Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 20

ascolto Prusia II re di Bitinia, e mercè sua riportò vittoria sopra
Eumene. Ma ecco arrivare a quel re Flaminino, il liberatore della
Grecia, e ingiungergli di consegnare Annibale. Questi n’ebbe sentore,
e disse:—Liberiamo Roma da sì grave apprensione, poichè le tarda la
morte di questo vecchio odiato. Ma il costoro trionfo sopra un vecchio
inerme gl’infamerà presso gli avvenire». E col veleno si diè morte,
l’anno stesso che a Linterno moriva Scipione suo vincitore.
Scarchi di questo timore, i Romani s’applicarono a fomentare la Licia
contro Rodi, Sparta contro gli Achei. Fra questi ripullulavano le
dissensioni, eterno retaggio delle repubbliche greche; e i Romani
se ne giovarono por ingagliardire la loro ingerenza; e una fazione
a loro venduta tra gli Achei, preparava la rovina della patria col
corromperla. Filippo di Macedonia s’avvide che i Romani gli usavano
riguardi sol quando il temevano, ma di fatto non miravano ad altro
che a renderlo fiacco ed esoso; onde agognava ad una riscossa, e
a rintegrare la mutilata potenza. Satollo di umiliazioni, facea
rileggersi ogni giorno il suo vergognoso trattato con Roma; lasciavasi
sfuggire parole minacciose, che sono ridicole o pericolose quando non
sostenute da buone armi; esigeva nuove gabelle sulle merci dei Romani,
escludendoli dai privilegi degli altri forestieri; in loro odio fece
sterminare gli abitanti di Maronea; ruminava i grandi divisamenti di
Annibale; al figlio Demetrio, il quale nel tempo che rimase ostaggio a
Roma, avea di questa meritato la benevolenza e forse sposato la causa,
diè morte col veleno; allora tra il rimorso e il sentimento della
propria impotenza, invaso da umor negro morì.
[PERSEO]
[178]
Perseo, succeduto al padre con capacità poco minore, si trovò a mano
i mezzi che questo da gran tempo allestiva per osteggiare i Romani,
pingue erario, popolazione cresciuta, devota la più parte della Tracia,
vivajo di prodi, e molti mercenarj pronti a seguirlo in Italia. Qui lo
invitavano le guerre, non grosse ma continue, che Roma dovea menare
contro la Spagna e la Liguria, e nell’Istria, nella Corsica, nella
Sardegna, repugnanti al giogo; ma egli conoscea quanto poco si potesse
fidare de’ mercenarj, e quanto Roma giganteggiasse nell’opinione e nel
fatto. Sulle prime dunque dissimulò l’avarizia e l’ambizione, e pose
il proprio diadema a piè del senato, dichiarando non voler riceverlo
che da esso. Allora colle frequenti udienze, colla generosità, colla
giustizia, fa credere ai Macedoni risorto il tempo degli antecessori
di Alessandro; alletta i Greci tenendo dai poveri contro i ricchi,
parziali per Roma; lega amicizia coi Rodj e con Genzio re degl’Illirj;
dà sua sorella a Prusia re di Bitinia, e sposa Laodice figlia di
Seleuco Filopatore re di Siria, tutti appoggi contro i Romani; manda
emissarj ai popoli confinanti coll’Italia, e ambasciadori a Cartagine;
s’accorda coi Traci per averne truppe ad ogni uopo; raccoglie ingenti
somme da nutrire per molti anni l’esercito, che crebbe a trentamila
pedoni e cinquemila cavalli.
[TERZA GUERRA COLLA MACEDONIA]
[173]
I popoli oppressi sogliono crearsi un fantasma di liberatore, e
adorarlo; salvo a sputacchiarlo quand’egli appaja qual era, non
quale l’aveano essi fantasticato. Così i Greci vedeano in Perseo il
rappresentante della causa nazionale, bene checchè egli facesse, in
lui ogni fiducia: ma la vigilanza e gl’intrighi degli agenti di Roma
tenevano in soggezione gli Achei, massime dacchè ebber perduto il loro
capo Filopemene, detto l’ultimo dei Greci; gli Etolj, ritorcendo le
armi contro se stessi, eransi tolta la capacità di più tentare nulla
di efficace; altrettanto gli Acarnani; la lega dei Comuni beoti era
stata annichilata da Roma. Questa occhieggiava ogni passo di Perseo
per côrgli addosso cagione; e l’accusò d’aver cercato a morte Eumene,
re fedele a Roma, e tentato avvelenare i primarj cittadini di questa.
Egli, invece di scendere a giustificarsi, nè di estradire le persone
richiestegli, rinfacciò a Roma il superbo governo che faceva dei re e
delle repubbliche, disdisse la paterna alleanza, e accettò la guerra
prima che Roma vi fosse ben preparata.
Ma al primo comparire dell’esercito, guidato dal console Publio Licinio
Grasso, chiaritosi che poco potea promettersi dalle città sbranate
in fazioni, egli gittò proposte di pace; Roma mostrò accoglierle, e
con una subdola tregua lasciò svampare il primo bollore, e acquistò
tempo per procurarsi amici, sudditi, ostaggi. Come fu lesta di tutto,
cacciò a strapazzo i commissarj di Perseo: pure, quando si venne
all’esperimento dell’armi presso il monte Ossa, Perseo diede ai
Romani la più fiera sconfitta che da quarantanni avessero tocca. Se
egli allora incalzava la vittoria, e colla falange assaliva il campo
romano, forse la guerra era finita, massime che i Greci d’ogni parte
scotevano le catene, e la democrazia patriotica prevaleva alla servile
aristocrazia. Perseo invece si limitava a piccoli vantaggi, e per
più anni combattè utilmente, ma tenendosi alla difensiva, troppo mal
acconcia ai casi supremi; in tal modo lasciò sfuggirsi il destro; poi
supplichevole chiese e richiese al console la pace, togliendo l’onore
a se stesso, il coraggio a’ suoi fedeli. Ma nella pace intrigava e
faceva armi; onde risoluti di venirne ad un fine, i Romani allestiscono
centomila uomini, e ne affidano il comando a Paolo Emilio.
[PAOLO EMILIO]
Nasceva egli da quel console che perì generosamente alla battaglia di
Canne; si era formato nelle tremende guerre di Spagna e di Liguria,
e a sessantanni conservava giovanile robustezza. Ma poichè egli
erasi educato nell’alterigia della prisca aristocrazia, il popolo
indispettito gli negò il consolato, e da gran tempo lo lasciava nella
solitudine privata a badare all’educazione dei proprj figliuoli.
Vedendosi allora eletto console, disse in pubblico:—Comprendo che la
sola necessità vi ha determinati; adunque il popolo non s’impacci del
modo ond’io guiderò la guerra, i soldati tengano pronta la mano, aguzze
le spade; del resto nè ciancie, nè pareri; a me solo la cura di tutto».
[168]
Con centomila uomini, tra’ quali rinnovò severissima disciplina, si
spinse innanzi, superò le difficili gole del monte Olimpo, ma alla
battaglia di Pidna la potente falange macedone era ad un punto di
sbaragliare le romane legioni; se non che un’eclissi atterrì i soldati
di Perseo, e parve indicare l’offuscarsi del regno d’Alessandro.
Emilio e le aquile romane rimasero superiori. Il console Cajo Licinio
Grasso, radunato il popolo nel circo di Roma, mostrò lettere coronate
d’alloro, ed annunzio:—Il nemico è vinto; ventimila Macedoni, di
quarantaquattromila ch’erano, perirono combattendo; undicimila
restarono circuiti e presi; tutte le città aprono le porte alle nostre
legioni».
[LA MACEDONIA SOTTOMESSA]
La Macedonia non erasi mostrata indegna di sè nell’ultimo suo giorno:
ma appoggiato al solo esercito, coll’esercito perì quel regno, e in
due giorni restò sottomesso. Perseo ferito si era avventato senza
corazza in mezzo alla sua falange, smentendo la taccia di viltà che gli
storici romani gli apposero. Coll’indivisibile suo tesoro ricoveratosi
nel tempio dei Cabiri a Samotracia, veneratissimo per le antiche
religioni pelasghe, invocò patti dal console: ma abbandonato da’ suoi,
carpitogli il tesoro da un astuto Cretese sott’ombra di agevolargli la
fuga, dovette rendersi a discrezione del vincitore. Questi, accoltolo
in mezzo agli uffiziali con tutta la solennità latina, gli rinfacciò
il passato, poi gli strinse la mano, e finì coll’assicurarlo della
clemenza romana; indi voltosi a’ suoi uffiziali,—Tenete a mente
quest’insigne esempio della volubile fortuna, e vi convinca come il
vero coraggio consista nel non insuperbirsi delle prospere vicende, nè
lasciarsi abbattere dalle sinistre».
[167]
Solennizzata con splendidi giuochi la costituzione data alla Macedonia,
bruciate le armi che non poteano servire al trionfo, uccisi quei
pochi che serbavano fede a Perseo o zelo per l’indipendenza, settanta
città dell’Epiro che dai Romani erano disertate ai Macedoni, dopo
toltone i tesori, furono abbandonate alle spade de’ soldati, che
cencinquantamila uccisero o vendettero. Il virtuoso Paolo Emilio, dopo
essere pellegrinato ad ammirare le città greche e tante meraviglie
della natura e dell’arte, tornò colmo di gloria in Italia, traendo
come ostaggi tutti quelli che aveano avuto uffizj o magistrati sotto
il re, e come prigioniero Perseo colla famiglia. Allorchè questo il
supplicò a risparmiargli l’infamia d’essere trascinato dietro al carro
trionfale,—Sta in tua mano», rispose il duro vincitore. Ma il povero
coraggio d’uccidersi mancò a Perseo, che ornò colle sue miserie il più
splendido trionfo che sin allora si fosse menato.
[PAOLO EMILIO TRIONFA]
Paolo Emilio entrò nel Tevere sopra la nave regia di sedici ordini di
remi, e tre giorni durò la pompa, tra una folla che mai la maggiore.
Nel primo, mille ducento carri portavano gli scudi d’argento massiccio,
altrettanti gli scudi di bronzo, trecento le aste, le sciabole, gli
archi, i dardi; precedevano uomini colle armadure di bronzo o colle
statue, poi ottocento barelle cariche d’armi di ogni maniera. Nel
secondo giorno comparvero mille talenti coniati, duemiladucento in
verghe, un’infinità di tazze, cinquecento carri d’immaginette e
statue, poi scudi d’oro e molte statue delle reali gallerie. Nel
terzo, cenventi bovi affatto bianchi, ducentoventi vasi d’argento,
un’anfora tempestata di gemme del valore di dieci talenti d’oro, e
dieci altri in masserizie pur d’oro; duemila denti d’elefanti da tre
cubiti; un cocchio d’avorio, messo a oro e pietre; un cavallo col
fornimento aspro di gemme, e la restante bardatura d’oro, con coperte
a fiorami; una lettiga a oro e porpora; quattrocento corone regalate
dalle città; e sopra uno stupendo carro eburneo il trionfante. Dietro
di lui Perseo a bruno, cinto da amici in catene, da due figliuoli e
da una fanciulletta, alla quale i conduttori insegnavano a tendere
le innocenti manine al popolo romano per invocarne compassione, o
piuttosto per lusingarne la vanità col mostrargli a che miserie esso
potesse ridurre i monarchi.
[MORTE DI PERSEO]
[164]
L’ultimo re di Macedonia fu gittato in tenebrosa segreta, ove tenevansi
i rei fino al momento del supplizio, e sette giorni lasciato senza
nutrimento: gli altri prigionieri divisero con lui lo scarso cibo che
i carcerieri gettavano loro in mezzo alle lordure, e gli offersero un
laccio ed un coltello; ma ancora non osò far getto della sua vita.
Paolo Emilio, o per umanità o per riverenza alla sventura, ottenne
dal senato di mutarlo in meno squallida stanza, ove dopo due anni i
suoi custodi si presero il barbaro giuoco d’impedire che più dormisse,
sicchè spossato morì. Il solo figliuolo sopravissutogli guadagnò il
vitto lavorando da tornitore, poi divenne scrivano dei magistrati
d’Alba.
Le latomie di Roma e le carceri di tutte le città latine e delle
colonie bastarono appena a tanti prigionieri, che portavano al piede
ceppi di almeno cento libbre. Poeti, storici, oratori vantarono che
coll’ultimo degli Eacidi si fossero vendicati gli avi di Troja[268];
ed esaltarono la gloria del gran popolo che _debellava i superbi e
perdonava ai soggiogati_.
[168]
I Romani, secondo la politica adottata in quell’impresa, non tolsero
alla Macedonia le leggi e i magistrati, cioè non la ridussero a
provincia. L’Illiria, soggiogata in trenta giorni dal pretore Anicio
Gallo, fu trattata in egual modo, e il re Genzio condotto prigioniero
a Roma. Un decreto del senato annunziò al mondo questa nuova
magnanimità:—La Macedonia e l’Illiria provino a tutti i popoli che
Roma è disposta a vendicarli in libertà».
[RODI]
Aveva ella rimesso al fine della guerra il punire non solo quei che
l’avevano sfavorita, ma quelli ancora che le si fossero mostrati
meno zelanti. Per questo titolo Rodi avrebbe incontrato sorte eguale
all’Epiro, se Catone non avesse osato metter argine alla prepotenza.
Questo severo censore perorò la causa dei legati romani, che in sordide
vesti giravano supplicando per Roma; mostrò come quella gloriosa
repubblica marittima avesse per Roma combattuto contro Filippo ed
Antioco, nè si fosse proposto che di conservarsi indipendente.—Se
augurò vittoria a Perseo, poteva essere altro il voto di chiunque
vedesse nella caduta di lui la servitù comune? O che, punirete i
desiderj? ma e voi come vi comportate allorchè ve ne torni il conto?
Li chiamate superbi: vi rincresce dunque che altri lo sia al pari di
noi?» Con siffatta franchezza ottenne che a Rodi fossero soltanto
ritolte la Siria e la Caria, attribuitele già dalle spoglie d’Antioco.
Perocchè questa repubblica, simile per tanti riguardi a Venezia, fu
come quella danneggiata dal volere possedimenti in terraferma, i quali
ne prepararono la rovina.
[PERGAMO]
[157]
Eumene re di Pergamo, che pure si era spiegato nemico di Perseo sino a
fare da spia ai Romani, fu ripagato d’ingratitudine dal senato, che,
insospettito degli incrementi di lui, ne trasferì la corona al fratello
Attalo II. Prusia re di Ritinia, cui nulla costava l’avvilirsi, venne
in persona a fare le sue discolpe; e col capo raso e berretto da
liberto, prosternato alla soglia della curia, esclamava:—Salvete,
o numi conservatori; ecco un liberto vostro, pronto ad ogni
combattimento». Con tali abjezioni, e col lasciare in ostaggio suo
figlio, serbò la corona. Massinissa, il vecchio re di Numidia, mandò
egli pure suo figliuolo a querelarsi col senato di due cose: la prima,
che avesse da lui pregato soccorsi, mentre aveva diritto d’imporglieli;
l’altra, che avesse voluto pagargli il grano somministrato, mentre
della sua corona la proprietà apparteneva al popolo re, a lui bastava
l’usufrutto.
[L’EGITTO]
[201]
[164]
Pensate se queste ed altre vigliaccherie dei re attizzavano l’orgoglio
insolente dei Romani! E da quell’ora essi concepirono l’idea di
diventare signori del mondo, rinunziando al personaggio di arbitri,
sostenuto fin là. Con tale sentimento guardavano gli altri successori
d’Alessandro, pigliando assunto d’infiacchirli durante la pace, perchè
fossero inetti a difendersi quando provocati in guerra. I Tolomei
d’Egitto e gli Antiochi di Siria facevansi tra loro guerra or sorda
or aperta, e Roma vi soffiava, e chiamata o no intrometteasi. Quando
essa mandò ad annunziare alla Corte d’Alessandria le sue vittorie e la
pace co’ Cartaginesi, i tutori del fanciullo Tolomeo V Epifane posero
questo in tutela del senato romano, che l’accettò e affidolla a Marco
Lepido, poi ad Aristomene. Ma il giovane mal riuscì, e a ventott’anni
periva, lasciando due figliuoli, che poco stante si spartirono il
regno, Tolomeo Filometore prendendosi l’Egitto e Cipro, e Tolomeo
Fiscone ottenendo Cirene e la Libia. Presto vennero a baruffe; e il
Filometore, costretto a fuggire, approdò in Italia, ed in meschino
arnese, pedestre, polverulento entrò in Roma, e vi prese alloggio nella
casipola d’un pittore alessandrino. Il senato ne avea gusto, pur finse
di fargli scuse di quel trattamento, e l’invitò a venire in veste più
conveniente ad esporre le sue querele: udite le quali, entrò di mezzo a
riconciliare i fratelli, e per allora lasciò l’Egitto respirare sotto
il Filometore.
[AGONIA DELLA GRECIA]
La Grecia era in dipendenza di fatto ma non di nome, e Roma aspirava
ornai a ridurla provincia. Caldi d’ammirazione per sentimento
dell’armonica bellezza onde fu privilegiato quel paese, e mossi dalla
somiglianza di glorie e di sventure col nostro, siam côlti di pietà
meditabonda all’agonia sua, alle umiliazioni, agli oltraggi, traverso
ai quali arrivò all’ultima ora. Se qualche vigore restituì alla lega
Achea Filopemene, dopo di lui essa più non mostrossi che odiosa o
spregevole, alternando servile compiacenza al senato romano con
ridicole disperazioni, quasi volesse da sè privarsi della compassione
che la generosità attira su chi è destinato a perire. La vittoria dei
Romani aveva resi audaci ad ogni eccesso i fautori loro, gente avara
ed impertinente, come quella che si sentiva sostenuta in ogni caso
dai vincitori. Chi resistesse, chi generoso amasse la patria e ne
propugnasse i diritti, chi osasse contraddire ai commissarj stranieri,
veniva denunziato a Roma.
[CALLICRATE]
Tra questi venduti primeggiava di potenza e viltà Callicrate ateniese,
uno di quei demagoghi, la cui morale consiste nell’ottenere denaro
e gradi; e secondo lo stile de’ pari suoi, denigrava chiunque lo
superasse di merito; e sulle piazze non men che nelle arringhe, non
sapeva che gridare:—Costui ha dato favore a Perseo: quest’altro s’è
lasciato comprare dall’oro nemico». Due commissarj furono spediti alla
lega Achea, acciocchè istruissero il processo di questi accusati; e
uno di essi arrivò a tanto da proporre all’assemblea,—Condannate a
morte i fautori di Perseo, ed io dappoi li nominerò». Parve pazzamente
furibonda la domanda, e gli Achei si limitarono a promettere li
condannerebbero qualora non potessero giustificarsi.—Poichè il
promettete (ripigliò il commissario), dico che tutti i vostri capitani
e generali, e quanti sostennero cariche nella repubblica vostra, sono
macchiati di tale delitto».
A simili voci sorge Zenone, e,—Io comandai l’esercito e fui capo della
Lega, e protesto non aver nulla commesso contro gl’interessi di Roma.
V’è chi osa imputarmi di questo che chiamano delitto? eccomi pronto a
giustificarmene o nella dieta degli Achei o avanti al senato di Roma».
Colse al volo questa parola il commissario, e soggiunse, non potevano
appellarsi a tribunale più equo; indi recitando tutti quelli che
Callicrate aveva denunziati, intimò andassero a Roma a scagionarsi.
Erano oltre mille, fior del paese: e così con un solo colpo, quale
mai non avevano osato i più sfrontati tiranni, la Lega restò privata
dei suoi capi. Giunti in Italia, furono relegati in varie città,
senza tampoco udirli, nè badare ai loro richiami, o alle replicate
deputazioni dell’Acaja.
[167-150]
Callicrate, divenuto capo dell’avvilita Lega, udiva senza commoversi i
gemiti de’ loro parenti che li ridomandavano, e gli urli de’ fanciulli,
che, qualora uscisse in pubblico, gli gridavano dietro al traditore,
al nemico della patria. Diciassett’anni que’ deportati continuarono
a sollecitare un giudizio, e udire vanti della _romana equità_:
finalmente Catone, replicando che la questione trovavasi omai ridotta
a deliberare se dovessero esser sepolti da becchini romani o da greci,
ottenne fossero ascoltati, e restituiti alla patria i pochi ch’erano
sopravissuti alla fame, al carnefice, al crepacuore. Sozza tirannia
contro un paese indipendente qual era l’Acaja, contro persone di
merito, e che la più parte aveano combattuto per Roma.
[159]
I reduci non poterono che piangere l’avvilimento cui trovarono
ridotta la patria. Ma la perfidia e la crudeltà v’aveano procacciato
molti nemici a Roma, i quali, in onta del partito avverso, osavano o
mormorare, o protestare contro i raggiri e le concussioni; e parevano
disporsi ad aperta rottura. Ve li spingeva l’esempio della Macedonia,
la quale avendo poc’anzi dominato il mondo sotto Alessandro, fremeva
nel trovarsi tolto fin il più sacro diritto, quel di disporre di se
medesima. Alcuni ricoverati a Roma non risparmiavano preghiere, non
denaro per comprarsi amici nel senato, acciocchè non fosse fatta
violenza ai loro compatrioti; coltivavano Paolo Emilio finchè visse,
poi suo figlio Scipione Emiliano, il quale, se non fossero stati i
movimenti di Spagna, sarebbe ito in Macedonia a far ragione delle
querele: ma il senato, intento a raggiri politici e a profittare degli
errori de’ principi, nè pensando che lo scontento dei Macedoni potesse
recare a conseguenze, lasciava che i suoi uffiziali li trattassero un
dì peggio che l’altro, e conferiva i primi gradi a chi più ligio.
[PSEUDO-FILIPPO]
[152]
[148]
Raccolse quei sospiri sdegnosi un tale Andrisco, persona bassissima
dicono i Romani, unici narratori di questi eventi; dodici anni vissuto
presso un povero, che poi gli rivelò come fosse nato da una concubina
di Perseo; allora egli tentò farsi seguaci, ma non ascoltato, ricoverò
presso Demetrio Sotero, ch’ebbe la viltà di consegnarlo ai Romani.
Questi, non temendo del pseudo-Filippo, come e’ lo chiamarono,
il lasciavano con sì mala guardia, ch’egli fuggì, e ricoveratosi
nella Tracia, girò fra i signorotti, esponendo i suoi diritti, le
soperchierie de’ Romani, e quanto facile sarebbe una insurrezione.
Al suo appello i Traci si sollevano, egli ha Corte, esercito, alcune
piazze forti; bentosto tutta Macedonia, credendo o no, ma volonterosa
di turbare lo stagno, si dà a questo rampollo degli antichi suoi re, il
quale, sapendo che il miglior modo di difendersi è l’assalire, invade
le provincie vicine. Roma non avea eserciti in quelle parti, sapeva
che Cartagine aveva mandato ambasciatori ad Andrisco per allearselo
nell’imminente guerra, e potea temere che la Grecia cogliesse il destro
di vendicare gli affronti; ma questa affrettò proteste e prove di
divozione alla sua tiranna. Scipione Nasica, uomo affabile e giusto,
servì la patria meglio che colle armi girando per le città della Lega;
col render ragione de’ pianti e de’ gravami loro, le saldava nella
fede; e traendo da ciascuna qualche truppe, raccozzò un esercito. Le
armi romane andarono più d’una volta sconfitte; sinchè Andrisco fu
novamente tradito ai Romani, che ne ornarono i loro trionfi.
[DECIO GIULIO SILLANO]
[147]
Anche altri pretesi figliuoli di Perseo tentarono dar valore ai diritti
colla forza, ma tutti furono vinti. Finalmente il pretore Cecilio
Metello sottomise interamente la Macedonia, e vi piantò un governo
d’arbitraria severità. Singolarmente iniquo tra i governanti parve
Decio Giulio Sillano, contro cui i Macedoni mandarono querela. Suo
padre Tito Manlio Torquato ottiene di giudicarlo in casa, secondo
l’antica consuetudine patrizia; e udite le parti, convinto il figlio,
lo condanna a più non comparirgli davanti. Sillano se ne trova così
disonorato, che s’appicca; e Manlio nè chiude la casa, nè veste il
bruno, dichiarando non più appartenere alla sua famiglia chi avea
perduto la virtù.
Si sarà levata a cielo l’equità romana, e continuata l’oppressione
della Macedonia.
[GRECIA RIDOTTA A PROVINCIA]
[147]
Le sommosse di questa erano parse alla lega Achea un’opportunità
per riscuotersi dal giogo; e poichè Sparta se n’era separata onde
tenersi coi Romani, vollero ridurla a soggezione: ma essa ricorse a
Roma. I commissarj romani, convocata la dieta a Corinto, esposero
quanto la loro città si affliggesse del vederli straziarsi a vicenda;
esserne cagione la forma loro di governo federale, ove i deputati
non potendo intendersi, erano costretti venire alle armi; nella sua
sapienza il senato romano s’era accorto che, meno uniti, sarebbero
più felici; e però dichiarava escluse dalla Lega le città che non
v’aveano partecipato sin dal principio, Corinto, Sparta, Argo,
Eraclea, Orcomene. Con indegnazione fu accolta la micidiale proposta,
il popolo accannito trucidò quanti Spartani colse in Corinto, e a
stento gl’inviati romani poterono salvarsi. Roma, in guerra ancora
con Cartagine e coi pretesi figli di Perseo, non potendo far seguire
tosto la vendetta, spedì nuovi messi con moderate querele: ma le città
tutte, prese da una vertigine d’eroismo e di libertà, gridavano
esser più decoroso il perire combattendo che il cedere vilmente; e
giunsero a far dichiarare guerra contro Roma e Sparta. Però mancava
il concerto di salde volontà, onde Metello il Macedonico li vinse
facilmente presso Scarfia; e alcuni invocarono la clemenza del
vincitore, altri s’uccidevano, chi ritiravasi vilmente, al tempo stesso
che si ricusavano le proposizioni di pace. L’impresa fu terminata da
Lucio Mummio console, che espugnò ed arse Corinto, la ricchissima
del mondo, come centro del commercio d’Asia e d’Europa; vendette il
popolo, e fece immenso bottino. I capolavori di scoltura, di pittura,
di fusione, che la rendevano insigne, andarono preda d’ignoranti
soldati; sopra un quadro d’Aristide, meraviglia degli intelligenti,
giuocasi ai dadi; si mettono all’incanto tavole d’Apelle e statue di
Fidia. Attalo re di Pergamo esibì seicentomila sesterzj d’un quadro;
onde Mummio maravigliato,—Convien dire queste tele posseggano qualche
magica virtù»: e toltele dall’incanto, le inviò a Roma, intimando ai
portatori,—Se le guasterete, sarete condannati a rifarle».
Sbigottita dall’incendio di Corinto, la Lega più non pensò nè a
resistere al vincitore, nè a placarlo. I collegati furono raccolti in
vasta spianata, cinti dalle legioni romane; e dopo rimasti alcun tempo
in terribile aspettazione, udironsi intimare che i Corintj e i servi
sarebbero venduti schiavi, gli altri Achei andassero prosciolti. Nè le
città che aveano sostenuto gli stranieri, salvarono le mura: il governo
popolare fu abolito, e tutta Grecia ridotta a provincia, benchè alcune
città staccate, come Atene, mantenessero alcuna ombra di libertà.
[LA SIRIA]
[174]
[170]
Era omai decisa anche la sorte degli altri regni usciti da quello
d’Alessandro. La Siria fioriva ancora delle belle provincie della
Comagene, della Cirrestica, della Seleucide, della Palmirene; nelle
ricche valli tra l’Antilibano e il Mediterraneo cresceano Antiochia,
Seleucia, Laodicea, Apamea; e nel deserto Palmira, emporio alle
carovane fra l’India e l’Europa. Antioco Epifane, figlio d’Antioco
il Grande, era stato allevato a Roma come ostaggio; e venuto re,
cercò combinare il fasto patrio colla repubblicana famigliarità de’
Romani, ma non riusci che a rendersi oggetto d’odio e di sprezzo.
Carezzò i Romani pur odiandoli; guerreggiò prosperamente l’Egitto,
che gli disputava la Palestina e la Celesiria; prese Pelusio, e
invece di sterminarne gli abitanti, perdonò, col che indusse molte
città a soggettarglisi: avuto in mano Tolomeo Filometore, lo trattò
cortesemente; poi giovandosi delle costui inimicizie col fratello
Fiscone, stava per unire alla Siria l’Egitto, quando Popilio Lena,
ambasciadore romano, gl’intimò:—Devi abbandonare le conquiste». E
chiedendo egli tempo a deliberare, Lena colla mazza gli descrisse un
cerchio attorno, e—Non uscirai di questo prima di risolvere». Antioco
dovette cedere, e agli ambasciadori ch’egli spedì, il senato rispose si
congratulava che avesse obbedito; e per patto di pace gl’ingiunse di
cedere Cipro e Pelusio.
[ANTIOCO EPIFANE]
Il tributo che la Siria doveva a Roma, era un nulla a petto ai regali
con cui era costretta adescarsi fautori nella gran metropoli, ove
tutto diveniva venale. Tiberio Gracco, spedito dal senato a sindacare
i re e gli Stati d’Oriente, dovette concepire d’Antioco tanto maggiore
disprezzo, quanto più questi s’umiliava per ingrazianirlo, portandosi
seco più da schiavo che da re, cedendogli la reggia, esibendogli fin la
propria corona: onde potè assicurare il senato che nulla aveva a temere
dal re di Siria.
[169]
Per quante ricchezze Antioco avesse acquistate nell’Egitto, e gliene
procacciassero gli amici e le provincie d’Oriente, volgevano però
sempre in peggio le sue finanze, onde per risanguarle avea ricorso ai
tesori dei tempj, spediente sempre pericoloso. Erasi anche avversato i
sudditi colla smania di alterarne i costumi nazionali, e d’introdurre
il culto greco, non per zelo religioso, ma perchè più adatto alle
pompe, dietro cui egli andava pazzo. Per ciò gli si ribellarono molte
provincie, e massime gli Ebrei, popolo custode della intemerata
tradizione, che all’invasore prepotente oppose la devota magnanimità
de’ Macabei.
[DEMETRIO]
[164]
Morto Antioco, la discordia sevì, e Roma si diede aria di togliere in
protezione il fanciullo Demetrio Solero, figlio di Seleuco IV, e nominò
tre tutori al re di Siria, come avea fatto a quel d’Egitto. Se lo scopo
del senato non fosse già manifesto, lo rese evidente l’ordinare a que’
tutori bruciassero tutte le navi d’una certa portata, e tagliassero i