Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 26
auspicato, corrispondente a quel che oggi direbbesi territorio legale.
Da principio non l’aveano posseduto che i patrizj; i tribuni poco a
poco ne resero partecipe anche la plebe: ma sebbene il possesso, da
religioso, poi aristocratico, infine divenisse individuale e privato,
il concetto di proprietà nazionale si conservò sempre, almeno come
finzione, talchè Gajo, giureconsulto dell’età degli Antonini, ancora
diceva appartener essa allo Stato, e l’uomo non averne che il possesso
e l’usufrutto[351]. I sacerdoti prima, poi gli agrimensori e il
magistrato davano solennità alla trasmissione de’ possessi, che lo
Stato lasciava godere ai privati, ma che poteva richiamare a sè col
terribile diritto della proscrizione o colla confisca, quando un membro
fosse cancellato dal ruolo de’ cittadini. Sacro perciò il termine;
sacro, o almeno di pubblica autorità l’uffizio dell’agrimensore[352].
Il territorio primitivo di Roma, che stendeasi appena otto chilometri
fuor della città, fu distribuito a ciascun capofamiglia in porzioni sì
scarse, che a Quinzio Cincinnato per coltivare la propria di quattro
jugeri bastava uno schiavo. Altrettanto era nelle altre città che
coronano le alture del Lazio, perciò popolose e colte; e fra’ Sanniti
e Sabini, e fra gli altri alle falde dell’Appennino, che adopravano
come schiavi le genti primitive soggiogate, quali erano i Pelasgi per
gli Etruschi. Alla lor volta soggiogati, gli abitanti di questi paesi
dovettero cedere il posto a colonie romane, e il territorio o in tutto
o in parte si confiscava a pro dello Stato.
Restavano dunque distinti i possessi privati e i pubblici. La gente
antica di Roma continuava a vivere sui campi aviti, e il possedimento
di questi consideravasi come condizione dell’indipendenza, cittadino
di pien diritto essendo chi teneva una parte di quel terreno: ond’è
che, dopo la cacciata dei Galli, essendosi formate quattro nuove
tribù, furono assegnati a ciascuna famiglia sette jugeri; quantità
probabilmente desunta dall’ordinario possesso delle famiglie
preesistenti.
[CONCENTRAZIONE DE’ POSSESSI]
L’eredità intestata distribuivasi a parti eguali tra i figli: eppure
il suolo, non che andare eccessivamente suddiviso, anzi si concentrò
in poche mani, per violenza, o per artifizio legale, o per compra.
I terreni conquistati, oltre quelli distribuiti come ricompense
militari, divenivano in parte proprietà pubblica (_ager publicus_), e
se ne facevano tre classi: i coltivati erano venduti o affittati dai
censori, od assegnavansi a coloni che vi si stabilivano; gl’incolti
abbandonavansi a chi volesse utilizzarli, retribuendo il decimo dei
grani e il quinto delle frutte; i pascoli restavano comunali, potendo
ciascuno mandarvi il bestiame, pagando una tenue tassa (_scriptura_).
Chi acquistasse terreni colti, non n’era proprietario assoluto,
ma precario, e pagava un canone (_vectigal_). Però il riparto dei
conquistati terreni si faceva dai patrizj; talchè essi tenevansi il
bello e il meglio, poi accordandosi cogli appaltatori, loro consorti,
lasciavano cadere in disuso il livello, e li confondevano coi beni
patrimoniali, che perciò ingrossavansi in quella sproporzione che ruina
le repubbliche.
[LEGGE LICINIA]
[366]
Quindi i liberali proponevano di dividere tra’ plebei l’agro pubblico,
dai grandi usurpato; e poichè questo era revocabile, il senato
non ricusò mai la proposta, solo armeggiò per eludere questa, che
chiamavasi _legge agraria_[353]. Ma se Cassio Icilio, Manlio Capitolino
ed altri non aveano proposto che di dar terre come retribuzione ai
soldati della repubblica, il tribuno Cajo Licinio Stolone improntò
alla legge agraria un carattere politico, chiedendo pel popolo non
soltanto la terra onde vivere, ma anche la potestà civile che le va
annessa (pag. 184). Pertanto, oltre sminuir le usure e rimettere in
circolazione una quantità di terreno, a lunghi stenti ottenne che
uno dei consoli potesse esser plebeo, ed a’ plebei si comunicasse il
diritto degli auspizj. La sua legge portava che nessuno possedesse
oltre cinquecento jugeri (125 ettare) di suolo e cento teste di
bestiame grosso, e vi mantenesse un certo numero di villici, cioè
coltivatori liberi. Tali provvedimenti riferivansi unicamente ai campi
pubblici[354]; e non pare chiedesse tampoco che venissero legalmente
spropriati quei che già possedevano di più, contentandosi di multarli.
Con ciò arrestando alcun tempo la agglomerazione dei poderi e lo
squilibrio delle fortune, grandemente giovò la cosa romana. Ma la sua
legge non tardò ad essere elusa; i figli de’ Fabrizj e de’ Cincinnati
ambirono sempre maggiore opulenza; e gente senza industria, con quali
arti doveva acquistarla? col valersi della potenza, loro attribuita
dalla costituzione, per trarre a sè il buono e il meglio della
conquista.
In ciò da ogni cosa si trovavano ajutati. Le materie preziose
introdotte per via de’ trionfi, diminuirono il valore del denaro, per
modo che poterono facilmente spegnersi i debiti; il canone dai patrizj
dovuto restò ridotto a un nulla, e pochissimo bastava a comprare gli
schiavi che lavorassero i campi. A questi schiavi permettono di fare
qualche risparmio sopra il necessario, o di esercitare un traffico
minuto, con cui si creano un peculio che depongono a mutuo in mano
del padrone medesimo, il quale di tal passo si trova ad un tempo
proprietario, agricolo e banchiere.
I minuti possessori, ascritti alla quarta e alla quinta classe, alcun
guadagno ritraevano dal militare, dall’assistere come patroni ai
forestieri od ai plebei che chiedessero giustizia[355]; talora anche
ottenevano qualche brano del territorio conquistato. Ma i grandi
possessi, sostenuti da capitale abbondante, tendono a dilatarsi, ogni
giorno tirano a sè qualche patrimonio modesto, e i nobili, vale a
dire quelli entrati nel senato e nelle cariche maggiori, colle arti e
coi cavilli della legalità assorbono i piccoli appezzamenti toccati
al plebeo. I censori stessi potevano torli a questo, e darli a tenue
fitto ai ricchi, che poi, per connivenza d’essi censori, desistevano di
pagarne il canone, e ne divenivano proprietarj diretti.
[MISERIA DE’ PICCOLI POSSIDENTI]
La condizione de’ prischi agricoli era tutt’altro che felice. Una
siccità, un turbine potea sperdere il ricolto, e la difficoltà delle
comunicazioni rendeva impossibile il supplirvi. La vicinanza alle
frontiere esponeva alle correrie de’ nemici: e devastati i campi,
perduti i bovi, era forza ricorrere per imprestiti al ricco, le cui
terre, più vicine alla città, erano più fruttuose e meglio difese. Il
minuto possidente come poteva reggere ai grossi interessi, con cui
procurarsi gli stromenti del lavoro? come sopportare la concorrenza
delle operazioni in grande, intraprese dai padroni di schiavi?
Lasciatosi prima ipotecare, poi oppignorare il possesso, lo spropriato
diveniva schiavo del ricco. Molti già erano a tal condizione nel 340
avanti Cristo, quando alcune legioni ammutinate liberarono grandissimo
numero di siffatti debitori. Pertanto il territorio romano pigliò
presto l’apparenza d’una federazione di principotti; e non è guari si
scoprì presso Viterbo l’iscrizione d’un acquedotto, lungo 8776 metri,
che traversava soli undici poderi di nove proprietarj.
I piccoli possessori dovevano sulle terre, sulle case, sugli schiavi,
sulle bestie, sul bronzo coniato (_res mancipi_) una tassa, variabile
ogni lustro: i grandi invece, pei fondi acquistati al modo che dicemmo
e senza titolo, non pagavano imposizione, come neppure sui mobili di
lusso (_res nec mancipi_) che costituivano la loro principale opulenza.
Lautissimi lucri poi trovavansi schiusi dall’appalto delle gabelle,
che ogni cinque anni i censori metteano all’incanto. Qui come altrove
il delitto grosso otteneva onore, il piccolo infamia; perocchè i
pubblicani erano cittadini autorevoli per impieghi e per aderenze, cui
gli oppressi non osavano accusare, sfogandosi contro i subappaltatori
che operavano per loro conto. Queste insaziabili sanguisughe colle
vessazioni raddoppiavano il debito delle provincie, e ne assorbivano
le rendite dell’anno successivo colle enormi usure, a moderar le quali
tutti i provvedimenti furono o conculcati o elusi.
[POTENZA DEI RICCHI]
[193]
Trarricchiti pei doni affluenti nel senato e per gl’immensi profitti
delle magistrature e delle missioni nelle provincie, i nobili
rinunziarono a guadagnare coll’usura, e allora tentarono reprimerla
ne’ cavalieri, ai quali per compenso si attribuirono l’appalto delle
entrate e i pubblici poderi tolti ai poveri; in tal modo crescevansi i
latifondi a misura che il grosso della popolazione impoveriva. Quando
i grandi più non avessero modo a rubare, vendevano il nome con indegne
adozioni; vendevano la propria libertà anelandosi nelle legioni, i cui
capi connivevano alle loro rapine per tenerseli amici.
Così lo Stato cadeva nelle branche d’un’aristocrazia pecuniaria: unica
potenza verace, la ricchezza decide del voto nelle assemblee, porta a
capo dello Stato, padroneggia i comizj, riempie il senato e le cariche,
dà a consoli e pretori le provincie da espilare, commette ai censori
l’arbitrio delle terre d’Italia. Sì: erano aperte a tutti le dignità,
ma che? le elezioni cadevano sempre sui nomi stessi, e negli ottantasei
anni fra il 219 e il 133, nove famiglie ottennero ottantatre volte
il consolato, e lentavasi quel movimento, per cui l’aristocrazia si
risanguava continuamente colla eletta de’ plebei.
La sproporzione di ricchezze nelle antiche repubbliche trova
spiegazione dal mancarvi l’industria, il commercio, ogni altr’arte,
fuor la guerra e l’agricoltura. Fra i larghi possidenti e i miserabili
non era interposta la classe media di negozianti e artieri, i quali
vivono e arricchiscono coll’industria e coll’accumularne i frutti.
La gente di campagna era tratta alla città, ma non per applicarsi
ai mestieri; onde vi si sviluppavano i morbi che adesso pure ci
rodono col nome di pauperismo e di carità legale. Oggi al pitocco
noi diciamo:—Va, e lavora»; a un cittadino romano sarebbe stato
un’ingiuria, un trattarlo da schiavo, al quale erano serbate le arti
sordide, cioè le utili. Le bottegaje si confondevano con le infime
serve fino ai tempi di Costantino; e Cicerone dice che il negoziare è
un aumento di servitù, e che i mercanti non possono profittare se non
col mentire[356].
[PLEBE SOFFRENTE]
Senz’arti, senza possessi, che far dunque della romana plebe? Menarla
alla guerra; la quale perciò si perpetuava, come giovevole sì allo
Stato che con essa riparava al pubblico debito, sì ai nobili che
si rifaceano colle spoglie dei vinti, sì ai poveri che o vi erano
mantenuti o morivano gloriosamente. Per disgrazia mancavano nemici da
combattere? il vulgo doveva accattar pane o dai candidati cui vendeva
il voto, o dalla pubblica limosina, onestata col nome di largizioni,
ricevendo gratuiti o a buon mercato i grani e il sale che sovente
era l’unico suo companatico. Dopo i trionfi, aveva bronzo coniato o
terre lontane, come si fece di quelle tolte agli Italiani che avevano
favorito Annibale, preferendosi il largheggiare possessi nelle colonie
al concedere terreni legittimi. E voi soldati, terror de’ nemici in
campo, che l’affezione per gli Dei penati posponete alla venerazione
delle aquile legionarie, voi sarete altre vittime de’ ricchi ambiziosi:
strascinati a combattere oltre i mari, non potrete più coltivare il
campo avito, spesso lo perderete o per guerra o per debiti: voi che
ergete trofei, o fabbricate catene ai popoli superbi, o spianate strade
indistruttibili per congiungere i vinti alla vincitrice, non potrete
che lasciare a straniera gleba le ossa affaticate ed incompiante.
Allorchè si propose la guerra contro Perseo, un centurione si fece
avanti ai tribuni e al senato; e—Quiriti, io sono Spurio Ligustico,
della tribù Crustumina, nato in terre de’ Sabini. Mio padre mi lasciò
un jugero di terra e una casetta, nella quale io nacqui e fui allevato
ed abito ancora: mi diede in moglie la figliuola di suo fratello,
la quale null’altro recò che la libertà, la pudicizia, e per giunta
una fecondità qual basterebbe per ogni casa ricca. Ho sei maschi e
due fanciulle; queste accasate; di quelli, quattro hanno la toga
virile, due sono in pretesta. Arrolato nell’esercito di Macedonia, due
anni io militai come gregario contro Filippo; il terz’anno, Quinzio
Flaminino in benemerenza mi assegnò il decimo ordine degli astati.
Vinto Filippo, ricondotti in Italia i congedati, volontario passai
in Ispagna; e Catone console, tanto operoso, diligente esaminatore e
giudice della virtù del soldato, mi reputò degno d’affidarmi il primo
ordine degli astati della prima centuria. Una terza volta militai
volontario nell’esercito contro gli Etolj e il re Antioco, ove da Marco
Acilio mi fu dato il primo grado tra i principi nella prima centuria.
Cacciato Antioco e soggiogati gli Etolj, in Italia militai due volte
nelle legioni che servivano annualmente; poi una volta in Ispagna. Da
Fulvio Flacco fui menato al trionfo fra quelli di cui volle onorare la
virtù. Richiesto da Sempronio Gracco, feci con esso una campagna. In
pochi anni quattro volte stetti centurione principale, trentaquattro
volte fui onorato di doni da’ miei capitani, ricevetti sei corone
civiche, negli eserciti compii ventidue stipendj annuali; ed ora passo
i cinquantanni».
Infelice! ed era chiesto a nuovi combattimenti. Noi riferimmo questo
discorso per mostrare a qual condizione si riducessero i popolani
che viveano di continuo negli accampamenti, e spesso, dopo servigi
di trent’anni, nè tampoco si trovavano un camperello onde pascere la
numerosa famiglia; denaro riceveano nelle distribuzioni de’ frequenti
trionfi, ma sciupavanlo coll’imprevidenza solita ne’ militari: talchè i
pochi che potevano riportare il mutilo corpo dall’Asia o dalla Spagna,
stentavano nella miseria gli ultimi giorni.
Da principio alla terra cercavasi il massimo prodotto lordo, cioè
grani da mangiare; di modo che la popolazione crebbe, e il villano
non soffri. Dappoi si aspirò al maggior prodotto netto, convertendo
in pascoli i campi a grano. Allora dunque che, conquistata Cartagine
e l’Asia, Roma ingrandiva, la popolazione libera e le produzioni
dell’Italia scemarono, quantunque si cessasse di pagare le taglie, meno
braccia dovessero darsi alla guerra, fossero migliorati gli utensili,
abbondanti i capitali, cresciuto il lusso: ai piccoli possessori erano
sottentrati i grossi, che l’eccedente dei frutti non riversavano sui
campi stessi, ma sprecavano in lusso nella città.
A coltivare gli ampj poderi basteranno gli schiavi, meglio convenienti
perchè non colpiti dalla leva militare come i liberi: e il patrizio,
beato di pingui ozj, applaudirà a Catone che insegna le possessioni
migliori essere i pascoli, dove un mandriano schiavo basta a condurre
un numeroso armento. All’antico libero agricola che resterà dunque?
Portare le inutili braccia a Roma, dove sa che tratto tratto si
largiscono viveri; dove i doviziosi ostentano generosità col gettargli
un po’ del loro superfluo; dove spera esser mandato in qualche colonia,
per divenire alla sua volta tiranno, e dire al possessore:—Vattene
morir di fame in altra terra»; dove se non altro venderà il suo voto ai
candidati, che del prezzo si rifaranno nelle lucrose magistrature.
[LA POVERAGLIA]
Ma ohimè! il senato, omai sicuro nella potenza ed ebbro
dell’umiliazione dei re, più non si briga di molcere il popolo; va
mezzo secolo senza che alcuna colonia sia fondata; fin l’immorale
guadagno del voto cessa di fruttare al popolo re, dacchè i ricchi,
eletti censori delle assemblee centuriate, ogni cinque anni stivano
nella tribù Esquilina tutti i poveri, de’ quali non occorrerà il
suffragio se non nei rari casi in cui a decidere non bastasse il voto
dei doviziosi, mantenutisi nelle tribù rustiche, molte in numero e
scarse di membri. Poc’a poco il senato, rinforzatosi come sempre
succede nelle lunghe guerre, si dispensa dal chiedere l’assenso delle
tribù a’ suoi consulti, e dopo trionfato dell’ultimo successore di
Alessandro, delibera a sua voglia della pace e della guerra, e non
prende cura del vulgo, perchè più non ne ha bisogno nè paura.
Rimanevano al popolo i giudizj; ma ad evitare i viluppi e accelerare le
decisioni, si costituiscono quattro tribunali permanenti, composti di
senatori che investigano i casi criminali cui non bastano i tribunali
pretorj[357], e principalmente le accuse di broglio, di concussione,
di peculato contro i senatori: così non occorrerà più pericolo che
la plebe venda i suoi giudizj, nè che i nobili li temano. Il popolo
campato alle guerre morrà dunque di fame. Che cale? la salute pubblica
non ne patisce, giacchè migliaja di schiavi affluendo dai paesi
conquistati, impingueranno le glebe di venale sudore, empiranno i
palagi e le città servendo al fasto e alla depravazione dei padroni;
nei quali uffizj ben meritando, acquisteranno di divenir liberi e
cittadini, ricolmando i vuoti lasciati dall’antica gente romana.
[AFFLUENZA A ROMA]
Al tempo ove noi siamo col racconto, soli omai liberti empivano il
fôro; e un giorno che coi loro schiamazzi interrompevano Scipione
Emiliano, questi, coll’orgoglio d’un nobile di antica schiusa, gridò
loro:—Zitto, figliastri d’Italia. Forse vi temerò sciolti io che vi
menai qua incatenati?»[358]. Cicerone insultava alla _feccia della
città_, a questa plebaglia _nuda e digiuna_, a tanti servi introdotti
nel recinto di Roma come uno sciame d’animali malefici, contro il quale
sarebbero a invocare gli esorcismi degli aruspici[359]. Questa folla
copiosissima e sprovvista, non aspirando a diritti ma a possessi, potea
divenire arma terribile in mano d’un demagogo, il quale sorgesse a
combattere la tirannesca aristocrazia.
Altra folla accorreva a Roma dalle provincie e dai municipj per
sottrarsi alle angherie dei magistrati, per entrar membri d’una nazione
temuta e grande, per la speranza di salire fino ai sommi gradi, e
disporre della sorte dei regni. Più credevano meritarselo gl’Italiani,
dacchè colle loro braccia eransi compiute le conquiste. Alcuni
ottenevano la cittadinanza col darsi schiavi d’un Romano che poi li
manometteva; altri si facevano per frode iscrivere nelle rassegne dei
censori; ma poichè in modo legale non potevano ottenere la cittadinanza
se non i Latini, l’Italia affluiva nel Lazio, e il Lazio a Roma,
lasciando in patria il deserto. Sanniti e Peligni nel 177 protestarono
di non poter più somministrare agli eserciti il contingente che era
prestabilito, divenuto sproporzionato agli abitanti, atteso che
quattrocento famiglie loro s’erano mutate a Fregelle, città latina.
L’anno stesso i Latini dichiararono per la seconda volta che le città e
le campagne loro si spopolavano pel continuo sciamare a Roma.
Questa dunque assorbendo tutte le popolazioni italiche, riboccava
d’abitanti, sicchè nel censo di Cecilio Metello si numerarono 317,823
uomini atti alle armi, e cinque anni dappoi 390,736; nel 187 si
respinsero dodicimila famiglie latine, nel 172 altre sedicimila
persone. Ecco dunque come le immigrazioni, così opportune a
rigenerarla, pregiudicavano la nazione perchè esorbitanti. Il concedere
pienezza di diritto a tutti gl’Italici sarebbe stato l’unico spediente;
ma vi si opponeva la nobiltà romana per invidia contro le altre case
illustri del bel paese: dal che venne accorciata la giovinezza di Roma
e guasta l’Italia.
Per la quale s’era diffusa la poveraglia di Roma, spedita nelle
colonie, occupando i terreni migliori. Ma le colonie stesse andavano in
peggio, preda destinata ai cavalieri, che od usurpavano o compravano i
poderi, surrogandovi schiavi ai liberi coltivatori; e intesi come erano
al guadagno inesorabile, nè più temendo dei giudizj dopo che questi in
Roma furono affidati alla nobiltà, non conoscevano alcun freno nello
smungere i liberi e nell’opprimere i servi.
Che guadagno era dunque venuto a Roma e all’Italia da tante conquiste
e tanta gloria? il deperimento della moralità e dell’eguaglianza. Se
in mezzo a questa corruzione si fosse levato alcuno, col proposito
generoso di ridurre al meglio i costumi, di rinverdire nel popolo
l’amor dell’industria e dei campi, di sostituire ai faticanti schiavi
e alla plebe infingarda una classe laboriosa, come la moderna che
respinge la miseria colle proprie braccia; di reprimere il despotismo
del senato e l’avidità dei cavalieri, farsi eco ai lamenti delle
provincie e dei municipj, regolare l’affluenza degli avveniticci in
modo da impedire il rigurgito in Roma e lo spopolamento della restante
Italia, non avrebbe dovuto meritar gratitudine almeno per l’intenzione?
e se non la gratitudine dei contemporanei, i quali di rado perdonano
il merito o riconoscono le intenzioni, almeno quella dei posteri?
Ebbene, all’alta impresa di colmar l’abisso fra i pochi gaudenti e i
troppi soffrenti s’accinsero i Gracchi: i contemporanei li travolsero
nell’abisso; i posteri si contentarono di ripetere gl’insulti patrizj,
neppur degnandosi sceverarne i savj intenti dai mezzi improvvidi.
[ORIGINE DEI GRACCHI]
Le famiglie bennate degli Scipioni e degli Appj avevano sentito la
necessità d’imparentarsi colla equestre de’ Sempronj; e Tiberio
Gracco, che nel suo tribunato avea protetto l’Asiatico e l’Africano,
e impedito che venissero giudicati con invidiosa severità, dopo la
morte del vincitore d’Annibale fu reputato meritevole di sposarne la
figlia Cornelia, ricusata a un Tolomeo re d’Egitto[360]. Di molti
figli che generò, soli le rimasero Tiberio, Cajo e Sempronia, e ne
formava sua cura e sua delizia, sicchè ad una dama che le ostentava
monili e collane, ella mostrò que’ figliuoli dicendo:—I miei giojelli
sono cotesti». Ambendo di esser detta non tanto la figlia di Scipione,
quanto la madre dei Gracchi, gli allevò colla squisitezza necessaria
perchè potessero disputare agli Scipioni il primato. Tiberio, appena
uscito dall’adolescenza, fu creduto degno di venir aggregato fra gli
auguri, poi fu sposato colla figlia di Appio Claudio Pulcro principe
del senato, mentre Sempronia con Scipione Emiliano.
[137]
I Gracchi, entrati negli affari, non fallirono l’aspettazione materna.
Nell’eloquenza non aveano i pari: Tiberio, composto e mansueto in
pubblico, parlava soave, elaborato, contegnoso; Cajo, vivace e focoso,
splendido nel dire e passionato, fu il primo a passeggiare sulla
tribuna, e tenevasi dietro un flautista che gli desse l’intonazione
ogniqualvolta esagerasse. Nell’armi si addestrarono sotto al prode
cognato, e Tiberio salì primo sulla breccia di Cartagine: alla
corruzione eransi resi superiori mediante la severa dottrina degli
Stoici, donde aveano attinto, forse esagerate, ma generose idee sulla
dignità dell’uomo e sull’eguaglianza dei diritti.
[TIBERIO GRACCO]
Facendo Tiberio da questore a Numanzia sotto Ostilio Mancino, il
campo fu sorpreso, e ventimila uomini sarebbero stati trucidati se il
console non accettava la capitolazione. I Numantini però ricusarono di
credere se non alla parola di Gracco, al quale di fatto concessero di
ricondurre salvo l’esercito, lasciando ai vincitori gli accampamenti.
Nel saccheggio essendo stati presi i suoi registri, egli tornò a
ridomandarli: e i Numantini non solo glieli resero, ma il tennero a
pubblico banchetto, e gli permisero di scegliere quel che volesse delle
spoglie, donde egli non prese che l’incenso destinato agli Dei. La
capitolazione che salvò ventimila cittadini, parve indecorosa a Roma;
e proponendosi di consegnare tutti gli uffiziali come dopo le Forche
Caudine, Tiberio insistette perchè il patto fosse mantenuto nella
sua integrità; e non ottenendolo, impetrò che il solo Mancino fosse
consegnato. I parenti dei risparmiati ne vollero bene al Gracco, che
sempre più fastidì i patrizj, consigliatori di quell’iniqua legalità.
Tornando da Numanzia, quale spettacolo gli offerse l’Italia! Scomparse
le piccole proprietà, disfatte le cascine, estesa la malaria,
sottentrata alle biade la pastorizia, greggi e mandre sbrucavano
l’erba dove erano fiorite città, e l’Etruria ormai vuota di liberi,
nè coltivata che da schiavi. Ma se il deperimento appariva quivi più
compassionevole, eragli evidente anche a Roma, dove accumulati gli
averi in mano di pochi, mentre i più stentavano nella miseria; e
se i Galli ripassassero i monti, o se gli schiavi si sollevassero,
qual forza opporvi? Propostosi di rendere all’Italia la popolazione
libera ed energica[361], che dispariva quanto più dimenticavansi le
provvisioni di Licinio Stolone, Tiberio non dissimulava il dispetto,
e—Quel ch’è del popolo, perchè non s’ha a dare al popolo? un cittadino
non è egli di maggior vantaggio alla patria che non uno schiavo, un
bravo legionario più che non un imbelle, un caldo patriota che non uno
straniero? Cedete, o ricchi, porzione de’ vostri averi, se non volete
vederveli un giorno togliere tutti. Che! le fiere hanno un covile,
e quei che versano il sangue per la patria null’altro possedono che
l’aria che respirano; senza tetto nè letto, si strascinano colla misera
prole e colla nuda consorte. Mentiscono i capitani quando incorano i
soldati a difendere i tempj de’ loro Dei, i sepolcri dei loro avi.
Dov’è un solo fra tanti Romani che abbia una tomba, un’ara domestica?
Muojono perchè pochi impinguino e lussureggino: son detti signori del
mondo, e non possedono una zolla».
[LEGGE AGRARIA]
Lelio, l’amico di Scipione, già avea tentato la riforma agraria; ma
vedendo repugnante l’aristocrazia e conoscendo i tempi, si tolse dal
nobile divisamento, ed ebbe il titolo di prudente, spesso sinonimo
di pusillanime. Ora Tiberio, venuto tribuno della plebe, d’intesa
col suocero Appio Claudio Pulcro, con Licinio Grasso sommo pontefice
e oratore applaudissimo, e con Muzio Scevola il più destro fra’
giureconsulti, rinnovò la proposta di Stolone, che nessuno possieda,
o piuttosto tenga in appalto più di cinquecento jugeri di terreno
pubblico; nessuno mandi ai pascoli comuni più di cento teste di
bestiame grosso, cinquecento di piccolo; ognuno tenga sulle terre un
numero di coltivatori liberi. Ai detentori di beni pubblici che ne
soffrissero scapito, benchè avessero violata la legge Licinia, si
darà un’indennità pei fatti miglioramenti. Le terre così acquistate
non sarebbero più revocabili, ma proprietà assoluta, scarca da
livello, però non vendibile. De’ terreni che sopravanzassero, si
costituerebbe un fondo da spartire fra i poveri e restare inalienabile:
era l’unico modo d’impedire che ricadesse in man de’ ricchi, e forse
per ciò Tiberio pensava dar loro i terreni più prossimi alla città.
S’aggiungevano da cencinquanta jugeri per ogni figlio emancipato
dal proprietario: primo esempio di rimunerazioni assegnate per
favorire i matrimonj. Insomma, vedendo la difficoltà di riconoscere
i titoli e la misura di ciascun possesso, ordinavasi un rimpasto
generale, dove spropriati tutti, distribuivasi ancora a sorte tutto il
terreno pubblico. Il quale sovvertimento di tutti gl’interessi e le
abitudini ripugna dalle idee presenti, non così dalle antiche, ove il
proprietario supremo era sempre lo Stato, siccome oggi in Turchia.
Tiberio non era mosso da manìa d’illustrarsi, e ancor meno dalla
universale benevolenza che in ogni uomo ci fa riconoscere un fratello;
bensì dal patriotismo alla romana, dal voler cioè assicurare a Roma la
sovranità del mondo col non lasciar perire la robusta razza italica
che le avea procacciato già tante provincie. Non trattavasi dunque
di elevare la seconda classe al grado della prima, come al tempo
di Stolone, ma di dar incremento alla popolazione libera, la sola
che empisse l’esercito. Era legge aristocratica, se la misuriamo ai
concetti di oggi; nè fa meraviglia se da aristocratici venne sostenuta.
Ma sebbene Tiberio fosse uomo di teorie, alle quali sagrificava i
fatti e i patimenti della generazione presente, al torto si apporrebbe
chi alle follie del comunismo annettesse quelle leggi che tendevano a
costituire una proprietà e creare proprietarj; ledevano la proprietà
attuale, non già il possedere; anzi volevano estenderla, impedendo
l’accumularsi de’ possessi, all’uopo di moltiplicare i piccoli
coltivatori, cioè i soldati.
Da principio non l’aveano posseduto che i patrizj; i tribuni poco a
poco ne resero partecipe anche la plebe: ma sebbene il possesso, da
religioso, poi aristocratico, infine divenisse individuale e privato,
il concetto di proprietà nazionale si conservò sempre, almeno come
finzione, talchè Gajo, giureconsulto dell’età degli Antonini, ancora
diceva appartener essa allo Stato, e l’uomo non averne che il possesso
e l’usufrutto[351]. I sacerdoti prima, poi gli agrimensori e il
magistrato davano solennità alla trasmissione de’ possessi, che lo
Stato lasciava godere ai privati, ma che poteva richiamare a sè col
terribile diritto della proscrizione o colla confisca, quando un membro
fosse cancellato dal ruolo de’ cittadini. Sacro perciò il termine;
sacro, o almeno di pubblica autorità l’uffizio dell’agrimensore[352].
Il territorio primitivo di Roma, che stendeasi appena otto chilometri
fuor della città, fu distribuito a ciascun capofamiglia in porzioni sì
scarse, che a Quinzio Cincinnato per coltivare la propria di quattro
jugeri bastava uno schiavo. Altrettanto era nelle altre città che
coronano le alture del Lazio, perciò popolose e colte; e fra’ Sanniti
e Sabini, e fra gli altri alle falde dell’Appennino, che adopravano
come schiavi le genti primitive soggiogate, quali erano i Pelasgi per
gli Etruschi. Alla lor volta soggiogati, gli abitanti di questi paesi
dovettero cedere il posto a colonie romane, e il territorio o in tutto
o in parte si confiscava a pro dello Stato.
Restavano dunque distinti i possessi privati e i pubblici. La gente
antica di Roma continuava a vivere sui campi aviti, e il possedimento
di questi consideravasi come condizione dell’indipendenza, cittadino
di pien diritto essendo chi teneva una parte di quel terreno: ond’è
che, dopo la cacciata dei Galli, essendosi formate quattro nuove
tribù, furono assegnati a ciascuna famiglia sette jugeri; quantità
probabilmente desunta dall’ordinario possesso delle famiglie
preesistenti.
[CONCENTRAZIONE DE’ POSSESSI]
L’eredità intestata distribuivasi a parti eguali tra i figli: eppure
il suolo, non che andare eccessivamente suddiviso, anzi si concentrò
in poche mani, per violenza, o per artifizio legale, o per compra.
I terreni conquistati, oltre quelli distribuiti come ricompense
militari, divenivano in parte proprietà pubblica (_ager publicus_), e
se ne facevano tre classi: i coltivati erano venduti o affittati dai
censori, od assegnavansi a coloni che vi si stabilivano; gl’incolti
abbandonavansi a chi volesse utilizzarli, retribuendo il decimo dei
grani e il quinto delle frutte; i pascoli restavano comunali, potendo
ciascuno mandarvi il bestiame, pagando una tenue tassa (_scriptura_).
Chi acquistasse terreni colti, non n’era proprietario assoluto,
ma precario, e pagava un canone (_vectigal_). Però il riparto dei
conquistati terreni si faceva dai patrizj; talchè essi tenevansi il
bello e il meglio, poi accordandosi cogli appaltatori, loro consorti,
lasciavano cadere in disuso il livello, e li confondevano coi beni
patrimoniali, che perciò ingrossavansi in quella sproporzione che ruina
le repubbliche.
[LEGGE LICINIA]
[366]
Quindi i liberali proponevano di dividere tra’ plebei l’agro pubblico,
dai grandi usurpato; e poichè questo era revocabile, il senato
non ricusò mai la proposta, solo armeggiò per eludere questa, che
chiamavasi _legge agraria_[353]. Ma se Cassio Icilio, Manlio Capitolino
ed altri non aveano proposto che di dar terre come retribuzione ai
soldati della repubblica, il tribuno Cajo Licinio Stolone improntò
alla legge agraria un carattere politico, chiedendo pel popolo non
soltanto la terra onde vivere, ma anche la potestà civile che le va
annessa (pag. 184). Pertanto, oltre sminuir le usure e rimettere in
circolazione una quantità di terreno, a lunghi stenti ottenne che
uno dei consoli potesse esser plebeo, ed a’ plebei si comunicasse il
diritto degli auspizj. La sua legge portava che nessuno possedesse
oltre cinquecento jugeri (125 ettare) di suolo e cento teste di
bestiame grosso, e vi mantenesse un certo numero di villici, cioè
coltivatori liberi. Tali provvedimenti riferivansi unicamente ai campi
pubblici[354]; e non pare chiedesse tampoco che venissero legalmente
spropriati quei che già possedevano di più, contentandosi di multarli.
Con ciò arrestando alcun tempo la agglomerazione dei poderi e lo
squilibrio delle fortune, grandemente giovò la cosa romana. Ma la sua
legge non tardò ad essere elusa; i figli de’ Fabrizj e de’ Cincinnati
ambirono sempre maggiore opulenza; e gente senza industria, con quali
arti doveva acquistarla? col valersi della potenza, loro attribuita
dalla costituzione, per trarre a sè il buono e il meglio della
conquista.
In ciò da ogni cosa si trovavano ajutati. Le materie preziose
introdotte per via de’ trionfi, diminuirono il valore del denaro, per
modo che poterono facilmente spegnersi i debiti; il canone dai patrizj
dovuto restò ridotto a un nulla, e pochissimo bastava a comprare gli
schiavi che lavorassero i campi. A questi schiavi permettono di fare
qualche risparmio sopra il necessario, o di esercitare un traffico
minuto, con cui si creano un peculio che depongono a mutuo in mano
del padrone medesimo, il quale di tal passo si trova ad un tempo
proprietario, agricolo e banchiere.
I minuti possessori, ascritti alla quarta e alla quinta classe, alcun
guadagno ritraevano dal militare, dall’assistere come patroni ai
forestieri od ai plebei che chiedessero giustizia[355]; talora anche
ottenevano qualche brano del territorio conquistato. Ma i grandi
possessi, sostenuti da capitale abbondante, tendono a dilatarsi, ogni
giorno tirano a sè qualche patrimonio modesto, e i nobili, vale a
dire quelli entrati nel senato e nelle cariche maggiori, colle arti e
coi cavilli della legalità assorbono i piccoli appezzamenti toccati
al plebeo. I censori stessi potevano torli a questo, e darli a tenue
fitto ai ricchi, che poi, per connivenza d’essi censori, desistevano di
pagarne il canone, e ne divenivano proprietarj diretti.
[MISERIA DE’ PICCOLI POSSIDENTI]
La condizione de’ prischi agricoli era tutt’altro che felice. Una
siccità, un turbine potea sperdere il ricolto, e la difficoltà delle
comunicazioni rendeva impossibile il supplirvi. La vicinanza alle
frontiere esponeva alle correrie de’ nemici: e devastati i campi,
perduti i bovi, era forza ricorrere per imprestiti al ricco, le cui
terre, più vicine alla città, erano più fruttuose e meglio difese. Il
minuto possidente come poteva reggere ai grossi interessi, con cui
procurarsi gli stromenti del lavoro? come sopportare la concorrenza
delle operazioni in grande, intraprese dai padroni di schiavi?
Lasciatosi prima ipotecare, poi oppignorare il possesso, lo spropriato
diveniva schiavo del ricco. Molti già erano a tal condizione nel 340
avanti Cristo, quando alcune legioni ammutinate liberarono grandissimo
numero di siffatti debitori. Pertanto il territorio romano pigliò
presto l’apparenza d’una federazione di principotti; e non è guari si
scoprì presso Viterbo l’iscrizione d’un acquedotto, lungo 8776 metri,
che traversava soli undici poderi di nove proprietarj.
I piccoli possessori dovevano sulle terre, sulle case, sugli schiavi,
sulle bestie, sul bronzo coniato (_res mancipi_) una tassa, variabile
ogni lustro: i grandi invece, pei fondi acquistati al modo che dicemmo
e senza titolo, non pagavano imposizione, come neppure sui mobili di
lusso (_res nec mancipi_) che costituivano la loro principale opulenza.
Lautissimi lucri poi trovavansi schiusi dall’appalto delle gabelle,
che ogni cinque anni i censori metteano all’incanto. Qui come altrove
il delitto grosso otteneva onore, il piccolo infamia; perocchè i
pubblicani erano cittadini autorevoli per impieghi e per aderenze, cui
gli oppressi non osavano accusare, sfogandosi contro i subappaltatori
che operavano per loro conto. Queste insaziabili sanguisughe colle
vessazioni raddoppiavano il debito delle provincie, e ne assorbivano
le rendite dell’anno successivo colle enormi usure, a moderar le quali
tutti i provvedimenti furono o conculcati o elusi.
[POTENZA DEI RICCHI]
[193]
Trarricchiti pei doni affluenti nel senato e per gl’immensi profitti
delle magistrature e delle missioni nelle provincie, i nobili
rinunziarono a guadagnare coll’usura, e allora tentarono reprimerla
ne’ cavalieri, ai quali per compenso si attribuirono l’appalto delle
entrate e i pubblici poderi tolti ai poveri; in tal modo crescevansi i
latifondi a misura che il grosso della popolazione impoveriva. Quando
i grandi più non avessero modo a rubare, vendevano il nome con indegne
adozioni; vendevano la propria libertà anelandosi nelle legioni, i cui
capi connivevano alle loro rapine per tenerseli amici.
Così lo Stato cadeva nelle branche d’un’aristocrazia pecuniaria: unica
potenza verace, la ricchezza decide del voto nelle assemblee, porta a
capo dello Stato, padroneggia i comizj, riempie il senato e le cariche,
dà a consoli e pretori le provincie da espilare, commette ai censori
l’arbitrio delle terre d’Italia. Sì: erano aperte a tutti le dignità,
ma che? le elezioni cadevano sempre sui nomi stessi, e negli ottantasei
anni fra il 219 e il 133, nove famiglie ottennero ottantatre volte
il consolato, e lentavasi quel movimento, per cui l’aristocrazia si
risanguava continuamente colla eletta de’ plebei.
La sproporzione di ricchezze nelle antiche repubbliche trova
spiegazione dal mancarvi l’industria, il commercio, ogni altr’arte,
fuor la guerra e l’agricoltura. Fra i larghi possidenti e i miserabili
non era interposta la classe media di negozianti e artieri, i quali
vivono e arricchiscono coll’industria e coll’accumularne i frutti.
La gente di campagna era tratta alla città, ma non per applicarsi
ai mestieri; onde vi si sviluppavano i morbi che adesso pure ci
rodono col nome di pauperismo e di carità legale. Oggi al pitocco
noi diciamo:—Va, e lavora»; a un cittadino romano sarebbe stato
un’ingiuria, un trattarlo da schiavo, al quale erano serbate le arti
sordide, cioè le utili. Le bottegaje si confondevano con le infime
serve fino ai tempi di Costantino; e Cicerone dice che il negoziare è
un aumento di servitù, e che i mercanti non possono profittare se non
col mentire[356].
[PLEBE SOFFRENTE]
Senz’arti, senza possessi, che far dunque della romana plebe? Menarla
alla guerra; la quale perciò si perpetuava, come giovevole sì allo
Stato che con essa riparava al pubblico debito, sì ai nobili che
si rifaceano colle spoglie dei vinti, sì ai poveri che o vi erano
mantenuti o morivano gloriosamente. Per disgrazia mancavano nemici da
combattere? il vulgo doveva accattar pane o dai candidati cui vendeva
il voto, o dalla pubblica limosina, onestata col nome di largizioni,
ricevendo gratuiti o a buon mercato i grani e il sale che sovente
era l’unico suo companatico. Dopo i trionfi, aveva bronzo coniato o
terre lontane, come si fece di quelle tolte agli Italiani che avevano
favorito Annibale, preferendosi il largheggiare possessi nelle colonie
al concedere terreni legittimi. E voi soldati, terror de’ nemici in
campo, che l’affezione per gli Dei penati posponete alla venerazione
delle aquile legionarie, voi sarete altre vittime de’ ricchi ambiziosi:
strascinati a combattere oltre i mari, non potrete più coltivare il
campo avito, spesso lo perderete o per guerra o per debiti: voi che
ergete trofei, o fabbricate catene ai popoli superbi, o spianate strade
indistruttibili per congiungere i vinti alla vincitrice, non potrete
che lasciare a straniera gleba le ossa affaticate ed incompiante.
Allorchè si propose la guerra contro Perseo, un centurione si fece
avanti ai tribuni e al senato; e—Quiriti, io sono Spurio Ligustico,
della tribù Crustumina, nato in terre de’ Sabini. Mio padre mi lasciò
un jugero di terra e una casetta, nella quale io nacqui e fui allevato
ed abito ancora: mi diede in moglie la figliuola di suo fratello,
la quale null’altro recò che la libertà, la pudicizia, e per giunta
una fecondità qual basterebbe per ogni casa ricca. Ho sei maschi e
due fanciulle; queste accasate; di quelli, quattro hanno la toga
virile, due sono in pretesta. Arrolato nell’esercito di Macedonia, due
anni io militai come gregario contro Filippo; il terz’anno, Quinzio
Flaminino in benemerenza mi assegnò il decimo ordine degli astati.
Vinto Filippo, ricondotti in Italia i congedati, volontario passai
in Ispagna; e Catone console, tanto operoso, diligente esaminatore e
giudice della virtù del soldato, mi reputò degno d’affidarmi il primo
ordine degli astati della prima centuria. Una terza volta militai
volontario nell’esercito contro gli Etolj e il re Antioco, ove da Marco
Acilio mi fu dato il primo grado tra i principi nella prima centuria.
Cacciato Antioco e soggiogati gli Etolj, in Italia militai due volte
nelle legioni che servivano annualmente; poi una volta in Ispagna. Da
Fulvio Flacco fui menato al trionfo fra quelli di cui volle onorare la
virtù. Richiesto da Sempronio Gracco, feci con esso una campagna. In
pochi anni quattro volte stetti centurione principale, trentaquattro
volte fui onorato di doni da’ miei capitani, ricevetti sei corone
civiche, negli eserciti compii ventidue stipendj annuali; ed ora passo
i cinquantanni».
Infelice! ed era chiesto a nuovi combattimenti. Noi riferimmo questo
discorso per mostrare a qual condizione si riducessero i popolani
che viveano di continuo negli accampamenti, e spesso, dopo servigi
di trent’anni, nè tampoco si trovavano un camperello onde pascere la
numerosa famiglia; denaro riceveano nelle distribuzioni de’ frequenti
trionfi, ma sciupavanlo coll’imprevidenza solita ne’ militari: talchè i
pochi che potevano riportare il mutilo corpo dall’Asia o dalla Spagna,
stentavano nella miseria gli ultimi giorni.
Da principio alla terra cercavasi il massimo prodotto lordo, cioè
grani da mangiare; di modo che la popolazione crebbe, e il villano
non soffri. Dappoi si aspirò al maggior prodotto netto, convertendo
in pascoli i campi a grano. Allora dunque che, conquistata Cartagine
e l’Asia, Roma ingrandiva, la popolazione libera e le produzioni
dell’Italia scemarono, quantunque si cessasse di pagare le taglie, meno
braccia dovessero darsi alla guerra, fossero migliorati gli utensili,
abbondanti i capitali, cresciuto il lusso: ai piccoli possessori erano
sottentrati i grossi, che l’eccedente dei frutti non riversavano sui
campi stessi, ma sprecavano in lusso nella città.
A coltivare gli ampj poderi basteranno gli schiavi, meglio convenienti
perchè non colpiti dalla leva militare come i liberi: e il patrizio,
beato di pingui ozj, applaudirà a Catone che insegna le possessioni
migliori essere i pascoli, dove un mandriano schiavo basta a condurre
un numeroso armento. All’antico libero agricola che resterà dunque?
Portare le inutili braccia a Roma, dove sa che tratto tratto si
largiscono viveri; dove i doviziosi ostentano generosità col gettargli
un po’ del loro superfluo; dove spera esser mandato in qualche colonia,
per divenire alla sua volta tiranno, e dire al possessore:—Vattene
morir di fame in altra terra»; dove se non altro venderà il suo voto ai
candidati, che del prezzo si rifaranno nelle lucrose magistrature.
[LA POVERAGLIA]
Ma ohimè! il senato, omai sicuro nella potenza ed ebbro
dell’umiliazione dei re, più non si briga di molcere il popolo; va
mezzo secolo senza che alcuna colonia sia fondata; fin l’immorale
guadagno del voto cessa di fruttare al popolo re, dacchè i ricchi,
eletti censori delle assemblee centuriate, ogni cinque anni stivano
nella tribù Esquilina tutti i poveri, de’ quali non occorrerà il
suffragio se non nei rari casi in cui a decidere non bastasse il voto
dei doviziosi, mantenutisi nelle tribù rustiche, molte in numero e
scarse di membri. Poc’a poco il senato, rinforzatosi come sempre
succede nelle lunghe guerre, si dispensa dal chiedere l’assenso delle
tribù a’ suoi consulti, e dopo trionfato dell’ultimo successore di
Alessandro, delibera a sua voglia della pace e della guerra, e non
prende cura del vulgo, perchè più non ne ha bisogno nè paura.
Rimanevano al popolo i giudizj; ma ad evitare i viluppi e accelerare le
decisioni, si costituiscono quattro tribunali permanenti, composti di
senatori che investigano i casi criminali cui non bastano i tribunali
pretorj[357], e principalmente le accuse di broglio, di concussione,
di peculato contro i senatori: così non occorrerà più pericolo che
la plebe venda i suoi giudizj, nè che i nobili li temano. Il popolo
campato alle guerre morrà dunque di fame. Che cale? la salute pubblica
non ne patisce, giacchè migliaja di schiavi affluendo dai paesi
conquistati, impingueranno le glebe di venale sudore, empiranno i
palagi e le città servendo al fasto e alla depravazione dei padroni;
nei quali uffizj ben meritando, acquisteranno di divenir liberi e
cittadini, ricolmando i vuoti lasciati dall’antica gente romana.
[AFFLUENZA A ROMA]
Al tempo ove noi siamo col racconto, soli omai liberti empivano il
fôro; e un giorno che coi loro schiamazzi interrompevano Scipione
Emiliano, questi, coll’orgoglio d’un nobile di antica schiusa, gridò
loro:—Zitto, figliastri d’Italia. Forse vi temerò sciolti io che vi
menai qua incatenati?»[358]. Cicerone insultava alla _feccia della
città_, a questa plebaglia _nuda e digiuna_, a tanti servi introdotti
nel recinto di Roma come uno sciame d’animali malefici, contro il quale
sarebbero a invocare gli esorcismi degli aruspici[359]. Questa folla
copiosissima e sprovvista, non aspirando a diritti ma a possessi, potea
divenire arma terribile in mano d’un demagogo, il quale sorgesse a
combattere la tirannesca aristocrazia.
Altra folla accorreva a Roma dalle provincie e dai municipj per
sottrarsi alle angherie dei magistrati, per entrar membri d’una nazione
temuta e grande, per la speranza di salire fino ai sommi gradi, e
disporre della sorte dei regni. Più credevano meritarselo gl’Italiani,
dacchè colle loro braccia eransi compiute le conquiste. Alcuni
ottenevano la cittadinanza col darsi schiavi d’un Romano che poi li
manometteva; altri si facevano per frode iscrivere nelle rassegne dei
censori; ma poichè in modo legale non potevano ottenere la cittadinanza
se non i Latini, l’Italia affluiva nel Lazio, e il Lazio a Roma,
lasciando in patria il deserto. Sanniti e Peligni nel 177 protestarono
di non poter più somministrare agli eserciti il contingente che era
prestabilito, divenuto sproporzionato agli abitanti, atteso che
quattrocento famiglie loro s’erano mutate a Fregelle, città latina.
L’anno stesso i Latini dichiararono per la seconda volta che le città e
le campagne loro si spopolavano pel continuo sciamare a Roma.
Questa dunque assorbendo tutte le popolazioni italiche, riboccava
d’abitanti, sicchè nel censo di Cecilio Metello si numerarono 317,823
uomini atti alle armi, e cinque anni dappoi 390,736; nel 187 si
respinsero dodicimila famiglie latine, nel 172 altre sedicimila
persone. Ecco dunque come le immigrazioni, così opportune a
rigenerarla, pregiudicavano la nazione perchè esorbitanti. Il concedere
pienezza di diritto a tutti gl’Italici sarebbe stato l’unico spediente;
ma vi si opponeva la nobiltà romana per invidia contro le altre case
illustri del bel paese: dal che venne accorciata la giovinezza di Roma
e guasta l’Italia.
Per la quale s’era diffusa la poveraglia di Roma, spedita nelle
colonie, occupando i terreni migliori. Ma le colonie stesse andavano in
peggio, preda destinata ai cavalieri, che od usurpavano o compravano i
poderi, surrogandovi schiavi ai liberi coltivatori; e intesi come erano
al guadagno inesorabile, nè più temendo dei giudizj dopo che questi in
Roma furono affidati alla nobiltà, non conoscevano alcun freno nello
smungere i liberi e nell’opprimere i servi.
Che guadagno era dunque venuto a Roma e all’Italia da tante conquiste
e tanta gloria? il deperimento della moralità e dell’eguaglianza. Se
in mezzo a questa corruzione si fosse levato alcuno, col proposito
generoso di ridurre al meglio i costumi, di rinverdire nel popolo
l’amor dell’industria e dei campi, di sostituire ai faticanti schiavi
e alla plebe infingarda una classe laboriosa, come la moderna che
respinge la miseria colle proprie braccia; di reprimere il despotismo
del senato e l’avidità dei cavalieri, farsi eco ai lamenti delle
provincie e dei municipj, regolare l’affluenza degli avveniticci in
modo da impedire il rigurgito in Roma e lo spopolamento della restante
Italia, non avrebbe dovuto meritar gratitudine almeno per l’intenzione?
e se non la gratitudine dei contemporanei, i quali di rado perdonano
il merito o riconoscono le intenzioni, almeno quella dei posteri?
Ebbene, all’alta impresa di colmar l’abisso fra i pochi gaudenti e i
troppi soffrenti s’accinsero i Gracchi: i contemporanei li travolsero
nell’abisso; i posteri si contentarono di ripetere gl’insulti patrizj,
neppur degnandosi sceverarne i savj intenti dai mezzi improvvidi.
[ORIGINE DEI GRACCHI]
Le famiglie bennate degli Scipioni e degli Appj avevano sentito la
necessità d’imparentarsi colla equestre de’ Sempronj; e Tiberio
Gracco, che nel suo tribunato avea protetto l’Asiatico e l’Africano,
e impedito che venissero giudicati con invidiosa severità, dopo la
morte del vincitore d’Annibale fu reputato meritevole di sposarne la
figlia Cornelia, ricusata a un Tolomeo re d’Egitto[360]. Di molti
figli che generò, soli le rimasero Tiberio, Cajo e Sempronia, e ne
formava sua cura e sua delizia, sicchè ad una dama che le ostentava
monili e collane, ella mostrò que’ figliuoli dicendo:—I miei giojelli
sono cotesti». Ambendo di esser detta non tanto la figlia di Scipione,
quanto la madre dei Gracchi, gli allevò colla squisitezza necessaria
perchè potessero disputare agli Scipioni il primato. Tiberio, appena
uscito dall’adolescenza, fu creduto degno di venir aggregato fra gli
auguri, poi fu sposato colla figlia di Appio Claudio Pulcro principe
del senato, mentre Sempronia con Scipione Emiliano.
[137]
I Gracchi, entrati negli affari, non fallirono l’aspettazione materna.
Nell’eloquenza non aveano i pari: Tiberio, composto e mansueto in
pubblico, parlava soave, elaborato, contegnoso; Cajo, vivace e focoso,
splendido nel dire e passionato, fu il primo a passeggiare sulla
tribuna, e tenevasi dietro un flautista che gli desse l’intonazione
ogniqualvolta esagerasse. Nell’armi si addestrarono sotto al prode
cognato, e Tiberio salì primo sulla breccia di Cartagine: alla
corruzione eransi resi superiori mediante la severa dottrina degli
Stoici, donde aveano attinto, forse esagerate, ma generose idee sulla
dignità dell’uomo e sull’eguaglianza dei diritti.
[TIBERIO GRACCO]
Facendo Tiberio da questore a Numanzia sotto Ostilio Mancino, il
campo fu sorpreso, e ventimila uomini sarebbero stati trucidati se il
console non accettava la capitolazione. I Numantini però ricusarono di
credere se non alla parola di Gracco, al quale di fatto concessero di
ricondurre salvo l’esercito, lasciando ai vincitori gli accampamenti.
Nel saccheggio essendo stati presi i suoi registri, egli tornò a
ridomandarli: e i Numantini non solo glieli resero, ma il tennero a
pubblico banchetto, e gli permisero di scegliere quel che volesse delle
spoglie, donde egli non prese che l’incenso destinato agli Dei. La
capitolazione che salvò ventimila cittadini, parve indecorosa a Roma;
e proponendosi di consegnare tutti gli uffiziali come dopo le Forche
Caudine, Tiberio insistette perchè il patto fosse mantenuto nella
sua integrità; e non ottenendolo, impetrò che il solo Mancino fosse
consegnato. I parenti dei risparmiati ne vollero bene al Gracco, che
sempre più fastidì i patrizj, consigliatori di quell’iniqua legalità.
Tornando da Numanzia, quale spettacolo gli offerse l’Italia! Scomparse
le piccole proprietà, disfatte le cascine, estesa la malaria,
sottentrata alle biade la pastorizia, greggi e mandre sbrucavano
l’erba dove erano fiorite città, e l’Etruria ormai vuota di liberi,
nè coltivata che da schiavi. Ma se il deperimento appariva quivi più
compassionevole, eragli evidente anche a Roma, dove accumulati gli
averi in mano di pochi, mentre i più stentavano nella miseria; e
se i Galli ripassassero i monti, o se gli schiavi si sollevassero,
qual forza opporvi? Propostosi di rendere all’Italia la popolazione
libera ed energica[361], che dispariva quanto più dimenticavansi le
provvisioni di Licinio Stolone, Tiberio non dissimulava il dispetto,
e—Quel ch’è del popolo, perchè non s’ha a dare al popolo? un cittadino
non è egli di maggior vantaggio alla patria che non uno schiavo, un
bravo legionario più che non un imbelle, un caldo patriota che non uno
straniero? Cedete, o ricchi, porzione de’ vostri averi, se non volete
vederveli un giorno togliere tutti. Che! le fiere hanno un covile,
e quei che versano il sangue per la patria null’altro possedono che
l’aria che respirano; senza tetto nè letto, si strascinano colla misera
prole e colla nuda consorte. Mentiscono i capitani quando incorano i
soldati a difendere i tempj de’ loro Dei, i sepolcri dei loro avi.
Dov’è un solo fra tanti Romani che abbia una tomba, un’ara domestica?
Muojono perchè pochi impinguino e lussureggino: son detti signori del
mondo, e non possedono una zolla».
[LEGGE AGRARIA]
Lelio, l’amico di Scipione, già avea tentato la riforma agraria; ma
vedendo repugnante l’aristocrazia e conoscendo i tempi, si tolse dal
nobile divisamento, ed ebbe il titolo di prudente, spesso sinonimo
di pusillanime. Ora Tiberio, venuto tribuno della plebe, d’intesa
col suocero Appio Claudio Pulcro, con Licinio Grasso sommo pontefice
e oratore applaudissimo, e con Muzio Scevola il più destro fra’
giureconsulti, rinnovò la proposta di Stolone, che nessuno possieda,
o piuttosto tenga in appalto più di cinquecento jugeri di terreno
pubblico; nessuno mandi ai pascoli comuni più di cento teste di
bestiame grosso, cinquecento di piccolo; ognuno tenga sulle terre un
numero di coltivatori liberi. Ai detentori di beni pubblici che ne
soffrissero scapito, benchè avessero violata la legge Licinia, si
darà un’indennità pei fatti miglioramenti. Le terre così acquistate
non sarebbero più revocabili, ma proprietà assoluta, scarca da
livello, però non vendibile. De’ terreni che sopravanzassero, si
costituerebbe un fondo da spartire fra i poveri e restare inalienabile:
era l’unico modo d’impedire che ricadesse in man de’ ricchi, e forse
per ciò Tiberio pensava dar loro i terreni più prossimi alla città.
S’aggiungevano da cencinquanta jugeri per ogni figlio emancipato
dal proprietario: primo esempio di rimunerazioni assegnate per
favorire i matrimonj. Insomma, vedendo la difficoltà di riconoscere
i titoli e la misura di ciascun possesso, ordinavasi un rimpasto
generale, dove spropriati tutti, distribuivasi ancora a sorte tutto il
terreno pubblico. Il quale sovvertimento di tutti gl’interessi e le
abitudini ripugna dalle idee presenti, non così dalle antiche, ove il
proprietario supremo era sempre lo Stato, siccome oggi in Turchia.
Tiberio non era mosso da manìa d’illustrarsi, e ancor meno dalla
universale benevolenza che in ogni uomo ci fa riconoscere un fratello;
bensì dal patriotismo alla romana, dal voler cioè assicurare a Roma la
sovranità del mondo col non lasciar perire la robusta razza italica
che le avea procacciato già tante provincie. Non trattavasi dunque
di elevare la seconda classe al grado della prima, come al tempo
di Stolone, ma di dar incremento alla popolazione libera, la sola
che empisse l’esercito. Era legge aristocratica, se la misuriamo ai
concetti di oggi; nè fa meraviglia se da aristocratici venne sostenuta.
Ma sebbene Tiberio fosse uomo di teorie, alle quali sagrificava i
fatti e i patimenti della generazione presente, al torto si apporrebbe
chi alle follie del comunismo annettesse quelle leggi che tendevano a
costituire una proprietà e creare proprietarj; ledevano la proprietà
attuale, non già il possedere; anzi volevano estenderla, impedendo
l’accumularsi de’ possessi, all’uopo di moltiplicare i piccoli
coltivatori, cioè i soldati.
- Parts
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 01
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 02
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 03
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 04
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 05
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 06
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 07
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 08
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 09
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 10
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 11
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 12
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 13
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 14
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 15
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 16
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 17
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 18
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 19
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 20
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 21
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 22
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 23
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 24
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 25
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 26
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 27
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 28
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 29
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 30
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 31
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 32
- Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 33