Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 32

L’argomento più concludente contro quell’eroismo potrebbesi trarre
dall’inutilità, se non anche peggio, del consiglio che si fa dare da
Regolo. Col cambio dei prigionieri Cartagine non avrebbe ricuperato
che mercenarj, de’ quali poteva rifarsi altrove con puro danaro; Roma
riacquistava cittadini e veterani, che avrebbero, come quelli resi
da Pirro, cancellata l’infamia con maggiori prodezze. Non poteano i
prigionieri essere altrettanti Regoli, gran capitani e gran cittadini?
forse che l’aver avuto le braccia incatenate avea prostrato l’animo
del console? La ragione più forte che Orazio esponga, è la paura del
cattivo esempio: ma non è ancora deciso che possa mandarsi a morte un
uomo per dare esempio ad altri. La pace poi che Regolo sconsigliava,
Roma l’accettò alcuni anni appresso, ond’egli persuadendola non avrebbe
fatto che risparmiare i guasti e il sangue del tempo interposto: ma
le vite non si contano nei calcoli dell’ambizione. Il far poi tante
meraviglie perchè Regolo mantenne la parola giurata di ritornare, non
fa troppo onore alla specie umana.
Fu Palmerio il primo che, nel secolo xvi, suppose quella morte una
favola della famiglia Regolo per iscusar le sevizie di essa sui
prigionieri. A lungo ne discusse Halthaus, _Gesch. Rom. in Zeitalter
der punischen Krieg_, Lipsia, 1866, e propende per l’opinione vulgata.
[253] PLINIO, _Nat. hist._, XVIII. 13.
[254] Vuolsi ricordare un singolarissimo tratto di Cajo Alimento,
conservatoci da A. Gellio, XVI. 4. Vi si legge che, quando levavansi
truppe, i tribuni militari faceano giurare ai soldati della loro
compagnia, che nè in campo nè nel contorno di dieci miglia non
ruberebbero più del valore d’una moneta d’argento al giorno; se
_trovassero_ alcun che di maggior prezzo, lo porterebbero ai capi loro:
potevano però appropriarsi una lancia, la legna, il foraggio, le rape,
un otre, un sacco, una fiaccola.
[255] In queste cifre, date da Polibio, II. 23. 69, convengono ad un
bel circa Fabio Pittore (ap. PAOLO OROSIO, IV. 15), Diodoro Siculo
(_framm._ 3 del lib. XXV), e Plinio (_Nat. hist._ III. 24). Si vede
che contavasi solo l’Italia fino al Rubicone e a Luni, al 44 grado di
latitudine, eccettuando sempre i Veneti e i Cenomani.
[256] TITO LIVIO, III. 3. Sì scarsa popolazione ci fa conchiudere, al
contrario del Durando (_Mem. dell’Accademia di Torino_, tom. IV, p.
617, 1811) e di Dureau de la Malle (_Mémoires de l’Académie française_,
tom. X, 1833), che grandissimo fosse il numero degli schiavi. Esso
Durando dà alla Gallia Cisalpina in quel tempo soli quattro milioni
d’abitatori, altrettanti al resto d’Italia.
[257] POLIBIO, III. 6; LIVIO, XXI. 2. 7.
[258] PLINIO, _Nat. hist._, XXXIII. 6.
[259] PLUTARCO, _Della virtù delle donne_.
[260] Tito Livio e Cornelio Nepote, per far drammatico il racconto,
lesero la verosimiglianza dei fatti e la prudenza del gran capitano.
Quelle Alpi, che Cornelio ci dà come inaccesse, e tali che appena un
uomo scarco potea passarvi, quante volte non erano state superate dai
Galli per venir a saccheggiare l’Italia o a collocarvisi? Popolatissime
appajono esse dal racconto medesimo, e certo i Galli servirono di guide
ad Annibale pei colli impraticati.
Una biblioteca intera si scrisse intorno alla marcia d’Annibale dalla
Spagna in Italia; segno che i dati sono arbitrarj, quanto inutili le
conseguenze. Noi, senza entrare in discussione, rimandiamo a Polibio,
lib. iii. 42-56; ma neppure da lui si aspetti l’esattezza numerica,
insolita agli autori antichi. Egli misura il viaggio da Cartagena a
Taurino in novemila stadj: poi i viaggi parziali non riescono che di
ottomila seicento.
Fra altre favole, Livio racconta che Annibale ruppe le Alpi coll’aceto.
Baja ridicola; pure anch’oggi nelle famose miniere dell’Hartz
spaccasi la rocca coll’accendervi grandi fuochi, e quando sia ben
riscaldata, gettarvi acqua: operazione che doveva esser comune prima
dell’invenzione della polvere.
Vedasi ABBOTT, _History of Hannibal the cartaginian_, Londra 1849.
[261] Polibio dà cinquanta elefanti ai Cartaginesi che assediavano
Agrigento; cento alla battaglia di Rodi contro Regolo; ottanta a quella
di Zama. Secondo Diodoro Siculo, Asdrubale, fondatore di Cartagena,
ne avea ducento in Ispagna; cencinquanta erano alla battaglia di
Tapso, ultima d’Africa ove questo animale compaja. Li traevano non
dall’interna Africa, ma dal paese contiguo a Cartagine, sul piovente
meridionale dell’Atlante, ove da gran tempo più non se ne incontra.
Così nell’Africa meridionale in numero sterminato si trovavano al tempo
che primamente fu colonizzato il capo di Buona Speranza, poi furono
messi in fuga o distrutti dai coloni.
[262] _Lectisternium, ver sacrum._ LIVIO, XXVII. 39.—ARRIANO, _De bello
hispanico._—SILIO ITALICO, XV. 495.
[263] _Triumviri mensarii._ LIVIO, XXIV. 18.—Vedi ARNOLD, _Storia
romana._
[264] Anzi Appiano mette dieci, fornite solo da volontarie
contribuzioni: χρήματα οὐκ ἕδωκαν πλὴν εἴ τις ἤθελε τῷ Σκιπίονι κατὰ
φιλίαν συμφέρειν.
[265] Il fatto è riferito da Diodoro ne’ frammenti, e da Appiano; Livio
ne tace, come di molti altri. Fra Catanzaro e Crotone, mostrano la
Torre d’Annibale, ov’è tradizione ch’egli s’imbarcasse.
[266] Τὸ τρίτον τῆς στρατιὰς Κέλτοι καὶ Λίγυες: APPIANO.—_Galli proprio
atque insito in Romanos odio incenduntur_. LIVIO, XXX. 33.
[267] Ne fanno segno ancora i nomi di Minuciano, Antognano, Petroniano,
Sillano, Gragnano, Albiano, Elio, ed altrettali di colà. I Romani
dovettero spingervi gli eserciti lungo la Garfagnana, risalendo da Pisa
il Serchio fra valli anguste e scoscese pendici.
[268]
_Ille triumphata Capitolia ad alta Corintho
Victor aget currum, cæsis insignis Achivis.
Eruet ille Argos, agamemnoniasque Mycenas,
Ipsumque Æacidem, genus armipotentis Achillei:
Ultus avos Trojæ, temerataque templa, Minervæ._
VIRGILIO, _En._ VI. 836.
[269] VALERIO MASSIMO, lib. IV. cap. 4.
[270] Polibio, negli _Esempj di virtù e di vizj_, cap. 73, così
narra la sua entratura con Scipione:—La nostra corrispondenza avea
principiato da ragionamenti sui libri ch’egli mi prestava. Questa
unione di cuore erasi già stretta alquanto, quando i Greci chiamati a
Roma furono in varie città dispersi. Allora i due figliuoli di Paolo
Emilio, Fabio e Publio Scipione, richiesero istantemente al pretore
ch’io potessi restare con loro, e l’ottennero. Mentr’io stava in Roma,
una singolare avventura giovò assai a stringere la nostra amicizia.
Un giorno, mentre Fabio andava verso il fôro, ed io e Scipione
passeggiavamo in altra parte, questo giovane romano in aria amorevole
e dolce, ed arrossendo alquanto, meco si dolse che, stando io a mensa
col suo fratello e con lui, sempre a Fabio volgessi il discorso, non
mai a lui:—Ben conosco (soggiunse) che questa vostra freddezza nasce
dall’opinione in cui siete voi pure, come tutti i nostri concittadini,
ch’io sia un trascurato, di nessun genio per le scienze che al presente
fioriscono in Roma, perchè non mi vedono applicarmi agli esercizj del
fôro, nè volgermi alla eloquenza. Ma come, caro Polibio, come potrei
io farlo? Mi si dice continuamente che dalla famiglia degli Scipioni
non s’aspetta già un oratore, ma un generale. Vi confesso che la vostra
freddezza mi affligge.—Io restai meravigliato a un discorso, quale non
mi attendeva da un giovine di diciott’anni; e—Di grazia (gli dissi)
caro Scipione, non vogliate nè pensare nè dire che, se io comunemente
rivolgo il discorso a vostro fratello, sia per poca stima di voi.
Egli è primogenito, e perciò nelle conversazioni a lui mi volgo; e
ancora perchè mi è noto che amendue avete i medesimi sentimenti. Ma
io non posso non compiacermi di vedere che voi pur conoscete che a
uno Scipione mal si addice l’essere infingardo. E ben si vede come i
vostri sentimenti siano superiori a quei del vulgo. Quanto a me, io
tutto sinceramente mi offro al vostro servizio. Se mi credete opportuno
a condurvi ad un tenor di vita degno del vostro gran nome, potete
di me disporre come vi aggrada. Quanto alle scienze, alle quali vi
vedo inclinato, voi troverete bastevoli ajuti in quel gran numero di
dotti che ogni giorno ci vengono dalla Grecia. Ma pel mestiere della
guerra, di cui vorreste essere istruito, penso potere io esservi più
utile d’ogni altro.—Scipione allora, le mani mie stringendo tra le
sue,—E quando (disse) vedrò io quel dì felice in cui, libero da ogni
altro impegno, e standomi sempre al fianco, voi potrete applicarvi
interamente a formarmi lo spirito ed il cuore? Allora mi crederò degno
de’ miei maggiori.—D’allora non più seppe staccarsi da me; il suo più
gran piacere era starsi meco; e i diversi affari nei quali ci trovammo
insieme, non fecero che stringere i nodi della nostra amicizia; egli mi
rispettava come padre, io l’amava non altrimenti che figliuolo».
[271] _Nil patrium, nisi nomen, habet Romanus alumnus:
Sanguinis altricem nunc pudet esse lupam._
PROPERZIO, IV. 1.
[272] _Combustos, quia philosophiæ scripta essent._ PLINIO, _Nat.
hist._, XIII. 13.
[273] _Poeticæ artis honos non erat; si quis in ea re studebat, aut
se se ad convivia applicabat, is grassator vocabatur_. CATONE ap. A.
Gellio.
[274] PLUTARCO in _Catone_. Marco Tullio notò, in un discorso di
Scipione, la via di mezzo che tenevano allora i Romani; illuminati
e insieme osservatori degli antichi costumi, non volevano parere
ignoranti, nè troppo istrutti in letteratura: _Quamobrem peto a vobis,
ut me sic audiatis, neque ut omnino expertem græcarum rerum, neque ut
eas nostris... anteponentem; sed ut unum e togatis, patris diligentia
non illiberaliter institutum, studioseque discendi a pueritia incensum,
usu tamen et domesticis præceptis multo magis eruditum quam litteris.
~De repub~._, _i_. 22.
[275] Macrobio, che riferisce quest’invettiva, cita nel medesimo
capitolo tre bei danzatori della fine di questo secolo: erano Gabinio
consolare, Cejo cavaliere, e Licinio Crasso, quello che perì col padre
sotto i colpi dei Parti. Il gusto della danza non fece che accrescersi
col tempo.
[276]
_...Tenax ne pater ejus est?—Immo ædepol pertinax:_
_Quin etiam, ut magis noscas, genio suo ubi quando sacrificat,
Ad rem divinam quibus est opus, samiis vasis utitur._
Captiv., II. 2.
[277]
_Nunc, quoque venias, plus plaustrorum in ædibus
Videas, quam ruri quando ad villam veneris._
Aulul., III. 5.
[278]
_Ubi res prolatæ sunt, quum rus homines eunt,
Simul prolatæ res sunt nostris dentibus...
Dum ruri rurant homines quos liguriant,
Prolatis rebus, parasiti venatici
Sumus: quando rure redierunt, molossici._
Captiv., i. 1.
[279] _Aulul._, III. 5.
[280]
_Dotatæ mactant et malo et damno viros._
Aulul., III, 5.
_Dotibus deliniti, ultro etiam uxoribus ancillantur._
TURPILIO.
[281]
_Ut apud lenones rivales filiis fierent patres._
Bacch., in fine.
I costoro artifizj sono descritti nell’atto I, scena 1 del
_Truculentus_.
[282]
_Quippe_
_Ut semel adveniunt ad scorta congerrones...
Unus eorum aliquis osculum amicæ usque oggerit,
Dum illi agunt quod agunt, sunt cæteri cleptæ._
Trucul., I. 2.
Ovidio, nell’Arte, III. 441, ammonisce le donne di guardarsi da
costoro, che fanno da galante per amore delle loro gioje.
Fin d’allora si molestavano i passeggieri alle dogane, e
dissuggellavansi le lettere ai confini:
_Rogitas quo ego eam, quam rem agam, quid negotii geram, Quid petam,
quid feram, quid foris egerim? Portitorem domum duxi; ita omnem mihi
Rem necesse loqui est, quicquid egi atque ago._
Menæch., I. 2.
_Jam si obsignatas non feret, dici hoc potest, Apud portitorem eas
resignatas sibi Inspectasque esse._
Trinum., III. 3. 64.
[283]
_Quasi in choro pila ludens,
Datatim dat se se, et communem faciet;
Alium tenet, alii nutat, alibi manus
Est occupata, alii pervellit pedem,
Alii dat annulum spectandum, a labris
Alium invocat, cum alio cantat, et tamen
Alii dat digito literas._
[284]
_Verba dare ut caute possint, pugnare dolose,
Blanditia certare, bonum simulare virum se,
Insidias facere, ut si hostes sint in omnibus omnes._
[285]
_Sæva canent, obscæna canent, fœdosque hymenæos,
Uxoris pueris, Veneris monumenta nefandæ.
Nec Musas cecinisse pudet, nec nominis olim
Virginei, famæque juvat meminisse prioris.
Oh! pudor extinctus, doctæque infamia turbæ,
Sub titulo prostant, et queis genus ab Jove summo
Res hominum supra erectæ, et nullius egente
Esse merens vili sancto se corpore fœdant._
[286] _Docentur præstigias inhonestas, eunt in ludum histrionum, in
ludum saltatorium inter cinædos virgines._ Ap. MACROBIO, II. 10.
[287] PLUTARCO, in _Catone_.
[288]
_Fato Metelli Romæ fiunt consules.
Dabunt malum Metelli Nævio poetæ._
_Metellus_ volea dire facchino.
[289]
_Mortaleis immortaleis flere si foret fas,
Flerent divæ Camenæ Nævium poetam.
Itaque postquam est orcino traditus thesauro
Oblitei sunt Romæ loquier latina lingua._
Ap. GELLIO, _i_. 24.
[290] VARRONE, _De lingua lat._, IV. 45.
[291] TITO LIVIO, _xxi_. 27; XXII. 4.
[292] VALERIO MASS. II. 10; III. 8; IV. 1. 3; VIII. 1.
[293] Lo stesso, III. 7. 6; VIII. 15.
[294] Varrone descrive le pompe bacchiche a Lavinio, dove l’osceno
Fallo era portato in giro sopra un carretto, e la più casta matrona lo
incoronava. Ap. SANT’AGOSTINO, _De civ. Dei_, VII. 21.
[295] CICERONE, _De amicitia_.
[296]
_Ego Deûm genus esse semper dixi et dicam cœlitum,
Sed eos non curare opinor quod agat humanum genus._
Ap. CICER. _De divin._ II. 5.
[297] _Patria est ubicumque est bene._
PACUVIO, ap. CIC. _Tuscul._, V. 37.
[298]
_Haud docti dictis certantes, sed male dictis
Miscent inter se se inimicitias agitantes._ ENNIO.
[299] Orazio per lodare l’antico Romano (_Ep._ II, 1. 105) canta:
_Romæ dulce diu fuit_
_Cautos nominibus certis expendere nummos,
Majores audire, minori dicere per quæ
Crescere res posset._
[300] _Luxum si quod est, hac cantione sanum fiet. Harundinem
prende.... incipe cantare in malo: S. F. motas væta daries dardaries
astutaries, die una paries usque dum coeant...; vel hoc modo: ~Huat
hanat huat ista pista sista domiabo domnaustra et luxato~..; vel hoc
modo: ~Huat huat huat ista sis tar sis ardanuabon domnaustra~_ (S. F.
vuol dire _Sanctos fracta_). De re rustica, cap. 160.
[301] Θαυμαστὸν ἄνδρα καὶ θεῖον εἰπεῖν ἐτόλμησε πρὸς δόξαν, ὃς
ἀπολείπει πλέον ἐν τοῖς λόγοις ὅ ρποσέθηκεν οὖ παρέλαϐεν. PLUTARCO,
cap. 21.
[302] _De oratore_, n. 17. In Plutarco la vita di Catone rappresenta
il confine tra l’antico vivere italiano e il nuovo alla forestiera.
Ai prudenti non isfugga che sorta di virtù siano quelle che si
raccomandano ai giovanetti colla lettura di Plutarco.
[303] _Imperatorum nomina annalibus detraxit._ PLINIO, VIII. 5.—_Duces
non nominavit, sed sine nominibus res notavit._ CORN. NEPOTE, in
_Catone_.
[304] A. GELLIO, XI. 48.
[305] FRONTONE, _ad L. Verum epist._ II.
[306]
_A sole exoriente supra Meoti paludes Nemo est qui factis me æquiparare
queat._
Ap. CICER. Tuscul., V. 17.
[307]
_Quin ubi se a vulgo et scena in secreta remorant
Virtus Scipiadæ et mitis sapientia Læli
Nugari cum illo_ (Lucilio) _et discincti ludere, donec
Decoqueretur olus, soliti._ ORAZIO, Sat. II. 1.
[308]
_Aurum atque ambitio specimen virtutis utrique est:
Quantum habeas, tanti ipsi sies, tantique habueris._
LUCILIO, Fragm.
[309] Ecco il carme, con cui si evocavano da una città gli Dei:
_Si deus, si dea est, cui populus civitasque carthaginensis est
in tutela, teque maxime, ille qui urbis hujus populique tutelam
recepisti, precor venerorque, veniamque a vobis peto, ut vos populum
civitatemque carthaginensem deseratis, loca, templa, sacra, urbemque
eorum relinquatis, absque his abeatis, eique populo civitatique
metum, formidinem, oblivionem injiciatis; proditique Romam, ad me
meosque veniatis, nostraque vobis loca, templa, sacra, urbs acceptior
probatiorque sit, mihique populoque romano, militibusque meis præpositi
sitis, ut sciamus intelligamusque. Si ita feceritis, voveo vobis templa
ludosque facturum_. MACROBIO, _Saturn._, III. 9.—Cf. PLINIO, _Nat.
hist._, XXVIII. 4; SERVIO, _ad Æn._ II, 344.
Quest’altro era il carme per maledire una città: _Dis pater, Vejovis,
Manes, sive vos quo alio nomine fas est nominare, ut omnes illam urbem
Carthaginem exercitumque, quem ego me sentio dicere, fuga, formidine
terroreque compleatis; quique adversum legiones exercitumque nostrum
arma telaque ferent, uti vos eum exercitum, eos hostes, eosque homines,
urbes agrosque eorum, et qui in his locis regionibusque, agris
urbibusve habitant, abducatis, lumine supero privetis, exercitumque
hostium, urbes agrosque eorum, quos me sentio dicere, uti vos eas urbes
agrosque, capita ætatesque eorum devotas consecratasque habeatis;
illis legibus, quibus quandoque sunt maxime hostes devoti, eosque
ego vicarios pro mea fide magistratuque meo, pro populo romano,
exercitibus, legionibusque nostris do, devoveo, ut me, meamque fidem
imperiumque, legiones exercitumque nostrum, qui in his rebus gerundis
sunt, bene salvos sinatis esse. Si hæc ita faxitis, ut ego sciam,
sentiam intelligamque, tunc quisquis hoc votum faxit, ubi faxit,
recte factum esto. Ovibus atris tribus, Tellus mater, teque, Jupiter,
obtestor_. MACROBIO, l. cit.
[310] Polibio, ap. APPIANO; EUTROPIO, lib. IV.
Per quanto i Romani avessero maledetto chiunque restaurasse i rottami
di Cartagine, dopo pochi anni Cajo Gracco fu mandato a piantarvi
una colonia; poi sotto Augusto fu riedificata: ai tempi di Gordiano
imperatore, Erodiano la chiama grande e popolosa tanto, da cedere
solo a Roma, e gareggiare con Alessandria; Ausonio poeta la colloca
terza con Roma e Costantinopoli; Salviano prete di Marsiglia cita
la grandezza di essa poco prima che i Vandali la invadessero, e
ne menziona l’acquedotto, l’anfiteatro, il circo, il ginnasio, il
pretorio, il teatro, i tempj d’Esculapio, d’Astarte, di Saturno, di
Apollo, e le basiliche e le piazze. Finalmente i Saracini nel vii
secolo la distrussero del tutto; e come un tempo sulle prische sue
ruine era seduto Mario a maturare la vendetta, così sulle nuove san
Luigi di Francia andava a morire, meditando il nulla delle umane
grandezze, e confortandosi di speranze immortali.
Ora ella esce ancora dalle sue ruine.
[311] _Connubium, patria potestas, jus legitimi dominii, testamenti,
hæreditatis, libertatis. Jus census, suffragiorum, magistratuum,
sacrorum, militiæ._
[312] Sulle genti e famiglie romane vedi l’~Appendice V~.
[313]
1. Æmilia 19. Publilia
2. Aniensis 20. Pollia
3. Arniensis 21. Pomptina
4. Claudia 22. Pupinia
5. Crustumina 23. Quirina
6. _Collina_ 24. Romilia
7. Cornelia 25. Sabatina
8. Esquilina 26. Scaptia
9. Fabia 27. Sergia
10. Falerina 28. Stellatina
11. Galeria 29. _Suburrana_
12. Horatia 30. Terentina
13. Lemonia 31. Tromentina
14. Mæcia 32. Vejentina
15. Menenia 33. Velina
16. Oufentina 34. Veturia
17. _Palatina_ 35. Voltinia
18. Papiria
Teodoro Mommsen (_Die römischer Tribus in administrativer Beziehung_.
Altona 1844) mostra che ogni mezza tribù comprendea cinque centurie,
che sole avevano diritto di suffragio, composte di facoltosi che
poteano militare: e tre di poveri senza suffragio. Sotto l’Impero, le
curie più non furono che stabilimenti pei poveri.
[314] _Distribuzione del popolo romano dopo il 650 di Roma._
Tribù urbane 4: comprendeano i proletarj e i liberti.
» rurali 31: » i proprietarj.
Queste erano divise in classi e centurie così:
_Minimo valore _Valore_
_Classi_ _Centurie_ dei beni ┌─────┴──────┐
tassabili_ _in rame_ _in argento_
{80 di fanteria }
I. {18 di cavalleria } 100,000 assi L. 75,000 L. 8,000
{ 3 di fabbri mil.}
II. 20 75,000 » 56,200 6,000
III. 20 50,000 » 37,500 4,000
IV. 20 25,000 » 18,750 4,000
V. 30 12,500 » 9,375 1,000
VI. 1 meno di 12,500 »
L’asse pesava una libbra di rame da oncie 12, cioè il valore di L.
0.75; dieci assi rappresentavano un denaro, cioè L. 7.50; ma il suo
valor reale era di 0.80, attesa la scarsità dell’argento. Sulle monete
romane vedi l’~Appendice~ VI.
Il cambiarsi della costituzione per centurie in quella per tribù,
rivoluzione suprema, passò inavvertito, e ancora si disputa del quando
avvenisse. Niebuhr lo mette nel quinto secolo di Roma, Göttling nel
sesto.
[315] Un bel testo definisce _comitia centuriata ex censu et ætate,
curiata ex generibus hominum, tributa ex regionibus et locis_.
[316] Era di trecento membri; Silla lo portò forse a quattrocento, i
Triumviri lo crebbero ancora; Augusto da mille lo restrinse a seicento.
[317] _Deligerentur ex_ (non ab, come leggesi vulgarmente) _universo
populo, aditusque in illum summum ordinem omnium civium industriæ ac
virtuti pateret_; CICERONE, _pro Sextio_. V’entravano di diritto i
magistrati anche plebei, e dalla plebe scelti. Vedi GÖTTLING, _Gesch.
der röm Staatsverfassung_; WALTER, _Gesch. des römischen Rechts_.
[318] Forse ventisett’anni; dappoi Augusto fissò i venticinque. Il
censo senatorio era di quattrocentomila sesterzj (80,000 lire), poi di
un milione e duecentomila.
[319] _Naturæ hist._, XXXIII. 8.
[320] Livio Salinature plebeo, Claudio Nerone patrizio, cavalieri
entrambi, furono consoli insieme.
[321] DIONISII _Excerpta_, 64, nell’edizione del Mai.
[322] VALERIO MASS. II. 9. 2. VIII. 1; VELLEJO PATER., II. 10.
[323] _Lex est, quam populus romanus, senatorio magistratu
interrogante_ (alcuni leggono rogante), _veluti consule, constituebat.
Plebiscitum est, quod plebs, plebejo magistratu interrogante, veluti
tribuno, constituebat._ Inst. Justin., lib. I. t. 2. § 4.
[324] DIONIGI, lib. X. c. 12.
[325] Ancora al tempo suo Tito Livio le diceva, _in hoc immenso aliarum
super alias acervatarum legum cumulo, fons omnis publici privatique
juris_.
[326] Il Digesto abbraccia così le attribuzioni di questo diritto:
_Ex hoc jure gentium introducta bella, discretæ gentes, regna
condita, dominia distincta, agris termini positi, ædificia collocata,
commercium, emptiones, venditiones, locationes, conductiones,
obligationes institutæ, exceptis quibusdam, quæ a jure civili
introductæ sunt._
[327] _Jura reddebant; et ut scirent cives quod jus de quaqua re
dicturi essent, seque præmunirent, edicta proponebant._ POMPONIO.
[328] Per esempio, fingevano usucatta una cosa che non fosse, o figlia
un figliuolo, o che il morto agisse; mutavano il nome di eredità in
quello di possesso dei beni, ecc.—Del complesso della legislazione
parliamo a disteso nel Cap. LIII.
[329] Almeno parrebbe da quel passo di Cicerone _pro Cluentio:
Neminem voluerunt majores nostri, non modo de existimatione, sed ne
pecuniaria quidem de re minima, esse judicem nisi qui inter adversarios
convenisset._
[330] Era siffatta: _C. Aquili, judex esto; et si paret fundum
Capenatem Servili esse ex jure Quiritium, neque is Servilio a Catulo
restituatur, tum Catulum damnato._
[331] _De legibus_, II. 12.
[332] SERVIO, ad _Æneid._ II. 178.
[333] Ennio chiama gli auguri
_Aut inertes, aut insani, aut quibus egestas imperat;
Qui sui quæstus causa, fictas suscitant sententias;
Qui sibi semitam non sapiunt, alteri mostrant viam._
E Pacuvio:
_Magis audiendum quam auscultandum censeo._
[334] _Omnibus municipibus duas esse censeo patrias; unam naturæ,
alteram civitatis...; alteram loci, alteram juris._ CICERONE, De leg.
II. 2. Secondo A. Gellio, i municipj _a munere capessendo appellati
videntur_; secondo Paolo, _quia munia civilia capiant_.
[335] _Civitas sine suffragio_. Lo provano Ruppert e Madvig contro
il Sigonio. Il 197 si fondarono cinque colonie nella Campania e
nell’Apulia; sei nella Lucania e nel Bruzio il 194 e 193; altre nella
Gallia Cisalpina il 192 e 190; nel 189 quella di Bononia; nel 181
quelle di Pisaura e Polenzia; nel 183 quelle di Mutina e Parma; nel 181
quelle di Gravisca, Saturnia, Aquileja; nel 180 quella di Pisa; nel 177
quella di Lucca.
[336] Di ciò non s’accôrse frà Paolo Sarpi quando, nell’_Opinione
in qual modo debba governarsi la repubblica veneziana_, facea le
meraviglie che le colonie romane siensi mantenute sempre ben affette
alla madrepatria, mentre i cittadini trapiantati da Venezia a Candia
divennero selvaggi o avversi. Roma dava ai nuovi coloni i diritti
di cittadini romani; Venezia a quelli mandati a Candia tolse i
privilegi di cittadini veneti. Vedi RUPPERT, _De colonis Romanorum_;
dissertazione premiata dall’Accademia romana.
Qualche volta la colonia si chiamò municipio, come nell’insigne
iscrizione alla porta dei Bòrsari di Verona, e in altra recata dal
Maffei nelle _Antichità veronesi_, p. 126.
[337] Nel museo di Cortona sta la lapide ove i cittadini di Gurza in
Africa stringono patto d’ospitalità con Cajo Aufustio Macrino, figlio
di Cajo della tribù Galeria, prefetto de’ fabbri, scegliendo per
difensore lui e sua discendenza.
CIVITAS GVRZENSIS EX AFRICA
HOSPITIVM FACIT CVM C. AVFVS
TIO C. F. GAL. MACRINO PRAEF
FABR. EVMQVE LIBEROS POSTE
ROSQVE EIVS SIBI LIBERIS
POSTERISQVE SVIS PATRO
NVM COOPTARVNT etc.
[338] TITO LIVIO, V. 28.
[339] _Illud sine ulla dubitatione maxime nostrum fundavit imperium,
et populi romani nomen auxit, quod princeps ille creator hujus urbis
Romulus fædere sabino docuit, etiam hostibus recipiendis augeri hanc
civitatem oportere. Cujus auctoritate et exemplo numquam est intermissa
a majoribus nostris largitio et communicatio civitatis._ CICERONE,
_~pro C. Balbo~_, XXXI.
_Quid aliud exitio Lacedæmoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis
pollerent, nisi quod victos pro alienigenis arcebant? At conditor
noster Romulus tantum sapientia valuit, ut plerosque populos eodem die
hostes, dein cives haberet._ TACITO, _~Ann~._, lib. XI.
[340] _Majores nostri Capuæ magistratus, senatum communem...
sustulerunt, neque aliud nisi inane nomen reliquerunt._ CICERONE, _~in
Rullum~_.
[341] Tiberio Gracco, ap. A. GELLIO, X. 5.
[342] _Cicerone_, _in Verrem_, I. 65; II. 13; III. 6; v. 21 e 22.
[343] Cicerone andando proconsole in Cilicia, scrive al suo fratello
(_Ad fam_. III. 8): _Romæ composui edictum; nihil addidi, nisi quod
publicani me rogarunt, ut de tuo edicto totidem verbis transferrem in
meum. Diligentissime scriptum caput est quod pertinet ad minuendos
sumtus civitatum, quo in capite sunt quædam nova, salutaria
civitatibus, quibus ego magnopere delector_. E più ampiamente ad Attico
(VI. 1): _Breve autem edictum est, propter hanc meam διαίρεσιν, quod
duobus generibus edicendum putavi: quorum unum est provinciale, in quo
est de rationibus civitatum, de ære alieno, de usura, de syngraphis;
in eodem omnia de publicanis: alterum, quod sine edicto satis
commodo transigi non potest, de hereditatum possessionibus, de bonis
possidendis, vendendis, magistris faciundis, quæ ex edicto et postulari
et fieri solent: tertium de reliquo jure dicundo_ ἅγραφον _reliqui.
Dixi, me de eo genere mea decreta ad edicta urbana accommodaturum..._