Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 10
semenzajo di soldati: Roma sola arbitra della guerra. Nè, come le
greche, rendevansi indipendenti man mano che si sentissero robuste, ma
erano puramente un’estensione della metropoli: vedeano sorgersi accanto
nuovi stranieri, adottati col nome di municipj, con fasto minore e
minor dipendenza; ma e colonie e municipj rimanevano agglomerati
intorno all’unità di Roma, sola sovrana, come il patriarca in mezzo
alla famiglia[184].
[LEGGE AGRARIA]
Questa deportazione mascherata, se soddisfaceva ai più poveri, non
illudeva i veggenti tra’ plebei, i quali «preferendo domandar terre a
Roma che possederne ad Anzio» (Livio), invocavano la _legge agraria_.
Comprendeva questa due proposizioni distinte: la prima di mettere i
plebei a parte del territorio quiritario, fonte del pieno diritto
civile[185]; la seconda di far che le terre, conquistate col sangue
di tutto il popolo, e usurpate la miglior parte dai patrizj, i quali
cessando di pagare l’imposto canone le consideravano per proprietà
allodiali anzichè allivellate, si vendessero o affittassero con equità
fra tutti.
[CORIOLANO]
[491]
Il senato, abile come i corpi costituiti e ristretti, traeva
profitto dalla docilità della plebe in tempo di sventura e dalla
sua sconsideratezza in tempo di prosperità: ma la plebe ritornava
colla suprema virtù dei deboli, la perseveranza. Nojato da queste
pretensioni, un giovane patrizio che avea tratto il soprannome glorioso
dalla vinta città di Coriolo, propone d’affamare il vulgo col non
cercare, nella regnante carestia, grani dalla Sicilia, e costringerlo
così a tacere. La proposta si divulga; la plebe, che su questo punto
non intende ragioni, monta in furore: i tribuni raccolgono i comizj
per tribù, e condannano Coriolano all’esiglio. Egli è costretto cedere
alla nuova potenza popolare, ma ne fa vendetta col guidare le armi dei
Volsci contro la patria; e Roma periva se Veturia madre e Volumnia
moglie di Coriolano non lo avessero indotto a cessare le armi e
rientrare in città.
Ma il colpo è ferito: i tribuni hanno conosciuto la propria potenza,
consistente nell’agitazione popolare; il patriziato non è più
inviolabile; e accanto alle assemblee per curie sorgono i comizj per
tribù, dove si giudica de’ patrizj stessi. I tribuni li convocano,
e vi fanno proposizioni: primo passo a ottenere che anche la plebe
s’ingerisca nella legislazione.
[472]
Davanti ad essi comizj furono pertanto citati coloro che si opponevano
alla legge agraria, Tito Menenio, Spurio Servilio, e perfino i consoli
Furio e Manlio: ma di tale procedimento si sgomentarono i patrizj, e
nel giorno del loro giudizio il tribuno Genuzio fu trovato morto nel
suo letto. Con arti siffatte i patrizj toglievano sovente di mezzo i
più fermi oppositori.
[APPIO CLAUDIO]
[470]
Percosso il capo, stavano per isparpagliarsi i plebei e rassegnarsi al
giogo, lasciandosi trascinare alla guerra, che dà sempre vigore alla
tirannia; quando il plebeo Valerio ricusa il suo nome alla coscrizione.
Un primo esempio basta spesso a grandi cose, e la plebe il seconda,
lo nomina tribuno con Letorio, il quale diceva:—Io non so parlare;
ma quel che una volta ho detto, so farlo. Domani adunatevi; e morrò
sotto ai vostri occhi, o farò passare la legge». Ma i patrizj compajono
all’adunanza cinti dai loro clienti, e l’inflessibile Appio Claudio
fa respingere ancora la legge agraria. La plebe che fa? si lascia
sconfiggere dai nemici, e sopporta la decimazione cui è condannata; ma
Appio citato ai comizj tributi, non si sottrae alla sentenza del comune
plebeo che col lasciarsi morir di fame. La plebe stessa lo ossequiò a
grand’onore, ammirando la fermezza, sebbene adoprata a suo danno.
[438]
A che dunque si riducevano le pretensioni di questa plebe, che voi,
o maestri, ci dipingete come riottosa avversaria de’ prischi eroi? A
domandar di possedere e di aver nozze legittime e riconosciute come
i nobili; e non già di potere sposarsi coi nobili, ma che i loro
matrimonj non fossero semplici concubinati, e che i generali fossero
non soltanto uomini[186] ma cittadini. I patrizj, al contrario,
arrogando a sè soli i privilegi, facevano di tanto in tanto eleggere un
dittatore, autorità suprema e dispotica che sospendeva le altre tutte,
perfino la tribunizia; o mandavano il plebeo in guerra sotto l’assoluta
disciplina; o quando nel fôro o nelle adunanze avesse gridato forte,
lo punivano davanti ai tribunali, de’ quali restava ancora ad essi
l’arbitrio. Il tribuno Lucio Icilio ottenne che l’Aventino fosse
abbandonato ai plebei, i quali vi ergessero le proprie abitazioni,
quasi in una fortezza opposta a quella dei nobili sul Campidoglio; e
in tale occasione introdottosi in senato, prese la parola, e cominciò
il diritto che poi i tribuni si assicurarono fin di convocare quella
assemblea.
[DENTATO]
[451]
Nè per questo la plebe dimenticavasi delle promesse; e confidente nella
propria ragione, tornava a chiedere i diritti annessi ai poderi, e che
si togliesse l’arbitrio ai magistrati coll’unificare la giurisdizione
plebea e la patrizia, e stabilire una legge uniforme e resa pubblica.
Alla perseveranza è serbata la vittoria. Sicinio Dentato, eroe in
cenventi battaglie per quarant’anni, carico il petto di quarantacinque
ferite, donato di quattordici corone civiche, tre murali, una
ossidionale, ottantatre collane, censessanta braccialetti d’oro,
diciotto aste, venticinque gualdrappe, venne tribuno, e ottenne quel
che da dieci anni si eludeva, cioè che, sospeso il consolato, fosse
demandata a dieci personaggi l’autorità di formar leggi e di metterle
in atto; due funzioni che l’antichità non soleva disgiungere.
[I DECEMVIRI]
[449]
La legislazione fu compiuta in dieci tavole; sentendovi però delle
mancanze, onde formarne due altre si nominarono per l’anno successivo
nuovi decemviri; ma questi, ch’erano ligi ai patrizj e ispirati da
Appio Claudio Crassino (famiglia ostinatamente avversa al popolo),
abusano del potere assoluto per sopraffare ed eternarsi il comando;
inviano a morte il prode Dentato; per libidine Appio insidia alla
figlia del plebeo Virginio, il quale per camparle l’onore la uccide;
corso al campo, eccita i soldati a vendicarla; e il sangue di una
casta fonda la libertà popolana, come quello di un’altra avea fondato
la libertà patrizia. I plebei, raccolti sull’Aventino, rielessero i
tribuni e i consoli, che resero forza ordinata la democrazia.
[LE XII TAVOLE]
L’opera dei decemviri fu il codice intitolato Leggi delle XII Tavole,
nella cui imperativa brevità si compila il diritto privato de’ Romani,
fuso con quello degli altri popoli accomunati. Antica fama dà che
queste leggi fossero raccolte in Grecia: ma già Polibio impugnava la
somiglianza di esse colle ateniesi, ravvicinandole piuttosto a quelle
di Cartagine[187]; e i confronti accertano che, se pure i compilatori
visitarono la Grecia propria e la Magna, nulla ne imitarono nelle
disposizioni essenziali e caratteristiche del diritto personale, nè
tampoco nelle forme di procedura; solo accordandosi in oggetti per
natura conformi, quale sarebbe il sospendere i giudizj al tramonto
del sole, o che posano sopra un diritto assai più esteso; per non
dir nulla di alcune minuzie intorno all’uso della proprietà, per
esempio la distanza fra le siepi e i fossi di confine, fra quelle e
le piantagioni. Del resto non orma delle leggi religiose di Grecia,
non della variante democrazia attica, nè delle immobili costituzioni
dei Dorici. A ragione dunque nelle XII Tavole noi cercammo le vestigia
dell’antico diritto italico; giacchè esse, come ogni altro codice,
non piantavano ordinamenti nuovi, ma invigorivano o modificavano
gli antecedenti e durarono qual fondamento del diritto civile sino
a Giustiniano, appunto perchè riepilogavano le credenze e i costumi
nazionali.
Roma, posta fra la rozzezza de’ montanari e la civiltà progredita degli
Etruschi e dei Magni Greci, da un lato era spinta verso il procedimento
di questa, dall’altro rattenuta nella stabilità dall’aristocrazia
territoriale, conservatile delle costumanze avite. E chi analizzi le
XII Tavole, arriva appunto a discendervi tre elementi: le vetuste
consuetudini del Lazio, rigide e fiere; quelle dell’aristocrazia,
eroicamente tiranna; e le libertà che i plebei reclamano e vengono
ottenendo; e non che apparire formate d’un getto e con unica intenzione
o scientifica o pratica, evidentemente rivelano il contrasto de’
patrizj che si ghermiscono all’antico privilegio aristocratico, e de’
plebei che cercano garanzie contro di quelli.
Tu ascolti i primi là dove è sancito che «il possesso di due anni
dia ragione sopra un fondo; che la frattura d’un osso si compensi
con trecento assi; che matrimonio non si leghi fra patrizj e plebei;
pena la morte contro gli attruppamenti notturni, o a chi farà incanti
e malefizj, od avveleni; l’autore di canzoni infamatorie perisca di
bastonate». Colle succitate minaccie contro i debitori e colle formole
impreteribili, l’ignorar le quali impedisce di ottenere giustizia, si
accoppia la voce popolare, chiedente sicurezza: La legge sia immobile,
universale, senza privilegi. Il patrono che attenta a danno del cliente
sia maledetto. Nessuno potrà esser privato della libertà. Il potente
che rompe un membro al plebeo paghi venticinque libbre di rame; se non
si compone col ferito abbia luogo il talione: cencinquanta assi chi
rompe la mascella allo schiavo. Non si esiga oltre il dodici per cento
d’interesse, e l’usurajo scoperto restituisca il quadruplo. Al debitore
non si metta più di quindici libbre di catena. Chi cade schiavo per
debiti non resti infame. Chi depone il falso venga dirupato dalla
Tarpeja. Il testimonio che ricusa attestare la validità del contratto
è improbo, e non può testare. L’insolubile possa esser fatto a pezzi,
ma solo dopo presentato tre volte al magistrato in giorno di fiera; e i
figli di esso rimangano liberi». S’ha timore che il nobile si vendichi
ne’ giudizj? ebbene, il delitto capitale non potrà esser giudicato che
dal popolo nei comizj centuriati; e il giudice corrotto muoja. Perchè i
nobili toglievano le bestie a titolo di sacrifizio, la legge permette
di prendere pegno sopra chi piglia una vittima senza pagare, e sotto
pena della doppia restituzione vieta di consacrare agli Dei un oggetto
in contestazione.
Alla famiglia patriarcale e aristocratica tu vedi pian piano surrogarsi
la libera. Il possesso d’una donna è dato non dalla compra, ma dal
_consenso_, dal _godimento_, dalla _possessione_ d’un anno, purchè non
interrotta per tre notti; e la donna non rimane acquistata come cosa,
ma in tutela, con libere nozze. Anche il figliuolo sarà emancipato con
tre vendite, simulazione che attesta il servaggio, ma che lo rompe; e
il figlio diventa esso pure padrefamiglia, nè più è collegato alla sua
che da una specie di patronato, sinchè verrà tempo che la legge dovrà
rammentare «anche il soldato esser tenuto a riguardi di pietà verso il
genitore». Nè i beni saranno vincolati all’eredità necessaria, fatale,
ma il padre testerà solennemente sui suoi e sulla tutela loro; cosicchè
la proprietà, incatenata dapprima alla famiglia, si riduce mobile a
seconda della individuale libertà, e bastano due anni a prescrivere il
possesso dei fondi, uno al possesso dei mobili.
Le leggi suntuarie, che il Vico supporrebbe introdotte soltanto
quando i Romani ebbero imparato il lusso dai Greci, a noi non ripugna
attribuirle a quei primi tempi, ma solo per frenare l’opulenza della
classe inferiore, mentre a pontefici, auguri, nobili, che rappresentano
gli Dei, era lecito sfoggiare ne’ sacrifizj pubblici e privati e nelle
pompe funeree. «Non foggiate il rogo colla scure. Ai funerali, tre
vesti di lutto, tre bende di porpora, dieci flautisti. Non raccogliete
le ceneri de’ morti per farne più tardi le esequie. Non corona al morto
se non l’abbia guadagnata col valore o col danaro, come poteva avvenire
nelle corse con cavalli proprj. Non fare più d’un funerale all’estinto;
non oro sul cadavere; ma se ha denti legati con filo d’oro, non glieli
strappare. I morti non si sepelliscano o brucino in città»; perchè i
sepolcri attribuivano una proprietà inviolabile.
Il fatto capitale del diritto decemvirale è l’aver sancita
l’eguaglianza civile, obbligando tutti alle medesime leggi pubbliche,
patrizj o no, sacerdoti o magistrati: ma lunga stagione voleasi prima
che la legge si riducesse un fatto. Imperocchè ancora nella famiglia
rimaneva l’antica esclusione; ancora il patrizio solo manteneva il
privilegio d’offrire i sacrifizj favorevoli e auspicati, e conosceva le
formole, le quali erano ritenute indispensabili per autorare i giudizj.
[LE FORMOLE]
Anche il nostro fôro impone certe formalità, senza delle quali alcuni
atti non sono legittimi, per esempio nel numero de’ testimonj, nella
tripla promulgazione delle nozze, nella firma, nella data ed altre
prescrizioni dei testamenti; e la mancanza di certi riti notarili, di
certe impugnazioni avvocatesche invalida le ragioni. Fra i Romani erano
assai più, eseguendosi una specie di scena per ciascun atto legale, con
tradizioni simboliche, con finta violenza. Per esempio, nelle nozze
davasi alla sposa un anello di ferro; nel riceverla alla casa maritale,
se gliene porgevano le chiavi; le si toglievano quando la si rinviasse
ripudiata. Si contraeva impegno collo stringere il pugno; conchiudevasi
il mandato (_manu data_) col dare la mano; denunziavasi il turbato
possesso col lanciare una pietra contro il muro illegalmente eretto;
s’interrompeva la prescrizione col rompere un ramoscello. Chi reclamava
un mobile, lo pigliava colla mano; per adire un’eredità, l’erede facea
scoccar le dita (_digitis crepabat_); si rincariva ad un’asta pubblica
col sollevare un dito. Il debitore che rassegnava i suoi beni ai
creditori, toglievasi e deponeva l’anello d’oro: per annunziare che lo
schiavo posto in vendita non si garantiva, gli si poneva il cappello.
Disputavasi della possessione d’un fondo? i due contendenti prendevansi
le mani, fingevano una specie di lotta, e poi andavano a cercar una
zolla del fondo contrastato. A questa corsa si sostituirono due
formole: il pretore pronunziava _Inite viam_, un terzo _Redite viam_,
supponendo incominciato e finito il viaggio nella sala d’udienza[188].
Per assumere uno in testimonio gli si diceva, _Licet antistari?_ se
rispondeva _Licet_, gli si replicava _Memento_, toccandogli il lobo
dell’orecchio. Il padrefamiglia emancipava un figlio dandogli uno
schiaffo; rito rimastoci nella cresima.
Da principio era arcano anche il calendario, che segnava in quali
giorni si potesse aver udienza, in quali no, in quali per metà: e il
plebeo che gl’ignorava, alle evidenti sue prove, ai giusti lamenti
trovavasi opposta l’eccezione legale insuperabile, e in conseguenza non
poteva presentarsi al tribunale se non per via d’un patrono, il quale
lo istruisse de’ giorni fasti e nefasti, e delle precise cerimonie, con
cui soltanto poteva trovar ascolto ed aver ragione.
[ROGAZIONE CANULEJA]
[414]
Sebbene le XII Tavole quasi nulla sancissero riguardo allo Stato, la
democrazia introdotta da esse nel diritto civile si comunicava al
politico: furono ripristinati i tribuni, potenza non frenata se non
dal dover essere tutti d’accordo; le leggi fatte dalla plebe raccolta
nei comizj tributi (_plebiscita_) divennero obbligatorie anche pel
nobile (_Quod tributim plebs jussisset, populum teneret_); nè vi erano
necessarj gli auspicj. Passo importantissimo, dal quale, essendo
tribuno Canulejo, i plebei procedono a domandare la comunicazione dei
matrimonj, giacchè, se alcuno sposasse una plebea, i figli seguivano la
condizione materna, nè ereditavano ab intestato; e i patrizj dovettero
concederla, restando da ciò abbattute le barriere fra le due classi.
Poi chiesero di poter aspirare al consolato; e i patrizj, piuttosto che
consentire, sospendono di eleggere i consoli, conferendo l’autorità
giudiziale a pretori patrizj, il comando delle armi a tribuni militari,
capi delle legioni, scelti fra nobili e plebei, non aventi diritto
d’auspizj.
[LICINIO STOLONE]
[366]
Eppure per lungo tempo non vi furono eletti che patrizj, bastando ai
più l’aver assicurato la proprietà e la persona. Questa però ogni dì
trovavasi in pericolo; sempre nuovi debitori erano condotti nelle
carceri private; la miseria non lasciava agio ai plebei di curarsi
della pubblica cosa, e l’oligarchia stava per soffocar Roma in cuna,
quando sorse il plebeo tribuno Cajo Licinio Stolone, uomo a torto
svilito dalla storia, scritta da aristocrati o col loro spirito, il
quale iniziò una rivoluzione incruenta, condotta per vie legali in
modo da assodare la futura grandezza di Roma. Propose egli una legge
che mitigava la sorte dei debitori, annullando gl’interessi accumulati;
un’altra che limitava a cinquecento jugeri la porzione individuale di
dominio pubblico (_ager_), e il resto de’ campi avesse a distribuirsi
ai poveri; una terza legge portava che uno de’ consoli fosse plebeo.
[353-334]
[339]
[305]
Dappoi i tribuni col frapporre il veto a tutte le elezioni, per modo
che Roma rimase lunga stagione senza magistrati, ottennero che plebei
entrassero nel collegio de’ sacerdoti sibillini, oracolo dello Stato;
potessero occupare e la dittatura e la pretura e il pontificato e
l’edilità. Anzi colle tre leggi del dittatore Filone Publilio fu
derogato il voto delle curie, sicchè più non ne occorreva l’assenso,
quel del senato bastando perchè i plebisciti acquistassero carattere
obbligatorio per tutti i Quiriti. Con ciò il senato prese il luogo de’
padri antichi, il popolo si trovò composto anche dei nobili; i tribuni
poterono pigliare gli auspizj ne’ casi ove consideravansi necessarj; e
un segretario d’Appio Claudio, per cattivarsi il favor popolare, rese
pubbliche le formole giuridiche simboliche e il calendario.
Anche ne’ costumi s’insinuava l’eguaglianza. Al Pudore Patrizio era
dedicata una cappella nel fôro Boario; ed essendovi venuta per gli
usati sacrifizj Virginia patrizia, sposa d’un console plebeo, le
matrone la respinsero, quantunque ella sostenesse,—Io posso entrare
come casta che sono, e sposa ad un sol uomo, cui sono andata vergine,
e del quale per carattere, imprese, dignità non ho che a gloriarmi».
Ella dunque nel proprio quartiere rizzò un altare al Pudore Plebeo,
esortando le popolane ad emular la castità delle patrizie, come
gli uomini faceano col valore: e a quell’altare, coi riti medesimi
dell’antico, sagrificavano le donne d’incontaminata reputazione e d’un
solo marito (_univiræ?_).
Di tal passo la plebe conquistò il diritto e l’equo Giove. I dissidj
tra le famiglie patrizie e le plebee continuavano, ma i due ordini
cessarono di formare stati distinti nella repubblica, la quale ormai
era democratica, mirabilmente temperata fra i diritti del popolo,
del senato e degli ottimati: la religione dello Stato mettendo ad
ogni cosa il suggello di formole inalterabili, ovviava e l’anarchia
demagogica e il militare despotismo. La legge, ch’è sacra ne’ tempi
sacerdotali, arcana nelle aristocrazie, allora trovavasi divulgata:
alla ragion divina degli auspizj, misteriosamente rivelata dai
sacerdoti, e alla ragion di Stato, ove il popolo eroico provvede alla
propria conservazione con un senato proprio, sottentrò la ragione
umana nell’equa partecipazione del diritto: il senato non è più
autorità di dominio ma di tutela, per riuscire poi di consiglio sotto
gl’imperatori: e la romana libertà si formola in queste tre frasi,
autorità del senato, imperio del popolo, podestà dei tribuni della
plebe.
[PLEBEI E NOBILI PAREGGIATI]
Roma dunque è nata dalla mescolanza di varie stirpi: il qual fatto
sembra infondere maggior vitalità, come vediamo oggi stesso negli
Anglo-Sassoni. In conseguenza, più che una limitata nazionalità,
ritroveremo in essa concetti d’universalità, quasi predestinata a
raccogliere intorno a sè gli elementi umanitarj. Faticosi ne sono i
cominciamenti, e tiene del rozzo, ma colla lotta perseverante elimina
le parti meno opportune per assimilarsi le solide: difetta di estro,
di candore, di semplicità, quanto abbonda d’energia e prudenza; non è
dotata di fantasia, ma di leggi e istituzioni. E istituzioni diverse
vi portarono Latini, Sabini, Etruschi; sicchè il bisogno di vagliarle
partorì la critica, e ne risultò quella legislazione, che i secoli più
non disimpareranno.
CAPITOLO VIII.
Politica esterna. I Galli. Il Lazio e l’Etruria soggiogati. Fine
dell’età eroica.
Questi progressi interni si maturavano in mezzo a non interrotte
guerre, colle quali Roma, più per sicurezza propria che per anelito
d’invasione, cercava sottomettersi tutta Italia.
Le popolazioni di questa si erano alterate pel contatto delle colonie
elleniche, e per le relazioni colla Grecia e coll’Asia Minore.
Tarquinio Superbo avea voluto rendere gagliardi gli Etruschi, e non
v’essendo riuscito, passò a rinforzar Roma, contro della quale poi,
come una madre contro la figlia, si armò Porsena. Di qui l’avversione
di Roma per gli Etruschi, a danno de’ quali procacciavasi alleati.
[VICINI SOGGIOGATI. I FABJ]
[493]
Il Lazio allora stava partito fra due leghe; Volsci ed Equi nell’una,
Latini ed Ernici nell’altra. I Romani patteggiano colle città del
Lazio, e—Finchè il cielo e la terra durino, ci ajuteremo a vicenda,
divideremo a pari le spoglie de’ nemici; le liti private si definiranno
nel termine di dieci giorni, e dai giudici del luogo ove il contratto
si fece»[189]. In prima dieci, poi trenta, poi quarantasette città
spedirono deputati alla fontana di Ferentino per trattare de’
comuni interessi; poscia il congresso detto _Feriæ latinæ_ si tenne
sull’Aventino e sul Campidoglio. Il diritto de’ Latini (_jus Latii_)
conferiva quello di matrimonio (_connubium_) fra i due popoli, in modo
che i figli seguissero la condizione del padre; e quello di commercio,
che dava la vindicazione, la cessione in giudizio, la mancipazione e il
nesso.
[VICINI SOGGIOGATI. CINCINNATO]
[477]
[458]
I federati osteggiarono la lega nemica: e sebbene gli storici
raccontino quasi solo vittorie dei Romani, lasciano trapelare
sconfitte. La famiglia de’ Fabj, composta di trecentosei membri e
con quattromila clienti, assume da sè la guerra con Vejo; e bastano
a sostenerla per due anni, finchè côlti alla sprovvista, sono tutti
uccisi presso il fiume Crémera. Più tardi Appio Erdonio sabino con
cinquemila uomini occupa perfino il Campidoglio, avendo i tribuni
impedito al popolo di prender le armi. Equi e Volsci dall’Albano e
dall’Algido calavano ogni tratto su Roma devastando e incendiando, poi
ricoveravano fra i patrj monti; sicchè non era possibile coglierli,
nè assalirne la capitale, e si dovette una ad una distruggere le loro
fortezze. Minucio console lasciatosi pigliare in mezzo dagli Equi,
era inevitabilmente perduto; ma Roma affidò la dittatura a Quinzio
Cincinnato, cittadino di gran prosapia e di modestissimo vivere, che si
tolse dal coltivare il suo camperello per vincere, e menato trionfo,
ritornò all’aratro.
Due secoli consumarono i Romani in tali piccole conquiste contro la
lega nemica, con una calcolata lentezza, un coraggio indomito da
disastri, una instancabile attività, che anche nella pace teneva
il pugno sull’elsa, spiando ogni avvenimento opportuno. Nè noi
sulle guerre sogliamo indugiarci; nè il lettore correbbe diletto od
istruzione dalle vicende di Tarento regno di Palante, di Tusculo regno
di Telagone, del _superbo_ Tiburi, sede dei Siculi poi de’ coloni Argei
e reggia di Tiburno discendente da Anfiarao: cittaduccie da nulla,
che pur lungamente bilanciaronsi con Roma, e diedero esercizio alla
grandiloquenza di Tito Livio.
I disegni di Roma erano agevolati dalla sconcordia di que’ popoletti,
la cui storia somiglia a quella delle nostre repubbliche del medioevo.
Ardea ed Aricia, disputandosi il possesso d’un terreno, si rimettono
all’arbitrato del popolo romano. Questo, raccolto per tribù, dà
ascolto alle discussioni; quando Publio Scepzio, che avea compito
ottantatre anni e fatto venti campagne, chiede la parola, e rammenta
come il terreno disputato appartenesse a Corioli, vinta la quale dai
Romani, non da altri che da Romani esso doveva possedersi. Fu dunque
aggregato al dominio pubblico: ma gli Ardeati si sollevarono; i patrizj
stessi, mal soffrendo che il popolo prendesse sempre maggior parte ne’
pubblici maneggi, disapprovarono il plebiscito, ma non aveano potere di
cassarlo, e gli Ardeati dovettero chinar il capo e accettare di nuovo
l’alleanza.
[VICINI SOGGIOGATI. ARDEA]
[442]
Eccoli ben tosto a nuovi cozzi. Due giovani aspiravano ad una
popolana bellissima: uno plebeo, favorito dai tutori di essa; l’altro
nobile, e protetto da’ pari suoi e dalla madre, ambiziosa del vistoso
collocamento. La discordia dalla famiglia si propaga alla città; i
giudici sentenziano per la madre; i tutori appellano al popolo, e
da una banda d’affidati fanno rapir la fanciulla; un’altra banda di
nobili, guidata dall’innamorato, vi si oppone: sono alle mani e al
sangue; la plebe respinta di città, getta ferro e fuoco sulle terre
de’ nobili, ingrossata da una moltitudine di artieri, e s’accinge
ad assediar la città. Estendendo l’ira privata, i popolani cercano
ajuto ai Volsci, i nobili ai Romani. Questi vi vedono l’opportunità
di riparare il torto fatto ad Ardea, e il console Geganio accorse a
cacciare i Volsci che già la stringevano, e presili in mezzo, li fa
passare sotto al giogo: poi nella ritirata assaliti dai Tusculani,
periscono fin ad uno: e la pace è rimessa in Ardea mediante il
supplizio de’ capipopolo[190].
[VEJO]
[425]
Nel tempo medesimo sulla sinistra del Tevere continuavano i Romani a
dar di colpo all’aristocrazia etrusca, conquistarono le sacre città
di Fidene e Tarquinia, assediarono Vejo. Dieci anni durò l’assedio; e
poichè si dovette svernare sotto le armi, per la prima volta i Romani
assegnarono un soldo ai combattenti, i quali così trovandosi mantenuti
e stipendiati, non ebbero fretta di tornar a coltivare i loro poderi,
e rimasero a disposizione de’ capi, che poterono assumere anche lunghe
imprese.
[CAMILLO]
[395]
Era scritto arcanamente ne’ libri fatidici dell’Etruria, che gli Dei
non abbandonerebbero le mura di Vejo, sino a tanto che il lago Albano
non fosse rasciutto, versandone l’acque al mare. Ai Romani non parve
ineffettibile l’impresa, e compirono quell’ammirato emissario di sei
miglia, cavato nella lava. Infine Furio Camillo, nominato dittatore,
propiziati gli Dei e procuratosi federati, per una mina penetrò in
Vejo, le cui immense ricchezze furono predate, venduti schiavi i
cittadini, portata a Roma la dea Giunone, ch’essa medesima, interrogata
se fosse contenta, avea risposto due volte sì; un vaso dell’enorme
valore di otto talenti fu spedito ad Apollo in Delfo; e le terre de’
Vejenti, malgrado l’opposizione de’ patrizj, furono divise a sette
jugeri per ciascun plebeo. Non tardarono a cadere e Capena e Falera
e Sutrio e Vulsinia; e Roma pareva a un punto di soggiogare tutta
l’Etruria quando le sopravvenne un nuovo flagello, i Galli.
[1304?]
Già vedemmo (pag. 44) come una numerosa tribù di questi invase
antichissimamente l’Italia col nome di Amhra, vinse i Siculi, e rimase
signora della val di Po, donde spinse le conquiste fino al Tevere, che
colla Nar e col Tronto fece confine al vasto dominio di essa. Lo divise
in tre regioni: Is-Umbria attorno al Po; Oll-Umbria pendìo occidentale
dell’Appennino; Vill-Umbria, la costa del mar inferiore fra il Tevere
e l’Arno. Fin trecencinquantotto borgate contavano le due prime: ma
gli Etruschi s’introdussero nella Vill-Umbria, spossessando i Galli,
non però sterminandoli; e guerreggiando l’Is-Umbria, pezzo a pezzo la
conquistarono, piantandovi dodici colonie. Degl’Isombri parte tornò
nella Gallia di là dall’Alpi, parte si ridusse nelle valli Alpine,
alcuni resistettero nel paese fra il Ticino e l’Adda. Gli Oll-Umbri
rimasero anch’essi soggiogati; e ridotti al cantone che da loro si
greche, rendevansi indipendenti man mano che si sentissero robuste, ma
erano puramente un’estensione della metropoli: vedeano sorgersi accanto
nuovi stranieri, adottati col nome di municipj, con fasto minore e
minor dipendenza; ma e colonie e municipj rimanevano agglomerati
intorno all’unità di Roma, sola sovrana, come il patriarca in mezzo
alla famiglia[184].
[LEGGE AGRARIA]
Questa deportazione mascherata, se soddisfaceva ai più poveri, non
illudeva i veggenti tra’ plebei, i quali «preferendo domandar terre a
Roma che possederne ad Anzio» (Livio), invocavano la _legge agraria_.
Comprendeva questa due proposizioni distinte: la prima di mettere i
plebei a parte del territorio quiritario, fonte del pieno diritto
civile[185]; la seconda di far che le terre, conquistate col sangue
di tutto il popolo, e usurpate la miglior parte dai patrizj, i quali
cessando di pagare l’imposto canone le consideravano per proprietà
allodiali anzichè allivellate, si vendessero o affittassero con equità
fra tutti.
[CORIOLANO]
[491]
Il senato, abile come i corpi costituiti e ristretti, traeva
profitto dalla docilità della plebe in tempo di sventura e dalla
sua sconsideratezza in tempo di prosperità: ma la plebe ritornava
colla suprema virtù dei deboli, la perseveranza. Nojato da queste
pretensioni, un giovane patrizio che avea tratto il soprannome glorioso
dalla vinta città di Coriolo, propone d’affamare il vulgo col non
cercare, nella regnante carestia, grani dalla Sicilia, e costringerlo
così a tacere. La proposta si divulga; la plebe, che su questo punto
non intende ragioni, monta in furore: i tribuni raccolgono i comizj
per tribù, e condannano Coriolano all’esiglio. Egli è costretto cedere
alla nuova potenza popolare, ma ne fa vendetta col guidare le armi dei
Volsci contro la patria; e Roma periva se Veturia madre e Volumnia
moglie di Coriolano non lo avessero indotto a cessare le armi e
rientrare in città.
Ma il colpo è ferito: i tribuni hanno conosciuto la propria potenza,
consistente nell’agitazione popolare; il patriziato non è più
inviolabile; e accanto alle assemblee per curie sorgono i comizj per
tribù, dove si giudica de’ patrizj stessi. I tribuni li convocano,
e vi fanno proposizioni: primo passo a ottenere che anche la plebe
s’ingerisca nella legislazione.
[472]
Davanti ad essi comizj furono pertanto citati coloro che si opponevano
alla legge agraria, Tito Menenio, Spurio Servilio, e perfino i consoli
Furio e Manlio: ma di tale procedimento si sgomentarono i patrizj, e
nel giorno del loro giudizio il tribuno Genuzio fu trovato morto nel
suo letto. Con arti siffatte i patrizj toglievano sovente di mezzo i
più fermi oppositori.
[APPIO CLAUDIO]
[470]
Percosso il capo, stavano per isparpagliarsi i plebei e rassegnarsi al
giogo, lasciandosi trascinare alla guerra, che dà sempre vigore alla
tirannia; quando il plebeo Valerio ricusa il suo nome alla coscrizione.
Un primo esempio basta spesso a grandi cose, e la plebe il seconda,
lo nomina tribuno con Letorio, il quale diceva:—Io non so parlare;
ma quel che una volta ho detto, so farlo. Domani adunatevi; e morrò
sotto ai vostri occhi, o farò passare la legge». Ma i patrizj compajono
all’adunanza cinti dai loro clienti, e l’inflessibile Appio Claudio
fa respingere ancora la legge agraria. La plebe che fa? si lascia
sconfiggere dai nemici, e sopporta la decimazione cui è condannata; ma
Appio citato ai comizj tributi, non si sottrae alla sentenza del comune
plebeo che col lasciarsi morir di fame. La plebe stessa lo ossequiò a
grand’onore, ammirando la fermezza, sebbene adoprata a suo danno.
[438]
A che dunque si riducevano le pretensioni di questa plebe, che voi,
o maestri, ci dipingete come riottosa avversaria de’ prischi eroi? A
domandar di possedere e di aver nozze legittime e riconosciute come
i nobili; e non già di potere sposarsi coi nobili, ma che i loro
matrimonj non fossero semplici concubinati, e che i generali fossero
non soltanto uomini[186] ma cittadini. I patrizj, al contrario,
arrogando a sè soli i privilegi, facevano di tanto in tanto eleggere un
dittatore, autorità suprema e dispotica che sospendeva le altre tutte,
perfino la tribunizia; o mandavano il plebeo in guerra sotto l’assoluta
disciplina; o quando nel fôro o nelle adunanze avesse gridato forte,
lo punivano davanti ai tribunali, de’ quali restava ancora ad essi
l’arbitrio. Il tribuno Lucio Icilio ottenne che l’Aventino fosse
abbandonato ai plebei, i quali vi ergessero le proprie abitazioni,
quasi in una fortezza opposta a quella dei nobili sul Campidoglio; e
in tale occasione introdottosi in senato, prese la parola, e cominciò
il diritto che poi i tribuni si assicurarono fin di convocare quella
assemblea.
[DENTATO]
[451]
Nè per questo la plebe dimenticavasi delle promesse; e confidente nella
propria ragione, tornava a chiedere i diritti annessi ai poderi, e che
si togliesse l’arbitrio ai magistrati coll’unificare la giurisdizione
plebea e la patrizia, e stabilire una legge uniforme e resa pubblica.
Alla perseveranza è serbata la vittoria. Sicinio Dentato, eroe in
cenventi battaglie per quarant’anni, carico il petto di quarantacinque
ferite, donato di quattordici corone civiche, tre murali, una
ossidionale, ottantatre collane, censessanta braccialetti d’oro,
diciotto aste, venticinque gualdrappe, venne tribuno, e ottenne quel
che da dieci anni si eludeva, cioè che, sospeso il consolato, fosse
demandata a dieci personaggi l’autorità di formar leggi e di metterle
in atto; due funzioni che l’antichità non soleva disgiungere.
[I DECEMVIRI]
[449]
La legislazione fu compiuta in dieci tavole; sentendovi però delle
mancanze, onde formarne due altre si nominarono per l’anno successivo
nuovi decemviri; ma questi, ch’erano ligi ai patrizj e ispirati da
Appio Claudio Crassino (famiglia ostinatamente avversa al popolo),
abusano del potere assoluto per sopraffare ed eternarsi il comando;
inviano a morte il prode Dentato; per libidine Appio insidia alla
figlia del plebeo Virginio, il quale per camparle l’onore la uccide;
corso al campo, eccita i soldati a vendicarla; e il sangue di una
casta fonda la libertà popolana, come quello di un’altra avea fondato
la libertà patrizia. I plebei, raccolti sull’Aventino, rielessero i
tribuni e i consoli, che resero forza ordinata la democrazia.
[LE XII TAVOLE]
L’opera dei decemviri fu il codice intitolato Leggi delle XII Tavole,
nella cui imperativa brevità si compila il diritto privato de’ Romani,
fuso con quello degli altri popoli accomunati. Antica fama dà che
queste leggi fossero raccolte in Grecia: ma già Polibio impugnava la
somiglianza di esse colle ateniesi, ravvicinandole piuttosto a quelle
di Cartagine[187]; e i confronti accertano che, se pure i compilatori
visitarono la Grecia propria e la Magna, nulla ne imitarono nelle
disposizioni essenziali e caratteristiche del diritto personale, nè
tampoco nelle forme di procedura; solo accordandosi in oggetti per
natura conformi, quale sarebbe il sospendere i giudizj al tramonto
del sole, o che posano sopra un diritto assai più esteso; per non
dir nulla di alcune minuzie intorno all’uso della proprietà, per
esempio la distanza fra le siepi e i fossi di confine, fra quelle e
le piantagioni. Del resto non orma delle leggi religiose di Grecia,
non della variante democrazia attica, nè delle immobili costituzioni
dei Dorici. A ragione dunque nelle XII Tavole noi cercammo le vestigia
dell’antico diritto italico; giacchè esse, come ogni altro codice,
non piantavano ordinamenti nuovi, ma invigorivano o modificavano
gli antecedenti e durarono qual fondamento del diritto civile sino
a Giustiniano, appunto perchè riepilogavano le credenze e i costumi
nazionali.
Roma, posta fra la rozzezza de’ montanari e la civiltà progredita degli
Etruschi e dei Magni Greci, da un lato era spinta verso il procedimento
di questa, dall’altro rattenuta nella stabilità dall’aristocrazia
territoriale, conservatile delle costumanze avite. E chi analizzi le
XII Tavole, arriva appunto a discendervi tre elementi: le vetuste
consuetudini del Lazio, rigide e fiere; quelle dell’aristocrazia,
eroicamente tiranna; e le libertà che i plebei reclamano e vengono
ottenendo; e non che apparire formate d’un getto e con unica intenzione
o scientifica o pratica, evidentemente rivelano il contrasto de’
patrizj che si ghermiscono all’antico privilegio aristocratico, e de’
plebei che cercano garanzie contro di quelli.
Tu ascolti i primi là dove è sancito che «il possesso di due anni
dia ragione sopra un fondo; che la frattura d’un osso si compensi
con trecento assi; che matrimonio non si leghi fra patrizj e plebei;
pena la morte contro gli attruppamenti notturni, o a chi farà incanti
e malefizj, od avveleni; l’autore di canzoni infamatorie perisca di
bastonate». Colle succitate minaccie contro i debitori e colle formole
impreteribili, l’ignorar le quali impedisce di ottenere giustizia, si
accoppia la voce popolare, chiedente sicurezza: La legge sia immobile,
universale, senza privilegi. Il patrono che attenta a danno del cliente
sia maledetto. Nessuno potrà esser privato della libertà. Il potente
che rompe un membro al plebeo paghi venticinque libbre di rame; se non
si compone col ferito abbia luogo il talione: cencinquanta assi chi
rompe la mascella allo schiavo. Non si esiga oltre il dodici per cento
d’interesse, e l’usurajo scoperto restituisca il quadruplo. Al debitore
non si metta più di quindici libbre di catena. Chi cade schiavo per
debiti non resti infame. Chi depone il falso venga dirupato dalla
Tarpeja. Il testimonio che ricusa attestare la validità del contratto
è improbo, e non può testare. L’insolubile possa esser fatto a pezzi,
ma solo dopo presentato tre volte al magistrato in giorno di fiera; e i
figli di esso rimangano liberi». S’ha timore che il nobile si vendichi
ne’ giudizj? ebbene, il delitto capitale non potrà esser giudicato che
dal popolo nei comizj centuriati; e il giudice corrotto muoja. Perchè i
nobili toglievano le bestie a titolo di sacrifizio, la legge permette
di prendere pegno sopra chi piglia una vittima senza pagare, e sotto
pena della doppia restituzione vieta di consacrare agli Dei un oggetto
in contestazione.
Alla famiglia patriarcale e aristocratica tu vedi pian piano surrogarsi
la libera. Il possesso d’una donna è dato non dalla compra, ma dal
_consenso_, dal _godimento_, dalla _possessione_ d’un anno, purchè non
interrotta per tre notti; e la donna non rimane acquistata come cosa,
ma in tutela, con libere nozze. Anche il figliuolo sarà emancipato con
tre vendite, simulazione che attesta il servaggio, ma che lo rompe; e
il figlio diventa esso pure padrefamiglia, nè più è collegato alla sua
che da una specie di patronato, sinchè verrà tempo che la legge dovrà
rammentare «anche il soldato esser tenuto a riguardi di pietà verso il
genitore». Nè i beni saranno vincolati all’eredità necessaria, fatale,
ma il padre testerà solennemente sui suoi e sulla tutela loro; cosicchè
la proprietà, incatenata dapprima alla famiglia, si riduce mobile a
seconda della individuale libertà, e bastano due anni a prescrivere il
possesso dei fondi, uno al possesso dei mobili.
Le leggi suntuarie, che il Vico supporrebbe introdotte soltanto
quando i Romani ebbero imparato il lusso dai Greci, a noi non ripugna
attribuirle a quei primi tempi, ma solo per frenare l’opulenza della
classe inferiore, mentre a pontefici, auguri, nobili, che rappresentano
gli Dei, era lecito sfoggiare ne’ sacrifizj pubblici e privati e nelle
pompe funeree. «Non foggiate il rogo colla scure. Ai funerali, tre
vesti di lutto, tre bende di porpora, dieci flautisti. Non raccogliete
le ceneri de’ morti per farne più tardi le esequie. Non corona al morto
se non l’abbia guadagnata col valore o col danaro, come poteva avvenire
nelle corse con cavalli proprj. Non fare più d’un funerale all’estinto;
non oro sul cadavere; ma se ha denti legati con filo d’oro, non glieli
strappare. I morti non si sepelliscano o brucino in città»; perchè i
sepolcri attribuivano una proprietà inviolabile.
Il fatto capitale del diritto decemvirale è l’aver sancita
l’eguaglianza civile, obbligando tutti alle medesime leggi pubbliche,
patrizj o no, sacerdoti o magistrati: ma lunga stagione voleasi prima
che la legge si riducesse un fatto. Imperocchè ancora nella famiglia
rimaneva l’antica esclusione; ancora il patrizio solo manteneva il
privilegio d’offrire i sacrifizj favorevoli e auspicati, e conosceva le
formole, le quali erano ritenute indispensabili per autorare i giudizj.
[LE FORMOLE]
Anche il nostro fôro impone certe formalità, senza delle quali alcuni
atti non sono legittimi, per esempio nel numero de’ testimonj, nella
tripla promulgazione delle nozze, nella firma, nella data ed altre
prescrizioni dei testamenti; e la mancanza di certi riti notarili, di
certe impugnazioni avvocatesche invalida le ragioni. Fra i Romani erano
assai più, eseguendosi una specie di scena per ciascun atto legale, con
tradizioni simboliche, con finta violenza. Per esempio, nelle nozze
davasi alla sposa un anello di ferro; nel riceverla alla casa maritale,
se gliene porgevano le chiavi; le si toglievano quando la si rinviasse
ripudiata. Si contraeva impegno collo stringere il pugno; conchiudevasi
il mandato (_manu data_) col dare la mano; denunziavasi il turbato
possesso col lanciare una pietra contro il muro illegalmente eretto;
s’interrompeva la prescrizione col rompere un ramoscello. Chi reclamava
un mobile, lo pigliava colla mano; per adire un’eredità, l’erede facea
scoccar le dita (_digitis crepabat_); si rincariva ad un’asta pubblica
col sollevare un dito. Il debitore che rassegnava i suoi beni ai
creditori, toglievasi e deponeva l’anello d’oro: per annunziare che lo
schiavo posto in vendita non si garantiva, gli si poneva il cappello.
Disputavasi della possessione d’un fondo? i due contendenti prendevansi
le mani, fingevano una specie di lotta, e poi andavano a cercar una
zolla del fondo contrastato. A questa corsa si sostituirono due
formole: il pretore pronunziava _Inite viam_, un terzo _Redite viam_,
supponendo incominciato e finito il viaggio nella sala d’udienza[188].
Per assumere uno in testimonio gli si diceva, _Licet antistari?_ se
rispondeva _Licet_, gli si replicava _Memento_, toccandogli il lobo
dell’orecchio. Il padrefamiglia emancipava un figlio dandogli uno
schiaffo; rito rimastoci nella cresima.
Da principio era arcano anche il calendario, che segnava in quali
giorni si potesse aver udienza, in quali no, in quali per metà: e il
plebeo che gl’ignorava, alle evidenti sue prove, ai giusti lamenti
trovavasi opposta l’eccezione legale insuperabile, e in conseguenza non
poteva presentarsi al tribunale se non per via d’un patrono, il quale
lo istruisse de’ giorni fasti e nefasti, e delle precise cerimonie, con
cui soltanto poteva trovar ascolto ed aver ragione.
[ROGAZIONE CANULEJA]
[414]
Sebbene le XII Tavole quasi nulla sancissero riguardo allo Stato, la
democrazia introdotta da esse nel diritto civile si comunicava al
politico: furono ripristinati i tribuni, potenza non frenata se non
dal dover essere tutti d’accordo; le leggi fatte dalla plebe raccolta
nei comizj tributi (_plebiscita_) divennero obbligatorie anche pel
nobile (_Quod tributim plebs jussisset, populum teneret_); nè vi erano
necessarj gli auspicj. Passo importantissimo, dal quale, essendo
tribuno Canulejo, i plebei procedono a domandare la comunicazione dei
matrimonj, giacchè, se alcuno sposasse una plebea, i figli seguivano la
condizione materna, nè ereditavano ab intestato; e i patrizj dovettero
concederla, restando da ciò abbattute le barriere fra le due classi.
Poi chiesero di poter aspirare al consolato; e i patrizj, piuttosto che
consentire, sospendono di eleggere i consoli, conferendo l’autorità
giudiziale a pretori patrizj, il comando delle armi a tribuni militari,
capi delle legioni, scelti fra nobili e plebei, non aventi diritto
d’auspizj.
[LICINIO STOLONE]
[366]
Eppure per lungo tempo non vi furono eletti che patrizj, bastando ai
più l’aver assicurato la proprietà e la persona. Questa però ogni dì
trovavasi in pericolo; sempre nuovi debitori erano condotti nelle
carceri private; la miseria non lasciava agio ai plebei di curarsi
della pubblica cosa, e l’oligarchia stava per soffocar Roma in cuna,
quando sorse il plebeo tribuno Cajo Licinio Stolone, uomo a torto
svilito dalla storia, scritta da aristocrati o col loro spirito, il
quale iniziò una rivoluzione incruenta, condotta per vie legali in
modo da assodare la futura grandezza di Roma. Propose egli una legge
che mitigava la sorte dei debitori, annullando gl’interessi accumulati;
un’altra che limitava a cinquecento jugeri la porzione individuale di
dominio pubblico (_ager_), e il resto de’ campi avesse a distribuirsi
ai poveri; una terza legge portava che uno de’ consoli fosse plebeo.
[353-334]
[339]
[305]
Dappoi i tribuni col frapporre il veto a tutte le elezioni, per modo
che Roma rimase lunga stagione senza magistrati, ottennero che plebei
entrassero nel collegio de’ sacerdoti sibillini, oracolo dello Stato;
potessero occupare e la dittatura e la pretura e il pontificato e
l’edilità. Anzi colle tre leggi del dittatore Filone Publilio fu
derogato il voto delle curie, sicchè più non ne occorreva l’assenso,
quel del senato bastando perchè i plebisciti acquistassero carattere
obbligatorio per tutti i Quiriti. Con ciò il senato prese il luogo de’
padri antichi, il popolo si trovò composto anche dei nobili; i tribuni
poterono pigliare gli auspizj ne’ casi ove consideravansi necessarj; e
un segretario d’Appio Claudio, per cattivarsi il favor popolare, rese
pubbliche le formole giuridiche simboliche e il calendario.
Anche ne’ costumi s’insinuava l’eguaglianza. Al Pudore Patrizio era
dedicata una cappella nel fôro Boario; ed essendovi venuta per gli
usati sacrifizj Virginia patrizia, sposa d’un console plebeo, le
matrone la respinsero, quantunque ella sostenesse,—Io posso entrare
come casta che sono, e sposa ad un sol uomo, cui sono andata vergine,
e del quale per carattere, imprese, dignità non ho che a gloriarmi».
Ella dunque nel proprio quartiere rizzò un altare al Pudore Plebeo,
esortando le popolane ad emular la castità delle patrizie, come
gli uomini faceano col valore: e a quell’altare, coi riti medesimi
dell’antico, sagrificavano le donne d’incontaminata reputazione e d’un
solo marito (_univiræ?_).
Di tal passo la plebe conquistò il diritto e l’equo Giove. I dissidj
tra le famiglie patrizie e le plebee continuavano, ma i due ordini
cessarono di formare stati distinti nella repubblica, la quale ormai
era democratica, mirabilmente temperata fra i diritti del popolo,
del senato e degli ottimati: la religione dello Stato mettendo ad
ogni cosa il suggello di formole inalterabili, ovviava e l’anarchia
demagogica e il militare despotismo. La legge, ch’è sacra ne’ tempi
sacerdotali, arcana nelle aristocrazie, allora trovavasi divulgata:
alla ragion divina degli auspizj, misteriosamente rivelata dai
sacerdoti, e alla ragion di Stato, ove il popolo eroico provvede alla
propria conservazione con un senato proprio, sottentrò la ragione
umana nell’equa partecipazione del diritto: il senato non è più
autorità di dominio ma di tutela, per riuscire poi di consiglio sotto
gl’imperatori: e la romana libertà si formola in queste tre frasi,
autorità del senato, imperio del popolo, podestà dei tribuni della
plebe.
[PLEBEI E NOBILI PAREGGIATI]
Roma dunque è nata dalla mescolanza di varie stirpi: il qual fatto
sembra infondere maggior vitalità, come vediamo oggi stesso negli
Anglo-Sassoni. In conseguenza, più che una limitata nazionalità,
ritroveremo in essa concetti d’universalità, quasi predestinata a
raccogliere intorno a sè gli elementi umanitarj. Faticosi ne sono i
cominciamenti, e tiene del rozzo, ma colla lotta perseverante elimina
le parti meno opportune per assimilarsi le solide: difetta di estro,
di candore, di semplicità, quanto abbonda d’energia e prudenza; non è
dotata di fantasia, ma di leggi e istituzioni. E istituzioni diverse
vi portarono Latini, Sabini, Etruschi; sicchè il bisogno di vagliarle
partorì la critica, e ne risultò quella legislazione, che i secoli più
non disimpareranno.
CAPITOLO VIII.
Politica esterna. I Galli. Il Lazio e l’Etruria soggiogati. Fine
dell’età eroica.
Questi progressi interni si maturavano in mezzo a non interrotte
guerre, colle quali Roma, più per sicurezza propria che per anelito
d’invasione, cercava sottomettersi tutta Italia.
Le popolazioni di questa si erano alterate pel contatto delle colonie
elleniche, e per le relazioni colla Grecia e coll’Asia Minore.
Tarquinio Superbo avea voluto rendere gagliardi gli Etruschi, e non
v’essendo riuscito, passò a rinforzar Roma, contro della quale poi,
come una madre contro la figlia, si armò Porsena. Di qui l’avversione
di Roma per gli Etruschi, a danno de’ quali procacciavasi alleati.
[VICINI SOGGIOGATI. I FABJ]
[493]
Il Lazio allora stava partito fra due leghe; Volsci ed Equi nell’una,
Latini ed Ernici nell’altra. I Romani patteggiano colle città del
Lazio, e—Finchè il cielo e la terra durino, ci ajuteremo a vicenda,
divideremo a pari le spoglie de’ nemici; le liti private si definiranno
nel termine di dieci giorni, e dai giudici del luogo ove il contratto
si fece»[189]. In prima dieci, poi trenta, poi quarantasette città
spedirono deputati alla fontana di Ferentino per trattare de’
comuni interessi; poscia il congresso detto _Feriæ latinæ_ si tenne
sull’Aventino e sul Campidoglio. Il diritto de’ Latini (_jus Latii_)
conferiva quello di matrimonio (_connubium_) fra i due popoli, in modo
che i figli seguissero la condizione del padre; e quello di commercio,
che dava la vindicazione, la cessione in giudizio, la mancipazione e il
nesso.
[VICINI SOGGIOGATI. CINCINNATO]
[477]
[458]
I federati osteggiarono la lega nemica: e sebbene gli storici
raccontino quasi solo vittorie dei Romani, lasciano trapelare
sconfitte. La famiglia de’ Fabj, composta di trecentosei membri e
con quattromila clienti, assume da sè la guerra con Vejo; e bastano
a sostenerla per due anni, finchè côlti alla sprovvista, sono tutti
uccisi presso il fiume Crémera. Più tardi Appio Erdonio sabino con
cinquemila uomini occupa perfino il Campidoglio, avendo i tribuni
impedito al popolo di prender le armi. Equi e Volsci dall’Albano e
dall’Algido calavano ogni tratto su Roma devastando e incendiando, poi
ricoveravano fra i patrj monti; sicchè non era possibile coglierli,
nè assalirne la capitale, e si dovette una ad una distruggere le loro
fortezze. Minucio console lasciatosi pigliare in mezzo dagli Equi,
era inevitabilmente perduto; ma Roma affidò la dittatura a Quinzio
Cincinnato, cittadino di gran prosapia e di modestissimo vivere, che si
tolse dal coltivare il suo camperello per vincere, e menato trionfo,
ritornò all’aratro.
Due secoli consumarono i Romani in tali piccole conquiste contro la
lega nemica, con una calcolata lentezza, un coraggio indomito da
disastri, una instancabile attività, che anche nella pace teneva
il pugno sull’elsa, spiando ogni avvenimento opportuno. Nè noi
sulle guerre sogliamo indugiarci; nè il lettore correbbe diletto od
istruzione dalle vicende di Tarento regno di Palante, di Tusculo regno
di Telagone, del _superbo_ Tiburi, sede dei Siculi poi de’ coloni Argei
e reggia di Tiburno discendente da Anfiarao: cittaduccie da nulla,
che pur lungamente bilanciaronsi con Roma, e diedero esercizio alla
grandiloquenza di Tito Livio.
I disegni di Roma erano agevolati dalla sconcordia di que’ popoletti,
la cui storia somiglia a quella delle nostre repubbliche del medioevo.
Ardea ed Aricia, disputandosi il possesso d’un terreno, si rimettono
all’arbitrato del popolo romano. Questo, raccolto per tribù, dà
ascolto alle discussioni; quando Publio Scepzio, che avea compito
ottantatre anni e fatto venti campagne, chiede la parola, e rammenta
come il terreno disputato appartenesse a Corioli, vinta la quale dai
Romani, non da altri che da Romani esso doveva possedersi. Fu dunque
aggregato al dominio pubblico: ma gli Ardeati si sollevarono; i patrizj
stessi, mal soffrendo che il popolo prendesse sempre maggior parte ne’
pubblici maneggi, disapprovarono il plebiscito, ma non aveano potere di
cassarlo, e gli Ardeati dovettero chinar il capo e accettare di nuovo
l’alleanza.
[VICINI SOGGIOGATI. ARDEA]
[442]
Eccoli ben tosto a nuovi cozzi. Due giovani aspiravano ad una
popolana bellissima: uno plebeo, favorito dai tutori di essa; l’altro
nobile, e protetto da’ pari suoi e dalla madre, ambiziosa del vistoso
collocamento. La discordia dalla famiglia si propaga alla città; i
giudici sentenziano per la madre; i tutori appellano al popolo, e
da una banda d’affidati fanno rapir la fanciulla; un’altra banda di
nobili, guidata dall’innamorato, vi si oppone: sono alle mani e al
sangue; la plebe respinta di città, getta ferro e fuoco sulle terre
de’ nobili, ingrossata da una moltitudine di artieri, e s’accinge
ad assediar la città. Estendendo l’ira privata, i popolani cercano
ajuto ai Volsci, i nobili ai Romani. Questi vi vedono l’opportunità
di riparare il torto fatto ad Ardea, e il console Geganio accorse a
cacciare i Volsci che già la stringevano, e presili in mezzo, li fa
passare sotto al giogo: poi nella ritirata assaliti dai Tusculani,
periscono fin ad uno: e la pace è rimessa in Ardea mediante il
supplizio de’ capipopolo[190].
[VEJO]
[425]
Nel tempo medesimo sulla sinistra del Tevere continuavano i Romani a
dar di colpo all’aristocrazia etrusca, conquistarono le sacre città
di Fidene e Tarquinia, assediarono Vejo. Dieci anni durò l’assedio; e
poichè si dovette svernare sotto le armi, per la prima volta i Romani
assegnarono un soldo ai combattenti, i quali così trovandosi mantenuti
e stipendiati, non ebbero fretta di tornar a coltivare i loro poderi,
e rimasero a disposizione de’ capi, che poterono assumere anche lunghe
imprese.
[CAMILLO]
[395]
Era scritto arcanamente ne’ libri fatidici dell’Etruria, che gli Dei
non abbandonerebbero le mura di Vejo, sino a tanto che il lago Albano
non fosse rasciutto, versandone l’acque al mare. Ai Romani non parve
ineffettibile l’impresa, e compirono quell’ammirato emissario di sei
miglia, cavato nella lava. Infine Furio Camillo, nominato dittatore,
propiziati gli Dei e procuratosi federati, per una mina penetrò in
Vejo, le cui immense ricchezze furono predate, venduti schiavi i
cittadini, portata a Roma la dea Giunone, ch’essa medesima, interrogata
se fosse contenta, avea risposto due volte sì; un vaso dell’enorme
valore di otto talenti fu spedito ad Apollo in Delfo; e le terre de’
Vejenti, malgrado l’opposizione de’ patrizj, furono divise a sette
jugeri per ciascun plebeo. Non tardarono a cadere e Capena e Falera
e Sutrio e Vulsinia; e Roma pareva a un punto di soggiogare tutta
l’Etruria quando le sopravvenne un nuovo flagello, i Galli.
[1304?]
Già vedemmo (pag. 44) come una numerosa tribù di questi invase
antichissimamente l’Italia col nome di Amhra, vinse i Siculi, e rimase
signora della val di Po, donde spinse le conquiste fino al Tevere, che
colla Nar e col Tronto fece confine al vasto dominio di essa. Lo divise
in tre regioni: Is-Umbria attorno al Po; Oll-Umbria pendìo occidentale
dell’Appennino; Vill-Umbria, la costa del mar inferiore fra il Tevere
e l’Arno. Fin trecencinquantotto borgate contavano le due prime: ma
gli Etruschi s’introdussero nella Vill-Umbria, spossessando i Galli,
non però sterminandoli; e guerreggiando l’Is-Umbria, pezzo a pezzo la
conquistarono, piantandovi dodici colonie. Degl’Isombri parte tornò
nella Gallia di là dall’Alpi, parte si ridusse nelle valli Alpine,
alcuni resistettero nel paese fra il Ticino e l’Adda. Gli Oll-Umbri
rimasero anch’essi soggiogati; e ridotti al cantone che da loro si
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