Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 11

chiamò l’Umbria, presero costumanze e favella al modo de’ vicini.
[I GALLI]
[590?]
[587]
Di là dell’Alpi intanto, sull’immenso spazio da’ Pirenei al Reno
le varie tribù de’ Cimri, parte de’ quali erano i Galli, diverse
per coltura e per indole quantunque d’origine comune, s’agitavano e
combattevano. Molti Galli furono cacciati dalle loro stanze, e una
turba con Sigoveso si drizzò alla selva Ercinia e piantossi nelle alpi
Illiriche; un’altra di Biturigi, Edui, Arverni, Ambarri, col biturige
Belloveso piegò all’Italia. Pel Monginevro sbucata sulle terre dei
Liguri Taurini fra il Po e la Dora, drizzossi verso la nuova Etruria
posta sul Po; e quivi riconosciuti gli avanzi della prima migrazione,
come lieto augurio adottò il nome d’Isombri o Insubri, da quella
conservato.
[580]
I Galli sono distinti fra gli antichi per valore grande e impetuoso,
spirito franco, schiuso a tutte le impressioni, fina intelligenza,
estrema mobilità, repugnanza alla disciplina, ostentazione e vanità,
causa perpetua di disunioni. Della loro politica di qua dell’Alpi
altro indizio non resta che la costruzione di una fortezza in mezzo
al territorio conquistato, chiamata Milano[191], dove unirsi alle
assemblee ed ai sacrifizj. Altri sopraggiunsero col nome di Carnuti,
Aulerchi, Cenomani, guidati da Elitovio[192]; e aggregate coi primi le
loro forze, respinsero gli Etruschi di là dal Po, e fondarono Brescia e
Verona. Una terza orda col nome di Salj, Levi, Libici, irrompendo per
l’alpi Marittime, si assise ad occidente, sulla destra del Ticino.
[358]
Continuando di là dall’Alpi il movimento, anche Cimri proprj le
passarono, quali i Boi, i Lingoni, gli Anamani, che traversate
l’Elvezia e la Transpadana, varcarono l’Eridano[193]. I Lingoni ebbero
il triangolo fra il Po, la Padusa e il mare; gli Anamani, collocati
fra il Taro e la piccola Versa, popolarono Piacenza; i Boi, fra il
Taro e l’Utente (Montone), falla lor sede Fèlsina, la denominarono
Bononia. Ultimi de’ Cimri, i Senoni, respinti gli Umbri sino al fiume
Esi, stanziarono da Ravenna ad Ancona, ove fabbricarono Sena de’ Galli
(Sinigaglia). Così i Galli ebbero occupata la Transpadana, i Cimri la
Cispadana[194]. Parte degli Etruschi, impedita d’unirsi alla nazione
oltre il Po e l’Appennino, ricoverò fra l’Alpi, nel territorio che
dissero Rezia.
Il paese incivilito degli Etruschi fu tornato in selvaggia desolazione
da costoro, a’ quali parea scapito di libertà il chiudersi fra mura; e
di tante città fiorenti, cinque sole camparono, Mantova e Melpo nella
Transpadana, nell’Umbria Ravenna, Butrio, Arimino. Melpo perì non guari
dopo; le altre dovettero con gran cautela orzeggiare fra quei terribili
conquistatori, esercitandosi nel commercio, da questi avuto a vile. I
quali abitavano borghi smurati, senza mobili nè altre comodità della
vita; letto l’erba o la paglia; cibo la cacciagione; unica occupazione
la guerra; trofeo le teste de’ nemici, che pei capelli sospendeano alla
criniera de’ cavalli; ricchezza gli armenti e l’oro perchè si possono
trasportare (POLIBIO).
[GALLI CISALPINI]
Ogni primavera rompeano la pace, e scorrazzavano saccheggiando
dall’Adriatico fin nella Magna Grecia, costeggiando però il mar
Superiore onde evitare i montagnesi dell’Appennino e i robusti figli
del Lazio. Cresciuti di popolazione, vollero spedir fuori una colonia,
e trentamila Galli-Senoni varcarono i monti verso l’Etruria. Gli
Etruschi mandarono interrogandoli:—Perchè venite in paesi, ove i
padri vostri non abitarono?» Ed essi:—Noi cerchiamo posto; cedeteci
il terreno che a voi non serve, e saremo amici». Il sopraggiungere
di questi impedì agli Etruschi di soccorrere i lor fratelli di Vejo,
assediati da Camillo: e certamente le vittorie di Roma furono agevolate
dall’essere la potenza etrusca già scassinata nell’Italia superiore.
[396]
L’inveterata inclinazione degl’Italiani d’invocare nelle fraterne
discordie lo straniero, ci fa poi meno alieni dal credere che gli
Etruschi pensassero dar briga ai Romani coll’istigare contro di essi
i nuovi invasori; che in fatto difilarono sopra Clusio, città alleata
di Roma. E Roma mandò intimar loro si ritirassero; e i tre Fabj
ambasciadori vedendosi inascoltati, passarono nella città assalita,
e si posero a capo degli armati. Parve ai Galli una violazione
del diritto delle genti, laonde irritati, alla guida del Brenno,
come chiamavansi i lor capitani, e ingrossati di nuovi soccorsi,
batterono la marcia contro i Romani, li vinsero al fiumicello Allia,
che dai monti Crustuminj piove nel Tevere, e spogliati i cadaveri e
troncatine i teschi, si volsero sulla città. Côlti da terror panico,
o conoscendosi incapaci di difenderla, i cittadini l’abbandonarono,
sicchè Roma fu ridotta in cenere, scannati i senatori e i sacerdoti,
i quali, proferite le formole del sagrifizio, colle insegne di lor
dignità attesero inermi gl’invasori.
[CAMILLO]
[389]
Le Vestali e le cose sacre eransi ricoverate a Cere d’Etruria, il
vulgo nei paesi circostanti: ma il prode Manlio indusse un pugno di
risoluti a seco ricoverarsi nella rôcca del Campidoglio. Quivi tennero
saldo; ma già perduta la speranza del resistere all’armi e alla fame,
divisavano di capitolare, quando Furio Camillo, il vincitore di Vejo,
che dalla consueta ingratitudine de’ popoli era stato cacciato in
esiglio, e vivea ritirato in Ardea, pose in non cale i torti della
patria, e raccolti gli sbandati, e avuto il pien potere di dittatore,
sopraggiunse mentre a Pesaro (_Pesa-auro_) si trattava del riscatto a
denaro, e disse:—Col ferro, non coll’oro s’ha a redimere la patria»;
liberò la rôcca, espulse i Galli, ed attestò col fatto l’immobilità del
Giove Capitolino: laonde fu tenuto come secondo fondatore della città.
Così una tradizione di boria nazionale e patrizia, e tanto ricca
di poesia quanto di controsensi e disaccordi: ma un’altra più
positiva rivela qualmente i Galli fossero costretti allargare il
Campidoglio perchè i Veneti aveano invaso le loro terre cisalpine;
onde consentirono che i Romani si redimessero a prezzo d’oro, il quale
fu portato nella Gallia e custodito come segnalato trofeo, sinchè
più tardi venne ricuperato da Druso. Certo i Galli non isbrattarono
così tosto il paese; anzi, accampati a Tivoli, scorrazzavano per la
campagna; talchè i Romani posero il partito di torsi via dalla mal
difesa e inauspicata patria, e mutarsi nella grande e robusta Vejo.
Forse era consiglio de’ plebei, i quali nel nuovo abitacolo si sarieno
trovati eguali ai patrizj, giacchè questi non vi troverebbero più nè il
terreno legale, nè la proprietà assicurata dai sepolcri, nè le memorie
avite: ma Camillo mostrava come Roma godesse saluberrime colline; fiume
opportuno per trar le derrate dall’interno e riceverne dal mare; mare
abbastanza vicino, ma non tanto da esporla a flotte nemiche; situata
nel mezzo dell’Italia, in posizione unica per ingrandire[195]. Con
maggior efficienza i patrizj fecero intervenire il solito impedimento
degli augurj: onde si risolse di rimanere, e di mezzo alle ceneri e ai
rottami e senza soprantendenza di edili fu scompostamente risarcita
la città plebea, nel posto ove il lituo etrusco avea dapprima fondato
la patrizia. Frugando tra le macerie si trovarono intatti lo scettro
di Romolo, pegno di lunga durata al popolo, e molte tavole della
legge, che furono esposte al pubblico, eccetto quelle concernenti la
religione, tenute ancora arcane.
I Galli, ridottisi nella parte superiore dell’Italia che per loro fu
detta Gallia Cisalpina, mai non requiarono dal molestare i Romani; ai
quali del sofferto disastro rimase tale apprensione, che un tesoro
a posta conservavano per l’eventualità di guerre contro di essi
(tumultus), nelle quali nessun cittadino era dispensato dal prender le
armi, sospendevansi gli affari, un dittatore veniva eletto con pien
potere per salvare la repubblica. E quella guerra migliorò la loro
tattica: all’elmetto di rame surrogarono uno di ferro battuto, a prova
delle lunghe spade galliche; di ferro orlarono gli scudi; alle deboli
e lunghe chiaverine sostituirono il _pilum_, perfezionamento del gais
_gallico_, atto e a parare la sciabola nemica, e a colpire da presso e
da lontano.
[CERE AGGREGATA]
Per riconoscenza verso la pelasga città di Cere che avea dato ricovero
agli Dei, i Romani le concessero la cittadinanza, come anche a’
Vejenti, Carpenati, Falisci. Nuova estensione davano essi con ciò alla
loro politica d’ingrandire per mezzo dell’assimilamento; e se prima
aveano trasferito i vinti in città, ora recavano la città di fuori,
creando cittadini romani fuor del proprio territorio, con diritti più o
meno larghi.
[VOLSCI VINTI]
Profittando delle sue sventure, molti popoli si erano rivoltati
contro Roma, e massime l’Etruria: ma il valore di Camillo assicurò la
vittoria sui Volsci e sugli Etruschi, nel mentre stesso che rappaciava
le sempre rinascenti gare interne fra patrizj e plebei, aggravate
dall’ingrossarsi dei debiti nelle trascorse vicende. Anche le correrie
dei Galli infiacchivano i nemici di Roma, e facilitavano a questa il
vincerli. Di fatto, dopo lunghe brighe, Ernici e Volsci furono domati:
i Romani, che ai vinti non sempre negarono lode, narrarono che un
Volsco di Priverno, interrogato qual pena gli sembrassero meritare
i suoi cittadini,—Quella (rispose) che meritano uomini, i quali si
credono degni della libertà». E soggiuntogli,—Se non vi si concede
perdono, in qual modo vi comporterete?» replicò,—Nel modo che vi
comporterete voi: se le condizioni saranno discrete, ci manterremo
sempre fedeli; poco, se aspre».
[I SANNITI]
Terribili a Roma rimanevano i Sanniti, gente mista di Sabini ed
Ausonj. Giunti al colmo di loro potenza, superavano allora Roma in
popolazione e territorio, allargandosi dal mar Inferiore al Superiore,
dal Liri alle montagne Lucane e ai piani dell’Apulia, sui due pioventi
della giogaja centrale dell’Appennino, nelle vallate del Vulturno,
del Tamaro, del Calore verso il Tirreno, e del Saro, del Tiferno, del
Trinio, del Frentone verso l’Adriatico, ne’ paesi insomma che oggi
diciamo Principato Ulteriore, Abruzzo Citeriore, Terra di Lavoro.
Buone loro città erano Boviano a piè del Matese con mura pelasgiche,
Esernia sull’altra proda di questo monte, Alifa nella valle del
Vulturno, Caudio fra questa e Napoli, Eclapoli presso le mufete del
lago d’Ampsaruto, Telesia sul Calore, Alfidena nella val del Sangro,
Consa presso una sorgente dell’Ofanto, Ortona, Malevento. Non formavano
uno Stato unico, ma molti Comuni, avendo a capo un induperatore; troppo
lassamente collegati dal reciproco municipio, spesso emuli, volta a
volta nemici. Fra le gole dell’Appennino pascolavano gli armenti nel
cuor dell’estate; e sobrj, indomiti, difesi da valloni e torrenti,
erano spaventevoli ai pianigiani.
[CAPUA]
[420]
Alle loro correrie si opponevano le città greche ed etrusche; ma essi
travalicandole invasero la Vulturnia, cui applicarono il nome di
Campania cioè pianura (καμπος), e i titoli di _felice_ e di _terra di
lavoro_ per la sua opportunità all’agricoltura. La deliziosa Capua,
dagli Etruschi ammolliti passata a mano di questi bellicosi, acquistò
fama guerresca; e la sua nobiltà somministrò cavalieri non meno
reputati che i pedoni del Lazio, i quali, col nome di Mamertini cioè
soldati di Marte, si mettevano a soldo de’ tiranni di Sicilia e perfino
de’ Greci; emulò Roma, e potè aspirare alla signoria o alla capitananza
di tutta Italia. Eppure dentro era propensa all’arti del lusso, tanto
che la via Seplasia era tutta a botteghe di profumi; mentre i vasi
che vi si scoprono, attestano quanto portasse innanzi la ceramica e
la plastica: inventò le burlette, di cui rimangono ricordo le Favole
atellane e la maschera dello Zanni e del Macco o Pulcinella.
[CAMPANIA E LAZIO SOGGIOGATI]
[343]
I Campani non s’indussero mai ad amare i montani loro dominatori; nè i
Sanniti conobbero l’arte romana di fondere in un popolo conquistatori
e conquistati, patrizj e plebei. Guardavansi dunque con iraconda
diffidenza; e i Campani, ridotti alla dura necessità di dover servire a
nemici o ad amici, chiesero ajuto da Roma che, in aspetto d’alleata, ma
già ingordamente sperando dall’armata intervenzione, allora primamente
sbucata dal tristo Lazio, conobbe quella bellissima regione, le delizie
meridionali, e l’eleganza e sensualità greca. L’esercito ne prese
tale incanto, che chiese di trasferire colà la patria, trovando poco
giusto che essi vincitori stentassero in Roma, mentre i vinti godeano
pacificamente di sì ubertosa contrada: disdettagli la domanda, si
ritorse ostilmente contro Roma, la levò a rumore, e gridò:—Vogliamo
siano abolite le usure; vogliamo si scelga un console plebeo». Le armi
imponeano dunque già la legge alla patria.
[MANLIO TORQUATO. DECIO]
[342]
[340]
Di quest’agitazione si risentì tutto il Lazio, che, stanco di vincere a
solo pro de’ Romani, scosse la soggezione, s’alleò co’ prischi abitanti
de’ paesi ridotti a colonia romana, e coi Campani e Sidicini, per
ricacciare quei montanari nel Sannio, e mozzare il crescente orgoglio
di Roma; anzi i Latini proposero a questi:—Volete che soffriamo Roma
divenga la capitale del Lazio? uno dei vostri consoli e metà de’
senatori siano di nostra gente». I Romani, che non cedevano mai a
minacce, non isdegnarono l’alleanza di barbari montanari, e trassero
i poveri Marsi e Peligni contro ai pingui Campani, sicchè al Vesuvio
si trovarono fronte a fronte tutti i popoli dell’Italia centrale.
Guerra feroce come le fraterne, segnata da ricordi della severità de’
patrizj conservatori, e dagli avanzi delle truci religioni pelasghe.
In tanta somiglianza di popoli importava sovrattutto la disciplina;
laonde Manlio Torquato condannò a morte suo figlio perchè aveva osato
combattere contro gli ordini. Decio si consacrò agli Dei infernali onde
placarli alla patria, e proferite le formole spaventose, s’avventò
contro le armi nemiche, quasi offrendo se stesso vittima espiatoria per
tutti i Romani. In fatto i nemici rimasero interamente sconfitti.
I Romani punirono dell’insurrezione i Latini ed i Campani collo
spegnerne l’autonomia, vietarne le assemblee, traslocarne gli abitanti,
sostituendovi coloni, e dando a ciascuna città patti diversi, a misura
dei comporti. Con ventiquattro trionfi ebbe soggettato i Volsci,
distruggendo l’artifiziosa fertilità di quel paese, ove le rovine di
tante città, sparse fra insanabili paludi, attestano fin ad oggi la
floridezza del popolo perito e la ferocia del vincitore. Ferocia dovuta
ai patrizj, tenaci dell’eroica severità, per quanto la plebe, memore
dell’origine italica, insinuasse più miti consigli.
[FORCHE CAUDINE]
[327]
[321]
Allora Roma, mutati i mezzi non l’intento, arma i pianigiani Latini,
Campani, Apuli contro i montani Sanniti, Lucani, Vestini, Equi, Marsi,
Frentani, Peligni, che già l’aveano ajutata a vincere la pianura.
Lunghi anni s’avvicenda la fortuna, finchè Papirio Cursore manda a
sbaraglio i Sanniti. Questi chiedono capitolare, e ricusati, col furore
della disperazione e col vantaggio delle posizioni chiudono l’esercito
romano nell’angusta valle che fu poi nominata le Forche Caudine.
Erennio, vecchio sannita, consigliava,—Via i partiti medj: o scanniamo
tutti i Romani combattenti, o rimandiamoli senza infamia». Ponzio
suo figlio, generale e filosofo, ascoltando più all’umanità che alla
politica, risparmia i vinti, purchè lascino armi e bagaglio, e passino
sotto una croce, giurando di non più militare. Roma ne fu in lutto:
ma il senato interpretò che quel giuramento non teneva perchè gli
erano mancati gli auspicj, e con una di quelle sottigliezze de’ tempi
eroici, per cui, tenendosi stretti alla parola, si mutava il giusto in
ingiusto, furono espulsi Postumio e Veturio consoli che personalmente
aveano giurato, proferendo che non si avesser più a considerare
per cittadini. Costoro, in aspetto di esuli, ottennero generosa
ospitalità dai Sanniti: ma secondo il concerto preso svillaneggiarono
il feciale che i Romani spedivano per patteggiare la pace: e Roma
da quest’oltraggio contro la sacra persona dell’ambasciatore tolse
pretesto a rompere il patto e ripigliare la guerra[196]. La vittoria
dà ragione ai Romani spergiuri. Ponzio, tanto venerato fra i suoi che
neppure dopo l’improvvida clemenza gli avevano levato il comando degli
eserciti, fu vinto e condotto a Roma; ed egli, che avea risparmiato di
mandare per le spade l’esercito a Caudio, egli che aveva impedito si
maltrattassero i consoli di Roma rejetti e spergiuri, fu vilmente e
legalmente trucidato.
[318]
In una tregua bienne i Romani rimisero il freno alle colonie, scannando
i rivoltosi al cospetto del popolo in memorabile esempio, perchè era di
suprema importanza che i coloni si trovassero sicuri.
[316]
[312]
Assodati gli stabilimenti loro nella terra Campana, ebbero cinto d’una
rete i Sanniti, che non trovandosi pari ai cresciuti conquistatori,
invocarono soccorsi dalla Confederazione etrusca. Questa dai Sanniti e
dai Galli era stata ristretta entro gli originarj confini: dentro però
sovrabbondava di popolazione, raffittita anche per coloro che v’erano
migrati dall’Etruria settentrionale; e l’agricoltura e l’industria
produceano inesauste ricchezze. Interruppe i traffici e le arti per
ajutare gli antichi nemici suoi contro i nuovi, ben più pericolosi che
non i Liguri e i Galli. Ma a capo dei Romani stavano Curio Dentato,
che dicea non voler possedere oro, ma comandare a chi l’aveva; Papirio
Cursore, l’Achille romano; Decio, che, ad imitazione del padre, si
consacrò agli Dei infernali; e principalmente Quinto Fabio, che diceasi
aver ucciso o fatti prigioni cinquantamila uomini, e che fu cognominato
Massimo dai patrizj perchè relegò nelle quattro tribù cittadine la
ciurma che Appio Claudio avea sparpagliata in tutte.
[L’ETRURIA VINTA]
[310]
Le tre città più bellicose d’Etruria, Perugia, Arezzo, Cortona,
chiesero tregua per trent’anni: le altre, benchè rese inermi, benchè
ne’ comuni parlamenti a Voltunna non sapessero mettersi d’accordo, pure
spiegarono tale forza che basta a testimoniar quanto vigorosa fosse
in origine quella confederazione. Rinnovarono il patto sacro, costume
lor nazionale, per cui ognuno sceglievasi un camerata, vegliando un
sull’altro, e reputando indelebile infamia l’abbandonarsi. Vinti, si
rannodarono sulla montagna di Viterbo nella foresta Ciminia, «orrenda
e impervia più che le selve di Germania e di Scozia». Sconfitte e
vittorie avvicendarono, finchè con sommo valore combattendo al lago
Vadimone, toccarono una piena rotta, dalla quale non si riebbero
più, per quanto protestassero con nuove guerre e sommosse. Perduta
l’indipendenza etrusca, l’aristocrazia s’amicò ai vincitori; gli
aruspici si fecero strumento della romana grandezza; nell’interno si
mantennero i governi municipali, si continuò a coltivare le arti, fare
e dipinger vasi, fondere bronzi, avventurarsi sul mare: ma alla fine
i proprietarj vidersi ridotti in fittajuoli e le città sovrane a
servitù, mascherata col titolo di Socj Latini.
[ULTIMI SFORZI DEI SANNITI]
[296]
[295]
Domata la più poderosa gente della penisola, se ne concentravano la
gloria e la potenza nella fortunata Roma, la quale nelle guerre già
si trovava preceduta da quel che tanto giova alla vittoria, un nome
formidabile. Per contrastarla i Sanniti avevano messo in piedi due
eserciti di ricche armi, e li perdettero: allora vedendosi abbandonati
dai Campani, dagli Equi, dagli Ernici soggiogati, e recinti da colonie
romane, i Sanniti osano un colpo arditissimo, e abbandonando al furor
nemico la patria, scendono fra gli Etruschi per concitarli a nuova
sollevazione, e con essi, con gli Umbri, con orde stipendiate di
Galli nuovamente venuti di qua dell’Alpi, compongono una tremenda
lega, sentendo omai tutti come la causa de’ Sanniti fosse quella
dell’indipendenza italiana. Però a Sentino dal valore calcolato di
Fabio e Decio restano sconfitti: gli Etruschi ottengono pace, non i
Sanniti, il cui paese viene abbandonato alla devastazione soldatesca.
[293]
Per difendere l’ultimo resto dell’italica libertà, i Sanniti ricorrono
agli Dei patrj. Adunati a generale rassegna ad Aquilonia, recinsero
di tele uno spazio di venti piedi quadrati; e sacrificate vittime,
introducevano un dietro l’altro i prodi appo un altare a proferire
orribili imprecazioni sopra sè ed i suoi, se fuggissero o non
uccidessero i fuggiaschi; guerrieri disposti attorno all’altare colla
spada sguainata scannavano chi esitasse. In tal modo si coscrisse un
esercito di trentamila trecenquaranta uomini; e tennero il giuramento,
poichè ad Aquilonia tutti perirono[197]. Ai Romani era sempre
riuscita difficilissima la guerra di montagna, onde questa era durata
cinquant’anni; imparatala, vinsero implacabilmente, il paese mandarono
a sperpero, distrutte Aquilonia, Cominio ed altre città: i pochi
rimasti ripararono fra gli Appennini; e l’anno seguente scopertine
duemila in una grotta, i Romani ve li soffocarono col fuoco. Due
milioni e mezzo di libbre di rame in verghe, ricavato dal vendere i
prigionieri, furono portate in trionfo con duemila ducensessanta marchi
d’argento provenuti dal saccheggio: delle armi tolte una porzione fu
lasciata come trofeo agli alleati ed alle colonie; delle restanti si
fece una statua di Giove in Campidoglio, sì gigantesca che vedeasi fin
dal monte Albano.
[FINE DELL’ETÀ EROICA]
A questo punto si chiude l’età eroica di Roma, che Tito Livio dichiara
«più d’ogni altra ferace di virtù». Ma quali virtù! Bruto condanna
a morte senza le solite formalità due suoi figliuoli, ed assiste al
loro supplizio: Lucrezia si uccide per colpa non sua: Scevola punisce
la mano d’aver fallito in un assassinio, e quell’assassinio approvasi
dall’intero senato: per superstizione Curzio si precipita in una
voragine, come i Decj sulle spade nemiche: un tribuno fa bruciar
vivi i nove colleghi che impedivano di surrogare i magistrati[198]:
il severissimo Cincinnato contamina la sua vecchiaja con un legale
assassinio; i giuramenti sono violati per pubblica autorità e per turpi
sofismi: Fabio Gargete, edile curule, fabbrica un tempio a Venere colle
ammende imposte a dame romane per violata fede coniugale e pubblica
disonestà: in tempo d’epidemia[199] censessanta donne accusate d’avere
avvelenato i loro mariti, avvelenano se stesse; supplizio iniquo, come
era superstizioso rimedio lo scegliere in tali sventure un dittatore,
che conficcasse il chiodo sacro nel tempio. Virtù di tempi eroici,
tutto egoismo di persone, di classe, nulla profittevoli al grosso del
popolo, che in continue guerre veniva angariato ed ucciso, smunto
colle usure, battuto a verghe, chiuso in ergastoli privati; surrogando
all’interesse pubblico la tirannide di pochi, chiamavasi ribelle chi
a vantaggio del vulgo alzasse la voce; petulante vulgo, che ardiva
domandare d’esser considerato uomo e cittadino.


LIBRO SECONDO


CAPITOLO IX.
Magna Grecia.—Pitagora.—I legislatori.

Qui la storia stessa di Roma ci porta a considerare i paesi meridionali
della penisola, e nuove civiltà; perocchè alla pelasga, o greca antica
se si voglia, ed alla rasena degli Etruschi, terza si unì la ellenica
delle colonie, più splendida e decantata.
[COLONIE]
Il genio del popolo greco, il quale eminentemente seppe congiungere
l’istinto del bello colla sapienza dell’ordine, sicchè creò i
capolavori della poesia e della scultura, e al tempo stesso i veri
sistemi delle scienze positive e delle noologiche, manifestò quel
suo potente bisogno di movimento e di azione col disporre colonie
innumerevoli dall’Asia Minore fino ai più riposti seni del Ponto
Eusino, dall’Jonio fino al Nilo, alle coste settentrionali dell’Africa
ed alle meridionali della Spagna e della Gallia. In quelle la gioventù
correva in cerca d’avventure e libertà, di ricchezza i negozianti, di
requie i vinti; le repubbliche vi mandavano i turbolenti e i soverchi;
e l’incivilimento e l’opulenza della madrepatria vantaggiavano di tale
innesto. Nel nuovo paese i fondatori erano venerati, e spesso per
gratitudine eretti a signori; il territorio spartivasi fra i coloni,
che vi rinnovavano i nomi e le consuetudini delle contrade natìe,
e sull’indole e i bisogni locali modificavano la greca civiltà. Le
colonie formate da persone obbligate dalle fazioni a fuoriuscire dalla
patria, trovavansi indipendenti fin dall’origine; quelle spedite dalla
metropoli mantenevano le patrie leggi; sacerdoti e magistrati riceveano
da essa; ad essa spedivano tributi, derrate, annui sagrifizj religiosi;
poi il nodo lentavasi a segno, da non costituire che una federazione,
unita dalla comune origine e da divinità comuni, a’ cui tempj antichi
seguivano a recare omaggi e chiedere oracoli. Collocate nelle regioni
più opportune alla vita, all’industria e al commercio, prosperavano,
e la metropoli vi godeva immunità di asportazioni e importazioni;
costituite di gente operosa e vivace come sogliono essere i migrati,
abbondavano d’arti, d’industria, di sapere, di libertà.
Di colonie siffatte circondarono i Greci quasi tutto il lembo
dell’Italia[200], e meglio le coste a occidente, meno scabre delle
orientali. Le più considerevoli stettero sul golfo di Táranto, nella
parte occidentale della Japigia e di là fin a Napoli e in Sicilia: nè
altro paese mai su così breve spazio radunò tante città, e ciascuna
importante quanto un popolo, e degna di vivere nella posterità, più
che i grandi imperi ove un despoto regna su milioni di servi.
[COLONIE DORICHE E ACHEE]
In quattro genti era suddivisa la famiglia greca; Eolj, Dori, Jonj,
Achei, distinti per dialetti, per costituzioni, per usanze particolari;
e fra noi prevalsero i Dori nella Sicilia, nella Magna Grecia[201] gli
Achei. Ai Dori dovette quell’isola le colonie di Ibla, Tapso, Gela,
Agrigento, Messina, Taranto. Gli Achei piantarono Crotone, Síbari,
Turio a lei succeduta, le quali figliarono le altre di Laus, Scidro,
Posidonia, Terina, Caulonia, Pandosia. Dagli Jonj di Calcide vennero
Cuma e Napoli, Zancle da cui Iméra e Mile, Nasso da cui Gallipoli,
Leontini e Catania con Eubea, Taormina e Reggio. Di stirpe jonica
furono anche Elèa e Scillezio: oltrechè i Cretesi condussero colonie
a Brindisi, Iria, Salenzia ed Eraclea Minoa in Sicilia; i Tessali a
Crimisa ed Egesta; gli Etolj a Temesa; i Focesi a Lagaria.
[MIGRATI DA TROJA]
Una delle prime imprese che dei Greci si ricordino, fu l’assedio di
Troja, immortalato nei poemi d’Omero e di Virgilio: ma veruna storica
certezza rimane nè del suo tempo, nè del luogo, nè dell’esito: il fatto
medesimo è controverso; eppure a quella guerra, che suole collocarsi
dodici secoli avanti Cristo e sulle rive dell’Ellesponto, voleano
gli antichi far risalire la loro nobiltà, come le nostre Chiese agli
apostoli, e i nostri signori alle crociate. Ed appunto da eroi della
guerra iliaca prende le mosse la genealogia di molti Stati dell’Italia
meridionale. Dicevasi che alcuni, campati dalla distrutta Troja,
avessero cerco una nuova patria sovra suolo straniero; altri de’
vincitori stessi, agitati dall’ira divina o dalle procelle nel ritorno,
fossero stati spinti coi loro seguaci in lontani paesi, ove presero
stanza. Petilia credevasi cinta da nuovo muro da Filottete, greco
abbandonato per astuzia d’Ulisse; Metaponto, fondata da Epeo compagno
del pilio Nestore, il più prudente fra i Greci; Tràpani, Agatino, da
altri di quella schiera. Nuove colonie innominate dovettero certo
arrivare poco dopo.
[MAGNA GRECIA]
Forse per le non ancora quietate agitazioni del terreno i primi
abitatori di quelle coste eransi tenuti sui monti, lasciando disabitate
le spiaggie malsane, finchè gl’interrimenti le rinsanichirono. Su
questi lembi, di recente formazione e di facile ubertà, poterono
prendere stanza i Greci avveniticci, e mediante la pastorizia e la
vicinanza del mare crescevano di ricchezze e di numero, mentre i natìi
od erano ridotti schiavi affissi alla gleba, o fra le montagne si