Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 12

moltiplicavano e rinvigorivano. Un pugno di prodi o di avventurieri
senza donne, non potea che mescolarsi coi vinti, insegnarli, alterarne
forse ma non cangiarne la lingua e i costumi, salvo a quella società,
la quale, secondo l’indole delle costituzioni antiche, sovrapponeasi
alla plebe, e da questa tenevasi in tutto sceverata. In segno della
nuova coltura il paese si popolava di tempj alle greche divinità;
come quello di Nettuno a Taranto, di Proserpina a Locri, di Minerva a
Metaponto, di Giunone sul promontorio Lacinio, di Ercole a Crotone, i
riti del quale erano riservati alla famiglia de’ Lampriadi.
I coloni trasportavano con sè la costituzione patria, onde la
democrazia prevalse nelle joniche, di cui tipo era Atene; nelle doriche
invece, di cui era tipo Sparta, l’aristocrazia restringeva l’esercizio
della sovranità e le magistrature in alcune famiglie, od in una classe
nella quale si entrava pel censo. Il fatto stesso però della migrazione
faceva propendere a democrazia, giacchè gli aristocrati non attaccavano
al suolo memorie di dominio e, come avviene, sempre scemavano di
numero, mentre i popolani crescevano col commercio e colle ricchezze.
Se però aveano condotto famigli e clienti, conservavano sopra di questi
l’antico diritto. Quando altri Greci sopraggiungessero, non restavano
ammessi all’eguaglianza di diritti (ἰσοπολιτεία), e così formavasi
un’aristocrazia nuova, quella degli originarj, dotata di privilegi
sugli avveniticci. Fra queste differenti classi non tardavano a
proromper liti, e coll’ajuto degli schiavi, cioè degl’indigeni ridotti
a servitù, gli aristocratici erano espulsi di città e l’amministrazione
tolta alle famiglie per attribuirla ai capi di arti: rivoluzioni
operate con molto sangue, e che trapelano dagli scarsissimi documenti,
e ancor più dall’indole perpetua di società siffatte, comprovata anche
dall’esempio delle nostre repubbliche del medioevo. Altre volte qualche
oligarco associavasi col plebeo o coi vinti, oppure si ergeva arbitro
fra i poveri e i ricchi, e per tal via diventava tiranno.
[CUMA]
[1300?]
[315]
I Calcidesi dell’isola d’Eubea, che oggi chiamiamo Negroponte, schiatta
jonica, si posero nell’isola Pitecusa e nelle vicine, donde passarono a
settentrione del File nel territorio degli Opici a fondar Cuma, avanti
la distruzione di Troja, o almeno prima d’ogn’altra città grecanica.
Questa si ampliò per commercio marittimo, tenne testa agli Etruschi, e
fondò Napoli e Zancle, destinate a sopravviverle. Alla sua aristocrazia
temperata diè crollo il prode Aristodemo, che amicatosi l’esercito
colle vittorie sopra gli Etruschi, fece trucidare gli ottimati,
costrinse le vedove a sposarne gli assassini, e fomentò l’inclinazione
dei Cumani alla voluttà ordinando che i figliuoli si allevassero in
femminile mollezza, sapendo ch’è agevole tiranneggiare gente corrotta.
Ucciso lui, Cuma fu rimessa in istato, e continuò spedizioni lontane e
guerre coi vicini, fin quando cadde in signoria de’ Romani, rimanendo
pur sempre importante pel suo porto di Pozzuoli.
[REGGIO]
[723]
[300]
[271]
Dagli stessi Calcidesi dell’Eubea uniti a quei di Sicilia erasi
anticamente colonizzata Reggio all’estremo vertice d’Italia. Sottratta
agli Aurunci, fu governata aristocraticamente da mille, scelti tra le
famiglie messenie quivi accasate coi primi abitatori. Coll’estinguersi
delle case, restò il governo a pochi; per mezzo della quale oligarchia
Anassila si pose tiranno, e trasmise il potere a’ suoi figliuoli.
Cacciati dopo pochi anni, lasciarono una scarmigliata anarchia, a cui
si riparò adottando le leggi di Caronda, colle quali Reggio si mantenne
in pace. Struggeasi di dominarla Dionigi il Vecchio di Siracusa, ma
essi ne aborrivano a segno, che avendo egli chiesto una sposa di
qualche famiglia di Reggini, gli fu esibita la figliuola del boja[202].
Allora egli, ricorso alla forza, prese e saccheggiò la città. La
risarcì poi Dionigi il Giovane; ma più tardi una legione romana ivi
aquartierata vi si gettò sopra, e ne trucidò gli abitami. Roma punì nel
capo que’ soldati, ma non per questo restituì a Reggio la libertà.
[PESTO]
[510]
Di Posidonia, fondata dai Sibariti nel golfo di Salerno e chiamata
Pesto dai Romani, verun altro monumento abbiamo che splendidi avanzi
e memoria delle rose che vi fiorivano due volte l’anno. Era costruita
in un quadrato del giro di cinque miglia sopra terreno pianeggiante,
con mura a secco e molte torri e quattro porte una rimpetto all’altra.
Distrutta dai Saracini, rimase dimentica tra una foresta di spontanea
vegetazione, fin quando nel secolo passato alcuni cacciatori ne
indicarono le ruine, che traggono continuamente i curiosi ad ammirarle
fra una contrada oggi mestamente sterile ed insalubre. Consistono
queste in due tempj, di cui l’antichissimo di Nettuno è dei meglio
conservati: sopra tre gradini elevasi un peristilio di sei colonne
doriche di fronte e quattordici di lato, scanalate, senza base, alte
appena cinque diametri, e poco più d’uno d’intercolunnio, lo che fa
supporle anteriori al tempo che i Greci diedero leggerezza anche
all’ordine dorico. Il tempietto di Cerere, più recente, ha colonne più
snelle e meno rastremate. Sopravanza pure una stoa con nove colonne
sul lato esterno minore e diciotto sul maggiore, e un colonnato nel
giro interno. Anche dopo caduti in servitù, i Pestani continuarono
lungo tempo, in un dato giorno, ad assumere le vesti e gli usi greci, e
celebrar la commemorazione de’ tempi di loro indipendenza.
[METAPONTO]
[1260?]
Di Metaponto, una delle più segnalate colonie nel seno di Táranto,
sappiamo poc’altro, se non che i seguaci di Néstore, tornando dalla
guerra trojana, la fabbricarono; la crebbero Achei e Sibariti; Annibale
cartaginese ne costrinse gli abitanti a migrare nel Bruzio; al fine
la crescente insalubrità dei piani marittimi la spopolò, come fece di
Pesto e delle vicine colonie sull’altro littorale. Plinio vi ricorda un
tempio di Giunone, con colonne fatte di tronco di vite; e quelle che
ancor si chiamano la chiesa di Sansone e la tavola dei Paladini sono
reliquie di due tempj antichi, d’architettura policromatica.
[LOCRESI EPIZEFIRJ]
[683]
[356]
Durante una lunga guerra, le femmine dei Locresi Ozolj s’erano
mescolate cogli schiavi; onde al tornare dei mariti, paventando
il castigo, fuggirono e piantaronsi coi figli nel ridente paese
all’estremità dell’Appennino, formando la colonia de’ Locresi
Epizefirj. Arrivando, giurarono ai Siculi:—Finchè calcheremo questa
terra, e porteremo questi capi sulle spalle, possederemo il paese
in comune con voi»; ma eransi posta della terra nelle scarpe, e
capi d’aglio sulle spalle; scossi i quali, si credettero sciolti
dall’obbligazione, e arrogaronsi il primato sovra i natii. Ebbero
battaglie coi Crotoniati per gelosia; ed assaliti da questi in
casa propria, vinsero alla Sagra una battaglia con forze tanto
sproporzionate, che la fama, divulgandola anche in Grecia, l’attribuiva
a intervento de’ semidei Castore e Polluce, i quali dagli antichi
credeansi vedere ne’ fuochi fatui, vaganti sul mare. D’un’altra
vittoria sui Crotoniati fu dato merito ad Ajace, eroe greco della
guerra trojana, il cui spettro si diceva combattesse pei Locresi.
Dalle cento famiglie dominanti si cernivano un cosmopoli, magistrato
supremo, e mille senatori con autorità legislativa: alcuni ispettori
vigilavano che le leggi non fossero violate. Se non grandigia
di ricchezze, Locri ebbe lode di corretti costumi e di pacifica
inclinazione, fin quando Dionigi II, espulso da Siracusa, venuto a
cercarvi asilo, introdusse d’ogni maniera disordini. Locri però si
tenne indipendente fino ai tempi di Pirro.
[LOCRI. TARANTO]
[707]
[272]
Messene nel Peloponneso maneggiò sì lunga guerra con Sparta, che
i magistrati spartani, temendo non finisse la razza nell’assenza
de’ mariti, autorizzarono le donne a farsi fecondare da schiavi.
I figliuoli nati da questo adulterio legale, col nome di Partenj
migrarono al tornar de’ mariti delle madri, e istituirono la colonia di
Taranto nel golfo dell’estrema Italia che guarda alla lor patria, con
porto eccellente in costa inospita. Cominciarono, come gli altri coloni
siffatti, a uccider gli uomini del paese invaso, sposarne le donne;
poi dandosi ordinamento e leggi, domarono i Messapi, i Lucani ed altri
popoli del contorno, e divennero una delle primarie potenze marittime
fra il V e il IV secolo avanti Cristo, potendo armare ventimila fanti
e duemila cavalli: ebbero fabbriche e tintorie di panni, industria
tanto favorevole alla popolazione; e sebbene corrotti dall’opulenza,
serbarono anch’essi l’autonomia fino a Pirro. Dalla città patria
avevano recato il culto di Apollo Giacintio e il governo aristocratico
temperato; ma dopo che, nella guerra contro i Messapi, perirono i
nobili, si piegò a moderata democrazia. I magistrati si eleggevano metà
a sorte, gli altri a pluralità di voci; nè senza il consenso del senato
si dichiarava guerra. Ammetteansi alla cittadinanza non Greci soltanto,
ma anche indigeni, talchè i molti elementi italici ravvicinavano
Taranto all’Italia più che alla Magna Grecia. Quell’angolo meglio
d’ogni altro della terra arrideva al poeta Orazio[203] per naturali
bellezze e tepido spiro: gli cresceano pregio fumosi vini, generosi
puledri, finissime lane.
[SIBARI]
[725]
[550]
[510]
Achei, uniti co’ Locresi, fondarono Sibari; la malsana pianura fra
il Crati e il Sibari emendarono con canali, divenuti comodità e
abbellimento, e che ora negletti, tornarono pestilente quel paese. A
taccia della sua mollezza, è vulgatissimo che i cittadini solevano fare
gl’inviti un anno prima, onde mettere a contributo l’aria, l’acqua e
la terra, e preparare vesti gemmate; ai convitati porgevasi per norma
la lista sì delle persone, sì delle vivande: mestieri rumorosi non
doveano turbare i sonni o i silenziosi piaceri; sbandivansi perfino
i vigili galli: un Sibarito non si potè addormentare per esserglisi
piegata sotto una foglia di rosa; un altro prese la febbre al vedere
un contadino affaticarsi. Diffamazioni forse fuor di proposito, certo
fuor di misura; dalle quali solo raccogliamo la grande ricchezza venuta
al paese dal commercio che faceva con Cartagine, massime di vini e
d’olj. Quest’agiatezza, il suolo ferace, la facilità di concedere la
cittadinanza, moltiplicarono i Sibariti a segno, che, se crediamo a
Strabone, potevano armare trecentomila uomini[204]. Dominavano sopra
sette genti limitrofe e venticinque città; governavansi a democrazia
temperata, fino a che Teli se ne fece tiranno, cacciando cinquecento
primarj cittadini. Questi ricoverarono nella vicina Crotone, donde
furono spediti messi a Sibari per praticarne il richiamo: ma Sibari
trucidò gli inviati, onde Crotone assalse l’emula con centomila
guerrieri, e la sfasciò.
[TURIO]
[441]
[286]
Sulle rovine di Sibari fu stabilita la città di Turio, con tanta
mescolanza di popoli, che si disputò quali avessero a tenersene
i fondatori: del che interrogato, l’oracolo la dichiarò colonia
d’Apollo. L’origine stessa vi produceva la democrazia; ma gli antichi
Sibariti usurpando le migliori terre e l’autorità, restrinsero il
governo in pochi. Ne furono poi espulsi; nuove genti sopravvennero
di Grecia, e presero leggi da Caronda. I Lucani, perpetui nemici, li
vinsero, nè cessarono di molestarli finchè non si posero in protezione
dei Romani. Di quest’atto si tennero offesi i Tarantini, che gli
assalsero e sconfissero: più tardi i Romani ridussero Turio a colonia.
[ERACLEA]
[433]
[272]
La città d’Eraclea, posta dai Tarantini sulle rive dell’Aciri presso
Metaponto, ci tramandò nelle famose Tavole un documento del suo
governo; donde appare che v’avea culto principale il dio da cui traeva
nome, poi Bacco e Pallade, le cui effigie appajono nelle bellissime
sue monete. Efori annui reggeano la repubblica, e polianomi o prefetti
della città; un segretario, un geometra ed altri minori uffiziali
attendeano all’amministrazione: il popolo divideasi in molte tribù,
ciascuna con insegne particolari, e in assemblea comune risolveano de’
comuni interessi. I Romani la soggiogarono l’anno stesso della presa di
Taranto.
[CROTONE]
[735]
Miscello ed Archia condussero una colonia achea a Crotone, la quale
crebbe a sì subita potenza che, nel primo secolo d’esistenza sua, armò
contro di Locri cenventimila uomini; e benchè sconfitta, con quasi
altrettanti la vedemmo assalire e distruggere Sibari. La città misurava
il perimetro di dodici miglia; con un senato di trecento o di mille
membri[205]; bella, illustre, ricca, saluberrima, beata la predicano
gli antichi, e diceasi non vi fosse mai gittata la peste.
Parte suprema nell’antica educazione tenea la ginnastica e sfoggio se
ne faceva in feste solenni, celebrate a tempi prefissi; principalmente
ne’ giuochi olimpici, pei quali ogni quattro anni i Greci concorrevano
in Elide ove assistere alle gare di lotta, di corsa, di tiro, e insieme
udir recitare tragedie, odi, pezzi di storia. Sibari, nel maggior suo
fiore, meditava di rapire quest’affluenza ad Elide, coll’istituire
giuochi più splendidi e di premj più appetiti. Agli olimpici, ben
tredici volte in ventisei olimpiadi riportarono il gran premio gli
atleti di Crotone, così rinomati che correva in proverbio, l’ultimo
dei Crotoniati valere quanto il primo dei Greci[206]. L’atleta Milone
combattè un toro, e levatoselo di peso sulle spalle, il recò in giro
per tutto lo stadio, poi ammazzatolo d’un pugno, in un giorno lo
mangiò; rovinando il tetto d’una scuola, egli il sorresse col dorso
finchè tutti camparono; alfine volendo squarciare un tronco, restò
colle mani prese nello spacco, e quivi fu divorato dai lupi.
Anche per bellezza erano insigni i Crotoniati: a un tal Filippo, come
al bellissimo dell’età sua, gli Egestani, tuttochè nemici, resero dopo
morte un culto divino; e il gran pittore Zeusi, dal vedere i garzoni
lottanti nel ginnasio, argomentò quanta dovess’essere la leggiadrìa
delle loro sorelle, e le scelse per modello di quella Venere, che fu
tenuta il capolavoro dell’antichità.
Alla democrazia temperata di Crotone diede origine Pitagora. A costui
tutte le città della Magna Grecia attribuivano il merito delle loro
costituzioni, ond’è difficile lo sceverare in esso il personaggio vero
dall’ideale, a cui, come a tipo de’ primi filosofi civili, si ascrivono
le invenzioni più disparate e le più dissonanti avventure. Non è
paese del mondo ove non abbia egli viaggiato; dimostrò il teorema del
quadrato dell’ipotenusa; diede la prima teorica degl’isoperimetri dei
corpi regolari, gli elementi delle matematiche, l’algoritmo, del quale
ancora non si conosce il senso; trovò i ragguagli fra la lunghezza
della corda armonica e i suoni che n’escono; insegnò che l’acqua si
converte in aria e d’aria torna in acqua; sostenne essere opaca la
luna, identica la stella del mattino con quella della sera, sferico il
sole; per armonia de’ corpi celesti intendeva probabilmente i rapporti
delle loro masse e delle distanze; indicò il vero sistema mondiale,
cioè l’obliquità dell’eclittica e la versatilità della terra, con equa
distribuzione di luce, di ombre, di calore sull’intera superficie,
tutta perciò abitabile; e conoscendo che due opposte forze impresse
nei corpi celesti li spingono per un’orbita, anticipò di tanti secoli
quell’attrazione newtoniana che Herschel considera come la verità più
universale cui sia pervenuta l’umana ragione[207].
[PITAGORA]
[540]
Nell’assoluta deficienza di documenti, e perduta la chiave del
linguaggio matematico e de’ simboli in cui i Pitagorici avvolgevano
la loro dottrina, come asserire qual sia e quanta la verità intorno
a ciò che si racconta di quegli insegnamenti? Sembra che il vero
Pitagora nascesse a Samo d’Italia nel 584, viaggiasse l’Asia, l’Egitto,
forse l’India, a Crotone aprisse una scuola, la quale proponevasi
di perfezionare i sentimenti, non solo religiosi e morali, ma anche
politici: ond’egli ci si manifesta in triplice aspetto, filosofante,
fondatore d’una società, e legislatore. Come filosofo sta in mezzo fra
l’Oriente e l’Occidente, non abolendo i miti in cui quello avvolgeva
le dottrine, eppure accettando la realità e il ragionamento di questo;
traendo la scienza dagli arcani del santuario, ma avviluppandola nei
simboli di una società secreta; togliendola dall’essere sacerdotale,
ma conservandola aristocratica; repudiando le favole vulgari che
degradavano la verità, ma non osando porgere nella nuda semplicità i
sublimi concetti che egli aveva intorno a Dio e alle relazioni sue
coll’uomo e col mondo.
[DOTTRINA PITAGORICA]
Per quanto si può scoprire di sotto alle espressioni ora mitiche ora
aritmetiche, egli fissavasi in un idealismo puro, ma accessibile
al senso comune. Ogni bene ha fondamento nell’unità che è Dio, e
nell’ordine, nell’armonia, nella proporzione, che sono l’unità
manifestata nelle cose, applicata al governo dell’universo. Ogni
male nasce dalla dualità, ossia dalla dissonanza e sproporzione, e
dalla materia che è il complesso di queste qualità rese sensibili.
Cominciamento reale e materiale di tutte le cose è l’unità assoluta
(monade), da cui derivano la limitazione dell’imperfetto, la dualità e
l’indefinito. Lo svolgimento della creazione tende appunto a svincolare
gli spiriti dalla dualità, cioè dalla materia, il che si ottiene
rimovendo la falsa scienza del variabile, per attingere alla scienza
vera dell’ente immutabile, e imparando a ricondurre la moltiplicità
delle cose all’unità del principio.
Asserì l’immortalità dell’anima, e non è accertato che la scombujasse
col dogma della metempsicosi. Pare ancora distinguesse il sentimento
dall’intelligenza: quello sorgente de’ desiderj e delle passioni,
questa moderatrice de’ pensieri e degli atti, ed emanazione dell’anima
del mondo. Pronunziò non esser possibile il conoscere veruna cosa, se
non a condizione che preesistano enti intelligibili, i quali siano
semplici ed immutabili; e poichè tali condizioni di unità-eternità non
s’avverano nè rispetto al mondo materiale, nè allo spirito umano, uopo
è ricorrere all’_idea_, che sola rende possibile il conoscere.
La morale di Pitagora avea per fondamento la retribuzione eguale e
reciproca, l’equità (ἀριθμὸς ἰσάκις ἴσος), che è un’armonia tra le
azioni dell’uomo e l’universo; essendo virtuoso l’uomo le cui azioni
rimangano sottoposte all’intelligenza e in armonia con essa. _Dire il
vero e fare il bene_[208] è il suo precetto cardinale. Le virtù sono
vie per arrivare all’amore: profonda verità, che discerne le due parti
della morale, una di mera giustizia, l’altra di carità operosa.
Negli antichi, dove il metodo esiste appena e l’immaginazione prevale,
mal si presumerebbe di comprendere tutto e tutto concatenare, e basta
afferrare il principio generale, da cui è animata la dottrina. Tale in
Pitagora è la matematica, derivando da considerazioni sopra i numeri
e le figure; riconducendo a rapporti numerici l’armonia e la bellezza
delle cose; abbracciando la musica, perchè gli accordi son numeri;
numeri i corpi, formati di unità; ogni cosa è composta di numeri, o sul
tipo numerico fu creata. Il mondo è un tutto armonicamente disposto,
sicchè dieci grandi corpi si muovono attorno a un centro che è il
sole; per via delle stelle gli uomini tengono qualche parentela colla
divinità, fra la quale e noi stanno i dèmoni, dei quali è la grande
potenza ne’ sogni e nelle divinazioni.
La natura e il linguaggio erano per lui segni sensibili d’un ideale
invisibile, che all’anima si rivelava per via dell’ordine fisico. E di
simboli faceano grand’uso i suoi seguaci; per segno di riconoscimento
adopravano il triplo triangolo che ne forma cinque altri, ed il
pentagono; diceano, «Non sedere sul moggio» per indicare di non
introdurre le cure della vita animale nel dominio dello spirito; «Non
portare al dito le immagini degli Dei», cioè non divulgare la scienza
divina[209].
Due arti principalmente raccomandava Pitagora: la ginnastica e la
musica. Per la prima vogliamo intendere l’igiene, che è una grande
scienza negli Stati, una grande prudenza negl’individui. La musica
crediamo comprendesse tutta la letteratura; laonde Damone[210] diceva
non potersi toccar le regole di essa senza scassinare le leggi dello
Stato: il che possiamo asserire anche oggi della letteratura.
[PARALLELO COLLA JONICA]
Quest’altezza di vedere discerne fondamentalmente la filosofia italica
dalla jonica. La prima tolse per canone la tradizione del genere umano,
la seconda la speculazione individuale e indipendente: l’italica vide
ch’era necessario dedurre le cose da un principio solo per costituire
l’unità della scienza, e subordinando i sensi allo spirito, distinse le
sensazioni, corrispondenti all’ordine variabile, dalle idee che hanno
per oggetto l’invariabile; la jonica invece non si affida che alla
sperienza. Quella pertanto segue l’analisi, partendo dal tutto e colla
decomposizione venendo alle parti onde risalire al tutto, oggetto delle
sue indagini; questa la sintesi, movendo dalle parti onde ritornare al
tutto colla composizione, sebbene nell’infinita via si smarrisca, e
riducasi sempre alle parti, unico scopo di sua attenzione. Mentre la
scuola jonica ammetteva un principio materiale e dimenticava il morale
intento, i Pitagorici mantenevano il principio incorporeo, curavansi
della moralità, e cercavano le leggi e l’armonia dei principj mondiali
secondo una morale determinazione del male e del bene; nelle forme più
dogmatici che dialettici, nello stile chiari e di semplicità grandiosa.
Gli Italici prendevano dunque le mosse da Dio, gli Jonici dalla natura;
quelli procedevano nelle pure regioni dello spirito, questi perdeansi
in vani sforzi affine di svilupparsi dalla materia. Nella scuola di
Talete, essenzialmente indagatrice e sagace, lodevole era l’esercizio
attivo e libero dell’umana ragione: la pitagorica invece, gelosa
di conservare le dottrine all’uomo rivelate da lassù, meno ardita
procedeva nell’esame, onde agli scolari bastava per ragione l’averlo
detto il maestro: _Ipse dixit_.
[SOCIETÀ PITAGORICA]
Mentre i sapienti della Grecia filosofavano isolatamente, Pitagora
comprese la potenza d’un’associazione forte e regolare, onde fondò
una vera scuola che conservasse le dottrine positive e tradizionali.
Non molto dissimile dagli Ordini religiosi del medioevo, in essa
all’insegnamento sublime si arrivava con diuturno noviziato e grande
austerità di cibi, di vesti, di sonno, di silenzio, affine di domare i
sensi e colle privazioni invigorir l’anima al meditare. I Pitagorici
ponevano i beni in comune, vestivano di bianchissimo, e coabitavano,
liberi di sbrancarsene quando fossero stanchi. Assai coltivavano la
memoria; fedelissimi alla parola, radi ai giuramenti; parchi alla
venere, se ne astenevano nell’estate; ai sacrifizj dovevano presentarsi
in abiti non isfarzosi ma candidi, e con mente casta. Cominciavano la
giornata con suoni e canti, poi alternavano trattenimenti filosofici,
esercizj ginnastici e doveri di cittadino; la sera indulgevano a pacata
allegria, cantando _versi aurei_; prima d’addormentarsi esaminavano la
propria coscienza. Virtuoso è colui che normeggia la vita a imitazione
di Dio, o si conforma alle leggi della ragione, attesochè la ragione,
sorgente della verità e dell’unità, è la parte divina dell’esser
nostro, e perciò deve comandare; mentre obbedire devono la collera e
la cupidigia, effetti della materia, immagine della dualità. E come
l’armonia nasce dall’accordo dei suoni gravi cogli acuti, così la virtù
nasce dall’accordo delle varie facoltà dell’anima nostra sotto l’impero
della ragione; lo perchè la virtù può dirsi un’armonia.
Pertanto ai sobbalzi illiberali della democrazia preferirono la
posatezza dell’aristocrazia, il dominio cioè non de’ più forti o più
ricchi o più antichi, ma de’ più intelligenti e virtuosi. Tant’è ciò
vero, che la giustizia rappresentavano come l’eguaglianza perfetta,
simboleggiata nel cubo. Parità nell’abnegazione, reciprocità nel
sagrifizio costituivano l’amicizia.
[I PITAGORICI]
Da tutto ciò derivavano stupendi precetti, in parte esposti ne’
Versi Aurei, che si attribuiscono a Liside. «Tra amici ogni cosa è
comune. Non si lasci tramontar il sole sopra un diverbio avuto con
un amico. Gli uomini si trattino come se mai da amici non dovessero
diventar nemici, ma anzi da nemici amici. La donna, debole vittima
strappata all’altare, sia trattata con bontà». Diceano pure, a cinque
cose sole dovrebbesi far guerra: le malattie del corpo, l’ignoranza
dell’intelletto, le passioni degradanti, le sconcordie delle famiglie,
le sedizioni delle città. Forse la morale e la giustizia loro non si
ergeano fino al concetto dell’intera umanità, e rifletteano soltanto ai
consociati, com’era proprio di tutte le istituzioni prima che Cristo
c’insegnasse a invocare tutti insieme il Padre nostro; e ciò potrebbe
dar ragione dell’insita sterilità di questa dottrina, la quale non
influì gran fatto sopra gli atti nè sopra l’insegnamento dell’intera
Grecia.
[TEANO]
Fra’ Pitagorici regnava cordiale amicizia; se alcuno perdesse le
ricchezze, gli altri divideano le proprie con esso; Clinia di Taranto,
udito che Prore da Cirene trovavasi ridotto a miseria, passò in Africa
con larga somma a soccorrerlo, benchè mai non lo avesse veduto; molti
fecero altrettanto; rimase proverbiale l’amicizia di Damone e Pitia.
Anche donne vi appartenevano, e di loro morale spregiudicata ci dà
prova Teano figlia del filosofo, allorchè richiesta quanto tempo una
donna dovesse tardare a presentarsi agli altari dopo essere stata con
un uomo, rispose:—«Se è suo marito, anche subito; se un estraneo,
giammai».
Possiamo dunque vantare che in Italia nascesse la scuola più antica,
come la più insigne di filosofia, giacchè Platone e Aristotele,
sommi splendori della greca, derivano da Pitagora più realmente che
da Socrate. Da essa uscirono sapienti in pressochè tutte le colonie
della Magna Grecia e di Sicilia, quali Filolao ed Aristeo di Crotone,
Ippone di Reggio, Ipparco di Metaponto, Epicarmo di Cos comico, Timeo
di Locri, Ocello di Lucania, Elfante di Siracusa, Archita di Taranto,
Empedocle d’Agrigento.
[ARCHITA]
[440-360]
Archita ebbe molta mano nel reggimento della propria patria, e
capitanando gli eserciti più volte, le assicurò vittoria. Credeva il
miglior governo quello misto di monarchia, aristocrazia e democrazia,
ma il comando convenire a coloro che hanno maggior ingegno e virtù: i
costumi siano custodi delle leggi, le quali puniscano non con multe ma
col disonore: nulla più funesto che la voluttà, donde tradimenti alla
patria, sbrigliate passioni, e rovina degli Stati: nel pericolo di
questi si confidi sul coraggio de’ cittadini, non si ricorra a forza
straniera.
[EMPEDOCLE]
[444-403?]
Empedocle, celebrassimo in ogni tempo, dalla sensibile e dalla
razionale considerazione dell’ente condotto alla contemplazione mistica
delle cose, poeticamente espose la sua dottrina; abbandonandosi
all’entusiasmo, personifica e divinizza tutto, e si fonda sull’ipotesi
di una degenerazione dell’universo, cagionata da un peccato originale;
il mondo poi fa regolato da due principj, amicizia e discordia (φιλία,
νεῖκος), dove alcuno vorrebbe ravvisare l’attrazione e la repulsione
della fisica moderna. La vita di lui tiene al miracoloso: toglie da
lungo letargo una donna, onde si dice abbia resuscitato da morte;
fa chiudere una valle, e così toglie la malsania che i venti etesj
portavano ad Agrigento; le maremme che infestavano Selinunte risana
coll’introdurvi due correnti d’acqua. Fu dunque reputato dio, nè egli
dissipava quest’opinione; anzi cantava:—«Amici che abitate le alture
d’Agrigento, zelanti osservatori della giustizia, salvete. Non uomo io
sono, ma dio. Entro nelle floride città? uomini, donne si prostrano;
il vulgo segue i miei passi; gli uni mi chiedono oracoli, gli altri
un rimedio ai crudi morbi»[211]. Lo studio della storia naturale gli