di case e di poderi; e sebbene nelle
provincie s'astenesse dai comuni ladronecci, ebbe agiatezza e lusso
d'arti, potè splendidamente ospitare gli amici, e per mantenere suo
figlio a studio in Atene spendeva l'anno ingente somma.
Catone, che disapprovava costantemente i gladiatori e gli atleti, come
gente sempre alla mano di chi volesse atterrire la città, n'aveva
però allevato una partita; e procurò venderli, ma senza far rumore.
Milone mandò comprarli, poi divulgò il fatto: la città ne fece le risa
grasse[135], e Milone con questi bravacci teneva in rispetto Clodio,
ostinato a impedire si ricostruissero le ville di Tullio. Avendo Clodio
(53) messo il fuoco alla casa del costui fratello, Milone
gliene dà accusa. Clodio dunque briga l'edilità, ottenuta la quale,
sarà inviolabile: ma Milone dichiara che gli auspizj sono sfavorevoli,
e l'elezione viene prorogata. Al nuovo giorno, Clodio fa occupare
il fôro da' suoi satelliti, acciocchè l'elezione si compia prima che
Milone pronunzii sopra gli auspizj: ma che? Milone già vi ha disposto
i suoi nella notte. E così prolungasi d'oggi in domani, finchè gli
Italioti non sieno stracchi di venir dal loro paese a tumultuare in
Roma. E quando Pompeo arringa in favor di Milone, i bravi di Clodio lo
fischiano, Clodio gli avventa dalla tribuna ingiurie a gola, per tre
ore si ricambiano urli, bassi insulti, osceni lazzi, infine si vien ai
sassi e ai pugni; Clodio è messo in fuga; Cicerone fugge anch'esso per
paura che «nel tumulto non avvenga qualcosa di male»[136].
E Cicerone diceva d'amare il regime, stanco di tanti salassi[137]:
ma i due capibanda rinforzati nelle case, forbottandosi per le vie,
sommoveano ogni dì la pubblica quiete; finchè Milone sentendosi
forte nell'appoggio di Pompeo e di Cicerone, il quale avea fin
detto pubblicamente che Clodio era vittima destinata allo stocco
dell'altro[138], scontrato costui in cammino, venne seco alle prese,
e lo freddò. Il vulgo, levatosi a rumore, saccheggiò la curia per
alimentare il rogo di Clodio, ed assalì Milone: ma questi, ben munito
e ricinto di bravi, respinse la forza colla forza. Citato in giudizio,
gli domandano, secondo le forme, che consegni i suoi schiavi perchè
sieno interrogati alla corda; ed egli risponde avergli affrancati, nè
uom libero potersi mettere alla tortura. Così mancavano i testimonj
al fatto, e Cicerone metteva in moto tutti gli ordigni di destro
avvocato per difenderlo: ma Pompeo, pago d'aversi tratto dagli occhi
quello stecco, non si curò di salvar l'uccisore; e Cicerone, presa
paura dei bravi di Clodio, non recitò la bella sua arringa, e lasciò
che Milone andasse esule a Marsiglia, consolandosi col mangiarvi pesci
squisiti[139].
Qual era dunque la libertà di Roma, ove tutto potevano i triumviri e
qualunque ribaldo venisse parteggiando? Crasso e Pompeo ambivano il
consolato, ma disperavano ottenerlo in competenza con Domizio Enobarbo,
il quale, col professare di voler abolire il proconsolato di Cesare,
blandiva i rancori degli aristocratici (55). Epperò, mentre
costui di buon mattino, con Catone ai fianchi, andava per la città
accattando suffragi, gli uscì addosso una smannata di malviventi che
ferì Catone, e uccise il servo che lo precedeva colla fiaccola: poi
i tribuni impedirono i comizj, sicchè Roma restò senza consoli, il
senato vestì a lutto, finchè vedendo non potere altrimenti quietare
il subuglio, domandò a Crasso e Pompeo se volessero accettare il
consolato, e così furono eletti.
Allora, per non essere da meno di Cesare, nè restare disarmati
mentre egli assicuravasi un esercito coi trionfi, si fecero decretare
Pompeo la Spagna, Crasso la Siria, l'Egitto e la Macedonia. Cesare
v'assentiva, purchè a lui non turbassero il proconsolato: Catone, che
andava ricantando i pericoli de' prolungati comandi, fu dal tribuno
Cajo Tribonio messo in arresto, e si stabilì che i governatori non
fossero scambiati per cinque anni, potessero far leve a loro grado,
esigere dagli alleati contribuzioni e truppe. Pompeo, più del comando
ambendone le apparenze, rimase a Roma: Crasso s'avviò contro i Parti.
La vittoria sopra Mitradate e gli altri re dell'Asia fece Roma
confinante con questo terribile popolo, che stanziando fra l'India
orientale, la Media e l'Ircania, poteva interrompere le comunicazioni
dei mercanti d'Occidente coi paesi che diedero sempre le più squisite
e preziose derrate. I Parti erano guerrieri nati, sempre a cavallo,
abilissimi a trar d'arco, non affidandosi nelle ordinanze, ma nel
valore violento. Li dominavano principi Arsacidi, che s'intitolavano
re dei re, fratelli del sole e della luna, ma che restavano limitati
dai dodici satrapi militari dell'impero, i quali poteano anche deporli,
e probabilmente ne confermavano l'elezione prima che il _surena_ o
generale gl'incoronasse.
Parve che, dal primo conoscerli, Roma sentisse quanto sarebbero a
lei pericolosi: ma sebbene il timore di essi facesse poco ambita la
provincia d'Asia, pure Crasso la sollecitò a gran prezzo. Da un lato
voleva superare Lucullo, Silla, Pompeo mediante spedizioni somiglianti
a quelle d'Alessandro; dall'altro compiacevasi in pensare e parlare
delle spoglie della Partia, intatta ancora da invasioni, e delle
aurifere arene dell'Indo e del Gange. Quel popolo aveva allora pace ed
alleanza coi Romani; laonde il tribuno Atejo Capitone si oppose alla
guerra fin coll'impedire a Crasso l'uscita di Roma, e coll'imprecare
contro di esso gli Dei vindici de' patti: ma Crasso, protetto da Pompeo
e stimolato da avara ambizione, tragittossi in Asia (54).
Traversando la Siria, rubò diecimila talenti al tempio di Gerusalemme,
risparmiato da Pompeo; poi varcato l'Eufrate, entrò sulle terre de'
Parti, i quali non avendo ragione di temere un'invasione, furono côlti
sprovvisti. Insuperbito della vittoria, lasciossi attribuire il titolo
d'imperatore; al re Orode, che mandò chiedergli qual motivo traesse i
Romani a guerra, replicò darebbe risposta in Seleucia lor metropoli;
ma Vagiso, capo della legazione, mostrando la palma della sua mano,
disse: — Prima che tu prenda Seleucia, vedrai crescere del pelo qui».
Per riuscire, Crasso avrebbe dovuto difilarsi sopra le capitali,
profittando della costernazione; invece tornò a svernare nella Siria,
ed arricchirsi delle spoglie e delle contribuzioni.
Ma mentre i soldati suoi scioglievansi dalla disciplina, i Parti,
riavuti dalla perfida sorpresa, facevano armi, e il loro surena in un
tratto (53) ricuperò le città occupate da Crasso. Il quale
de' cento sinistri augurj, che sgomentavano i suoi, si rideva; ma
sprezzava anche i buoni pareri, e invece di far via per le montagne
armene ove mal potrebbe squadronarsi la cavalleria parta, s'avanzò
nella Mesopotamia. Quivi pianure deserte o pantanose, il territorio
devastato, arsi campi e villaggi, non grano per l'esercito, non foraggi
pei cavalli; i generali spingevano innanzi a sè le popolazioni, appena
gettando alcuna guarnigione nelle piazze che, quando si fossero prese,
bisognava distruggere. Raggiungevasi l'esercito nemico? insolita arte
di battaglia occorreva contro una cavalleria che pugnava di lontano
e fuggendo, talchè a nulla approdava la pesante fanteria romana;
sconfiggevasi il nemico, nol si vinceva mai; si procedeva conquistando,
e morivasi di fame. Alfine côlto dai Parti nella spianata di Carre,
Crasso vide da essi bersagliate le indifese legioni: il figlio di lui
non potendo sottrarsi, si uccise dopo combattuto valorosamente. Quando
il teschio ne fu veduto confitto su lancia nemica, i Romani torcevano
spaventati, ma Crasso: — Me solo tocca questo lutto. Roma non è vinta
purchè intrepidi voi reggiate. Se vi prende compassione di un padre
orbato, mostratemelo col vendicarlo su quei barbari».
In questo mezzo le freccie, colpendo incessanti e d'ogni banda,
causavano una morte sì tormentosa, che molti preferivano accelerarla
coll'avventarsi contro la cavalleria. Crasso, fuggendo con pochi, si
trovò avviluppato ne' pantani e forviato da false guide. Dal surena
invitato a parlamento, sebbene sospettasse d'insidie, vi si trovò
costretto dalle grida de' suoi, e tra via diceva ai seguaci: — Tornati
in sicurezza, per l'onore di Roma dite che Crasso perì deluso dai
nemici, non abbandonato dai cittadini». Il surena gli fece ogni mostra
d'onoranza; ma ben tosto cominciò una baruffa, dove Crasso restò
ucciso. La sua destra e la testa furono presentate a Orode, il tronco
lasciato alle fiere: diecimila uomini, sopravissuti al doppio d'uccisi,
caddero prigionieri, e dimentichi della patria servirono i nemici, e ne
sposarono le figliuole[140].
Il surena entrò in Seleucia fra i teschi e le insegne romane,
trascinandosi dietro uno vestito da Crasso, con littori e guardie,
borse vuote alla cintola, e una banda di donnacce, cantanti lascivie
ed oltraggi ai vinti; e presentò al patrio senato una copia delle
impudiche _Favole Milesie_, trovata nel sacco d'un uffiziale romano;
come a dire che nulla di meglio dovea sperarsi da gioventù, la quale
piacevasi in libri siffatti. Orode fece colare dell'oro nella bocca di
Crasso, per insultare l'avara sua sete; poi assalì la Siria, sperando
coglierla sguernita. Il luogotenente Cassio fu pronto alla riscossa; ma
la sconfitta di Crasso non lasciò più ai Romani proferire il nome dei
Parti senza un profondo terrore.
CAPITOLO XXVI.
Seconda guerra civile.
Con Crasso periva l'unico che potesse mantenere l'equilibrio fra
Cesare e Pompeo, i quali l'odio reciproco dissimulavano per tema
che quello, accostandosi all'altro, di là piegasse la bilancia. La
rottura (55) fu accelerata dalla morte di Giulia, figlia di
Cesare e moglie di Pompeo, amata da ambedue, venerata pubblicamente.
Pompeo, benchè fosse rimasto in Roma, levò un esercito col pretesto
di proteggere la tranquillità, in fatto per dominar le fazioni e
non valere da meno degli altri triumviri. Domizio Enobarbo riuscito
console (54), avrebbe voluto por freno all'esorbitante
potenza, sorretto anche da Catone: ma s'accôrse di non valer nulla
contro le armi, in tempo che ogni elezione diventava opportunità di
traffici, ogni adunanza campo di violenze; i colpevoli sfuggivano alla
censura perchè troppi, e ai giudizj perchè denarosi; e come Cicerone
si lamenta, tolta la dignità della parola e la libertà del trattar le
pubbliche cose, niun altro partito restava che o fiaccamente assentire
coi più, o dissentire invano[141].
Il governo di Roma, come tutto ciò ch'è patriarcale, supponeva una
certa bontà: l'equilibrio suo consistendo nell'esteso diritto di
opporsi, bisognava non lo spingessero all'estremo nè il senato nel
negare gli auspizj, nè il tribuno nel mettere il veto: e poichè
riduceasi in fatto a due governi posti paralleli, quel della plebe e
quello del senato, con magistrature e decisioni distinte, per farli
camminare d'accordo richiedevasi ancora la bontà. Corrotti i costumi,
tutto si sovverte; le fazioni bollono ogni giorno peggio; se il
tribuno mette il veto è deriso, o si mandano bravacci a sgomentarlo e
far sangue; la prepotenza imbaldanzisce, e le spesse uccisioni fanno
sentire la necessità d'un freno dittatorio. Pompeo, che credevasi
l'unico uomo da ciò, voleva che il popolo se ne capacitasse, e venisse
a porglielo in mano; ma afferrarlo non osava, e intanto lasciava
prolungarsi il disordine, e a forza di bassezze per ottenerla, perdeva
la popolarità. All'occasione dell'assassinio di Clodio fu proposto di
conferirgli la dittatura (52), poi si stimò meglio farlo
console da solo, e tale rimase sette mesi, per quanto protestassero
Catone e la parte conservatrice: ma egli, non che s'ardisse
all'estremo, indietreggiò, eleggendosi a collega Metello Scipione; col
che, e collo sposarne la figlia Cornelia si riconciliò gli oligarchi.
ne rimane testimonio una stizzosa invettiva, attribuita a Sallustio,
nella quale (lasciam da banda le ingiurie contro i costumi di lui,
della moglie, della figliuola) gli si diceva: — Vantarti della congiura
soffogata! dovresti vergognarti che, te console, la repubblica sia
stata sovversa. Tu in casa con Terenzia tua risolvevi le cose, e chi
condannare a morte, chi multare in denaro, secondo te ne entrava
talento. Un cittadino ti fabbricava l'abitazione, uno la villa di
Tuscolo, uno quella di Pompei, e costoro erano i belli e i buoni: chi
nol volesse, quello era un ribaldo che ti tendeva insidie in senato,
veniva ad assalirti in casa, minacciava fuoco alla città. E ch'io dica
il vero, qual patrimonio avevi, e quale or hai? quanto straricchisti
coll'azzeccare liti? con qual cosa ti procacciasti le ricche ville?
col sangue e colle viscere dei cittadini; tu supplice cogli inimici,
tu burbanzoso cogli amici, turpe in ogni tuo fatto. Ed osi dire, _O
fortunata Roma, me console nata?_ Sfortunatissima, che sostenne una
pessima persecuzione, allorchè tu ti recasti in mano i giudizj e le
leggi. E pur non rifini di tediarci esclamando, _Cedano l'armi alla
toga, i lauri alla favella_; tu che della repubblica pensi una cosa
stando, un'altra sedendo; banderuola non fedele a vento alcuno»[124].
Tullio rimaneva più esposto agli attacchi perchè non apparteneva
all'antica compatta aristocrazia, ma come _uomo nuovo_ munivasi solo
dei proprj meriti. Perciò il senato, per quanti servigi ne traesse,
amava vederlo umiliato, onde mostrare quanto poco potesse chi non
vantava gran natali e grandi ricchezze: l'egoista Pompeo lo facea
bersaglio di sdegni, coi quali voleva ostentare potenza e offendere il
senato, senza pericolo d'inimicarsi qualche gran casa: Cicerone stesso,
attonito d'un coraggio che non era nell'indole sua, aveva bisogno
d'appoggio per non parere barcollante, sicchè facea lo scontento eppure
curvavasi, parteggiava ora per l'uno ora per l'altro, com'è troppo
facile in tempi agitati, dove appajono più gli uomini che i partiti.
Avverso in origine a Cesare e a Crasso, quando li vide d'accordo li
blandi; fautore infervorato di Pompeo, sino a professare di creder
giusto e vero tutto ciò che era utile o piacevole a questo[125], dappoi
gli scoccava motti, accennava lo scopo ed i pericoli del triumvirato,
istigava Catone ad opporvisi, e ostentava coraggio ogniqualvolta non
fosse compromettente. Fece dispetto ai potenti quella libertà; e mentre
avrebbero potuto facilmente cattivarselo, per esempio col dargli la
carica d'augure che ambiva[126], stimarono meglio aizzargli incontro
Publio Clodio.
Costui, dell'illustre casa Claudia, rottosi alla petulanza
e al disordine, avea diffamato la sua gioventù con infando
libertinaggio[127]. Per costume antichissimo, allo scorcio dell'anno
consolare si radunavano le dame primarie colle Vestali, offrendo un
sacrifizio alla Bona Dea, il cui nome ad esse sole era conosciuto;
nè alcun uomo, foss'anco il padrone di casa, poteva entrare alle
religiosissime cerimonie; gettavasi persino un velo sopra le immagini
d'uomini o d'animali maschi. Celebrandosi questa solennità in casa di
Giulio Cesare sommo pontefice (59), Clodio, che amoreggiava
la costui terza moglie Pompea, e non avea modo di vederla, s'accontò
con lei per entrarvi travestito da cantatrice. Ma una schiava lo
scopre, i misteri sono interrotti, chiuse le porte, Clodio espulso
ad improperj, e tutta la città a rumore. Clodio viene accusato
come sacrilego; ma aveva e denari per corrompere, e lascivie per
guadagnare[128], e cagnotti per atterrire. Narrossi che il console
Calpurnio Pisone, invece delle due iniziali d'assoluzione e di
condanna, facesse distribuire al popolo sole lettere assolutorie;
invano Catone tentò sospendere il menzognero giudizio; Catulo diceva
esser poste le sentinelle non a prevenire un tumulto, ma a tutelare
il denaro, dai giudici ricevuto; Cesare stesso, per non disamicarsi
la moltitudine, dichiarò che nulla aveva da imputare a Clodio; pure
ripudiò la donna, dicendo: — Nemmanco sospetti devono cadere sulla
moglie di Cesare».
Così ogni avvenimento privato pigliava importanza di pubblico pel
mescolarvisi delle fazioni e per la potenza personale. Clodio in una
sommossa uccide un tribuno del partito di Pompeo; e temendo non ne
resti peggiorata la sua causa, fa assassinare un tribuno del partito
proprio, per incolpare gli avversarj: spediente non dimenticato ai
nostri giorni. Nel territorio di Rusella, paese della maremma già
spopolato, facea guerra alla strada Aurelia, tanto che non si potette
tampoco con sicurezza spedir un corriere a Decio Bruto proconsole
a Modena. Imbaldanzito poi dall'impunità, e stipendiato un branco
di gladiatori, facea tremare quei poveri liberti che ormai soli
rappresentavano nel fôro la maestà del popolo romano; e benchè nobile,
si fece adottare da un popolano (58), per essere eletto
tribuno della plebe. Allora, spalleggiato dai triumviri che sotto
la sua maschera esorbitavano, si affezionò il vulgo con proporre
distribuzioni che consumavano un quinto delle pubbliche entrate; i
ricchi corrotti col tôrre ai censori il diritto di degradare i senatori
e i cavalieri senza formale giudizio. La distribuzione delle provincie
che ai consoli facevasi a sorte, Clodio la fece attribuire ai comizj
tributi, nei quali si assegnarono estesissime regioni a ciascuno.
Tra per odio personale, tra per istigazione de' triumviri, tra per
ingrazianire la plebaglia, sempre smaniosa di buttar nel fango gl'idoli
di jeri, Clodio aguzzava i ferri contro Cicerone. Il quale vedendo in
aria il nembo, comprossi il tribuno Lucio Mummio perchè costantemente
si opponesse al collega: ma Clodio giurò a Cicerone che nulla
imprenderebbe contro di lui, purchè ritraesse Mummio dalla sistematica
opposizione. Pompeo e Cesare ne stettero mallevadori, e Cicerone
lasciossi cogliere al laccio; ma Clodio, toltosi quel contraddittore,
fa decretare dal popolo non esser mestieri d'augurj per le leggi
proposte ai comizj dai tribuni, mirando con ciò a rimovere l'ostacolo
della religione che potessero frammettere gli amici del nemico suo.
Allora porta una legge che dichiara reo chi avesse mandato al supplizio
un cittadino senza la conferma del popolo. Tullio comprese che era
macchina contro di sè, onde vestì a corrotto, lasciò crescersi la
barba, supplicava gli amici a difenderlo; il senato stesso s'abbrunò,
finchè i consoli ordinarono riprendesse la solita porpora; duemila
cavalieri in lutto pregavano per Cicerone, e gli faceano scorta
contro i bravacci di Clodio, che insultavano l'umiliato oratore,
e dispensavano coltellate. Cicerone, scoraggito quanto dianzi era
borioso, chiedeva dagli altri il consiglio che non trovava in se
stesso. Lucullo gli suggeriva di durar saldo, e a capo de' cavalieri
e de' ben intenzionati sperdere gli avversarj; Catone ed Ortensio
l'esortavano non imitasse Catilina, e si conservasse incontaminato;
Cesare proponeva sottrarlo al nembo, conducendolo seco come
luogotenente nella Gallia; onorevole proferta, che egli non accettò,
onde Cesare se gli fece apertamente nemico. Pompeo s'era ritirato ad
Alba, nè gli diede ascolto; sicchè Cicerone indispettivasi di costui,
che lodandolo in viso, dietro le spalle l'invidiava, e che al fondo non
avea nulla di onesto nella politica, nulla d'insigne, di vigoroso, di
franco[129].
Da Clodio accusato davanti alle tribù dell'uccisione di Lentulo, di
Cetego e degli altri cavalieri romani, Cicerone cedette alla procella,
e uscì di città nottetempo. Il terrore sparso da Clodio gli faceva
più amari i passi della fuga: si vide chiusa Vibona, città della
Lucania da cui era stato eletto protettore; si trovò respinto dalla
Sicilia, campo di sua gloria durante la questura, poi sua protetta
contro Verre[130]; ricevette intrepida ospitalità da Lenio Flacco a
Brindisi, ma non vi si credette sicuro, e prese il mare. Approdato
a Durazzo, non che la cortesia gli addolcisse il fiele dell'esiglio,
fiaccamente sconsolavasi, sempre gli occhi, sempre il parlare vôlti
alla patria[131]; onde quei Greci, dopo esaurite tutte le consolatorie
che la scuola insegnava, e di cui Cicerone stesso faceva parata
nelle filosofiche quistioni, mettevano in campo sogni ed augurj per
assicurarlo d'un sollecito richiamo. Aspettando il quale, si conduce
a Tessalonica: quivi piange, si dispera, desidera morire, vuole
uccidersi; tutti modi di far parlare di sè quando teme che il mondo lo
dimentichi.
Clodio, esultante come d'un trionfo, fece decretare bandito Cicerone
a quattrocento miglia dalla città e confiscati i suoi averi, demolirne
la casa e le ville, e consacrare dai pontefici l'area dov'erano sorte,
perchè più non potessero venirgli restituite. Dov'erano allora gli
amici, i beneficati di Tullio? dove i cavalieri ch'egli avea messi in
istato? Tristo il paese dove non si osa chiarirsi pel perseguitato!
sciagurata libertà dove l'ingiustizia fatta ad uno non si considera
comune! Solo Catone si opponeva e protestava; onde Clodio per
disfarsene (58) lo fece deputare a pigliar possesso del
regno di Cipro, che i Romani pretendeano per un testamento di Tolomeo
Alessandro II.
Ai triumviri più non rimase ostacolo; ma Clodio era una lama che
tagliava anche le mani che la impugnavano. Fattosi da Lucio Flavio
consegnare il figlio di re Tigrane affidatogli da Pompeo, il rimandò in
Armenia, fomite di turbolenze: Pompeo se ne tenne insultato, e pensò
vendicarsi dell'audace demagogo col revocare Cicerone. La proposta
fu dal senato ricevuta siccome una rivincita sopra la parte popolana.
Quando venne sporta alla plebe, Clodio comparve nel fôro circondato da'
suoi accoltellatori per atterrire gli amici di Cicerone, per frapporre,
come dicea questi, un lago di sangue al suo ritorno: ma Tito Annio
Milone, italiano di Lanuvio e genero di Silla, collega di Clodio e
non meno manesco, fece altrettanto; e mentre le due masnade stavano
guatandosi in cagnesco, il richiamo passò.
A volo Cicerone fu a Roma in un vero trionfo (57), di cui
non farà meraviglia chi abbia visto la leggerezza delle moltitudini
che festeggiano del pari un pontefice o un tavernajo. Per verità i
quotidiani battibugli aveano stancato a segno, che non Roma solo, ma
tutta Italia desiderava riposo, e avea chiesto il richiamo di Cicerone
come una riscossa contro la violenza, e perchè egli era simbolo della
libertà regolare, dell'alzamento d'un uomo nuovo contro la fazione
patrizia cui appartenevano Catilina, Clodio, Cesare, delle volontà
comuni e moderate contro le personali e violente. Già quando si erano
posti all'asta i suoi beni, nessuno avea voluto dirvi: allora poi tutte
le città municipali, tutte le colonie sul suo passaggio gareggiavano
a festeggiarlo; il senato gli uscì incontro fino a porta Capena, e il
condusse in Campidoglio, donde a spalle venne portato a casa. Fu una
delle più giuste sue compiacenze, e — Qual altro cittadino, da me in
fuori, il senato raccomandò alle nazioni straniere? per la salvezza
di quale, se non per la mia, il senato rese pubbliche grazie agli
alleati del popolo romano? Di me solo i padri coscritti decretarono
che i governatori delle provincie, i questori, i legati custodissero la
salute e la vita. Nella mia causa soltanto, da che Roma è Roma, avvenne
che per decreto del senato, con lettere consolari si convocassero
dall'Italia tutti quelli che amassero salva la repubblica. Quel che
il senato non mai decretò nel pericolo di tutta la repubblica, stimò
dover decretare per la mia salute. Chi più fu richiesto dalla curia?
più compianto dal fôro? più desiderato dai tribunali stessi? Ogni cosa
fu deserto, orrido, muto al mio partire, pieno di lutto e di mestizia.
Qual luogo è d'Italia, ove ne' pubblici documenti non sia perpetuata
la premura della mia salvezza, l'attestazione della dignità? A che
serve rammemorare quel divino consulto del senato intorno a me? o
quello fatto nel tempio di Giove ottimo massimo, quando il personaggio
che, con triplice trionfo, aggiunse a quest'impero le tre parti del
mondo, proferì una sentenza, per cui a me solo diede testimonianza di
aver conservata la patria: e quella sentenza fu dall'affollatissimo
senato approvata in modo, che un solo nemico dissentì, e ne' pubblici
registri fu la cosa tramandata a sempiterna memoria? o quel che il
domani fu decretato nella curia, per suggerimento del popolo romano e
di quelli accorsi dai municipj, che nessuno frapponesse ostacoli, o
causasse indugio in grazia degli auspicj; chi lo facesse, s'avrebbe
qual perturbatore della pubblica quiete, e il senato lo punirebbe
severamente? Colla quale gravità avendo il senato remorata la iniqua
audacia di alcuni, aggiunse che, se ne' cinque giorni in cui si poteva
trattare del fatto mio, nulla fosse risolto, io tornassi in patria
e in ogni dignità... Il mio ritorno poi chi ignora qual fosse? come
venendo, i Brindisini mi abbiano, per così dire, sporta la destra
di tutta l'Italia e della medesima patria? e per tutto il viaggio le
città italiche apparivano in festa pel mio ritorno, le vie affollate
di deputati spediti d'ogni onde, le vicinanze della città fiorenti
d'incredibile moltitudine congratulante: il passaggio dalla porta
Capena, l'ascesa al Campidoglio, il ritorno alla casa furono tali, che
fra la somma allegrezza io mi accorava che una città così riconoscente
fosse stata misera ed oppressa»[132].
Rimesso nel senato, e mal vôlto ai nobili che aveano favorito Clodio,
si pone coi triumviri che almeno non eran gente da tumulti e da
violenza, e che sopportati in pace, assicurerebbero il riposo: col
ringiovanito suo credito sostenne Pompeo, di cui il recente benefizio
redimeva l'anteriore abbandono; e forse esagerando la carestia, fecegli
attribuire la commissione di tenere provveduta di grani la città per
cinque anni, con pieno potere sui porti del Mediterraneo: commissione
amplissima, che rinnovava il governo personale. In compenso il Magno
gli fece dai pontefici restituire lo spazzo della casa, ed assegnare
dal pubblico due milioni di sesterzj per riedificarla, cinquecentomila
per la villa tusculana, ducencinquanta per quella di Formio.
Vanità smodata, oscillante volontà, debolezza di propendere sempre
alla parte fortunata, indifferenza per la causa popolare, scarsa
avvedutezza ne' politici maneggi, inettitudine a innestare sull'antico
ceppo patrio i nuovi talli, sono macchie sulla splendida memoria
di quest'uomo, d'altra parte meritevole di tanta stima ed affetto.
Intelligente del bene, amico del bello, cupido di sapere, instancabile
all'operare, per sete di gloria e di popolarità ogni cosa riconduce a
sè; egoista di buona fede, ambisce di comparire più che di comandare,
vuole il consolato non pel rigore de' fasci, ma per la pompa della
sedia curule; il rispetto umano gl'infonde un coraggio fittizio, in
cui qualche volta la codardia si unisce alla violenza, ma la vanità
lo rende stromento degli ambiziosi, dai quali ha molto da sperare
o da temere. Elevato non fermo, batte i nemici per gelosia anzichè
per rancore; a momenti vigoroso, più spesso vacillante e disilluso,
eppure ostentando coraggio, e dolendosi quando vede dubitarsene: sopra
ogni cosa distende lo splendido velo dell'arte e dell'eloquenza. Ben
comune doveva essere la crudeltà, se apparve persino in lui letterato
e timido, il quale sollecitò l'uccisione de' Catilinarj, consigliava
a colpire Antonio insieme con Cesare, e ripeteva: — Se vorremo esser
clementi, non mancheranno mai guerre civili». La posterità, malgrado
i difetti di lui, potrà dimenticare come spesso egli ardì farsi eco
della pubblica indignazione contro ribaldi, da' cui coltelli non era
chi l'assicurasse? E per noi è confortante il vedere quest'oscuro
Arpinate sorgere per forza d'ingegno sino a meritar il nome di padre
della patria, a primeggiare in senato, ad emulare inerme il trionfo de'
guerrieri, a subire la gloria d'un esiglio riguardato come pubblico
lutto, ad acquistare potenza colla parola dove tant'altri se la
procacciavano colle spade e coi coltelli.
Del resto egli era buon uomo, buon cortigiano, buon compagnone nelle
brigate[133]; e per Roma facevano fortuna le sue arguzie, raccolte poi
da Tirone, suo liberto e segretario. Ingenti ricchezze gli produssero
le arringhe, non per onorarj che ne traesse, essendo inusate le
sportule, ma pei legati che ciascun ricco testando lasciava a chi
avesse di lui ben meritato. Di questi Cicerone toccò per venti milioni
di sesterzj[134], onde crebbe di case e di poderi; e sebbene nelle
provincie s'astenesse dai comuni ladronecci, ebbe agiatezza e lusso
d'arti, potè splendidamente ospitare gli amici, e per mantenere suo
figlio a studio in Atene spendeva l'anno ingente somma.
Catone, che disapprovava costantemente i gladiatori e gli atleti, come
gente sempre alla mano di chi volesse atterrire la città, n'aveva
però allevato una partita; e procurò venderli, ma senza far rumore.
Milone mandò comprarli, poi divulgò il fatto: la città ne fece le risa
grasse[135], e Milone con questi bravacci teneva in rispetto Clodio,
ostinato a impedire si ricostruissero le ville di Tullio. Avendo Clodio
(53) messo il fuoco alla casa del costui fratello, Milone
gliene dà accusa. Clodio dunque briga l'edilità, ottenuta la quale,
sarà inviolabile: ma Milone dichiara che gli auspizj sono sfavorevoli,
e l'elezione viene prorogata. Al nuovo giorno, Clodio fa occupare
il fôro da' suoi satelliti, acciocchè l'elezione si compia prima che
Milone pronunzii sopra gli auspizj: ma che? Milone già vi ha disposto
i suoi nella notte. E così prolungasi d'oggi in domani, finchè gli
Italioti non sieno stracchi di venir dal loro paese a tumultuare in
Roma. E quando Pompeo arringa in favor di Milone, i bravi di Clodio lo
fischiano, Clodio gli avventa dalla tribuna ingiurie a gola, per tre
ore si ricambiano urli, bassi insulti, osceni lazzi, infine si vien ai
sassi e ai pugni; Clodio è messo in fuga; Cicerone fugge anch'esso per
paura che «nel tumulto non avvenga qualcosa di male»[136].
E Cicerone diceva d'amare il regime, stanco di tanti salassi[137]:
ma i due capibanda rinforzati nelle case, forbottandosi per le vie,
sommoveano ogni dì la pubblica quiete; finchè Milone sentendosi
forte nell'appoggio di Pompeo e di Cicerone, il quale avea fin
detto pubblicamente che Clodio era vittima destinata allo stocco
dell'altro[138], scontrato costui in cammino, venne seco alle prese,
e lo freddò. Il vulgo, levatosi a rumore, saccheggiò la curia per
alimentare il rogo di Clodio, ed assalì Milone: ma questi, ben munito
e ricinto di bravi, respinse la forza colla forza. Citato in giudizio,
gli domandano, secondo le forme, che consegni i suoi schiavi perchè
sieno interrogati alla corda; ed egli risponde avergli affrancati, nè
uom libero potersi mettere alla tortura. Così mancavano i testimonj
al fatto, e Cicerone metteva in moto tutti gli ordigni di destro
avvocato per difenderlo: ma Pompeo, pago d'aversi tratto dagli occhi
quello stecco, non si curò di salvar l'uccisore; e Cicerone, presa
paura dei bravi di Clodio, non recitò la bella sua arringa, e lasciò
che Milone andasse esule a Marsiglia, consolandosi col mangiarvi pesci
squisiti[139].
Qual era dunque la libertà di Roma, ove tutto potevano i triumviri e
qualunque ribaldo venisse parteggiando? Crasso e Pompeo ambivano il
consolato, ma disperavano ottenerlo in competenza con Domizio Enobarbo,
il quale, col professare di voler abolire il proconsolato di Cesare,
blandiva i rancori degli aristocratici (55). Epperò, mentre
costui di buon mattino, con Catone ai fianchi, andava per la città
accattando suffragi, gli uscì addosso una smannata di malviventi che
ferì Catone, e uccise il servo che lo precedeva colla fiaccola: poi
i tribuni impedirono i comizj, sicchè Roma restò senza consoli, il
senato vestì a lutto, finchè vedendo non potere altrimenti quietare
il subuglio, domandò a Crasso e Pompeo se volessero accettare il
consolato, e così furono eletti.
Allora, per non essere da meno di Cesare, nè restare disarmati
mentre egli assicuravasi un esercito coi trionfi, si fecero decretare
Pompeo la Spagna, Crasso la Siria, l'Egitto e la Macedonia. Cesare
v'assentiva, purchè a lui non turbassero il proconsolato: Catone, che
andava ricantando i pericoli de' prolungati comandi, fu dal tribuno
Cajo Tribonio messo in arresto, e si stabilì che i governatori non
fossero scambiati per cinque anni, potessero far leve a loro grado,
esigere dagli alleati contribuzioni e truppe. Pompeo, più del comando
ambendone le apparenze, rimase a Roma: Crasso s'avviò contro i Parti.
La vittoria sopra Mitradate e gli altri re dell'Asia fece Roma
confinante con questo terribile popolo, che stanziando fra l'India
orientale, la Media e l'Ircania, poteva interrompere le comunicazioni
dei mercanti d'Occidente coi paesi che diedero sempre le più squisite
e preziose derrate. I Parti erano guerrieri nati, sempre a cavallo,
abilissimi a trar d'arco, non affidandosi nelle ordinanze, ma nel
valore violento. Li dominavano principi Arsacidi, che s'intitolavano
re dei re, fratelli del sole e della luna, ma che restavano limitati
dai dodici satrapi militari dell'impero, i quali poteano anche deporli,
e probabilmente ne confermavano l'elezione prima che il _surena_ o
generale gl'incoronasse.
Parve che, dal primo conoscerli, Roma sentisse quanto sarebbero a
lei pericolosi: ma sebbene il timore di essi facesse poco ambita la
provincia d'Asia, pure Crasso la sollecitò a gran prezzo. Da un lato
voleva superare Lucullo, Silla, Pompeo mediante spedizioni somiglianti
a quelle d'Alessandro; dall'altro compiacevasi in pensare e parlare
delle spoglie della Partia, intatta ancora da invasioni, e delle
aurifere arene dell'Indo e del Gange. Quel popolo aveva allora pace ed
alleanza coi Romani; laonde il tribuno Atejo Capitone si oppose alla
guerra fin coll'impedire a Crasso l'uscita di Roma, e coll'imprecare
contro di esso gli Dei vindici de' patti: ma Crasso, protetto da Pompeo
e stimolato da avara ambizione, tragittossi in Asia (54).
Traversando la Siria, rubò diecimila talenti al tempio di Gerusalemme,
risparmiato da Pompeo; poi varcato l'Eufrate, entrò sulle terre de'
Parti, i quali non avendo ragione di temere un'invasione, furono côlti
sprovvisti. Insuperbito della vittoria, lasciossi attribuire il titolo
d'imperatore; al re Orode, che mandò chiedergli qual motivo traesse i
Romani a guerra, replicò darebbe risposta in Seleucia lor metropoli;
ma Vagiso, capo della legazione, mostrando la palma della sua mano,
disse: — Prima che tu prenda Seleucia, vedrai crescere del pelo qui».
Per riuscire, Crasso avrebbe dovuto difilarsi sopra le capitali,
profittando della costernazione; invece tornò a svernare nella Siria,
ed arricchirsi delle spoglie e delle contribuzioni.
Ma mentre i soldati suoi scioglievansi dalla disciplina, i Parti,
riavuti dalla perfida sorpresa, facevano armi, e il loro surena in un
tratto (53) ricuperò le città occupate da Crasso. Il quale
de' cento sinistri augurj, che sgomentavano i suoi, si rideva; ma
sprezzava anche i buoni pareri, e invece di far via per le montagne
armene ove mal potrebbe squadronarsi la cavalleria parta, s'avanzò
nella Mesopotamia. Quivi pianure deserte o pantanose, il territorio
devastato, arsi campi e villaggi, non grano per l'esercito, non foraggi
pei cavalli; i generali spingevano innanzi a sè le popolazioni, appena
gettando alcuna guarnigione nelle piazze che, quando si fossero prese,
bisognava distruggere. Raggiungevasi l'esercito nemico? insolita arte
di battaglia occorreva contro una cavalleria che pugnava di lontano
e fuggendo, talchè a nulla approdava la pesante fanteria romana;
sconfiggevasi il nemico, nol si vinceva mai; si procedeva conquistando,
e morivasi di fame. Alfine côlto dai Parti nella spianata di Carre,
Crasso vide da essi bersagliate le indifese legioni: il figlio di lui
non potendo sottrarsi, si uccise dopo combattuto valorosamente. Quando
il teschio ne fu veduto confitto su lancia nemica, i Romani torcevano
spaventati, ma Crasso: — Me solo tocca questo lutto. Roma non è vinta
purchè intrepidi voi reggiate. Se vi prende compassione di un padre
orbato, mostratemelo col vendicarlo su quei barbari».
In questo mezzo le freccie, colpendo incessanti e d'ogni banda,
causavano una morte sì tormentosa, che molti preferivano accelerarla
coll'avventarsi contro la cavalleria. Crasso, fuggendo con pochi, si
trovò avviluppato ne' pantani e forviato da false guide. Dal surena
invitato a parlamento, sebbene sospettasse d'insidie, vi si trovò
costretto dalle grida de' suoi, e tra via diceva ai seguaci: — Tornati
in sicurezza, per l'onore di Roma dite che Crasso perì deluso dai
nemici, non abbandonato dai cittadini». Il surena gli fece ogni mostra
d'onoranza; ma ben tosto cominciò una baruffa, dove Crasso restò
ucciso. La sua destra e la testa furono presentate a Orode, il tronco
lasciato alle fiere: diecimila uomini, sopravissuti al doppio d'uccisi,
caddero prigionieri, e dimentichi della patria servirono i nemici, e ne
sposarono le figliuole[140].
Il surena entrò in Seleucia fra i teschi e le insegne romane,
trascinandosi dietro uno vestito da Crasso, con littori e guardie,
borse vuote alla cintola, e una banda di donnacce, cantanti lascivie
ed oltraggi ai vinti; e presentò al patrio senato una copia delle
impudiche _Favole Milesie_, trovata nel sacco d'un uffiziale romano;
come a dire che nulla di meglio dovea sperarsi da gioventù, la quale
piacevasi in libri siffatti. Orode fece colare dell'oro nella bocca di
Crasso, per insultare l'avara sua sete; poi assalì la Siria, sperando
coglierla sguernita. Il luogotenente Cassio fu pronto alla riscossa; ma
la sconfitta di Crasso non lasciò più ai Romani proferire il nome dei
Parti senza un profondo terrore.
CAPITOLO XXVI.
Seconda guerra civile.
Con Crasso periva l'unico che potesse mantenere l'equilibrio fra
Cesare e Pompeo, i quali l'odio reciproco dissimulavano per tema
che quello, accostandosi all'altro, di là piegasse la bilancia. La
rottura (55) fu accelerata dalla morte di Giulia, figlia di
Cesare e moglie di Pompeo, amata da ambedue, venerata pubblicamente.
Pompeo, benchè fosse rimasto in Roma, levò un esercito col pretesto
di proteggere la tranquillità, in fatto per dominar le fazioni e
non valere da meno degli altri triumviri. Domizio Enobarbo riuscito
console (54), avrebbe voluto por freno all'esorbitante
potenza, sorretto anche da Catone: ma s'accôrse di non valer nulla
contro le armi, in tempo che ogni elezione diventava opportunità di
traffici, ogni adunanza campo di violenze; i colpevoli sfuggivano alla
censura perchè troppi, e ai giudizj perchè denarosi; e come Cicerone
si lamenta, tolta la dignità della parola e la libertà del trattar le
pubbliche cose, niun altro partito restava che o fiaccamente assentire
coi più, o dissentire invano[141].
Il governo di Roma, come tutto ciò ch'è patriarcale, supponeva una
certa bontà: l'equilibrio suo consistendo nell'esteso diritto di
opporsi, bisognava non lo spingessero all'estremo nè il senato nel
negare gli auspizj, nè il tribuno nel mettere il veto: e poichè
riduceasi in fatto a due governi posti paralleli, quel della plebe e
quello del senato, con magistrature e decisioni distinte, per farli
camminare d'accordo richiedevasi ancora la bontà. Corrotti i costumi,
tutto si sovverte; le fazioni bollono ogni giorno peggio; se il
tribuno mette il veto è deriso, o si mandano bravacci a sgomentarlo e
far sangue; la prepotenza imbaldanzisce, e le spesse uccisioni fanno
sentire la necessità d'un freno dittatorio. Pompeo, che credevasi
l'unico uomo da ciò, voleva che il popolo se ne capacitasse, e venisse
a porglielo in mano; ma afferrarlo non osava, e intanto lasciava
prolungarsi il disordine, e a forza di bassezze per ottenerla, perdeva
la popolarità. All'occasione dell'assassinio di Clodio fu proposto di
conferirgli la dittatura (52), poi si stimò meglio farlo
console da solo, e tale rimase sette mesi, per quanto protestassero
Catone e la parte conservatrice: ma egli, non che s'ardisse
all'estremo, indietreggiò, eleggendosi a collega Metello Scipione; col
che, e collo sposarne la figlia Cornelia si riconciliò gli oligarchi.
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