Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 27

La plebe confermò lietamente la proposizione di lui: v’ha però abusi
tanto radicati[362] (l’intendano i novatori), che mettervi la scure
non si può senza che lo Stato intero se ne risenta. I nobili poteano
allegare il diuturno godimento, durante il quale aveano piantato,
migliorato, fabbricato; ivi le memorie della fanciullezza, le tombe
degli avi, le doti delle mogli: il cessare dal rendere il livello avea
fatto dimenticare quali fondi fossero pubblici, quali allodj: coloro
che per lungo ordine di avi o per retaggio o per dote possedevanli
allora, erano di buona fede, e v’aveano fatto assegnamento. Il rimpasto
dell’agro pubblico adunque traeva interminabili difficoltà per
riconoscerlo, la necessità di dare compensi, e l’opposizione di quanti
vedeansi sturbati da’ loro poderi. Questi esasperati comparvero per le
vie e le piazze vestiti a bruno, supplicando la plebe contro il tribuno
di essa: ma Tiberio persiste; valendosi del pien potere tribunizio,
suggella il tesoro, sospende i giudizj e l’esercizio delle magistrature
finchè la legge non sia votata.
Allora i patrizj ricorsero agli spedienti legali; e poichè
l’opposizione d’un tribuno impediva l’azione dell’altro, essi
guadagnarono Ottavio Cecina collega di Tiberio, giovane ricco e di
costumi austeri, affinchè interrompesse col suo voto la deliberazione.
Tiberio non lasciò via per trarlo dal suo parere; generoso e tenero,
irremovibile di volontà quanto dolce di indole, esibì pagargli del suo
i fondi ch’egli perdeva, lo supplicò, baciollo perfino in pubblico;
ma trovandolo ostinato, propose fosse deposto, malgrado il sacro
carattere tribunizio.—Il tribuno (diceva egli) è inviolabile, anche
se incendiasse l’arsenale, se smantellasse il Campidoglio: ma non se
minacci il popolo stesso. Sacra era la regia dignità, eppure gli avi
nostri espulsero Tarquinio: sacre eminentemente le Vestali, eppure
peccando sono sepolte vive. Così il tribuno che offende il popolo, non
deve in prerogativa trascendere il popolo stesso, poichè egli medesimo
scassina la potenza, da cui trae sua forza».
[DEPOSIZIONE D’UN TRIBUNO]
Già le tribù aveano cominciato a dare il voto per la destituzione di
Ottavio, quando Gracco tornò alle preghiere, agli scongiuri: il collega
s’intenerì fino alle lagrime; ma fosse ostinazione od onoratezza,
persistette, e il suffragio della decimottava tribù decise che Ottavio
venisse degradato. Primo colpo recato alla sacra autorità tribunizia;
ed era recato da un tribuno.
Ora qual è l’uomo, quale principalmente il demagogo, che, preso il
pendìo delle novità, possa fermarsi ove gli talenta? che per la
quistione presente non sacrifichi o dimentichi l’avvenire? Tiberio,
ch’era veramente il miglior uomo della fazione plebea, come della
nobile gli Scipioni, coll’abilità, col buon senso, coll’amor
dell’ordine disacerbava un’impresa tanto risoluta; ma alfine, stomacato
dalle tergiversazioni del senato e dalla perfidia degli oligarchi che
attentavano alla sua vita e persino alla sua fama, ripropose la legge
Licinia nell’antica rigidezza, non facendo più cenno di risarcimento
per l’eccedente dei cinquecento jugeri; senza por tempo in mezzo, gli
usurpatori abbandonassero l’agro pubblico, al quale uopo si attribuiva
potere grandissimo a triumviri, eletti per verificare i possessi e
spartirli. A questa carica fa scegliere se stesso con Appio e col
fratello Cajo.
[132]
Tra i regni che si formarono dal rompersi della signoria di Alessandro
Magno accennammo quello di Pergamo nella Misia (pag. 326). Lo ingrandì
il re Eumene II favorendo i Romani contro di Antioco e di Perseo; poi
Attalo III suo figlio, abjetto e crudele tiranno, testando chiamò
_erede de’ suoi beni_ il popolo romano; e questo interpretò che
per beni s’intendesse anche il regno ed occupollo, riducendo così
provincia, col nome di Asia, la più bella e più grande porzione
dell’Asia Minore.
Eredità di genere così nuovo dovea costare carissima a Roma. Intanto
Tiberio Gracco, trasferendo nel popolo quel disporre degli affari
esterni ch’era privilegio del senato, propone che la nuova provincia
non venga amministrata dal senato, ma profitti pei cittadini poveri,
onde abbiano di che comprare gli attrezzi e le scorte pei nuovi campi:
aggiunge che si abbrevii alla plebe il tempo del servizio militare;
i cavalieri possano entrar a parte de’ giudizj coi senatori; si
ristabilisca l’antica _provocatio_, cioè l’appello dai giudizj al
popolo congregato. Poi comprendendo che su tropp’angusta base poggiava
la mole immensa dell’impero romano, uscì dallo stretto patriotismo per
elevarsi fin alla nobile idea dell’unità italica, proponendo che a
tutta la penisola si estendesse il diritto della cittadinanza romana.
[ROGAZIONE SEMPRONIA]
Queste ultime rogazioni avrebbero dovuto amicargli l’ordine equestre
e gl’Italici: ma i cavalieri, se odiavano i patrizj che ne limitavano
l’autorità e gli escludevano dalle cariche, più temevano la legge
agraria che gli avrebbe spogli dei poderi usurpati, e a pari con
essi ammetterebbe al suffragio i Socj latini o gl’Itali antichi.
Tiberio dunque favorendoli non ne acquistò la grazia, e ingelosì la
plebe: la quale, sebbene avesse tanto a lodarsi d’un sì favorevole
magistrato, non ponea così immediato interesse alle leggi politiche,
di cui non intendeva bene il vantaggio, e vana com’è e disunita, non
sapeva sostenerlo nell’effettuare i suoi concetti, anzi dava ascolto
alle suggestioni de’ nobili che denigravano il tribuno, e dicevano
affettasse il regno.
Quanto agli Italioti, un nuovo riparto del territorio pubblico dava
a temere che i magistrati ne profittassero per intaccare o molestare
le possessioni confinanti, non ben delimitate ne’ contratti, essi
pure ambigui o inintelligibili[363]; e pareva sovrastasse una nuova
confisca in piena pace. Fors’anche i nobili di Roma aveano saputo
spargervi il fermento, e il senato lasciatovi intendere che ai
lamenti si darebbe ascolto, si farebbe larghezza di diritti, purchè
resistessero ai triumviri o li tergiversassero. Fatto è che dappertutto
la rogazione Sempronia parve aborrita.
[FINE DI TIBERIO]
Sentiva dunque Tiberio a qual pericolo resterebbe esposto appena
uscisse di magistratura; onde gittatosi a farsi (contro la
costituzione) prorogare il tribunato, ripeteva le patrizie minaccie,
compariva in bruno, mostrava alla plebe i suoi bambini, pregandola a
conservare ad essi il padre. Venuto il tempo de’ comizj per l’elezione,
nuovo timore l’invase perchè due serpi aveano fatto le uova nel suo
elmo, e quella mattina i polli non vollero sbucare dalla stia; egli
stesso uscendo di casa inciampò alla soglia, e due corvi combattenti
a sinistra fecero dal tetto cadere un sasso ai piedi di lui. Così
Plutarco: ma più seria apprensione dovea cagionargli il vedersi
incontro l’aristocrazia concorde e disposta a tutto, mentre in suo
favore null’altro restava che il vulgo mutabile e le tribù rustiche, a
cui l’opera della mietitura impediva di accorrere ai comizj.
[OPPOSIZIONE DEGLI SCHIAVI]
[133 xbre]
Radunati questi, i possessori alzano la voce contro il violator
della legge; i senatori compajono armati, e cinti di clienti e di
schiavi; gli amici di Tiberio s’accingono a tener testa; il tumulto
s’incalorisce; la plebaglia quanto pronta alle grida, tanto è alla fuga
e allo scoraggiamento. Egli, non potendo più farsi udire, ponsi la mano
sul capo per indicare il pericolo; i nemici gridano ch’egli chiede la
corona, cominciano a far macello degl’inermi, e trucidano lui stesso
co’ suoi fautori, che senza onore d’esequie, gettati nel Tevere,
scontano i brevi ed infausti amori della plebe.
Tra i fautori del Gracco alcuni furono processati, altri assassinati;
Cajo Billio, senz’altro giudizio, chiuso in una botte piena di serpi;
Blossio filosofo di Cuma, citato in giudizio, sostenne d’avere amato
Gracco, ed essersi mostrato pronto ad ogni volere di esso.—E se egli
avesse comandato di metter fuoco al Campidoglio?» domandò Scipione
Nasica.—Non l’avrebbe mai fatto (rispose il Cumano): ma se me l’avesse
imposto, l’avrei bruciato, persuaso ch’egli non potea volere se non
cosa utile al popolo».
Questo Nasica, cugino dei Gracchi, erasi mostrato accanitissimo loro
avversario; persuase di dar addosso alla plebe disarmata; tiratasi in
capo la toga come solea ne’ sagrifizj, essendo sommo pontefice, e col
bastone in pugno si pose a capo di quei che _amavano la repubblica_,
cioè l’usufruttavano; poi osò con un decreto far giustificare
quant’erasi commesso contro i Gracchi e i suoi. Sprezzatore della
plebe, prendendo la mano d’un agricoltore per sollecitarne il voto, e
sentendola callosa, gli chiese:—Che? cammini tu forse colle mani?»
Perciò i popolani gli gridavano improperj, lo imputavano d’aver ucciso
una sacra persona in luogo sacro; talchè il senato, volendo dare
qualche soddisfazione e sciogliere se stesso da un impaccio, l’inviò
con onorevole incarico in Asia, donde più non tornò.
[132]
Il senato non potè abrogare la legge agraria, ma confidava sulle
difficoltà materiali, che all’atto comparvero inestricabili, intorno
alla misura, all’origine del possesso, alla stima dei fondi. I Socj
italici e latini che aveano ottenuto moltissima parte dell’agro
pubblico, nojati o sbigottiti da questo misurare e stimare, ricorsero
al senato, che fu ben contento di un pretesto per sospendere la
mal gradita legge: e Scipione Emiliano, benchè cognato di Gracco,
reduce allora dalla vinta Numanzia, postosi a capo degli scontenti, e
unanimemente scelto a patrono dai Socj latini, ottenne si cassassero i
tre a cui n’era affidato l’adempimento, questo commettendo a un console.
[OPPOSIZIONE DEGLI SCIPIONI]
[128]
La plebe, che prima idolatrava Scipione Emiliano e che gli aveva
attribuito due consolati e la censura in violazion della legge, se
l’era recato in contrario perchè, all’udire l’uccisione di Tiberio,
avea proferito quel verso d’Omero: _Così perisca chi opera come
lui_. Scipione da una parte rifuggiva da quanto avesse aspetto
rivoluzionario; dall’altra teneva in vilipendio cotesta plebe, di cui
Gracco avea sperato far eccellenti soldati, ma che realmente amava
l’ozio cittadino questuante più che il possesso faticoso, nè erasi
mostrata capace di difendere colui che per essa si sacrificava. Popolo
e grandi in quella lotta che cosa aveano mostrato, altro che intrighi
e codardia ed arroganza? Più dunque Scipione non mettea speranza
in cotesta città di liberti togati, repubblica in decadenza, che
doveva dar luogo all’Italia. Nè il disprezzo dissimulava, ed erane
ricambiato d’odio; qualora egli parlasse dalla ringhiera, la plebe lo
confondeva coi susurri, ne ridiceva i superbi motti, e l’accusò perfino
di aspirare alla dittatura. Esso sprezzò l’imputazione, vantando i
meriti suoi e del padre Paolo Emilio; e dalla campagna, ove coll’amico
Lelio vivea studiando e spassandosi, tornava a Roma ogniqualvolta
si trattasse d’opporsi a leggi popolari. Quando il minacciavano
rispondeva:—I nemici della patria han ragione di desiderare la mia
morte, perchè sanno che Roma non perirà finchè Scipione viva». Ma una
notte fu trovato morto in casa; egli distruttore dei _due terrori
di Roma_, fu sepolto senza esequie pubbliche; il popolo vietò ogni
procedura, temendo di compromettere Cajo Gracco. La morte del più
ostinato aristocratico annunziava che il conflitto si rinnoverebbe più
violento, più passionato e criminoso.
E in effetto i tribuni, avendo appreso da Tiberio quanto formidabile
potesse divenire la loro autorità, miravano a dilatarla. Il tribuno
Papirio Carbone, che non rimetteva dal rinfacciare l’assassinio di
Tiberio, propose che il tribunato si potesse prorogare quanto al popolo
piacesse; ma la mozione restò inesaudita. Il tribuno Cajo Atinio,
avendogli il censore Metello Macedonico voluto impedire l’entrata in
senato, afferrò questo, e lo trabalzava dalla rupe Tarpea come reo di
lesa maestà, se un altro tribuno non si fosse opposto: ma si profittò
del caso per far decretare che ai tribuni competesse voto deliberativo
in senato.
[CAJO GRACCO]
[126]
[125]
Cajo Gracco, alla morte del fratello, si era ritirato come spaurito,
dedicandosi all’eloquenza, in cui nessuno il superò; savio del resto,
alieno dall’ozio, dalla cupidigia, dalle beverie in cui sciupavasi
la gioventù. Molti il giudicavano un dappoco, e lo tassavano
disapprovasse Tiberio; ma nel fatto egli si maturava a vendicarlo,
risarcire la plebe, sgomentare i doviziosi, compire dopo resi più
grandiosi, i disegni del fratello, il quale gli era apparso in sogno
dicendogli:—Che cessi? la tua sorte sarà come la mia; combattere
e morire pel popolo». Questore in Sardegna, acquistò la stima e la
benevolenza del console e de’ soldati col valore e coll’esattezza;
ricusando le città somministrare vestimenti, esso ve le seppe indurre.
Per solo riguardo di lui, Micipsa re di Numidia mandò grano, con grave
dispetto del senato, che cacciò i messi di quel re, e diede lo scambio
alle guarnigioni. Il senato avea spedito lontano anche il violento
Fulvio Flacco, uno dei triumviri per la spartizione dei terreni, e
che giunto al consolato in onta dei nobili, moveva mari e monti per
accomunare la cittadinanza a tutti gl’Italiani, e promovere la legge
agraria; ma la città di Fregelle, che coll’armi avea voluto acquistare
quel diritto, fu vinta e distrutta; e il non averla sostenuta le
altre città italiche mostrava che il colpo non era maturo.
[123]
Ed ecco d’improvviso Cajo ricompare a Roma. I censori lo chiamano in
giudizio come disertore, ed egli così favella:—Dodici anni io militai,
benchè soli dieci ne esigano le leggi. Sortito questore, stetti
oltre due anni presso il mio generale, ancorchè la legge permetta
di ritirarsi dopo servito un anno. Vero è ch’essa m’ingiungeva di
tornare col mio generale; ma essa suppose che un console nel luogo
stesso campeggiasse solamente durante il consolato. Se piacque tenere
tre anni in Sardegna Aurelio Oreste, era io obbligato ad ordini non
diretti a me? Dolce riusciva al proconsole esercitar lungo ed assoluto
imperio sopra legioni obbedienti: duro riusciva ad un questore il
gettar nell’ozio un utile tempo. Me chiamano gl’interessi di tanti
infelici che implorano la distribuzione de’ terreni, alla quale io fui
deputato. Con quale intento io fossi tenuto sì lungamente discosto
dalla capitale, tocca al popolo romano indagarlo, tocca agl’Italiani
il lamentarsene; voi, censori, abbiate almeno riguardo al modo ond’io
mi comportai in un’isola, ove l’avarizia e la dissolutezza corruppero
gli uffiziali e i soldati del nuovo esercito speditovi. Pur un
asse io non accettai in dono dagli alleati, nè soffersi che alcuna
spesa sostenessero per me. Non ho fatto della mia tenda un luogo di
stravizzi, un ricovero alla crapula e alla prostituzione dei giovani
romani: apparecchiai banchetti, ma dove, sbandita la licenza, regnava
modestia di parole e di atti: nessuna femmina scostumata a me entrò:
non crebbi punto di ricchezze. Questo divario troverete fra me e i
vostri uffiziali di Sardegna, che io solo torno con la borsa vuota,
mentre gli altri tracannarono il vino ond’erano piene le anfore che
riportano colme d’argento e d’oro»[364].
[POPOLARITÀ DI CAJO GRACCO]
[122]
Cajo restò assolto ed acclamato dal popolo, che in esso credeva
rivedere il suo Tiberio; onde, allorchè egli chiese il tribunato,
non che occorressegli di far broglio, il campo Marzio non bastò alla
folla d’Italiani accorsi, che dai terrazzi e dai tetti gli davano il
suffragio per acclamazione; e mentre il voler prorogare l’annuale
dignità era costato la vita a suo fratello, a lui fu confermata l’anno
successivo, a grand’onta de’ patrizj, i quali soleano rimandare d’oggi
in domani le proposte de’ tribuni finchè il loro anno spirasse.
Fu sventura che Cajo Gracco non venisse insieme con Tiberio, e che la
fine di questo lo sgomentasse dal procedere con sicura risolutezza,
e lo facesse astioso contro del senato. Mentre prima l’oratore,
arringando nei comizj, volgevasi al senato, egli si piegò verso il
popolo; nel che imitato, venne a trasferire in questo l’importanza.
Poi, invece di dimenticare, siccom’è necessario a chiunque vuol
riconciliazione e riforme, ogni tratto rammemorava Tiberio.—Dove
andrò io? dove troverò un asilo? In Campidoglio? ma è lordo ancora del
sangue di mio fratello. Nella casa paterna? ma vi troverò una madre
inconsolabile. Romani, i vostri padri chiarirono guerra ai Falisci
perchè aveano insultato il tribuno Genuzio; dannarono nel capo Veturio
perchè non avea ceduto il passo a un tribuno che traversava il fôro;
e costoro sotto i vostri occhi scannarono Tiberio, ne trascinarono il
cadavere nel Tevere, i suoi amici fecero morire senza giudizio: mentre
dapprima era costume che, quando uno fosse imputato di causa capitale,
il banditore di buon mattino andasse alla porta di esso e lo citasse a
suon di tromba, nè prima di ciò veruno votasse; tanto rispetto aveasi
alla vita de’ concittadini».
[SUOI PROVVEDIMENTI]
Per conseguenza propone che un magistrato, il quale abbia colpito
alcuno senza giudizio, venga tradotto avanti al popolo: legge diretta
contro Ottavio, la quale dava il mal esempio d’azione retroattiva.
Vôlto quindi agli interessi generali, propone che niuna condanna
capitale valga senza la conferma del popolo; poi ogni mese facciasi
una vendita di grano a buon patto, ogni anno una distribuzione di
terreni; si disponga a profitto del popolo l’eredità del re Attalo;
ai soldati si dia il vestire senza detrarre la paga, e non s’arrolino
avanti i diciassette anni, mentre prima i patrizj facendosi iscrivere
ancor fanciulli, si assicuravano dell’anzianità per ottenere i gradi:
insomma fa a ritaglio accettare la legge del fratello. Le distribuzioni
del grano erano necessarie per evitare i tumulti che la fame potea
causare; ma introdussero l’idea che il popolo avesse diritto di vivere
a spese dello Stato. Chi però avrebbe potuto opporvisi? e quanto non ne
ricrescea la popolarità di Gracco! Tanto più che avendo fatto decretare
grandiose opere pubbliche, vi dava impiego a migliaja di braccia; fece
abbattere i palchi donde i doviziosi guardavano gli spettacoli del
circo, acciocchè non rimanesse distinzione dai poveri. Doveva egli
talora recedere da una sua rogazione? mostrava piegarvisi per riguardo
a Cornelia, madre sua venerata e cara.
Col favore del popolo cresciuto d’ardire, volgesi a politiche
innovazioni contro i privilegiati, e propone s’aggiungano nel
senato seicento cavalieri: eccessiva domanda, ch’egli avventurò per
ottenerne una più moderata, qual era che i giudizj fossero tolti
ai senatori[365] e conferiti all’ordine equestre, che così fu
reso un corpo politico da equilibrare il senato. Per tal passo gli
amministratori delle provincie non si trovavano assicurata l’impunità
dalla condiscendenza del senato: ma i nuovi giudici poteano vendere
e vendettero la connivenza; e mentre umiliando i grandi credeva
istituire una classe media, Cajo non creò che un partito, e come gli
rinfacciavano i vecchi patrioti, diede alla repubblica due teste, che
presto verrebbero ai morsi. Egli però vantavasi d’aver fitto nel fianco
dell’aristocrazia il dardo mortale, compiacevasi d’avere consolidata
la costituzione in modo, che il senato colla nobiltà, i cavalieri coi
giudizj farebbero argine alle intemperanze della popolaglia.
[ROGAZIONI DI CAJO GRACCO]
Per sostenere l’opera sua e togliersi ogni limite, chiese agl’Italiani
tutti si comunicasse la piena cittadinanza. Voleva egli con ciò
amicarsi i Socj latini, perchè cessassero dall’opposizione; e sebbene
l’averli il senato sbanditi dalla città, e impedito che a migliaja
venissero dal Lazio ai comizj, eludesse la proposta, da quell’ora essi
fecero causa coi poveri di Roma contro de’ nobili e del senato.
Colla legge frumentaria affezionatesi le tribù urbane, i cittadini
coll’agraria, i cavalieri colla giudiziaria, l’Italia colla lusinga
della cittadinanza, tutte le forze della repubblica e della penisola
opponeva al senato, che si vide costretto a cedere. Ma la distribuzione
dei grani smungeva l’erario; l’affidare i giudizj ai cavalieri
spartiva in due la repubblica, e sottoponeva i senatori ai pubblicani;
poi ai cavalieri rimaneva il dispetto delle scemate proprietà, e il
popolo vedeva mal volentieri che Cajo intendesse accomunare a tutti
gl’Italiani i suoi privilegi ed il suffragio.
Null’ostante egli godeva di grandissima autorità, circondato da
magistrati, militari, artisti greci, ambasciadori come un re: ma
conoscendola esosa al senato, badava di non dargli che consigli utili
e decorosi. Avendo il propretore Fabio mandato frumento dalla Spagna,
Cajo persuase il senato a venderlo, e il denaro ritrattone spedirlo
agl’Iberi, affinchè non sentissero eccessivamente grave il giogo di
Roma: autorizzò i provinciali a prendere essi medesimi l’appalto
delle imposte: fece fabbricare granaj, e mentre andava coi triumviri
a misurar l’Italia, vi procurò belle e dritte strade con ponti e
colonnette miliari, e pietre per salire a cavallo, com’era duopo prima
d’inventare le staffe, soprantendendo egli stesso ai lavori: propose
di collocare colonie ove Roma possedeva maggiori territorj, e di
rassettare le antiche emule di Roma, Capua, Tàranto e Cartagine.
I senatori mostravano assecondarlo, ed offersero a lui stesso
andasse a rimettere in essere quest’ultima, e piantarvi la colonia
Giunonia, che fu la prima fuori d’Italia. Egli il fece: ma sottratto
che fu dagli occhi della moltitudine, i senatori giocarono a due
mani per diroccarlo, e con un artifizio spesso imitato subornarono
Druso collega di lui, acciocchè lo sorpassasse con proposizioni
esorbitantemente popolari. Cajo diceva di mandare due colonie? ed egli
dodici; di distribuire i terreni con un tenue canone? ed egli di darli
gratuitamente; fece che i generali non potessero sferzare i soldati
latini; davasi premura di esprimere che tali consigli moveano dal
senato, tutto viscere per la plebe; nè mai cercava posti ed onori per
sè, quasi a raffaccio di Gracco che assumevasi tutte le commissioni,
abile a tutte per la sua operosità meravigliosa.
[FINE DI CAJO GRACCO]
[121]
Con queste lustre e coi paroloni a vuoto che fan colpo sul vulgo,
venne a diminuirsi l’animosità concepita contro il senato; e quando
tornò dalla rifabbricata Cartagine, Gracco trovò che in quei tre mesi
la plebe avealo quasi dimentico. Domandando il terzo tribunato, ebbe
i voti contrarj: un suo ospite sotto gli occhi suoi fu trascinato in
prigione: ai Latini dato il bando da Roma: e per colmo, vide eletto
console Opimio Nepote distruttore di Fregelle, e suo ereditario nemico;
il quale domandò fosse disfatta la colonia cartaginese, tanto aborrita
dagli Dei di Roma, che i lupi ne aveano portato via i termini. Ricevuto
dal senato l’arbitrio dittatorio, occupò il Campidoglio, dichiarò Cajo
nemico della patria, bandì una taglia sulla testa di esso, indi a capo
delle truppe investì Fulvio Flacco. Questo ribaldo intrigante, imputato
non forse a torto dell’assassinio di Scipione Emiliano, disonorava
la causa di Gracco col farla assomigliare ad una sommossa, e armava
i proprj partigiani colle armi tolte da esso ai Galli, e che come
trofeo conservava in casa. Assalito, aspettò da valoroso e manesco qual
era, ma nella zuffa perdè la vita. Gracco, cui mancava l’audacia d’un
rivoluzionario o la freddezza d’un generale, ricoveratosi nel bosco
delle Furie, si fece uccidere da uno schiavo, unico fedele alla sua
sventura. Tremila furono morti quel giorno sull’Aventino e gettati nel
Tevere, persino un fanciullo di Fulvio che s’avanzava col caduceo in
segno di pace; ad altri tortura e supplizio; confiscate le facoltà,
proibito il lutto alle mogli, a quella di Gracco tolta perfino la dote;
e Opimio, vincitore della prima guerra o strage civile, fondò il tempio
della Concordia.
La plebe, che aveva fiaccamente abbandonato il suo protettore, appena
si riebbe dall’abbattimento, palesò l’indignazione sua come potè,
prima scrivacchiando sui muri[366], poi ergendo statue ai Gracchi,
consacrando i luoghi dove furono uccisi, e offrendovi le primizie
d’ogni stagione. Cornelia portò decorosamente quella perdita, dicendo
che i suoi figli aveano sepolcri degni di loro in luoghi consacrati;
e lungamente visse a Miseno, ospitando letterati e Greci, ricevendo
messi dai re, piacendosi di raccontare le virtù di Scipione Africano
e la tragedia de’ suoi figliuoli. Le fu poi dedicata una statua
coll’iscrizione: _Cornelia madre dei Gracchi_.
[108]
La partizione dei terreni era cominciata, nè il senato osò sospenderla,
ma con proposizioni accorte si eluse quel che contenevano di meglio
le rogazioni dei Gracchi. I nobili indussero uno de’ commissarj a
dire che, difficilissima essendo quella ripartizione secondo la legge
agraria, meglio tornerebbe l’obbligare i possessori a pagarne un canone
perpetuo, da ripartirsi fra i poveri; dato il quale, i possessori
non fossero più sturbati. Talentò la speciosa proposta al popolo, e
adottandola riconobbe inalienabile proprietà di privati i terreni già
pubblici: ma poco andò che un altro tribuno fece cessare quel livello,
dicendo che i nobili già contribuivano abbastanza col sostenere le
dignità; e la plebe, senza nè terreni nè rendite, trovossi rituffata
nella primitiva miseria. La legge Thoria poi abolì tutti gli effetti di
quelle de’ Gracchi.
[LORO LEGGI ABOLITE]
Ben dicemmo dunque che le leggi agrarie toccavano ai problemi che
oggi stesso agitiamo, del pauperismo, de’ soccorsi pubblici alla
mendicità, dell’arresto personale, della libera usura del denaro,
dello smembramento delle proprietà. Quelle portate da Stolone aveano
stabilito lo sminuzzamento de’ possessi e l’equilibrio dei poteri,
dando stabilità e potenza alla repubblica: abrogate, ne sminuirono la
popolazione libera e i prodotti. Tiberio Gracco volle ristabilirle
quando, le usurpazioni dei ricchi essendo ancora recenti ed illegali,
non ne veniva profondo sovvertimento alla società, onde sarebbonsi
rimessi in equilibrio i possessi e le ricchezze fra i tre Ordini.
L’oligarchia vi si oppose, e diede il primo esempio di quelle guerre
civili, in cui essa dovea perire. La nimicizia fra plebe e nobiltà
s’invelenì; i cavalieri, fatti arbitri dei tribunali e appaltatori
delle gabelle, poteano imporne al senato e sviare qualunque riforma:
onde invano l’eloquenza di Marc’Antonio, di Lucio Crasso e d’altri
tonava contro i dilapidatori delle provincie; invano altri tentavano
ridurre queste a migliore amministrazione. Però fra i Socj latini del
popolo romano sopravivea il pensiero di poter anch’essi entrare a parte
della dominazione; e a mutar il fremito in insurrezione non mancava se
non un capo, il quale all’ardimento accoppiasse l’abilità.
FINE DEL TOMO PRIMO


INDICE

LIBRO PRIMO
CAPITOLO I. Dell’Italia e della sua storia _pag._ 9
» II. Dei primitivi italiani » 34
» III. Gli Etruschi » 64
» IV. Popoli minori » 103
» V. Istituzioni italiche » 113
» VI. Primordj di Roma. I re » 137
» VII. Governo patrizio e sue trasformazioni
fino alla democrazia » 158
» VIII. Politica esterna. I Galli. Il Lazio e
l’Etruria soggiogati. Fine dell’età
eroica » 187

LIBRO SECONDO
» IX. Magna Grecia.—Pitagora.—I legislatori » 205
» X. Sicilia » 229
» XI. I Romani nella Magna Grecia.—I
Venturieri.—Pirro » 266
» XII. Cartagine. Prima guerra punica. Sistema
militare de’ Romani. Conquista
dell’Insubria » 280
» XIII. Seconda guerra punica. Annibale.