Storia degli Italiani, vol. 02 (di 15) - 07
Questa provincia, avendo dovuto prendere ad esorbitante usura i
ventimila talenti impostile come contribuzione di guerra da Silla,
restava alla balìa degli esattori, i quali con raffinata avidità in
pochi anni elevarono essa contribuzione a sei volte tanto, cioè a
seicento milioni. I debitori impotenti venivano esposti l'inverno nel
fango, l'estate al gran sole, sepolti nelle prigioni, stirati sugli
eculei; sicchè per satollare i pubblicani vendeano i voti dei tempj, le
donne, le fanciulle, i pargoletti, alfine se stessi. In tali estremi
un cambiamento qualunque sembra un ristoro, e amico si considera ogni
nemico de' nemici nostri: laonde gli Asiani fissavano le speranze sopra
Mitradate, che domi ed uniti i Barbari, e ottenuti da Sertorio varj
uffiziali e il proconsole Mario, da questo facevasi precedere nelle
spedizioni, quasi per giustificarle colle romane divise; alla romana
adottò spade, scudi, esercizj, procacciossi buona cavalleria, ed ogni
pensiero concentrava nel preparare la riscossa.
Morì in quel tempo Nicomede III re di Bitinia (75),
istituendo eredi del suo regno i Romani; e Mitradate colse il destro
per invadere quel paese. Roma vide inevitabile lo sguainar di nuovo
le spade; e poichè la prima guerra avea fuor di misura arricchito
Silla e i suoi, molti ambivano il comando di questa, e più di tutti
Lucio Licinio Lucullo. Costui nella prima spedizione mitradatica
avea mitigata a sua possa la severità di Silla, il quale, tornando
in Italia, l'aveva lasciato in Asia per riscuotere le contribuzioni
di guerra, e morendo gli commise la tutela di suo figlio, uffizj di
cui s'acchetò decorosamente. Studioso, onesto, splendido, illibato,
protettore di tutti i Greci a Roma, e maestro quivi di delicature,
come di guerra s'era mostrato per dieci anni sui campi, guadagnò la
cortigiana Prezia, la quale usava i suoi vezzi a pro degli amanti, e
che gli guadagnò Cajo Cetego, arbitro allora della repubblica, pel cui
mezzo conseguì l'ambito comando. Il senato decretò tremila talenti per
l'armata di mare (74); ma Lucullo assicurò che le navi degli
alleati basterebbero per nettar il mare. Nel tragitto leggeva Polibio,
Senofonte, altri scrittori d'arte bellica, dai quali io non so quanto
profittare potesse, ma fu assai se ne desunse l'arte di pazientare.
Un'accozzaglia così eterogenea dovea ben presto mancare di viveri
e disciplina, e scomporsi; onde bastava il codiarla e impedirle
di nuocere: ma il farlo era difficile con un esercito più avverso
all'indugio che al pericolo, e che Fimbria e Murena aveano avvezzato
all'indocilità e al furto. Accolto con gran festa dall'Asia, non
ancor dimentica della mostratale bontà, Lucullo si applicò a svellere
gli abusi introdotti, frenare la voracità dei pubblicani moderando
l'interesse all'un per cento il mese, proibendo di cumulare al capitale
i frutti, e cassando quelli che eccedevano il capitale, finchè in
quattro anni i beni si purgarono dalle ipoteche. Con questo e colla
generosità verso i vinti molte città ritornò volontarie in dovere, a
grave scontento de' suoi soldati che si vedevano sottratta la voluttà
del sangue e la lautezza del saccheggio.
Mitradate, forte di cencinquantamila pedoni, dodicimila cavalli,
cento carri falcati, quattrocento navi, da varie parti aggrediva
i nemici, ridotti inoperosi dalla sproporzione; e più d'una volta
mandò in rotta gli ajutanti di Lucullo. Questi, risoluto di tenersi
sulla difensiva, non si lasciò mai trarre a battaglia se non quando
fosse sicuro della vittoria. Una insigne (73) ne riportò a
Cizico, donde snidò il re uccidendogli a migliaja i soldati; poi lo
inseguì nell'Ellesponto, e l'avrebbe anche preso se quegli ad arte non
avesse forato i sacchi dell'oro, portati dietro il suo cammino, per
raccogliere il quale i soldati romani e i galati perdettero il tempo,
che in guerra è tutto.
Mitradate rifuggì a Tigrane II re d'Armenia (71), suo
genero, che era divenuto il più potente sovrano dell'Asia occidentale,
e che nelle marcie e alle udienze tenevasi accanto quattro re; e ne
ottenne sedicimila cavalli per ripristinare la sua fortuna nel Ponto.
Ma Lucullo con quindicimila uomini varca il Tigri e l'Eufrate, è nel
cuore dell'Armenia, e come avea vinto il gran re colle lentezze, così
vince Tigrane colla rapidità (70), e con quella mano di
prodi disperde ducentomila Barbari, fra cui diciassette mila cavalieri
vestiti di ferro: alle città ridona l'indipendenza; col rispettare
le terre e le vite si amica i Barbari; poi presso Artaxata raggiunge
Mitradate e Tigrane ch'eransi rifatti in forze, li sbaraglia, e poteva
annichilarli, quando l'esercito s'accordò a ricusargli obbedienza
(69). Invano egli passava di tenda in tenda pregandoli uno
a uno. — Che guerreggiare è mai questo (gli diceano) dove nulla si
guadagna?» e mostrandogli le vuote borse, — Fate la guerra voi solo,
che solo ne vantaggiate».
E forse è vero che Lucullo ritraesse ingenti somme dalle città cui
risparmiava il saccheggio; ma certo i pubblicani a Roma esageravano
la rapacità di quello che avea frenata la loro, tanto che il senato
pensò dargli lo scambio. Il tribuno Cajo Manilio propose Pompeo
(67), Marco Tullio Cicerone lo sostenne contro Quinto
Ortensio, suo emulo d'eloquenza; il popolo lo nominò, per quanto i
nobili si opponessero, e per quanto Catulo esclamasse: — Senatori, più
non vi resta che fare in una città talmente cieca sui pericoli della
propria libertà. Cercate qualche rupe Tarpea, qualche monte Sacro, dove
possiate ricoverarvi e restar liberi».
Lucullo, dicendo che quel fortunato, simile ai corvi, calava ai
cadaveri degli uccisi, tentò rimandarlo come da impresa finita. Quindi
nacquero dissapori: il giovane invidioso non lasciava alcuno accostarsi
a Lucullo, ne abrogò tutti gli atti e gli concesse appena milleseicento
soldati per ritornare a Roma. Quivi a fatica ottenuto il trionfo,
indispettito di vedersi carpita la omai sicura vittoria, si ritirò
dagli affari, e mal capitato di sua famiglia, gettossi ad un lusso che
rimase proverbiale; nè in senato più compariva se non per istornare
qualche mira di Pompeo, il quale riuscì a farlo cacciare di città.
Delle oscillazioni causate dallo scambio si giovò Mitradate per
rientrare nel Ponto, e riaprire ai Barbari la via del Caucaso; e guaj
a Roma se più facili comunicazioni gli avessero consentito d'unirsi
co' pirati e con Spartaco, che ancora osteggiavano la repubblica!
ma la fortuna voleva serbarsi fedele al mediocre Pompeo. Un figlio
di Tigrane, ribellato, si buttò coi Romani, e si offrì lor guida in
Armenia. Tigrane, venuto nella tenda di Pompeo, in presenza dello
snaturato figliuolo confessò gli era di consolazione il vedersi vinto
da tanto eroe; il quale in compenso gli restituì l'Armenia, purchè
pagasse seimila talenti; e colui, dichiarato amico e socio de' Romani,
non solo sospese d'assistere Mitradate, ma promise cento talenti a chi
gliene recasse la testa.
Anche Mitradate chiedeva patti al Magno: ma i Romani che s'erano
messi al soldo di lui, tenendosi sacrificati, attraversavano ogni
accordo. Vinto poi (65) in riva all'Eufrate, abbandonato
dai suoi, fuggì la notte tutto solo; e ricoverato nella Crimea, senza
aver perduto dramma dell'antico coraggio, sollecitava alle armi le
popolazioni caucasee. Pompeo agevolmente sparpagliò le mal accozzate
turbe: poi reduce e credendo morto Mitradate, in una spedizione
somigliante a corsa trionfale acquistò la Siria e la Giudea con
Gerusalemme (64), e fece sventolare le insegne romane tra le
foreste odorose e i boschetti di balsamo e d'incenso dell'Arabia[54].
Mitradate però non era morto; e vecchissimo, e roso da un'ulcera che
lo costringeva a celarsi agli occhi altrui, meditava sommovere tutto
il mondo barbaro contro di Roma. Ricomparso nel Ponto, ricuperò molte
città e spedì le sue figlie ai principi sciti per farsene generi ed
alleati: ma queste, tradite dalle scorte, furono consegnate ai Romani.
Pel Bosforo Cimmerio, traverso alla Scizia e alla Pannonia condurre
un esercito nella Gallia, e colle orde che vi comprerebbe piombare
sull'Italia, nuovo Brenno, Annibale nuovo, era il suo divisamento: ma
gli uffiziali lo giudicarono temerità, e ricusarongli obbedienza; e
Farnace, il dilettissimo de' suoi figliuoli, indettatosi coi Romani,
si fece gridar re. Allora Mitradate, caduto di speranza e di cuore,
avvelena se stesso (63), le concubine, e due sue figlie
fidanzate ai re di Cipro e d'Egitto. Quelle perirono; ma egli s'era
talmente abituato coi controveleni, che dovette alla spada d'un soldato
ricorrere per finir la vita e un regno di sessantun anno. Pompeo
ricevette da Farnace il cadavere del suo nemico, il quale quanto fosse
grande lo attestano la gioja dell'esercito e del popolo romano. Gli
storici non rifinano di enumerare le ricchezze trovate ne' tesori
di lui: trenta giorni occuparono i commissarj della repubblica a
inventariare i vasi d'oro e d'argento, e briglie e selle guernite di
diamanti; la sola città di Telaura porse duemila coppe d'onice legate
in oro; altrove si rinvennero statue d'oro massiccie, e un damiere
fatto di due sole pietre fine, largo tre e lungo quattro piedi, coi
pezzi pure di gemme, e sovr'esso una luna d'oro, pesante trenta libbre.
Pompeo rimpastò a suo talento l'Asia, premiando chi l'avea favorito,
formando le nuove provincie della Bitinia, della Cilicia e della Siria,
la quale fu sottratta per sempre alla dinastia de' Seleucidi; e dal
Ponto Eusino al golfo Arabico non rimaneano più che vassalli di Roma.
Vincitore dell'Europa, dell'Asia, dei mari, Pompeo menò il terzo suo
trionfo (82), il più splendido di cui fosse memoria. Non
bastò la processione di due giorni per ispiegare sugli occhi del popolo
le spoglie e i nomi dei vinti; il Ponto, l'Armenia, la Cappadocia, la
Paflagonia, la Media, la Colchide, l'Iberia, l'Albania, la Siria, la
Cilicia, la Mesopotamia, la Fenicia, la Palestina, la Giudea, l'Arabia,
i corsari; presi più di mille castelli, poco meno di novecento città,
ottocento navi di corsari; trentanove città ripopolate; cresciute le
pubbliche rendite da cinquanta milioni di dramme a quasi ottantadue;
versati nell'erario ventimila talenti, non computando millecinquecento
dramme distribuite a ciascun soldato. Oltre gli ostaggi, Pompeo menava
trecenventiquattro prigionieri di grado, fra cui il capo dei pirati,
il figlio traditore di Tigrane colla madre, la moglie e la figliuola,
Aristobulo II re degli Ebrei, la sorella di Mitradate con cinque
figliuole e molte Scite. Invece di far trucidare tutti questi infelici
alla romana, li rimandò alle proprie terre, salvo Aristobulo e Tigrane.
Quai lodi sarebbero state bastanti? A concorde voce gli fu confermato
il titolo di Magno, sebbene la fortuna sua l'avesse meritato, non egli,
che non dovea saper conservarlo[55].
CAPITOLO XXIII.
La costituzione sillana abolita. L'eloquenza. Cicerone. Verre.
Pompeo aveva cominciato la sua carriera politica collo sbrancarsi dai
cavalieri per parteggiare coi senatori; onde quelli l'aborrirono come
disertore, mentre questi non mostrarono tenerlo in bastante conto;
Silla ne lusingò la piccola vanità, pure nè tampoco menzione di esso
fece nel testamento, ove nessuno dimenticò dei suoi amici. Periti poi
i veterani di Silla, allorchè la causa de' cavalieri e degli Italiani
tornò a galla, Pompeo s'accostò a questa; massime vedendosi oggetto
dell'entusiasmo del popolo che nulla gli ricusava, si propose di
ripagarlo con servizj.
Rintegrare l'autorità dei tribuni, lento acquisto della democrazia
cincischiato da Silla, doveva essere il primo passo della riazione;
e il console Aurelio Cotta, come riparo alla carestia prodotta dalla
guerra dei pirati (74), avea proposto che più non si vietasse
a chi era stato tribuno di ottenere altre magistrature. Pompeo console
coronò quel voto, facendo passare, a malgrado di Lucullo (70), di Lepido, di Catulo, che i tribuni fossero novamente eletti dalla
plebe, e si ripristinassero i comizj per tribù, i quali rendevano al
basso popolo il diritto ch'ei suol confondere colla libertà, quello
di poterla vendere. La censura anch'essa fu risarcita, e nel primo
sindacato si espunsero dall'album sessantaquattro senatori. Trattavasi
di ritogliere i giudizj al senato, attribuendoli ai cavalieri; per
riuscirvi, occorreva di mostrare al pubblico quanto la tirannide sulle
provincie fosse peggiorata dopo che i senatori erano soli giudici de'
proprj delitti; e a tal uopo si adoperò il più famoso oratore.
Già ha potuto accorgersi il lettore quanta parte nelle vicende romane
esercitasse l'eloquenza, dovendo, come in governo libero, ciascuno
persuadere le riforme che proponeva, convincere i cittadini della
giustezza dei suoi pensamenti, o della propria innocenza se accusato;
e però veniva coltivata fra le precipue arti civili come mezzo
d'ingerenza, e come opportuna ad acquistare clienti col patrocinarli.
La cognizione della legge restava uno studio sussidiario, un
rifugio per coloro che fallissero nella prova dell'eloquenza; mentre
coll'accusare, difendere, sostenere, confutare dai rostri, la gioventù
romana si facea conoscere dal popolo, e meritevole di cariche e
d'onori.
I più antichi oratori a solidità di prove e calore di esposizione
non univano delicatezza o coltura scientifica o armonica struttura;
e l'austero Catone censorio, che pure stette novanta volte in
giudizio, e di cui cencinquanta orazioni s'aveano ancora al tempo
di Cicerone, credeva che, ad arringar bene una causa, bastasse il
ben conoscerla[56]. Dei Gracchi, cui Quintiliano propone a modelli
di maschia dicitura, Cajo è da Cicerone giudicato il più ingegnoso
ed eloquente fra i latini[57]; e ne' pochissimi frammenti che ce
ne rimangono, sentesi quel virile e posato, che invano si cerca fra
l'incessante artifizio di Tullio e di Livio, nè più ricompare che in
Giulio Cesare. A Lelio ed al suo amico Scipione Africano Minore la
consuetudine coi Greci aveva scemata la scabrezza, non tolta.
E i Greci mostrarono quanto la dialettica giovasse all'eloquenza,
insegnarono a formarsi una traccia con un tema unico, una divisione
esatta, rigorose dimostrazioni, sobrj e scelti ornamenti, variata
invenzione. Più non bastò che l'eloquenza procedesse naturalmente,
col corredo delle prove e coll'energia delle passioni, le quali
istintivamente conoscono come avvincere l'attenzione, movere gli
affetti, insinuarsi negli spiriti; ma si pretese l'oratore avesse
«lingua snodata, sonora voce, buon petto», e lungo studio degli
spedienti oratorj. Prima dunque d'avventurarsi al tremendo giudizio
pubblico, e giovani e adulti si esercitavano nelle scuole o ne'
circoli in controversie sopra differenti soggetti; Cicerone declamò
fin alla pretura, e vi tornò quando, già carico d'allori, le civili
tempeste lo rimossero dal fôro; Irzio e Dolabella venivano da lui
ad esercitarsi[58]; Pompeo, prima delle guerre civili, addestravasi
a vincere colla parola, quasi presumendo che questa potesse ancora
decidere dell'impero in mezzo a tante armi; vi si addestrò Marc'Antonio
per rispondere a Cicerone; e ne fe grande studio Ottaviano Augusto
durante la guerra di Modena, quasi per rimpatto della sua inferiorità
in fatto di battaglie.
Memoria di ferro occorreva per ripetere le arringhe studiate, senza
lasciarsi confondere dalla romba popolare: ammiravansi alcuni che,
nel far broglio, sapevano salutare tutti i cittadini a nome, senza
bisogno del servo rammentatore: narrano di un tale che, inteso recitar
un poema, per celia accusò l'autore d'averlo a lui stesso rubato, e
in prova lo ripetè da capo a fondo: Ortensio assistette una giornata
intera ad un'asta di mobili, e la sera nominò per ordine ciascun capo,
coi difetti, il prezzo, i compratori: più tardi Marco Anneo Seneca
ridiceva duemila parole sconnesse, nell'ordine che le aveva intese; e
si valse di questa facoltà per raccorre i pezzi uditi negli esercizj
di declamazione, e farne un regalo ai figli e alla posterità in dieci
libri di _Controversie_, di cui cinque soli e imperfetti ci rimangono e
non si leggono.
Tra questi artifizj, ma non per essi giunse a maturità l'eloquenza con
Marc'Antonio e Lucio Licinio Crasso verso la metà del VII secolo di
Roma. Il primo, soprannominato l'Oratore e morto ne' tumulti mariani
(pag. 58), studiò in Atene e Rodi, ma aveva l'arte di celar l'arte,
tanto che si credeva trattasse impreparato le cause che aveva meditate
con lunga diligenza; e sebbene non le scrivesse, la grande energia
naturale rialzava con un porgere vivacissimo. Solo Crasso gli reggeva
a fronte, ricco di cognizioni scientifiche e giuridiche e di politica
esperienza, preciso nelle espressioni, di naturale eleganza, grave,
eppure ben provvisto di facezie e di lepidezze non scurrili.
Nella costituzione romana gli alti magistrati rimanevano inviolabili,
ma prima di assumer la carica e appena deposta doveano rispondere a
qualunque accusa loro fosse apposta. Tale indagine non era affidata
ad alcun tribunale prestabilito; chicchessia poteva presentarsi come
accusatore, e ne seguiva un pubblico giudizio. Queste accuse erano
l'esercizio, pel quale i giovani si aprivano la carriera pubblica,
assumendo impegno di trarre in giudizio qualche personaggio di grido,
e a forza di eloquenza farlo condannare ad ammenda od all'esiglio.
Cicerone, fra i mezzi d'acquistar gloria, colloca queste accuse
giovanili, sebbene consigli a scegliere piuttosto la difesa, parendo
da duro animo il mettere a pericolo di morte un altro, _massime_ se
innocente. «Del difendere poi un reo (continua il moralista) non
conviene farsi coscienza, giacchè il patrono segue il verosimile,
anche quando paja meno appoggiato»[59]. Così dalla calunnia, pessima
delle scelleraggini, egli dissuadeva i giovani per mera convenienza;
e l'avvocatura considerava mero esercizio di destrezza, per trionfare
nel proprio assunto, e deprimere un emulo, il quale poi, cogli
aderenti suoi, restava quasi un predestinato e irreconciliabile nemico.
Vatinio, sentendosi serrare a mezza spada da Licinio Calvo in queste
prove giovanili, proruppe: — Ma che? dovrò io andar condannato perchè
costui è eloquente?» Tanto è d'antica data la turpitudine vostra, o
giornalisti.
Narrammo come Claudio Crasso esordisse egli pure dall'accusare Carbone,
il quale si trovò così vivamente incalzato, che prese il veleno. Pure
il giovane per avidità di vittoria non dimenticò l'onestà, giacchè un
servo offeso avendogli recato uno stipo contenente le carte di Carbone,
egli senza aprirlo glielo rimandò.
Uno di casa Bruto, cominciando la carriera oratoria dall'accusare, pose
cagione al ricco e illustre cittadino Marco Licinio Crasso, massime col
mettere a confronto due passi di arringhe ove questi si contraddiceva.
Crasso di rimpatto fe recitare gli esordj di tre dialoghi del padre
di Bruto, ove descriveva una sua villa; poi chiese all'accusatore che
ne avesse fatto di quella, prendendo da ciò le mosse ad un'invettiva
violenta contro gli scialacqui di quel garzone. Volle il caso che dal
fôro passasse allora il funerale d'una matrona; e Crasso cogliendo
al volo quest'incidente, si volse all'avversario, e — Che fai costì
seduto? Cosa vuoi riferisca quella vecchia a tuo padre? cosa a coloro,
di cui vedi portate le effigie? cosa a Giunio Bruto, il quale campò
questo popolo dalla regia dominazione? Cosa dirà che tu fai? in quali
interessi, in qual gloria, in qual virtù t'adopri? In aumentare il
patrimonio? ciò non s'addirebbe alla nobiltà: pure tel comporterei;
ma se omai nulla t'avanza, se tutto dissiparono le lascivie! Nelle
cose militari? ma se mai non vedesti i campi! Nell'eloquenza? ma se
non n'hai di sorta, e voce e lingua non usasti che a questo turpissimo
commercio della calunnia! E tu osi goder la luce? tu guardar noi? tu
stare nel fôro, tu in città, tu al cospetto dei cittadini? Non hai
sgomento di quella morta, di quelle immagini cui non serbasti luogo,
non che d'imitarle, nè di riporle tampoco?»
Anche Marc'Antonio vantavasi d'aver salvato Norbano, imputato di
sedizione, non già per raggiri, ma col destare gli affetti[60]: e nella
difesa d'Aquilio stracciò a questo le vesti d'in sul petto, e pianse,
e commosse al pianto[61]. Il quale Antonio è da Cicerone lodato per la
vigoria d'animo nel recitare, l'impeto, il dolore espresso cogli occhi,
col volto, col gesto, col dito, con un fiume di gravissime ed ottime
parole.
In rinomanza salirono pure Muzio Scevola pontefice massimo, profondo
nella scienza del diritto, e squisito parlatore; Aurelio Cotta, florido
e purgato nel dire, acuto nel trovare, sano e sincero nel gusto, e
che determinava i giudici a forza d'abilità, sebbene il fievole petto
gl'impedisse di gridare e movere gli affetti; Sulpizio Rufo, grandioso
e tragico, voce al bisogno or viva or soave, gesto leggiadrissimo nè
mai eccedente.
Più di trecento oratori ricorda Frontone, ma tutti si eclissano nello
splendore di Marco Tullio Cicerone. Nacque in Arpino (106)
nella regione dei Marsi, l'anno stesso che Pompeo, da buona famiglia
equestre, ma segregata dagli affari. Suo padre, attento ai campi ed
alle lettere, diresse con premura e senno l'educazione di Tullio, che
si segnalò sulle scuole, nelle quali gli esercizj faceansi in greco,
giacchè la lingua natia credevasi bastasse impararla dal quotidiano
conversare e dai pubblici dibattimenti. Il primo che aprisse scuola
di retorica in latino fu un Lucio Plauzio, e la gioventù vi traeva
in folla come alle novità; ma il giovane Tullio n'era dissuaso da
gravissimi personaggi, che pretendevano all'ingegno porgessero ben
migliore alimento le greche esercitazioni[62]. Quelle scuole però
diventavano palestre di dispute vane, d'artifiziale verbosità e di
sfrontatezza; talchè i censori Domizio Enobarbo e Lucio Licinio Crasso
credettero bene riprovarle, come contrarie all'uso dei maggiori.
Di ventisei anni Cicerone fece la prima comparsa nel fôro a difendere
Roscio Amerino; e piacque agli uditori quell'eloquenza immaginosa e
pittoresca, che più tardi egli trovava soverchia. Anzichè addormentarsi
sopra gli allori, facilmente condiscesi a un principiante, andò a
viaggiar la Grecia e l'Asia, a farsi iniziare ne' misteri eleusini,
e a perfezionarsi in Atene e a Rodi sotto i retori famosi, giacchè
i maestri di pensare si erano ormai ridotti a maestri di parlare.
Molone Apollonio di Rodi castigò in esso la ridondanza, che non sempre
è buon segno ne' giovani; e udendolo declamare, — Ahimè! (disse)
costui torrà alla Grecia il vanto unico rimastole, quello del sapere e
dell'eloquenza».
Tornato in patria, prese lezioni di bel declamare da Roscio
commediante; e si produsse colle arringhe che ci rimangono, tutte
sottigliezza e squisitissime forme: ma a divenire grand'oratore, più
che la scuola, gli valsero la conoscenza degli uomini, il sentimento
del retto, la benevolenza, l'acume, l'immaginazione. Nessuno creda che,
quali le leggiamo, fossero veramente recitate le orazioni sue: teneva
in pronto alcuni esordj, poi preso calore, s'abbandonava alla foga
dell'improvvisare; i suoi schiavi stenografavano que' lunghi discorsi,
che egli poi a tavolino forbiva, cangiava, insomma facea di nuovo[63].
Nè vi cercate que' tratti vivaci che, massime nei moderni, colpiscono
e fermano; ma piuttosto uno splendore equabilmente diffuso sul tutto,
una continua grandiloquenza. Nell'arte di dar risalto alle ragioni, non
sia chi pretenda superarlo: ma non s'accontenta a ciò; e vuol recare
diletto, s'indugia in descrizioni, digredisce ora intorno alle leggi,
or alla filosofia, or alle usanze[64]; celia sopra gli altri e sopra
se stesso; singolarmente primeggia nel movere gli affetti. Sempre poi
si atteggia in prospettiva, e ad ogni periodo, ad ogni voce lascia
trasparire il lungo artifizio: di qui la purezza insuperabile del suo
stile, di qui il finito d'ogni parte, e il non produrre mai un'idea
se non vestita nobilmente; talchè osiam dire che nessuno abbia meno
difetti e maggiori bellezze.
Ma parlando come chi vuol dilettare più che convincere, e non teme
essere contraddetto purchè dica bene, non lascia mai risentire lo
sforzo, e la rotonda facilità della sua parola non si eleva mai al
vero sublime: per lunga pratica e per analisi argutissima conosce
tutti gli accorgimenti con cui svolgere, accomodare, invertere le
parole, e tutti li usa come padrone; ma t'accorgi che è formato alla
scuola, e v'incontri, non i torrenti di luce fecondatrice che versa
dall'inesauribile grembo il sole, bensì i riflessi della luna che su
tutto diffonde gli armonici suoi chiarori.
E alla luna il dovremo paragonare se ne ponderiamo i sentimenti. Non
t'arresti ad una sua sentenza che mostri un risoluto giudizio, un
partito deciso, senza che altrove non t'imbatta nel preciso opposto: e
viepiù nelle orazioni il calore del discorso o l'intento di piacere gli
faceano mettere alle spalle la verità[65]. Sosteneva un assunto quando
gli servisse, non rifuggendo dal sostenere il contrario quando meglio
gli tornasse. Leva a cielo i poeti difendendo Archia? li vitupera nella
_Natura degli Dei_: encomia i Peripatetici nella difesa di Cècina? li
disapprova nel primo degli _Uffizj_: i viaggi di Pitagora e Platone
trova stupendi nel quinto _dei Fini_, li trova sordidi nell'epistola a
Celio: chiama povera la lingua latina in più luoghi, in più altri la fa
più ricca della greca, anzi la greca accusa di povertà[66].
Riservandoci a parlare altrove de' suoi scritti filosofici, qui diremo
come i segreti dell'arte sua esponesse in dettati di squisito sapore,
rilevati da sali e grazie carissime. Chè la critica acquista dignità
e grandezza in mano d'uomini i quali fanno scomparire la differenza
fra l'arte del giudicare e il talento del comporre, portano una specie
di creazione nell'esame del bello per genio istintivo, pare inventino
allorchè non fanno che osservare, e possono dire — Son pittore
anch'io». La pretensione di dar precetti sul modo d'adoprare ciò che
più è personale all'uomo, la sua lingua, l'espressione degl'intimi
sentimenti, sa di stolta o ridicola: eppure in Cicerone si leggono
volentieri quelle regole, di necessità incomplete ma dedotte da lunga
e splendida esperienza, e dall'abitudine di tener conto di tutte le
ragioni del favellare, dalle più astruse fino alle minuzie materiali
della dizione figurata e del ritmo oratorio. A questi attribuendo le
vittorie sue o degli altri, volle analizzarli con una sottigliezza
intempestiva, discutendo sul tono di voce conveniente al principio e
al seguito dell'orazione, sul battersi o no la fronte, sullo scompor
le chiome nel tergere il sudore, ed altre inezie che non tardarono a
divenire principali.
Quei precetti intorno al simulare ciò che farebbe naturalmente chi
esprimesse i proprj sentimenti, a noi, cambiata lingua e modi, riescono
disutili; talvolta neppure intelligibili i suoi suggerimenti sulla
disposizione delle parole, la consonanza dei membri, la distribuzione
de' periodi, l'alternare delle sillabe lunghe e brevi, e finir
col giambo piuttosto che collo spondeo; nè partecipiamo alla sua
ammirazione pel dicorèo _comprobavit_: ma queste che a noi somigliano
frivolezze, aveano somma importanza fra un popolo dove Gracco parlando
alla tribuna faceasi dar l'intonazione da un flautista, e dove a una
frase ben compassata di Marc'Antonio sorsero applausi fragorosi. Pure
Cicerone fu appuntato di troppa arte nel contornare il periodo; e a
noi stessi non isfugge quanto egli prediliga certe chiuse sonanti, e il
frequente ritorno della cadenza _esse videatur_.
Sì gran maestro di tutti i secreti della parola, era argutissimo nel
notare i meriti e i difetti degli emuli e de' predecessori suoi, che
tutti superò. Contemporanei fiorirono Giulio Cesare, Giunio Bruto,
Messala Corvino, Quinto Ortensio Ortalo. Quest'ultimo a diciannove
anni (113-49) si mostrò al pubblico con un'arringa in
favore degli Africani, e fu come un lavoro di Fidia che rapisce i
suffragi degli spettatori al sol vederlo[67]. Memoria sfasciata, bel
porgere, somma facilità il rendevano arbitro della tribuna, e facevano
accorrere i famosi attori ad ascoltarlo, mentre la fluidità asiatica,
l'ornamento, l'erudita accuratezza ne rendevano piacevole la lettura.
Egli introdusse di dividere la materia in punti, e di riepilogare al
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