Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 31

Il re interrogò: _Siete voi i legati ed oratori mandati dal popolo di
Collazia, per consegnar voi e il popolo?_—_Siamo._—_Il popolo collatino
è di propria balìa?_—_È._—_Deste voi medesimi, il popolo collatino,
la città, i campi, l’acqua, i termini, i tempj, gli utensili, le cose
tutte umane e divine in poter mio e del popolo romano?_—_Demmo._—_Ed
io accetto_». E nel libro stesso: «Allora udimmo che così si fece,
nè v’ha memoria d’altro patto più antico. Il feciale interrogò il re
Tullo così: _Vuoi, o re, ch’io stringa patto col padre patrato del
popolo albano?_ E comandando il re, il feciale disse: _Ti domando
erbe sacre_. Il re rispose: _Prendine pure_. Poscia al re stesso
chiese: _O re, mi fai tu regio nunzio del popolo romano de’ Quiriti?
approvi i mallevadori e i compagni miei?_ Il re rispose: _Sì, salvo il
diritto mio e del popolo romano dei Quiriti_. Feciale era M. Valerio;
fece padre patrato Sp. Fuscio toccandogli il capo e i capelli colla
verbena. Il padre patrato si elegge per _patrare_ il giuramento, cioè
per sancire il patto; lo che egli fa con una lunga formola, che qui
non occorre riferire. Poscia recitate le condizioni, _Odi_, disse, _o
Giove; odi, o padre patrato del popolo romano; odi tu, popolo albano:
il popolo romano non mancherà primo a quelle leggi, che da capo a fondo
furono lette su quelle tavole cerate, senza frode, siccome furono
oggi benissimo intese. Se pel primo mancherà per pubblico consiglio e
frodolentemente, in quel giorno, o Giove, ferisci il popolo romano,
siccome io oggi ferirò questo porco; e tanto più lo ferisci, quanto più
sei poderoso._ Ciò detto, percosse il porco con un ciottolo di selce.
Anche gli Albani recitarono la loro formola e il giuramento, per mezzo
del dittatore e de’ sacerdoti proprj».
Essendo gli uomini naturalmente poeti (ragiona il Vico nella _Scienza
nuova_, lib. IV), tutta poetica fu l’antica giurisprudenza, la quale
fingeva i fatti non fatti, nati li non nati ancora, morti i viventi,
i morti vivere nelle loro giacenti eredità; introdusse tante maschere
vane senza subjetti, che si dissero _jura imaginaria_, ragioni
favoleggiate da fantasia; e riponeva tutta la sua riputazione in
trovare sì fatte favole, che alle leggi serbassero la gravita ed ai
fatti ministrassero la ragione: talchè tutte le finzioni dell’antica
giurisprudenza furono verità mascherate; e le formole con le quali
parlavano le leggi, per le loro circoscritte misure di tante e tali
parole nè più nè meno, nè altre, si dissero _carmina_. Talchè tutto
il diritto antico romano fu un serio poema, che si rappresentava dai
Romani nel fôro; e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia.
Vedi CHASSAN, _Essai sur la symbolique du droit, précédé d’une
introduction sur la poésie du droit primitif_. Parigi 1847.
[189] DIONIGI, lib. 1; FESTO, ad V. _Prætor ad portam_.
[190] LIVIO, lib. IV.
[191] _Mei-land_, mio paese; _Mayland_, paese di maggio; _Medellam_,
città della vergine; _Mittelawn_, in mezzo ai piani; _Medio-amnium_;
_Medo_ e _Olano_, due condottieri; _Medio-lana_, per una scrofa lanosa
trovatavi: differenti etimologie di Milano. Questo nome è comunissimo
nella Gallia transalpina e designa il paese medio (_mitta-land_); la
terra per antonomasia, la terra santa, la legale.
[192] _Ele-dore_, il turbine.
[193] Prima chiamavasi _Bodincos_, cioè senza fondo, poi fu detto Pado
da _pades_, che in gallico suona abete.
[194] Adotto la vulgata denominazione latina, desunta dalla situazione
di Roma.
Edwards pretese riconoscere ancora in Italia il tipo delle due stirpi
gallica e cimra: quelli, testa lunga, profilo sporgente, fronte alta
e sviluppata, mento prominente, naso aquilino; questi, faccia piatta
e corta, pomelle larghe, naso rincagnato, poco sporgente. I moderni
ripudiano la dottrina di Thierry, e fanno consanguinei i Cimri e i
Galli.
[195] _Saluberrimos colles, flumen opportunum, quo ex mediterraneis
locis fruges devehantur, quo maritimi commeatus accipiantur; mare
vicinum ad commoditates, non expositum nimia propinquitate ad pericula
classium externarum; regionum Italiæ medium, ad incrementum urbis natum
unice locum._ LIVIO, v. 54.
[196] Quand’anche una finzione legale potesse mai tramutare in
giustizia l’iniquità, nel caso presente mancava sin l’apparenza a
favore de’ Romani. Fra questi e i Sanniti vigeva lo _jus exulandi_;
onde Postumio, estradetto dalla patria sua, poteva acquistare la
cittadinanza presso quegli altri.
[197] LIVIO, X. 42.
[198] VALERIO MASSIMO, VI, 3, 2.
[199] Che tutte le pesti ricordate a Roma fossero epidemie, fino a
quella di Lucio Vero nel II secolo dopo Cristo, è sostenuto da Heyne,
_Opusc._ III.
[200] Al Pireo si trovò, non è guari, un decreto, per cui stabilivasi
mandare ad Adria una colonia sotto Milziade, successore dell’omonimo
vincitor di Maratona, circa l’olimpiade CXIII; e ciò per avere
emporj di frumento e formare barriera a’ Tirreni. _Bullettino di
corrispondenza archeologica_, 1836, pag. 135.
Vedi SAINTE-CROIX, RAOUL-ROCHETTE, HEYNE, _Prolusiones XV de civitatum
græcarum per Magnam Græciam et Siciliam institutis et legibus_ nel
vol. II de’ suoi _Opuscula academica_, Gottinga 1787. Al vii vol.
dell’Heeren, traduzione francese, è soggiunta la bibliografia compiuta
delle colonie.
_Metaponte, par le duc de_ LUYNES _et_ F. J. DEBACO; Parigi, 1833, in
fol., non è una compiuta monografia, ma un’elegante esposizione delle
antichità di quel luogo in disegno e scrittura.
DOMEN. MARINCOLA PISTOJA, _Delle cose di Sibari_. Napoli 1845.
[201] Il nome di Magna Grecia non ricorre in Erodoto nè in Tucidide,
ma primamente in Polibio, lib. II. c. 12. Strabone lo attribuisce
all’esservisi i Greci molto allargati; Festo e Servio (_ad Æn._, i.
573) alle molte città greche fondate in quel paese; altri ad altro;
Delisle, d’Anville, Micali, all’essere più estesa che non la Grecia
propria; taluni ne fanno onore alla filosofia di Pitagora, colà nata
e diffusa; altri all’aver precorso la Grecia orientale in civiltà e
filosofia. Quel nome complessivo pare durasse fino allo scorcio del iii
secolo di Roma, quando ciascuna contrada si denominò dal popolo che la
occupava.
Neppure si conviene sull’estensione indicata da questo nome; e Sinesio
vescovo del v secolo (_ep. ad Pœonium_) lo dice accomunato a tutti i
paesi ove si praticavano gli arcani riti pitagorici. Suole dividersi in
otto regioni: Locrese, Caulonite, Scilletica, Crotoniate, Sibaritica,
Eracleese, Metapontina, Tarantina; sicchè in digrosso abbracciava
l’Apulia, la Lucania, il Bruzio.
_Cronologia delle colonie greche in Italia._
1300, o 1050, Cuma, fondata dai Calcidesi d’Eubea: generò Napoli e
Zancle, dalla quale derivarono Iméra e Mile.
1260, o 900, Metaponto posta dai Pilj reduci da Troja, poi ripopolata
d’Achei e Sibariti.
756 Nasso, dai Calcidesi.
753 Crotone, dagli Achei.
750 Leontini, dai Nassani, e poco dopo Catania.
732 Siracusa, dai Corintj; donde Acra, Casmena, Camarina.
725 Sibari, dagli Achei: nel 444 le succede Turio.
723 Reggio, ripopolata da Messenj.
707 Taranto, ripopolata da Lacedemoni.
683 Locri, fondata dai Locresi Ozolj. Dicono vi precedesse un’altra
loro colonia nel 757.
667 Zancle, ripopolata da Messenj, e detta Messina.
645 Selinunte, posta dai Megaresi.
605 Gela, dai Rodj.
582 Agrigento, dai Gelani.
536 Elea o Velia, dai Focesi.
510 Posidonia, dai Sibariti.
444 Turio, dagli Ateniesi.
433 Eraclea di Lucania, dai Tarantini.
[202] STRABONE, lib. VI.
[203] Ode 6 del lib. II.
[204] DIONIGI, lib. XII. 9; STRABONE, lib. VI.
[205] Laerzio e Giamblico danno il primo numero; l’altro Valerio
Massimo, lib. VIII. Vedi anche Tito Livio, lib. IV.
[206] STRABONE, lib. V.
[207] Vedi la l. cit. nel _Timeo_ di Platone, ed in Plutarco.
Su Pitagora, e sul governo de’ Pitagorici, si paragonino HEYNE, _Opusc.
acad._, tom. II; MEINERS, _Gesch. der Wissenschaft in Gr. und_ ecc.,
I. 401, 464, 469; MUELLER, _Dorici_, II. p. 178: WELBKER, _Proleg.
ad Theogn._ p. XLII; ma principalmente KRISCHE, _De societatiis a
Pythagora in urbe Crotone conditæ scopo politico_, Gottinga 1830;
TERPSTRE, _De sodalitii pythagoræi origine, conditione, consilio_,
Utrecht, 1824; CRAMER, _De Pythagora, quomodo educaverit et
instituerit_, Stralsunda, 1833.
[208] Ἀληθεύειν καὶ εὐεργετεῖν. ELIANO, _Variæ historiæ_, XII. 59.
Εὐεργεσία καὶ ἀλήθεια. LONGINO, _Del sublime_.
[209] GIAMBLICO, _Protrept._ 21; SUIDA, in Πυθάγορας. La dottrina
pitagorica si raccoglie principalmente da Filolao di Crotone.
[210] Ap. PLATONE, _Della repubblica_, lib. III.
[211] DIOGENE LAERZIO, lib. VIII
[212] «Nulla esiste; esistesse anche, è impossibile conoscerlo». Tale
era il suo teorema, e lo provava così: «Se esiste qualche cosa, essa
è l’_essere_ o il _non essere_, o le due cose insieme. Il non essere
non è possibile perchè non può esser nato, nè non esser nato, nè
esser uno nè multiplo. Ciò poi che è, non è possibile che sia essere
e non essere; imperocchè se questi fossero nel medesimo tempo, quanto
all’esistenza sarebbero una cosa sola; ma se una sola cosa fossero,
l’essere sarebbe il non essere. Siccome però il non essere non è,
neppure l’essere sarebbe. Se poi tutti e due fossero la medesima cosa,
non sarebbero due cose, ma una sola». Eppure Platone credette dover
confutare questa argomentazione ne’ suoi dialoghi; segno che allora non
parea frivola e ridicola, quanto oggi la giudichiamo.
[213] Anche nelle XII Tavole il principio era _Deos caste adeunto_;
e Giustiniano mise a capo del suo codice _De summa Trinitate et fide
catholica_.
[214] Questa clausola fu introdotta posteriormente. DIODORO SICULO,
lib. XII.
[215] Esempio di piena e meravigliosa concisione potrebb’essere
questo: χρὴ δὲ ἐμμένειν τοῖς εἰρημένοις, τὸν δὲ παραβαίνοντα ἕνοχον τῇ
πολιτικῇ ἀρᾷ. Vedi DIODORO, lib. XII. 11 e seg.; STOBEO, _Serm._ XLIV;
ARISTOTELE, _Politic._, lib. II. 9.
[216] Vedi BENTLEJO, _Opusc._, pag. 340; HEYNE, _Opusc. acad._, tom.
II, p. 273; SAINTE-CROIX, _Sur la législation de la grande Grèce_ negli
atti dell’Accademia delle Iscrizioni, lib. XLII; RICHTER, _De veteribus
legum latoribus_, Lipsia 1791.—NITZOL, _De historia Homeri_, negò
che Zaleuco sia il più antico legislatore; ma lo confutò Müller nel
giornale di Gottinga 1831, pag. 292.
Eliano riferisce una sua legge:—Se un malato, senz’ordine del medico,
beva vino, quantunque guarisca, sia condannato a morte». Pastoret
s’affatica invano a cercar la ragione di sì pazzo ordine; ma Eliano,
come spesso, s’inganna, giacchè Ateneo, da cui esso la trae, dice: εἵ
τις ἃκρατον ἐπίῃ, μὴ προστάξαντος ἱατροῦ, θεραπείας ἒνεκα, θάνατος ἦν
ἡ ζεμία. _Se alcuno beva vino senz’ordine del medico per ragion di
salute, sia reo di morte_.
[217] Mangiatori di loto; il _rhamnus lotus_ di Linneo, del cui frutto
gli Africani si nutrono anche oggi, e ne preparano un vino o idromele,
che regge pochi giorni.
[218] Diodoro attribuirebbe questa migrazione verso occidente a
un’eruzione dell’Etna. È notevole che Omero non fa verun cenno di
questo vulcano, così acconcio a fantasie poetiche. Tucidide riferisce
che ricordavansi tre eruzioni di esso, ai tempi di Pitagora, di
Gerone, e a’ suoi. Di due sotto ai Dionisj ci è testimonio Platone,
che fu invitato ad osservarne i fenomeni. Ne ricorsero spesso sotto
la dominazione romana, e particolarmente nel 662 di Roma, e due volte
durante le guerre civili; poi negli anni di Cristo 225, 420, 812, 1163,
1285, 1329, 1333, 1408, 1444, 1446, 1447, 1536, 1603, 1607, 1610, 1614,
1619, 1634, 1669, 1682, 1688, 1689, 1702, 1766, 1781, 1819, a tacere le
recenti.
[219] BRUNET DE PRESLE, _Recherches sur les établissements des Grecs en
Sicile_, Parigi 1845.
[220] ELIANO, II. 4; ATENEO, XIII. 8. È apocrifa la raccolta di lettere
di Falaride, che sino dal 1491 comparvero tradotte in italiano a
Firenze da Bartolomeo Fonti, poi da Francesco Accolti d’Arezzo. Dodwel
e Bentley disputarono intorno all’età di Falaride, senza accertarla.
[221] Timeo, ap. DIODORO, lib. XIII.
[222] Gellia era piccino e smilzo, e mandato ambasciatore a
Centuripe (Centorbi), vi fu accolto a risate. Senza scomporsi egli
disse:—«Agrigento ha persone belle e appariscenti, ma le manda alle
città illustri e civili; alle piccole e scortesi ne manda di pari a
me». Anche l’abate Galiani, quando fu presentato alla Corte di Francia
come addetto all’ambasciatore di Napoli, piccolo e gobbo come era
eccitò l’ilarità dei cortigiani; ond’egli, inchinandosi al re, esclamò:
_Sire, vous voyez un échantillon d’ambassadeur_. Si rise, e i Francesi
danno ragione e benevolenza a chi li fa ridere.
[223] DIODORO, XI. 72.
[224] POLIBIO, lib. XII. 22.
[225] Più tardi un tremuoto l’abbattè, Cesare riedificolla, Federico
Barbarossa l’incenerì; rialzata, sofferse replicati assalti dai Turchi
verso il 1593, e nuovi tremuoti, dai quali adesso si rifà.
[226] La costituzione che egli voleva foggiare sulle idee di Platone,
importava un re che vegliasse sulla religione e sullo splendore dello
Stato, quasi un gran sacerdote. A tal carattere sacro ripugnavano
il diritto di morte e d’esilio, che perciò restavano a trentacinque
custodi della legge, i quali, per deliberare della vita de’ cittadini,
doveano aggiungersi i più giusti fra i magistrati usciti di fresco di
carica. I trentacinque col senato e il popolo decideano della pace e
della guerra. Tanto è riferito nella viii delle lettere di Platone.
Queste sanno d’apocrifo, pure sono certamente vicine al suo tempo, e
scritte da persona informata. A Dionigi doveva alludere Platone nel
IV _Delle leggi_, ove scrive che «per ordinare nuova forma di governo
nessuno val meglio d’un tiranno che sia giovine, di salda memoria,
bramoso di sapere, coraggioso, animato da sentimenti nobili, e cui la
buona fortuna avvicini un uomo conoscente della scienza delle leggi.
Felice la repubblica retta da principe assoluto, consigliato da buon
legislatore!».
Il tedesco Arnold scrisse la storia di Siracusa fino a Dionigi. Si
trova pure nella quarta parte della _Storia greca_ di Mitford, ove
Dionigi I è purgato dalle esagerate imputazioni degli scrittori
originali.
[227] Cicerone dice che la decima del frumento di Sicilia rendeva ai
Romani per nove milioni di sesterzj, a tre sesterzj comprandosi il
moggio: dunque trenta milioni di moggia, ossia quattrocento cinque
milioni di libbre a peso di marco, traevansi da quel terzo della
Sicilia ch’era sottoposto alla decima. DUREAU DE LA MALLE, _Économie
politique des Romains_, tom. II. p. 376.
Oggi, che la coltura n’è tanto negletta, calcolano si asporti dalla
Sicilia per nove milioni in agrumi, due in olio, oltre la soda e il
tonno marinato e i solfi, suo oro.
[228] TEOFRASTO, IV. 17; PLINIO, XII. V.
[229] Diodoro accenna Dori ed Eolici, i quali sicilianizzavano.
[230] SUIDA, _Lexicon ad vocem_.
[231] Nel _Busiride_ descriveva Ercole vorace:—Se lo vedi macinare
a due palmenti, e trangugiare ingordo, ti fa ribrezzo. Le fauci di
dentro gli borbogliano, le mascelle cigolano, i denti molari stridono,
i canini strepitano, le narici fischiano sibilando, e le orecchie
ciondolando si movono». Ap. ATENEO, DEIPNOSOFISTES, X. c. I. Così
dipinge il parassito:—Mi basta un cenno per correre ad un convito, nè
cenno aspetto per presentami dove si fa nozze. Comincio dir facezie, e
movo a festa e a giuoco: sciorino lodi spiatellate a colui che mette
tavola, e a chi gli contraddice tratto da nemico e svillaneggio: e ben
bevuto e meglio mangiato, me ne vo. Non ho ragazzo che mi scorga per
la via con la lanterna; e soletto nel bujo, barcollando ad ogni passo,
m’affretto verso casa. Se m’imbatto nella ronda, giuro di non aver
fatto nulla di male; oppure essi mi caricano di mazzate. Fiaccato dalle
busse, arrivo a casa e mi sdrajo s’una pelle, e non sento il dolore
finchè la forza del vino mi grava l’anima e la mente». _Ivi_ VI. c. 28.
[232] Vedi il suo elogio scritto dallo Scinà.
[233] Dell’ode, ove Orazio introduce a parlare Archita già morto, non
saprei dar ragione se non supponendola tradotta o imitata dal greco. I
primi versi
_Te maris et terræ, ~numeroque carentis arenæ~ Mensorem cohibent,
Archita,_
io penso non alludano ad operazioni geometriche da lui fatte, ma a
qualche soluzione ingegnosa ch’egli abbia trovato dell’_arenaria_, su
cui si esercitò anche Archimede, come or ora diremo.
[234] Lo narra Ateneo (v. 10); ma Montucla lo rigetta tra le favole.
[235] Il numero calcolato nell’_arenaria_ di Archimede oggi si
scriverebbe colla cifra 64, seguita da sessantun zeri. Questo
parmi basti a confutare chi pretese (come l’insigne Charles negli
_Eclaircissements sur le traité ~De numero arenæ~_) che i Greci
conoscessero il sistema numerico indiano, ove le cifre acquistano
un valore di posizione. Taluno credette trovarvi la prima idea dei
logaritmi. Teone d’Alessandria nel _Commento_ fa merito ad Archimede
d’avere, nella _Catoptrica_, scoperto la rifrazione, per cui i raggi
passando pel fluido, fanno all’occhio un angolo più grande. Ideler, nel
commento sulla _Meteorologia_ d’Aristotele, radunò i passi relativi
alla _Catoptrica_ d’Archimede. Che questi s’occupasse di analisi
indeterminata può indicarlo il problema in versi, scoperto da Lessing,
e stampato nel giornale _Zur Geschichte und Litteratur_, Brunswick
1773. Ma che già prima i Pitagorici istituissero ricerche sui triangoli
rettangoli aritmetici, l’attesta Proclo sulla proposizione 47ª del
libro i d’Euclide. La formola di cui valeansi per formare un’infinità
di triangoli siffatti, può esprimersi algebricamente:
( a² - 1 )² ( a² + 1 )²
a² + ( ————————) = ( ————————)
( 2 ) ( 2 )
Delambre pretende che nè Archimede nè Euclide avessero idea della
trigonometria rettilinea, nè della sferica. Vedasi la sua memoria in
fondo alla traduzione francese di Peyrard delle opere di Archimede.
Parigi 1808.
[236] _Da ubi consistam, et cœlum terramque movebo_. Se è suo questo
motto prestatogli da Pappo, e’ non si fece carico del vette. Ora, per
ismuovere, non che il cielo, la terra, si richiede una leva tale, che,
quando Archimede avesse potuto correre colla velocità d’una locomotiva
a vapore, cioè quarantotto miglia l’ora, gli sarebbero stati necessarj
quarantacinque bilioni d’anni per sollevare d’appena un pollice la
terra. Vedi NEIL-ARNOTT, _Mécanique des solides_, pag. 155.
[237] Degli specchi ustorj d’Archimede nessuna menzione fanno Polibio,
Livio, Plutarco; ma solo Zonara e Tzetze, storici del Basso Impero, che
alludono a passi perduti di Dione e Diodoro Siculo.
Se possa farsi uno specchio tale da incendiar una nave, fu discusso
gravemente dagli scienziati. Parve risolvere la questione Buffon
coll’esperienza, costruendo uno specchio formato di censessantotto
specchietti, mobili in ogni senso, e curvati in modo da presentare una
superficie convessa, talchè, come in una lente, tutti i raggi del sole
vi fossero riflessi verso un unico objetto. Con questo s’incendiò una
tavola grossa di abete alla distanza di cencinquanta piedi, essendo il
10 aprile, un’ora dopo mezzogiorno. Si aumentarono gli specchietti fino
a ducenventiquattro, ed alla distanza di quarantacinque piedi vennero
fusi de’ vasi d’argento in otto minuti. Alla distanza di ducento piedi
si fece passar un bue, che cadde colpito.
Sopra tale costruzione, Monge avvertì la difficoltà di dover ad ogni
istante cambiare la inclinazione degli specchi, atteso il moversi
del sole, mentre non meno di mezz’ora si richiederebbe per infocare
una nave. Quando Buffon diede questa spiegazione dello specchio
d’Archimede, non si conosceva un passo di Isidoro da Mileto, che al
tempo di Giustiniano scrisse περὶ παραδόξων μηχανημάτων. In uno dei
quattro problemi che ci avanzano di quest’opera, egli si propone di
costruire una macchina capace di accendere coi raggi del sole una
materia combustibile fuori della portata del tiro. Trovando impossibile
il conseguir ciò cogli specchi concavi, dimostra che Archimede potè
ardere i vascelli di Marcello mediante l’unione di molti specchi piani
esagoni. Il passo cui alludo, fu pubblicato da Dupuy nei _Mém. de
l’Académie_, ecc. vol. XLII. Parigi 1774.
Peyrard, che tradusse Archimede, diede una nuova costruzione
ingegnosa, la quale nel 1807 fu approvata dall’Istituto, calcolando
che con cinquecentonovanta specchi da cinquanta centimetri di lato si
potrebbe ridurre in cenere una flotta distante un quarto di lega. Ma
dimostrato possibile il fatto, chi crederà che le navi romane stessero
nell’immobilità necessaria perchè il fuoco s’attaccasse?
[238] Che pure lo disprezzava, con romanesca superbia dicendo: _Humilem
homunculum a pulvere et radio excitabo_. Tusc. v. 33.
[239] Spesso ricorrono fra gli antichi queste armi parlanti: Agrigento
mettea sulle sue monete il granchio, _acragas_ in greco; Ancona
un gomito, che in greco dicesi _ancon_; Turio, un toro, alludendo
all’aggettivo _tourios_ impetuoso, o al tauro. Più spesso ciò incontra
pei nomi de’ triumviri monetarj, nomi che metteansi sulle monete
battute sotto la loro direzione: così un toro su quelle di Thorio
Balbo; un martello su quelle di Publicio Malleolo; un fiore per Manlio
Aquinio Floro; un Giove Ammone cornuto per Quinto Cornificio; il pesce
della porpora per Furio Purpureo; le sette stelle dei trioni per
Lucrezio Trione; una musa per Pomponio Musa; un Saturno per Sestio
Saturnino.
Vedansi: PARUTA, SICILIA NUMISMATICA.
PISANI, _Memorie sulle opere di scultura in Selinunte ultimamente
scoperte_.
PRINCIPE DI BISCARI, _Viaggi per le antichità della Sicilia_.
MARTELLI, _Le antichità dei Siculi_.
SERRADIFALCO, _Le antichità della Sicilia_.
CAPODIECI, _Antichi monumenti di Siracusa_.
HITTORFF e ZANTH, ARCHITECTURE ANTIQUE DE LA SICILE.
HARRIS e SANTANGELI, _Sculptured Metopes discovered amongst the
ruins of the temples of the ancient city of Selinus_. Harris,
nell’esplorare quelle ruine, contrasse una malattia che il portò a
morte giovanissimo.
[240] Ausonio, _Nob. urbes_, vers. 97. E Virgilio, _Æn_. III. 692:
_Sicanio prætenta sinu jacet insula contra
Plemmyrium undosum: nomen dixere priores
Ortygiam, Alpheum fama est huc Elidis amnem
Occultas egisse vias subter mare, qui nunc
Ore, Arethusa, tuo siculis confunditur undis._
E Cicerone: _In hac insula extrema Ortygia est fons aquæ dulcis, cui
nomem Arethusa est, incredibili magnitudine, plenissimus piscium,
qui fluctibus totus operiretur, nisi munimine ac mole lapidum a mari
disjunctus esset_.
[241] _Naturæ historia_, III. 9.
[242] Chiamavansi _latrones_, parola che acquistò trista
significazione, come avvenne del nostro _masnadiere_.
[243] _Hist._, lib. X. Si confronti con DIODORO, XX. 104.
[244] PLUTARCO in _Pirro_. Ad altra conchiusione arrivava uno di que’
semplici filosofi, che si chiamano santi. Filippo Neri andò incontro
ad un prete che veniva a Roma per mettersi in prelatura, e che
coll’enfasi della speranza gli narrava che potrebbe diventar cameriere,
poi segretario, poi protonotaro....—E poi?» chiedeva il santo—E poi
potrò entrar monsignore—E poi?—E poi il cappello verde potrà mutarsi
in rosso—E poi?—E poi, de’ casi se ne sono veduti tanti, e quel che
riesce ad uno può riuscire anche ad un altro—Volete dire la tiara, eh?
Ma e poi?» instava il santo; ed esitando l’altro a rispondere, gli
soggiungeva:—E poi morire».
[245] _Cicerone_, _Tuscul._ IV. 2.
[246] ELIANO, _Variæ hist._, I. 38, dice che, per ispaventare gli
elefanti, presentarono loro de’ majali. I narratori di questi fatti
perirono, non restandoci che gli argomenti delle decadi di Livio,
e qualche estratto di Dionigi, Diodoro, Appiano, oltre le vite di
Plutarco.
[247] TITO LIVIO, XXXVIII. 28.
[248] Asdrubale e Amilcare, figli di Magone, conquistano la Sardegna, e
Asdrubale vi muore dopo stato generale undici volte; Amilcare si uccide
dopo vinto da Gelone. Da Amilcare nacquero Imilcone che gli succedette
nel comando dell’esercito in Sicilia, Annone e Giscone. Da Asdrubale
nacquero Annibale, Asdrubale, Saffo, generali fortunati contro Nùmidi e
Mauritani.
[249] Ignoti agli storici romani, ce li conservò Polibio greco. Il capo
Bello o Buono (τῷ καλῷ ἀκροτηρίῳ) è il promontorium _Hermœum_ al nord
di Cartagine. Τὸ προκείμενον αυτῆς τῆς Καρκήδονος ὠς ρπὸς τὰς άρκτους,
dice Polibio. S’ingiunge dunque ai Romani di non navigare lungo la
costa del territorio cartaginese, verso la piccola Sirte, ov’erano le
città e i distretti più fertili di Cartagine.
Per questi fatti principale autorità è questo Polibio, di cui abbiamo
il racconto fino al 216, e frammenti sino al 165 av. Cristo. Livio e
Appiano calcano le orme di lui. Si riferiscono a questi tempi le vite
di Fabio Massimo, Paolo Emilio, Marcello, Catone, Flaminio, scritte da
Plutarco. Quella d’Annibale, attribuita a Cornelio Nepote, parmi nulla
più che compilazione retorica.
[250] DIODORO, XXII; POLIBIO, I.
[251] Zonara, scrittore dei bassi tempi, ci conservò memoria di tale
congiura di quattromila Sanniti (VIII. 11).
[252] Se alcune nebbie osiamo spargere s’un nome che da fanciulli
s’impara a venerare, si vorrà noverarci tra quelli che dubitano
della virtù perchè non la credono? I libri di Livio, in cui avrebbe
dovuto esser narrato l’eroismo di Regolo, perirono; Polibio non ne
fa cenno; Dione Cassio lo dà come una tradizione, che Silio Italico
abbellisce o gonfia colla sua poesia. In Diodoro Siculo, narratore così
circostanziato e spesso esatto, manca il libro xxiii ove il fatto dovea
trovar luogo; ma due frammenti di quello possono smentirlo. Nel primo
narra la sconfitta di Regolo, imputandone affatto l’arroganza di esso,
che compromise gl’interessi della patria quando poteva di decorosa
pace giovarla: «Nè della calamità la minor parte cadde sull’autore di
tanti mali; giacchè la gloria che erasi dapprima acquistata, offuscò
coll’ignominia maggiore che gliene venne; e coll’infelicità sua valse
ad ammaestrare altrui che nelle prospere vicende non insolentiscano».
Diodoro con nessuna parola disacerba il rimprovero; anzi in un altro
frammento divisa gli orribili trattamenti che la moglie di Regolo fece
ai prigionieri a lei abbandonati: «Non sapendosi dar pace del morto
marito, i figliuoli indusse a infierire contro i prigionieri. Serrati
in angustissimo camerotto, trovaronsi obbligati a stare aggomitolati
come bestie, indi per cinque giorni privati d’ogni alimento, Bodostare
per tristezza e fame morì; Amilcare di grand’animo andava sostenendosi,
e spesso con pianti pregando la donna, le narrava la cura che avea
preso del marito di lei; ma non potè piegarne il cuore ad alcun
sentimento umano, a tal che la spietata donna tenne ivi per cinque
giorni chiuso con esso il cadavere di Bodostare, e ad Amilcare dava
quanto cibo bastasse a tenere in lui vivo il senso delle sue calamità.
Amilcare, vedendo perduta ogni speranza che le sue preghiere avessero
effetto, incominciò a scongiurar Giove ospitale e gli Dei che hanno
in cura le umane cose, e a gridare d’esser troppo punito della buona
opera che avea fatto. Nè però in sì tormentoso stato morì, fosse
misericordia degli Dei, fosse la sua buona fortuna che infine gli
recasse non isperato sostegno. Già agli estremi, tanto per l’orrendo
lezzo del cadavere, quanto per le altre miserie, alcuni servi della
casa raccontano il fatto a persone estranee, che indignate di tanta
crudeltà, il denunziano a’ tribuni. Verificata la cosa, chiamati gli
Attilj dai magistrati, poco mancò non fossero condannati nel capo, per
avere di tanta infamia macchiato il nome romano; però di gravissima
pena li minacciarono se di buona fede non avessero in appresso
custoditi i prigionieri. Essi, accagionandone la madre, abbruciarono il
cadavere di Bodostare, e ne spedirono le ceneri alla patria; Amilcare
poco a poco refocillarono, finchè dai patimenti sofferti si riebbe».