Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 16
la pace, purchè lasciassero libertà ai Tarantini e al resto della Magna
Grecia. Mossi dalla cortesia, dall’eloquenza, dalle ragioni, dalle
visite e dai doni di Cinea, che tutto ammirava, che diceva il senato
essergli parso un concilio di re, i Romani già inchinavano, quand’ecco
nell’assemblea presentasi il cieco Appio Claudio.
[APPIO CLAUDIO]
[311]
Già mentovammo questa famiglia, oriunda sabina, e risoluta
propugnatrice del diritto patrizio. Secondo questo, Appio conservavasi
despoto nella propria casa come un patriarca; ma al modo che i Tories
della moderna Inghilterra vollero comparire autori de’ provvedimenti
più liberali che il tempo richiedeva, così Appio, essendo censore, avea
mescolato la plebe fra tutte le tribù per crescerne l’influenza, ed
ascritti nel senato anche liberti; e mentre prima sull’altare grande
di Ercole non aveano sagrificato che i discendenti dell’aborigeno
Potizio, Appio indusse costoro a rassegnare tal funzione a schiavi
del popolo romano, comunicando così anche il sacerdozio, che fin là
erasi tenuto geloso privilegio de’ nobili. Ben si cianciò che gli
Dei, sdegnati di tale sacrilegio, aveano fatto morire tutti i Potizj
entro un anno, e privato Appio degli occhi; ma le barriere spezzate
più non si ripararono, e la nobiltà odiò invano il severo censore; il
quale è pure il primo romano che appaja come scrittore avendo composto
poesie sul modello di quelle di Pitagora[245], e s’immortalò anche col
fabbricare un acquedotto che da ottanta stadj lontano portava acque
agli abitatori delle parti basse di Roma, e collo schiudere per mille
stadj la magnifica via da Roma a Capua, detta la regina delle strade, e
che pareva significare l’unione dell’Italia alla sua metropoli.
Costui per gli anni e per la cecità aveva da un pezzo abbandonato i
pubblici affari; ma allora, indignato che i Romani piegassero, si fece
portare nella curia da quattro figliuoli, tutti stati consoli, inveì
contro il greco ciarliero seduttore, esortando a respingerlo di Roma, e
dettò questa risposta, da darsi a Pirro:—Se vuol la pace, prima esca
dall’Italia». La franchezza e i partiti risoluti prevalgono sempre; e a
voce di popolo si gridò la guerra. Gli elefanti avevano cessato di dare
sgomento ai Romani, che con dardi infocati[246] ritorcendoli contro
l’esercito di Pirro, lo scompigliarono e vinsero.
[FABRIZIO]
[280]
Fabrizio Luscino, famoso per fatti di guerra non meno che per
integerrima costanza, fu a lui deputato onde chiedere il cambio o il
riscatto de’ prigionieri; e Pirro, sapendo quanto egli fosse autorevole
in pubblico e poverissimo in casa, gli esibì gran denaro, e n’ebbe un
rifiuto; al domani provossi di spaventarlo col far avanzare sopra il
capo di lui la proboscide d’un elefante, ma nulla parimenti ottenendo,
intonò:—Più facile è sviare il sole dal suo corso, che Fabrizio
dalla probità». Cinea, volendo sfoggiare della sua dotta eloquenza
davanti a lui, tra il cenare espose la dottrina di Epicuro, capo d’una
delle scuole filosofiche di Grecia, che negava Dio e la provvidenza,
considerava la giustizia come invenzione umana, e unico fine dell’uomo
il piacere; e come i costui seguaci si tenessero scevri dai maneggi
pubblici, in deliziosa infingardaggine. Il che udendo, Fabrizio
esclamò:—Padre Giove, fa che Pirro e i Sanniti approvino tale dottrina
finchè stanno in guerra contro di noi».
Viepiù Pirro desiderava attaccarsi un uomo così disforme da quelli
che aveva conosciuti nella degenere Grecia e nell’ammollita Tarante,
e lo esortava,—Rimetti pace fra’ tuoi cittadini e noi, poi vieni a
vivere con me». Al che Fabrizio rispose:—Non ci sta del tuo conto;
perchè quelli che ora rendono omaggio a te, conosciuto che abbiano me,
preferiranno essere da me governati che da te». Pirro, volendo pur
gareggiare di generosità, gli regala ducento prigionieri senza prezzo;
a tutti gli altri permette vadano a visitar in Roma i loro parenti,
purchè Fabrizio dia la parola che ritorneranno. Ma Roma non soffriva si
salvasse la vita col perdere l’onore; i prigionieri restituiti marchiò
d’infamia, e i cavalieri ridusse a pedoni, i fanti a frombolieri; e
finchè non avessero spogliato due nemici, doveano serenar fuori del
campo senza riparo nè trincea.
[279]
Tanta fermezza dovea sgomentare il nemico, che vedeva dai Romani
rifarsi gli eserciti, come le teste dall’idra lernea. Poi Fabrizio
gli fece intendere come il medico di lui gli avesse proposto di
avvelenarlo, soggiungendogli:—Vedi quanto male tu scelga e gli amici
ed i nemici». Tocco da quella generosità, o persuaso che troppo
difficile era il vincere uomini tali, l’Epirota cessò dalle ostilità,
consacrò nel tempio di Taranto parte delle spoglie, non vergognando
di chiamarsi superato, e dopo ventotto mesi che v’era sceso, rimbarcò
cavalli, elefanti e uomini, e tragittossi in Sicilia sopra sessanta
navi siracusane.
[PIRRO VINTO]
[278]
[275]
[272]
Su quell’isola vantava egli qualche pretensione come genero di
Agatocle, e v’era chiamato per resistere ai Cartaginesi: in fatto
egli ne li respinse, e accolto a braccia aperte dalle città e dai
tirannelli, avrebbe potuto piantarvi un regno; ma il tempo che perdette
nell’inutile assedio del Lilibeo, ultimo ricovero degli Africani,
dissipò il fascino che lega ai vittoriosi. Quand’egli propose d’imitare
Agatocle portando la guerra in Africa, i Siciliani gli perfidiarono;
ed esso li ricambiò rubando quanto potè: poi fu lieto di palliar la
fuga sott’ombra d’esaudire i Tarantini, i quali, privati della spada
di lui, non erano capaci di resistere ai Romani. Salpò dunque: ma
l’equipaggio di esso non l’avea seguito che per forza, dicendo essere
destinato vittima per salvare dalla flotta punica le navi cariche del
bottino; laonde nello stretto si lasciò vincere dai Cartaginesi; e
colati a fondo sessanta bastimenti, dodici soli approdarono a Reggio.
Pirro, assalito dai Mamertini, trovavasi in così estrema necessità, che
a Locri è costretto metter mano al tesoro di Proserpina onde comprar
mercenarj: ma rimane sconfitto presso Benevento da Curio Dentato; e
Molossi, Tessali, Macedoni, con Apuli, Bruzj, Lucani, Sanniti ornano il
costui trionfo, e quegli elefanti pur testè così paventati. Pirro, per
rimorso e per l’orrore che n’ebbe il vulgo superstizioso, restituisce
il tesoro di Proserpina, e dopo sei anni d’inutile guerra ritorna
sfinito e disonorato in Grecia, dove non tardò a mettersi in nuove
battaglie, e perirvi. Milone, da lui lasciato nella rôcca di Taranto,
non fu sostenuto dagli abitanti; patteggiato, menò via la guarnigione;
e Roma prese possesso della città, rubandole quadri, statue, ornamenti
dei tempj, e quantità d’oro e di delizie.
[271]
I Romani non interruppero la guerra contro la Lucania finchè non
l’ebbero doma; i proprj soldati che erano caduti prigionieri,
considerarono come banditi; condussero a Roma quattromila uomini della
legione campana che erasi rivoltata a Reggio, e cinquanta al giorno li
fecero uccidere senza esequie nè lutto[247]; poi per tenere soggetti
Lucani e Campani posero colonie a Pesto, a Benevento, a Brindisi.
Roma che, tre secoli dopo fondata, non erasi impadronita che di Vejo
lontana dieci miglia, avea poi concepito l’ambizione di soggettare
tutta l’Italia. E poichè il primo passo a ciò dev’essere la cacciata
degli stranieri, avea cominciato dallo sconfiggere i Galli, e
guerreggiando con essi e coi fieri Sanniti erasi migliorata di tattica;
contro Pirro s’avvezzò a non temere gli eserciti scientificamente
disciplinati; anzi vantaggiossi dell’arte macedone per imparare a
resistere ad urti ben combinati; e sottomesse le deboli leghe della
bassa Italia, alleavasi con popoli lontani, e perseverava nella
politica sua di incatenare i vinti al carro vincitore.
Ma Pirro, quando abbandonava la Sicilia, esclamò:—«Che bel campo
lasciamo a’ Romani e Cartaginesi!» Prevedeva l’accorto come quelle due
potenze, cresciute fino a toccarsi, non potessero omai che venire a
cozzo, per decidere se il mondo sarebbe dominato dalla stirpe semitica
o dall’indo-germana.
CAPITOLO XII.
Cartagine. Prima guerra punica. Sistema militare dei Romani. Conquista
dell’Insubria.
Ci cadde ripetutamente menzione dei Fenicj, popoli di schiatta araba,
detti Cananei dalla Bibbia, che stanziati tra le falde del Libano ed
il Mediterraneo, s’un lembo di paese centrenta miglia lungo e trenta
largo ove più, a guisa de’ Veneziani e de’ Genovesi moderni spinsero
il commercio animosamente non solo nel mar nostro, ma e nel Rosso e
nell’Oceano, e seminarono di colonie e di scali il littorale e le isole
da Tiro fin alle Cassiteridi, che oggi diciamo Sorlinghe.
[869]
O fosse colonia spontaneamente partita, o fosse la vinta fazione di
re Sicheo, che colla costui vedova Didone o Elisa cercasse scampo e
patria altrove, uno sciame di Fenicj fabbricò Cartagine, nel golfo
africano che, rimpetto alla Sicilia, è formato dallo sporgere dei capi
Bon e Zibib, sopra una penisola fra Tunisi e Utica, il cui istmo si
dilata men di quattro miglia. La città crebbe, e divenne l’unico Stato
libero che si alzasse mai sulle coste d’Africa, la prima repubblica
conquistatrice insieme e trafficante di cui rimanga storia, e che per
molti secoli sciolse il difficile problema d’arricchire senza perdere
la libertà. Dica pure Strabone che settecentomila abitanti vi furono
assediati da Scipione; Cartagine non potè mai contarne meglio di
ducencinquantamila. Il quartiere di Megara era tutto a giardini, broli,
canali; a sopracapo sorgeva la fortezza di Birsa; il porto militare,
scavato a mano e capace di ducento navi da guerra, aveva in mezzo
l’isola di Coton, e comunicava col porto mercantile, la cui entrata
chiudevasi con catene di ferro.
[CARTAGINE E SUE COLONIE]
Se d’un popolo ci è rivelata l’indole dalla religione, quella de’
Cartaginesi era avara e melanconica fino alla crudeltà; cupe immagini
la vestivano; astinenze, volontarie torture, congreghe notturne al
bujo, superstizioni dissolute ed inumane. Sotto gli occhi della dea
Astarte si prostituivano le fanciulle, e il prezzo vituperevole si
accumulava come dote. Melcart, l’Ercole loro, ispirolli a grandi
imprese: ma la luce di lui era contaminata da sacrifizj umani,
rinnovati a tempi fissi; poi nelle maggiori necessità gli si offrivano
gli oggetti più cari. Quando Agatocle li vinse, i Cartaginesi si
credettero puniti perchè da alcun tempo scarseggiavano nell’inviare
offerte ai tempj in Fenicia, onde a profusione ne spedirono, fin a
togliere dai proprj santuarj i tabernacoli d’oro: poi temendo ancora
che il dio avesse preso corruccio perchè, invece di fanciulli bennati,
gliene immolavano talora di compri, ne sacrificarono ducento delle
prime famiglie; e trecento uomini sottoposti a processo, offrironsi
spontanei a morire sugli altari. Desolati dalla peste mentre
assediavano Agrigento, gettarono molti uomini in mare per calmar
Nettuno. Annibale guerreggiava in Italia quando gli si annunziò che
suo figlio era designato per l’annuale olocausto; ed egli:—Io preparo
agli Dei sacrifizj che saranno più accetti». Invano Dario re di Persia
e Gelone di Siracusa posero per patto di pace che i Cartaginesi
cessassero d’insanguinare gli altari; la superstizione prevalse,
sopravvisse persino alla perdita della gloria e dell’indipendenza.
Qual meraviglia se troviamo i Cartaginesi duri, servili, egoisti,
cupidi, inesorabili, senza fede? Alle emozioni generose pareano
renderli inaccessi il culto, l’aristocrazia mercantile, l’avidità del
guadagno: pure ricordiamoci che la storia loro non ci è narrata che
da’ loro nemici. Non è del nostro tema studiarne gl’istituti, nè
descrivere il commercio che Cartagine menava estesissimo coll’interno
dell’Africa e colle estremità dell’Europa. Assoggettò i barbari
abitanti di quella costa, fissandoli in colonie lungo il littorale; e
per assicurarsi i viveri, ne teneva di agricole nella Zeugitana e nella
Bisacena, ove le derrate europee prosperarono colle africane; sul lembo
della Numidia e della Mauritania suoi banchi fortificati a vantaggio di
essa trafficavano cogl’indigeni, ed assicuravano la via di terra fino
alle colonne d’Ercole, e uno schermo alle navi nel pericoloso tragitto
dall’Africa in Spagna. Queste colonie però erano fra loro disgregate,
nè parevano accordarsi che nell’odiare la dominante; ond’essa vietava
che si cingessero di mura, col che tenevasi esposta alle correrie
nemiche: ad oriente poi erravano tribù indomite, simili ai moderni
Beduini; ad occidente la minacciavano i poderosi regni di Numidia e
Mauritania; sulla costa medesima e a mezzodì le si ergevano emule
Tunisi, Aspis, Adrumeto, Ruspina, la piccola Lepti e Tapso, oltre Utica
che si conservò sempre indipendente.
Qui consisteva la debolezza di Cartagine: sua forza e suo vanto erano
le colonie, piantate ne’ più comodi e più lontani paesi. E prima nel
Mediterraneo assoggettò le Baleari, che la fornivano di vino, olio,
lana, muli; a Gozzo, a Cherchinesso, a Malta battevano per essa
telaj di lino; tutte poi le erano scali al commercio, e rinfresco
ai vascelli. In Sardegna fondò Cagliari e Sulci; e perchè ne traeva
grani in abbondanza, metalli, pietre fine, la considerava in grado
non inferiore all’Africa. Quando i Focesi, insofferenti del giogo
persiano, occuparono la Corsica fondandovi Aleria, Cartagine ne li
snidò, gelosa di negozianti sì attivi. Pare che anche fuor dello
stretto di Gibilterra occupasse nel Grande oceano le Canarie e Madera.
In terraferma pose altre colonie; e Annone fu spedito a fondarne una
serie lungo la marina occidentale d’Africa dove ora sorgono Fez e
Marocco; Imilcone un’altra sul lembo occidentale d’Europa, e forse sino
nel Giutland. Dalla Gallia li tennero lontani i Focesi di Marsiglia; ma
la Liguria li provvedeva d’eccellenti marinaj: nella Spagna rinnovarono
le colonie fenicie dell’Andalusia e di Gade, e vi scavarono miniere a
gran vantaggio.
Scopo dunque di Cartagine non era il conquistare come Roma, bensì
l’estendere la mercatura e i guadagni, impedire che la popolazione
eccedesse, trovare collocamento ai cittadini sprovveduti. Ma come
Venezia, a cui in tanti punti conviene, non assimilava a sè i coloni e
i sudditi; anzi, per paura di vederli farsi indipendenti, li teneva in
dura soggezione, infiacchendo le membra per vantaggio del capo.
[MAGONE]
[480]
[410]
Dal piantarsi in Italia furono impediti i Cartaginesi dagli Etruschi
e dai Latini. La Sicilia, disgiuntane appena cento miglia, viepiù
ne stuzzicava i desiderj, come quella da cui dipenderebbero la sua
padronanza nel Mediterraneo, l’approvvigionamento delle armate, e
il commercio del vino e dell’olio. Primeggiava allora in Cartagine
Magone, che ne creò la forza e il sistema militare, e fu stipite d’una
famiglia, illustre per tre generazioni di capitani[248]. Piantò egli
colonie in Sicilia; le quali però essendo tenute deboli per la solita
paura che si rivoltassero, potevano dar molestia, ma non prevalere alle
ricche e indipendenti colonie greche: quando poi Amilcare di Magone
fu sbaragliato da Gelone re di Siracusa (pag. 241), i Cartaginesi
penarono a difendere le colonie e gli acquisti. E per settant’anni
la storia sicula più non fa menzione di loro; poi si riaffacciano
poco prima della tirannia di Dionigi il Vecchio, quando ajutarono
Segesta contro Selinunte, ed occuparono altre terre. Esso Dionigi e
Agatocle, cupidi di unire tutta l’isola, mossero ad essi guerra: pure
i Cartaginesi vi tennero sempre un piede; e la loro perseveranza,
l’inesauribile forza dell’oro, e le irrequietudini perpetue di Siracusa
gli avrebbero anche fatti signori di tutta Sicilia, se avessero
posseduto un valente generale. Combattuto con alterna fortuna, nella
pace del 383 s’ebbero assicurato un terzo di quell’isola.
[FORZE E CONQUISTE]
Fra ciò Cartagine spiegava e cresceva le proprie forze nelle lotte
cogli Etruschi, coi Greci, coi Marsigliesi, poi coi Romani, e fa
meraviglia come prontamente si rifacesse delle perdite. Da prima usava
solo triremi, poi le ingrandì al tempo d’Alessandro; nella guerra coi
Romani n’ebbe di cinque e di sette ordini, colle poppe ornate de’ suoi
Dei marittimi, Poseidon, Tritone, i Cabiri. Una quinquereme portava
cenventi soldati e trecento marinaj; al remo gli schiavi; prestissima
ne’ volteggiamenti. Al persiano Serse somministrò fin duemila navi
lunghe e tremila di carico per osteggiare la Grecia. Gli ammiragli però
non operavano di pieno arbitrio, ma dipendevano dai generali di terra
nelle imprese che voleano concerto, se no dal senato; e le vittorie
erano occasione di pubblici tripudj, di pubblico gemito le sconfitte.
La cavalleria, perchè costosa, era formata di nobili Cartaginesi, i
quali portavano un anello per ogni spedizione fatta: v’avea pure una
legione sacra di cittadini riccamente in arnese. Il servizio di terra
affidavasi per lo più a mercenarj d’ogni nazione; e sapendo a punto
quanto costasse un soldato greco, quanto un africano, un campano,
un gallo, mettevano in bilancio il costo di un esercito col frutto
che verrebbe da una conquista: al fine della campagna riscattavano i
prigionieri, e le spese si pareggiavano colle estorsioni fatte ne’
paesi acquistati. Questa turba ragunaticcia, combattendo fuor del
paese natìo e contro gente più povera, non era allettata a disertare;
e la diversità di favella e di religione impediva che vi si formassero
minacciosi accordi. Ma ne scapitava la disciplina; penoso era il
trasportarli per mare; a fronte di truppe disciplinate e nazionali,
trovavansi mancare di quel coraggio, che si fonda sul patriotismo e sul
sentimento dell’importanza individuale.
[509]
[348]
Coi Romani erasi Cartagine incontrata nei mari, fin quando essi,
potenti sotto i re, stavano a capo della lega Latina, ed emulavano
gli Etruschi: e l’anno della cacciata de’ Tarquinj conchiuse un
trattato, pel quale i Romani si obbligavano a non navigare nè essi nè
i loro alleati di là dal capo Bon; però i mercadanti loro approdando
a Cartagine, sarebbero immuni da balzelli; le vendite avrebbero
pubblica fede; otterrebbero giustizia ne’ paesi siculi, sottomessi ai
Cartaginesi; questi non recherebbero danno ai popoli d’Anzio, Ardea,
Laurento, Circei, Terracina, o a qualunque latino di loro dipendenza,
nè torto alle città libere; non fabbricherebbero fortezze in paesi
de’ Latini, e se vi entrassero armati, non vi pernotterebbero. In
un secondo trattato vi furono inchiusi i popoli di Tiro, d’Utica e
i loro alleati: «i Cartaginesi, se prenderanno qualche città latina
non dipendente da Roma, la cederanno a questi, serbandosi l’oro e
i prigionieri: se facciano prigionieri sopra un popolo in pace con
Roma, ma non sottomesso, non lasceranno che entrino ne’ porti romani;
entrandovi, se un cittadino li tocchi, diverranno liberi; altrettanto
si adoprerà dai Romani, che non fabbricheranno città in Africa e in
Sardegna; potranno però vendere e comprare nelle terre cartaginesi
al par de’ cittadini, e così viceversa quei di Cartagine». Questi
trattati confermaronsi giurando i Cartaginesi pe’ loro Dei, i Romani
per la pietra (διὰ λίθον), simbolo primitivo di Giove; cioè, tenendo
una pietra in mano, uno diceva:—Se giuro il vero, ogni cosa mi
accada prospera; se penso diverso da quel che giuro, gli altri godano
la patria, le leggi, i beni, la religione, le tombe, ed io solo sia
respinto come ora fo con questo sasso»; e lo lanciava.
I quali documenti preziosi[249], che sono il più antico testimonio
della repubblica romana, basterebbero a convincere di falso la comune
degli scrittori che, duranti i re, ci presentano come ancora in fasce
quella Roma che qui ci appare qual potenza marittima, e signora
d’alcuni, protettrice degli altri popoli latini.
[RELAZIONE DI CARTAGINE CON ROMA]
[278]
Niuno però s’affretti a conchiudere che Roma avesse legni grossi,
giacchè gli Stati barbareschi, che su quel lembo d’Africa sgomentarono
fin jeri anche le maggiori potenze europee, non adopravano navi di
linea: Roma poi stipulava forse come capitana della federazione latina,
cioè di popoli provvisti di marina, benchè essa ne mancasse; e se pur
l’ebbe, dovette lasciarla deperire, talchè n’era sguarnita tre secoli
più tardi. In fatto quando Pirro invase la Sicilia, Roma e Cartagine
stipularono che nessuna patteggerebbe coll’Epiroto senza concorso
dell’altra; Cartagine _in caso di bisogno_ somministrerebbe navi, ma
non imbarcherebbe senza consenso di Roma. Credendo caso di bisogno
il cacciar Pirro quando minacciava Roma, i Cartaginesi mandarono ad
Ostia trenta galee; ma i Romani ringraziando le rinviarono, temendo
portassero via schiavi e spoglie italiane.
[PRIMA GUERRA PUNICA]
[269]
Intente ognuna ad escludere l’altra da’ suoi territorj, le due
repubbliche trattavano da pari a pari; che se Roma sentiva la
preponderanza d’uno Stato guerresco sopra uno trafficante, Cartagine
aveva tesori per comprare truppe quante volesse, oltre la indisputata
prevalenza sul mare. Sarebbero dunque potute ciascuna seguitare la
propria strada senza venire a cozzo; ma a guastarle offrì ragioni la
Sicilia, secondo avea predetto Pirro. Di quell’isola, agitata ora dalla
tirannide di despoti, ora dalla tirannide della libertà, spartivansi
allora il dominio i Cartaginesi, i Siracusani del re Gerone II, cui
obbedivano anche Leontini, Acre, Megara, Elori, Taormina, e i Mamertini
ricoverati al Peloro. Questi ultimi erano stati sconfitti e ridotti
all’estremità da esso Gerone; nè più serbando che Messina, risolsero di
cedergliela: ma quand’egli s’avanzava per occuparla, Annibale generale
dei Cartaginesi il tenne a bada, e intanto spedì ad invadere la città.
Posti fra due fuochi, i Mamertini, siccome Campani che erano, volsero
gli occhi all’Italia, e chiesero ajuti a Roma.
[264]
Gli onest’uomini dissuadevano i Romani dall’ingiusta intervenzione,
e dal sostenere a Messina quei Mamertini, di cui la perfidia aveano
punita a Reggio; ai politici invece arrideva quest’occasione di fare
acquisti, e di mortificare Cartagine: il senato ricusò, il popolo
volle, e preponderando già la democrazia, fu risolta la spedizione.
Anche i Mamertini già n’erano pentiti; ma il console Appio Claudio
Caudice, figlio del Cieco, imbarcò le legioni su vascelli della Magna
Grecia o su zatte. La flotta cartaginese e una tempesta disperdono
l’armamento; e Annone, ammiraglio della casa di Magone, tenta ridestare
l’onoratezza romana col rinviare i vascelli presi, movendo insieme
querela dei patti violati, e professando che Cartagine non lascerebbe
mai Roma impadronirsi dello Stretto. Ma Appio Claudio si ostina
all’impresa; eludendo la vigilanza dei Cartaginesi, su navi della
Magna Grecia si tragitta; sbarcato, vince Gerone così presto, che
questo confessa non avere tampoco avuto tempo di vederlo. Esso re,
comprendendo quanto dell’amicizia d’un popolo senza navi gli tornasse
miglior conto che di quella de’ Cartaginesi, restituì i prigionieri,
pagò le spese della guerra, e strinse e serbò fedelmente alleanza coi
Romani. I quali, violando il diritto pubblico, occuparono il porto
di Messina, e sotto finta di parlamento arrestarono Annone, che per
riscattarsi fu obbligato a farne uscire la guarnigione.
[263]
Ai Romani allora brillò la possibilità di snidare i Cartaginesi
dall’isola; e mandatovi i due nuovi consoli con quattro legioni, in
meno di diciotto mesi ebbero prese sessantasette piazze e fortezze e
la grande Agrigento, difesa da due eserciti di cinquantamila uomini,
comprati dalla Spagna, dalla Gallia, dalla Liguria. Come dovette starne
la Sicilia, corsa da tante truppe, e dove la guerra esercitavasi
con tale inumanità! Nella sola Agrigento, la cui espugnazione costò
ventimila vite ai Romani, questi vendettero venticinquemila liberi:
Annone, non potendo ottenere che i nemici gli rendessero la carpita
Messina, avea fatto passar per le spade quanti Italiani servivano sotto
le sue bandiere: Amilcare, udendo i Galli da lui assoldati mormorare,
gl’invia a metter a sacco Antella, ma di nascosto ne dà avviso ai
Romani, che gli appostano e trucidano; scelleraggine che gli antichi
encomiarono come bella trovata di guerra. Di simil genere stratagemma
avea usato re Gerone: mal volentieri soffrendo gli stranieri inquieti
arrolati fra le sue truppe, quando aveva ad assaltare i Mamertini,
divise l’esercito in due, i Siracusani distinti dagli assoldati; a capo
dei primi mosse l’attacco, lasciando gli altri esposti ai Mamertini,
che li fecero a pezzi[250]. Così continuo traspare negli antichi il
disprezzo della vita dell’uomo!
Ai Romani fu ben tosto chiaro che non potrebbero acquistare nè
conservare la Sicilia, e schermir la costa e le città dalla flotta
cartaginese, senza una marina. Una galea cartaginese naufragata offerse
loro il modello, legnami l’Appennino, perseveranza la natura loro:
in sessanta giorni ebbero costruiti centrenta vascelli, ben presto
esercitata la ciurma; e per elidere l’esperienza dei nemici inventarono
i corvi, certi ponti che dall’albero di prua violentemente calando
sulla nave nemica, vi si conficcavano con branche e arpioni di ferro,
e la attaccavano alla romana, in modo da ridurre il combattimento a
duelli, siccome in terraferma.
[DUILLIO]
[260]
Così racconta la storia miracolaja, ma è più probabile che di navi
li provvedesse Gerone II, potente sul mare. Comunque sia, il console
Duillio Nepote riportò presso Lipari la prima vittoria marittima;
cinquanta legni nemici presi o colati a fondo, tremila uomini uccisi,
settemila prigioni: in memoria del quale successo fu eretta a Duillio
una colonna ornata di rostri, e concesso per tutta la vita che la sera
fosse ricondotto a casa coi fanali a suon di trombe. La fortuna durò
prospera negli anni susseguenti, prendendosi Lipari e Malta, poi la
Corsica e la Sardegna.
Annibale, comandante alla spedizione cartaginese, riconducendo in
patria le misere reliquie della flotta, dopo perduto sin la capitana,
sentivasi sovrastare la punizione che Cartagine soleva infliggere
agli sconfitti; onde spedì innanzi un messo che al senato espose:—Il
console romano guida una flotta numerosa, ma di vascelli goffamente
costrutti, e con certe macchine mai più vedute. Annibale vi domanda se
deve dargli battaglia.—La dia (risposero i governanti ad una voce),
e punisca i Romani dell’averci assaliti nel nostro elemento». Allora
il messo:—La diede, argomentando egli pure come voi, e fu vinto». Ciò
valse l’assoluzione dell’ammiraglio sfortunato.
[ATTILIO REGOLO]
[256]
[255]
Già Agatocle avea mostrato come Cartagine si trovasse mal provveduta
contro chi l’assalisse sul proprio terreno, ove le colonie oppresse o
le città rivali ajutavano chiunque la minacciasse. Roma dunque decretò
uno sbarco in Africa, sebbene il console Marco Attilio Regolo fosse
costretto ricorrere a minaccie e punizioni per indurre i soldati a
quel che loro pareva troppo lungo tragitto, e spaventevole pei mostri
che diceasi popolassero le arene libiche: e sebbene i tanti Italiani,
che Roma obbligava al remo sulle sue galere, macchinassero insieme
cogli schiavi una sollevazione, che solo il tradimento sventò[251],
Regolo con quarantamila uomini montati su trecento trenta galee
sbaragliò ad Ecnomo la flotta cartaginese di trecencinquanta galee con
cencinquantamila uomini, e sbarcato in Africa, ebbe presto assoggettate
ducento città, e fin Tunisi, forte per posizione e per mura, dove pose
il quartier generale. Cartagine, folta di gente fuggita dalla campagna,
e vedendo le aquile romane piantate fin sugli spaldi della vicina
Tripoli, chiedeva pace, e Regolo avrebbe potuto dettarla qual Roma
la conchiuse dopo tredici altri anni di guerra e centomila morti; ma
geloso di non lasciare altrui la gloria di un’impresa da sè cominciata,
rispose, allora solo sospenderebbe le armi quando più non rimanesse
loro un vascello sul mare. Arroganza indegna di buon capitano, dalla
quale ridotti a disperazione, i Cartaginesi chiamarono al comando uno
straniero, Santippo di Sparta. Costui conobbe che l’inferiorità non
veniva da fiacchezza dei Cartaginesi o da valore dei Romani, bensì dal
Grecia. Mossi dalla cortesia, dall’eloquenza, dalle ragioni, dalle
visite e dai doni di Cinea, che tutto ammirava, che diceva il senato
essergli parso un concilio di re, i Romani già inchinavano, quand’ecco
nell’assemblea presentasi il cieco Appio Claudio.
[APPIO CLAUDIO]
[311]
Già mentovammo questa famiglia, oriunda sabina, e risoluta
propugnatrice del diritto patrizio. Secondo questo, Appio conservavasi
despoto nella propria casa come un patriarca; ma al modo che i Tories
della moderna Inghilterra vollero comparire autori de’ provvedimenti
più liberali che il tempo richiedeva, così Appio, essendo censore, avea
mescolato la plebe fra tutte le tribù per crescerne l’influenza, ed
ascritti nel senato anche liberti; e mentre prima sull’altare grande
di Ercole non aveano sagrificato che i discendenti dell’aborigeno
Potizio, Appio indusse costoro a rassegnare tal funzione a schiavi
del popolo romano, comunicando così anche il sacerdozio, che fin là
erasi tenuto geloso privilegio de’ nobili. Ben si cianciò che gli
Dei, sdegnati di tale sacrilegio, aveano fatto morire tutti i Potizj
entro un anno, e privato Appio degli occhi; ma le barriere spezzate
più non si ripararono, e la nobiltà odiò invano il severo censore; il
quale è pure il primo romano che appaja come scrittore avendo composto
poesie sul modello di quelle di Pitagora[245], e s’immortalò anche col
fabbricare un acquedotto che da ottanta stadj lontano portava acque
agli abitatori delle parti basse di Roma, e collo schiudere per mille
stadj la magnifica via da Roma a Capua, detta la regina delle strade, e
che pareva significare l’unione dell’Italia alla sua metropoli.
Costui per gli anni e per la cecità aveva da un pezzo abbandonato i
pubblici affari; ma allora, indignato che i Romani piegassero, si fece
portare nella curia da quattro figliuoli, tutti stati consoli, inveì
contro il greco ciarliero seduttore, esortando a respingerlo di Roma, e
dettò questa risposta, da darsi a Pirro:—Se vuol la pace, prima esca
dall’Italia». La franchezza e i partiti risoluti prevalgono sempre; e a
voce di popolo si gridò la guerra. Gli elefanti avevano cessato di dare
sgomento ai Romani, che con dardi infocati[246] ritorcendoli contro
l’esercito di Pirro, lo scompigliarono e vinsero.
[FABRIZIO]
[280]
Fabrizio Luscino, famoso per fatti di guerra non meno che per
integerrima costanza, fu a lui deputato onde chiedere il cambio o il
riscatto de’ prigionieri; e Pirro, sapendo quanto egli fosse autorevole
in pubblico e poverissimo in casa, gli esibì gran denaro, e n’ebbe un
rifiuto; al domani provossi di spaventarlo col far avanzare sopra il
capo di lui la proboscide d’un elefante, ma nulla parimenti ottenendo,
intonò:—Più facile è sviare il sole dal suo corso, che Fabrizio
dalla probità». Cinea, volendo sfoggiare della sua dotta eloquenza
davanti a lui, tra il cenare espose la dottrina di Epicuro, capo d’una
delle scuole filosofiche di Grecia, che negava Dio e la provvidenza,
considerava la giustizia come invenzione umana, e unico fine dell’uomo
il piacere; e come i costui seguaci si tenessero scevri dai maneggi
pubblici, in deliziosa infingardaggine. Il che udendo, Fabrizio
esclamò:—Padre Giove, fa che Pirro e i Sanniti approvino tale dottrina
finchè stanno in guerra contro di noi».
Viepiù Pirro desiderava attaccarsi un uomo così disforme da quelli
che aveva conosciuti nella degenere Grecia e nell’ammollita Tarante,
e lo esortava,—Rimetti pace fra’ tuoi cittadini e noi, poi vieni a
vivere con me». Al che Fabrizio rispose:—Non ci sta del tuo conto;
perchè quelli che ora rendono omaggio a te, conosciuto che abbiano me,
preferiranno essere da me governati che da te». Pirro, volendo pur
gareggiare di generosità, gli regala ducento prigionieri senza prezzo;
a tutti gli altri permette vadano a visitar in Roma i loro parenti,
purchè Fabrizio dia la parola che ritorneranno. Ma Roma non soffriva si
salvasse la vita col perdere l’onore; i prigionieri restituiti marchiò
d’infamia, e i cavalieri ridusse a pedoni, i fanti a frombolieri; e
finchè non avessero spogliato due nemici, doveano serenar fuori del
campo senza riparo nè trincea.
[279]
Tanta fermezza dovea sgomentare il nemico, che vedeva dai Romani
rifarsi gli eserciti, come le teste dall’idra lernea. Poi Fabrizio
gli fece intendere come il medico di lui gli avesse proposto di
avvelenarlo, soggiungendogli:—Vedi quanto male tu scelga e gli amici
ed i nemici». Tocco da quella generosità, o persuaso che troppo
difficile era il vincere uomini tali, l’Epirota cessò dalle ostilità,
consacrò nel tempio di Taranto parte delle spoglie, non vergognando
di chiamarsi superato, e dopo ventotto mesi che v’era sceso, rimbarcò
cavalli, elefanti e uomini, e tragittossi in Sicilia sopra sessanta
navi siracusane.
[PIRRO VINTO]
[278]
[275]
[272]
Su quell’isola vantava egli qualche pretensione come genero di
Agatocle, e v’era chiamato per resistere ai Cartaginesi: in fatto
egli ne li respinse, e accolto a braccia aperte dalle città e dai
tirannelli, avrebbe potuto piantarvi un regno; ma il tempo che perdette
nell’inutile assedio del Lilibeo, ultimo ricovero degli Africani,
dissipò il fascino che lega ai vittoriosi. Quand’egli propose d’imitare
Agatocle portando la guerra in Africa, i Siciliani gli perfidiarono;
ed esso li ricambiò rubando quanto potè: poi fu lieto di palliar la
fuga sott’ombra d’esaudire i Tarantini, i quali, privati della spada
di lui, non erano capaci di resistere ai Romani. Salpò dunque: ma
l’equipaggio di esso non l’avea seguito che per forza, dicendo essere
destinato vittima per salvare dalla flotta punica le navi cariche del
bottino; laonde nello stretto si lasciò vincere dai Cartaginesi; e
colati a fondo sessanta bastimenti, dodici soli approdarono a Reggio.
Pirro, assalito dai Mamertini, trovavasi in così estrema necessità, che
a Locri è costretto metter mano al tesoro di Proserpina onde comprar
mercenarj: ma rimane sconfitto presso Benevento da Curio Dentato; e
Molossi, Tessali, Macedoni, con Apuli, Bruzj, Lucani, Sanniti ornano il
costui trionfo, e quegli elefanti pur testè così paventati. Pirro, per
rimorso e per l’orrore che n’ebbe il vulgo superstizioso, restituisce
il tesoro di Proserpina, e dopo sei anni d’inutile guerra ritorna
sfinito e disonorato in Grecia, dove non tardò a mettersi in nuove
battaglie, e perirvi. Milone, da lui lasciato nella rôcca di Taranto,
non fu sostenuto dagli abitanti; patteggiato, menò via la guarnigione;
e Roma prese possesso della città, rubandole quadri, statue, ornamenti
dei tempj, e quantità d’oro e di delizie.
[271]
I Romani non interruppero la guerra contro la Lucania finchè non
l’ebbero doma; i proprj soldati che erano caduti prigionieri,
considerarono come banditi; condussero a Roma quattromila uomini della
legione campana che erasi rivoltata a Reggio, e cinquanta al giorno li
fecero uccidere senza esequie nè lutto[247]; poi per tenere soggetti
Lucani e Campani posero colonie a Pesto, a Benevento, a Brindisi.
Roma che, tre secoli dopo fondata, non erasi impadronita che di Vejo
lontana dieci miglia, avea poi concepito l’ambizione di soggettare
tutta l’Italia. E poichè il primo passo a ciò dev’essere la cacciata
degli stranieri, avea cominciato dallo sconfiggere i Galli, e
guerreggiando con essi e coi fieri Sanniti erasi migliorata di tattica;
contro Pirro s’avvezzò a non temere gli eserciti scientificamente
disciplinati; anzi vantaggiossi dell’arte macedone per imparare a
resistere ad urti ben combinati; e sottomesse le deboli leghe della
bassa Italia, alleavasi con popoli lontani, e perseverava nella
politica sua di incatenare i vinti al carro vincitore.
Ma Pirro, quando abbandonava la Sicilia, esclamò:—«Che bel campo
lasciamo a’ Romani e Cartaginesi!» Prevedeva l’accorto come quelle due
potenze, cresciute fino a toccarsi, non potessero omai che venire a
cozzo, per decidere se il mondo sarebbe dominato dalla stirpe semitica
o dall’indo-germana.
CAPITOLO XII.
Cartagine. Prima guerra punica. Sistema militare dei Romani. Conquista
dell’Insubria.
Ci cadde ripetutamente menzione dei Fenicj, popoli di schiatta araba,
detti Cananei dalla Bibbia, che stanziati tra le falde del Libano ed
il Mediterraneo, s’un lembo di paese centrenta miglia lungo e trenta
largo ove più, a guisa de’ Veneziani e de’ Genovesi moderni spinsero
il commercio animosamente non solo nel mar nostro, ma e nel Rosso e
nell’Oceano, e seminarono di colonie e di scali il littorale e le isole
da Tiro fin alle Cassiteridi, che oggi diciamo Sorlinghe.
[869]
O fosse colonia spontaneamente partita, o fosse la vinta fazione di
re Sicheo, che colla costui vedova Didone o Elisa cercasse scampo e
patria altrove, uno sciame di Fenicj fabbricò Cartagine, nel golfo
africano che, rimpetto alla Sicilia, è formato dallo sporgere dei capi
Bon e Zibib, sopra una penisola fra Tunisi e Utica, il cui istmo si
dilata men di quattro miglia. La città crebbe, e divenne l’unico Stato
libero che si alzasse mai sulle coste d’Africa, la prima repubblica
conquistatrice insieme e trafficante di cui rimanga storia, e che per
molti secoli sciolse il difficile problema d’arricchire senza perdere
la libertà. Dica pure Strabone che settecentomila abitanti vi furono
assediati da Scipione; Cartagine non potè mai contarne meglio di
ducencinquantamila. Il quartiere di Megara era tutto a giardini, broli,
canali; a sopracapo sorgeva la fortezza di Birsa; il porto militare,
scavato a mano e capace di ducento navi da guerra, aveva in mezzo
l’isola di Coton, e comunicava col porto mercantile, la cui entrata
chiudevasi con catene di ferro.
[CARTAGINE E SUE COLONIE]
Se d’un popolo ci è rivelata l’indole dalla religione, quella de’
Cartaginesi era avara e melanconica fino alla crudeltà; cupe immagini
la vestivano; astinenze, volontarie torture, congreghe notturne al
bujo, superstizioni dissolute ed inumane. Sotto gli occhi della dea
Astarte si prostituivano le fanciulle, e il prezzo vituperevole si
accumulava come dote. Melcart, l’Ercole loro, ispirolli a grandi
imprese: ma la luce di lui era contaminata da sacrifizj umani,
rinnovati a tempi fissi; poi nelle maggiori necessità gli si offrivano
gli oggetti più cari. Quando Agatocle li vinse, i Cartaginesi si
credettero puniti perchè da alcun tempo scarseggiavano nell’inviare
offerte ai tempj in Fenicia, onde a profusione ne spedirono, fin a
togliere dai proprj santuarj i tabernacoli d’oro: poi temendo ancora
che il dio avesse preso corruccio perchè, invece di fanciulli bennati,
gliene immolavano talora di compri, ne sacrificarono ducento delle
prime famiglie; e trecento uomini sottoposti a processo, offrironsi
spontanei a morire sugli altari. Desolati dalla peste mentre
assediavano Agrigento, gettarono molti uomini in mare per calmar
Nettuno. Annibale guerreggiava in Italia quando gli si annunziò che
suo figlio era designato per l’annuale olocausto; ed egli:—Io preparo
agli Dei sacrifizj che saranno più accetti». Invano Dario re di Persia
e Gelone di Siracusa posero per patto di pace che i Cartaginesi
cessassero d’insanguinare gli altari; la superstizione prevalse,
sopravvisse persino alla perdita della gloria e dell’indipendenza.
Qual meraviglia se troviamo i Cartaginesi duri, servili, egoisti,
cupidi, inesorabili, senza fede? Alle emozioni generose pareano
renderli inaccessi il culto, l’aristocrazia mercantile, l’avidità del
guadagno: pure ricordiamoci che la storia loro non ci è narrata che
da’ loro nemici. Non è del nostro tema studiarne gl’istituti, nè
descrivere il commercio che Cartagine menava estesissimo coll’interno
dell’Africa e colle estremità dell’Europa. Assoggettò i barbari
abitanti di quella costa, fissandoli in colonie lungo il littorale; e
per assicurarsi i viveri, ne teneva di agricole nella Zeugitana e nella
Bisacena, ove le derrate europee prosperarono colle africane; sul lembo
della Numidia e della Mauritania suoi banchi fortificati a vantaggio di
essa trafficavano cogl’indigeni, ed assicuravano la via di terra fino
alle colonne d’Ercole, e uno schermo alle navi nel pericoloso tragitto
dall’Africa in Spagna. Queste colonie però erano fra loro disgregate,
nè parevano accordarsi che nell’odiare la dominante; ond’essa vietava
che si cingessero di mura, col che tenevasi esposta alle correrie
nemiche: ad oriente poi erravano tribù indomite, simili ai moderni
Beduini; ad occidente la minacciavano i poderosi regni di Numidia e
Mauritania; sulla costa medesima e a mezzodì le si ergevano emule
Tunisi, Aspis, Adrumeto, Ruspina, la piccola Lepti e Tapso, oltre Utica
che si conservò sempre indipendente.
Qui consisteva la debolezza di Cartagine: sua forza e suo vanto erano
le colonie, piantate ne’ più comodi e più lontani paesi. E prima nel
Mediterraneo assoggettò le Baleari, che la fornivano di vino, olio,
lana, muli; a Gozzo, a Cherchinesso, a Malta battevano per essa
telaj di lino; tutte poi le erano scali al commercio, e rinfresco
ai vascelli. In Sardegna fondò Cagliari e Sulci; e perchè ne traeva
grani in abbondanza, metalli, pietre fine, la considerava in grado
non inferiore all’Africa. Quando i Focesi, insofferenti del giogo
persiano, occuparono la Corsica fondandovi Aleria, Cartagine ne li
snidò, gelosa di negozianti sì attivi. Pare che anche fuor dello
stretto di Gibilterra occupasse nel Grande oceano le Canarie e Madera.
In terraferma pose altre colonie; e Annone fu spedito a fondarne una
serie lungo la marina occidentale d’Africa dove ora sorgono Fez e
Marocco; Imilcone un’altra sul lembo occidentale d’Europa, e forse sino
nel Giutland. Dalla Gallia li tennero lontani i Focesi di Marsiglia; ma
la Liguria li provvedeva d’eccellenti marinaj: nella Spagna rinnovarono
le colonie fenicie dell’Andalusia e di Gade, e vi scavarono miniere a
gran vantaggio.
Scopo dunque di Cartagine non era il conquistare come Roma, bensì
l’estendere la mercatura e i guadagni, impedire che la popolazione
eccedesse, trovare collocamento ai cittadini sprovveduti. Ma come
Venezia, a cui in tanti punti conviene, non assimilava a sè i coloni e
i sudditi; anzi, per paura di vederli farsi indipendenti, li teneva in
dura soggezione, infiacchendo le membra per vantaggio del capo.
[MAGONE]
[480]
[410]
Dal piantarsi in Italia furono impediti i Cartaginesi dagli Etruschi
e dai Latini. La Sicilia, disgiuntane appena cento miglia, viepiù
ne stuzzicava i desiderj, come quella da cui dipenderebbero la sua
padronanza nel Mediterraneo, l’approvvigionamento delle armate, e
il commercio del vino e dell’olio. Primeggiava allora in Cartagine
Magone, che ne creò la forza e il sistema militare, e fu stipite d’una
famiglia, illustre per tre generazioni di capitani[248]. Piantò egli
colonie in Sicilia; le quali però essendo tenute deboli per la solita
paura che si rivoltassero, potevano dar molestia, ma non prevalere alle
ricche e indipendenti colonie greche: quando poi Amilcare di Magone
fu sbaragliato da Gelone re di Siracusa (pag. 241), i Cartaginesi
penarono a difendere le colonie e gli acquisti. E per settant’anni
la storia sicula più non fa menzione di loro; poi si riaffacciano
poco prima della tirannia di Dionigi il Vecchio, quando ajutarono
Segesta contro Selinunte, ed occuparono altre terre. Esso Dionigi e
Agatocle, cupidi di unire tutta l’isola, mossero ad essi guerra: pure
i Cartaginesi vi tennero sempre un piede; e la loro perseveranza,
l’inesauribile forza dell’oro, e le irrequietudini perpetue di Siracusa
gli avrebbero anche fatti signori di tutta Sicilia, se avessero
posseduto un valente generale. Combattuto con alterna fortuna, nella
pace del 383 s’ebbero assicurato un terzo di quell’isola.
[FORZE E CONQUISTE]
Fra ciò Cartagine spiegava e cresceva le proprie forze nelle lotte
cogli Etruschi, coi Greci, coi Marsigliesi, poi coi Romani, e fa
meraviglia come prontamente si rifacesse delle perdite. Da prima usava
solo triremi, poi le ingrandì al tempo d’Alessandro; nella guerra coi
Romani n’ebbe di cinque e di sette ordini, colle poppe ornate de’ suoi
Dei marittimi, Poseidon, Tritone, i Cabiri. Una quinquereme portava
cenventi soldati e trecento marinaj; al remo gli schiavi; prestissima
ne’ volteggiamenti. Al persiano Serse somministrò fin duemila navi
lunghe e tremila di carico per osteggiare la Grecia. Gli ammiragli però
non operavano di pieno arbitrio, ma dipendevano dai generali di terra
nelle imprese che voleano concerto, se no dal senato; e le vittorie
erano occasione di pubblici tripudj, di pubblico gemito le sconfitte.
La cavalleria, perchè costosa, era formata di nobili Cartaginesi, i
quali portavano un anello per ogni spedizione fatta: v’avea pure una
legione sacra di cittadini riccamente in arnese. Il servizio di terra
affidavasi per lo più a mercenarj d’ogni nazione; e sapendo a punto
quanto costasse un soldato greco, quanto un africano, un campano,
un gallo, mettevano in bilancio il costo di un esercito col frutto
che verrebbe da una conquista: al fine della campagna riscattavano i
prigionieri, e le spese si pareggiavano colle estorsioni fatte ne’
paesi acquistati. Questa turba ragunaticcia, combattendo fuor del
paese natìo e contro gente più povera, non era allettata a disertare;
e la diversità di favella e di religione impediva che vi si formassero
minacciosi accordi. Ma ne scapitava la disciplina; penoso era il
trasportarli per mare; a fronte di truppe disciplinate e nazionali,
trovavansi mancare di quel coraggio, che si fonda sul patriotismo e sul
sentimento dell’importanza individuale.
[509]
[348]
Coi Romani erasi Cartagine incontrata nei mari, fin quando essi,
potenti sotto i re, stavano a capo della lega Latina, ed emulavano
gli Etruschi: e l’anno della cacciata de’ Tarquinj conchiuse un
trattato, pel quale i Romani si obbligavano a non navigare nè essi nè
i loro alleati di là dal capo Bon; però i mercadanti loro approdando
a Cartagine, sarebbero immuni da balzelli; le vendite avrebbero
pubblica fede; otterrebbero giustizia ne’ paesi siculi, sottomessi ai
Cartaginesi; questi non recherebbero danno ai popoli d’Anzio, Ardea,
Laurento, Circei, Terracina, o a qualunque latino di loro dipendenza,
nè torto alle città libere; non fabbricherebbero fortezze in paesi
de’ Latini, e se vi entrassero armati, non vi pernotterebbero. In
un secondo trattato vi furono inchiusi i popoli di Tiro, d’Utica e
i loro alleati: «i Cartaginesi, se prenderanno qualche città latina
non dipendente da Roma, la cederanno a questi, serbandosi l’oro e
i prigionieri: se facciano prigionieri sopra un popolo in pace con
Roma, ma non sottomesso, non lasceranno che entrino ne’ porti romani;
entrandovi, se un cittadino li tocchi, diverranno liberi; altrettanto
si adoprerà dai Romani, che non fabbricheranno città in Africa e in
Sardegna; potranno però vendere e comprare nelle terre cartaginesi
al par de’ cittadini, e così viceversa quei di Cartagine». Questi
trattati confermaronsi giurando i Cartaginesi pe’ loro Dei, i Romani
per la pietra (διὰ λίθον), simbolo primitivo di Giove; cioè, tenendo
una pietra in mano, uno diceva:—Se giuro il vero, ogni cosa mi
accada prospera; se penso diverso da quel che giuro, gli altri godano
la patria, le leggi, i beni, la religione, le tombe, ed io solo sia
respinto come ora fo con questo sasso»; e lo lanciava.
I quali documenti preziosi[249], che sono il più antico testimonio
della repubblica romana, basterebbero a convincere di falso la comune
degli scrittori che, duranti i re, ci presentano come ancora in fasce
quella Roma che qui ci appare qual potenza marittima, e signora
d’alcuni, protettrice degli altri popoli latini.
[RELAZIONE DI CARTAGINE CON ROMA]
[278]
Niuno però s’affretti a conchiudere che Roma avesse legni grossi,
giacchè gli Stati barbareschi, che su quel lembo d’Africa sgomentarono
fin jeri anche le maggiori potenze europee, non adopravano navi di
linea: Roma poi stipulava forse come capitana della federazione latina,
cioè di popoli provvisti di marina, benchè essa ne mancasse; e se pur
l’ebbe, dovette lasciarla deperire, talchè n’era sguarnita tre secoli
più tardi. In fatto quando Pirro invase la Sicilia, Roma e Cartagine
stipularono che nessuna patteggerebbe coll’Epiroto senza concorso
dell’altra; Cartagine _in caso di bisogno_ somministrerebbe navi, ma
non imbarcherebbe senza consenso di Roma. Credendo caso di bisogno
il cacciar Pirro quando minacciava Roma, i Cartaginesi mandarono ad
Ostia trenta galee; ma i Romani ringraziando le rinviarono, temendo
portassero via schiavi e spoglie italiane.
[PRIMA GUERRA PUNICA]
[269]
Intente ognuna ad escludere l’altra da’ suoi territorj, le due
repubbliche trattavano da pari a pari; che se Roma sentiva la
preponderanza d’uno Stato guerresco sopra uno trafficante, Cartagine
aveva tesori per comprare truppe quante volesse, oltre la indisputata
prevalenza sul mare. Sarebbero dunque potute ciascuna seguitare la
propria strada senza venire a cozzo; ma a guastarle offrì ragioni la
Sicilia, secondo avea predetto Pirro. Di quell’isola, agitata ora dalla
tirannide di despoti, ora dalla tirannide della libertà, spartivansi
allora il dominio i Cartaginesi, i Siracusani del re Gerone II, cui
obbedivano anche Leontini, Acre, Megara, Elori, Taormina, e i Mamertini
ricoverati al Peloro. Questi ultimi erano stati sconfitti e ridotti
all’estremità da esso Gerone; nè più serbando che Messina, risolsero di
cedergliela: ma quand’egli s’avanzava per occuparla, Annibale generale
dei Cartaginesi il tenne a bada, e intanto spedì ad invadere la città.
Posti fra due fuochi, i Mamertini, siccome Campani che erano, volsero
gli occhi all’Italia, e chiesero ajuti a Roma.
[264]
Gli onest’uomini dissuadevano i Romani dall’ingiusta intervenzione,
e dal sostenere a Messina quei Mamertini, di cui la perfidia aveano
punita a Reggio; ai politici invece arrideva quest’occasione di fare
acquisti, e di mortificare Cartagine: il senato ricusò, il popolo
volle, e preponderando già la democrazia, fu risolta la spedizione.
Anche i Mamertini già n’erano pentiti; ma il console Appio Claudio
Caudice, figlio del Cieco, imbarcò le legioni su vascelli della Magna
Grecia o su zatte. La flotta cartaginese e una tempesta disperdono
l’armamento; e Annone, ammiraglio della casa di Magone, tenta ridestare
l’onoratezza romana col rinviare i vascelli presi, movendo insieme
querela dei patti violati, e professando che Cartagine non lascerebbe
mai Roma impadronirsi dello Stretto. Ma Appio Claudio si ostina
all’impresa; eludendo la vigilanza dei Cartaginesi, su navi della
Magna Grecia si tragitta; sbarcato, vince Gerone così presto, che
questo confessa non avere tampoco avuto tempo di vederlo. Esso re,
comprendendo quanto dell’amicizia d’un popolo senza navi gli tornasse
miglior conto che di quella de’ Cartaginesi, restituì i prigionieri,
pagò le spese della guerra, e strinse e serbò fedelmente alleanza coi
Romani. I quali, violando il diritto pubblico, occuparono il porto
di Messina, e sotto finta di parlamento arrestarono Annone, che per
riscattarsi fu obbligato a farne uscire la guarnigione.
[263]
Ai Romani allora brillò la possibilità di snidare i Cartaginesi
dall’isola; e mandatovi i due nuovi consoli con quattro legioni, in
meno di diciotto mesi ebbero prese sessantasette piazze e fortezze e
la grande Agrigento, difesa da due eserciti di cinquantamila uomini,
comprati dalla Spagna, dalla Gallia, dalla Liguria. Come dovette starne
la Sicilia, corsa da tante truppe, e dove la guerra esercitavasi
con tale inumanità! Nella sola Agrigento, la cui espugnazione costò
ventimila vite ai Romani, questi vendettero venticinquemila liberi:
Annone, non potendo ottenere che i nemici gli rendessero la carpita
Messina, avea fatto passar per le spade quanti Italiani servivano sotto
le sue bandiere: Amilcare, udendo i Galli da lui assoldati mormorare,
gl’invia a metter a sacco Antella, ma di nascosto ne dà avviso ai
Romani, che gli appostano e trucidano; scelleraggine che gli antichi
encomiarono come bella trovata di guerra. Di simil genere stratagemma
avea usato re Gerone: mal volentieri soffrendo gli stranieri inquieti
arrolati fra le sue truppe, quando aveva ad assaltare i Mamertini,
divise l’esercito in due, i Siracusani distinti dagli assoldati; a capo
dei primi mosse l’attacco, lasciando gli altri esposti ai Mamertini,
che li fecero a pezzi[250]. Così continuo traspare negli antichi il
disprezzo della vita dell’uomo!
Ai Romani fu ben tosto chiaro che non potrebbero acquistare nè
conservare la Sicilia, e schermir la costa e le città dalla flotta
cartaginese, senza una marina. Una galea cartaginese naufragata offerse
loro il modello, legnami l’Appennino, perseveranza la natura loro:
in sessanta giorni ebbero costruiti centrenta vascelli, ben presto
esercitata la ciurma; e per elidere l’esperienza dei nemici inventarono
i corvi, certi ponti che dall’albero di prua violentemente calando
sulla nave nemica, vi si conficcavano con branche e arpioni di ferro,
e la attaccavano alla romana, in modo da ridurre il combattimento a
duelli, siccome in terraferma.
[DUILLIO]
[260]
Così racconta la storia miracolaja, ma è più probabile che di navi
li provvedesse Gerone II, potente sul mare. Comunque sia, il console
Duillio Nepote riportò presso Lipari la prima vittoria marittima;
cinquanta legni nemici presi o colati a fondo, tremila uomini uccisi,
settemila prigioni: in memoria del quale successo fu eretta a Duillio
una colonna ornata di rostri, e concesso per tutta la vita che la sera
fosse ricondotto a casa coi fanali a suon di trombe. La fortuna durò
prospera negli anni susseguenti, prendendosi Lipari e Malta, poi la
Corsica e la Sardegna.
Annibale, comandante alla spedizione cartaginese, riconducendo in
patria le misere reliquie della flotta, dopo perduto sin la capitana,
sentivasi sovrastare la punizione che Cartagine soleva infliggere
agli sconfitti; onde spedì innanzi un messo che al senato espose:—Il
console romano guida una flotta numerosa, ma di vascelli goffamente
costrutti, e con certe macchine mai più vedute. Annibale vi domanda se
deve dargli battaglia.—La dia (risposero i governanti ad una voce),
e punisca i Romani dell’averci assaliti nel nostro elemento». Allora
il messo:—La diede, argomentando egli pure come voi, e fu vinto». Ciò
valse l’assoluzione dell’ammiraglio sfortunato.
[ATTILIO REGOLO]
[256]
[255]
Già Agatocle avea mostrato come Cartagine si trovasse mal provveduta
contro chi l’assalisse sul proprio terreno, ove le colonie oppresse o
le città rivali ajutavano chiunque la minacciasse. Roma dunque decretò
uno sbarco in Africa, sebbene il console Marco Attilio Regolo fosse
costretto ricorrere a minaccie e punizioni per indurre i soldati a
quel che loro pareva troppo lungo tragitto, e spaventevole pei mostri
che diceasi popolassero le arene libiche: e sebbene i tanti Italiani,
che Roma obbligava al remo sulle sue galere, macchinassero insieme
cogli schiavi una sollevazione, che solo il tradimento sventò[251],
Regolo con quarantamila uomini montati su trecento trenta galee
sbaragliò ad Ecnomo la flotta cartaginese di trecencinquanta galee con
cencinquantamila uomini, e sbarcato in Africa, ebbe presto assoggettate
ducento città, e fin Tunisi, forte per posizione e per mura, dove pose
il quartier generale. Cartagine, folta di gente fuggita dalla campagna,
e vedendo le aquile romane piantate fin sugli spaldi della vicina
Tripoli, chiedeva pace, e Regolo avrebbe potuto dettarla qual Roma
la conchiuse dopo tredici altri anni di guerra e centomila morti; ma
geloso di non lasciare altrui la gloria di un’impresa da sè cominciata,
rispose, allora solo sospenderebbe le armi quando più non rimanesse
loro un vascello sul mare. Arroganza indegna di buon capitano, dalla
quale ridotti a disperazione, i Cartaginesi chiamarono al comando uno
straniero, Santippo di Sparta. Costui conobbe che l’inferiorità non
veniva da fiacchezza dei Cartaginesi o da valore dei Romani, bensì dal
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