Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 05
altri nella valle di Cerceto a Ferentino. I lavori de’ Ciclopi e de’
Pelasgi che poco sopra contemplammo, di sassi scabri o appena slabrati,
appartengono a quel primo periodo, ove l’uomo non provvede con essi
che alla necessità, nè ancora si eleva a quei concetti che mutano la
pratica manuale in arte bella. La religione è la fonte, e il culto è
la forma più universale di questa ideale bellezza, rivelazione della
presenza divina in un oggetto visibile; ond’è che le belle arti, con un
fondo comune di sentimenti, variano secondo il carattere d’una nazione,
e secondo il culto tributato agli enti sovrannaturali e alle tombe.
E impronta originale ebbero le arti nell’Etruria. Non cerchiamo
blandimenti alla vanità col pretendere che fra noi nascessero esse,
e da noi le imparassero i Greci, ai quali era serbato recarle alla
perfezione: ma che qui siano antichissime, molti riscontri storici
il provano. Romolo rubò in Etruria un carro di bronzo; Plinio cita
pitture di Ardea, anteriori alla fondazione di Roma; Bolsena in fenicio
esprimerebbe città degli artisti, e da questa i Romani predarono
duemila statue, probabilmente di terra cotta; la fiorente Adria fu
distrutta dai Galli quando passarono le Alpi ne’ primi secoli di Roma,
onde anteriori devono tenersi le tante opere e i bellissimi vasi che
n’escono tuttodì. Agli Etruschi spetta il merito delle opere più
antiche di Roma, quali la mura esterna del Campidoglio, l’arginatura
del Tevere, e la cloaca massima, la cui volta interiore è chiusa da una
seconda, e questa da una terza, fatte di massi di peperino a cuneo,
combacianti senza cemento, in modo da non essersi sconnesse pel lasso
di tanti secoli. Serviva essa a dare scolo alle acque stagnanti fra
il Capitolino e il Palatino, traversava il fôro romano e il boario,
e il Velàbro, e gettavasi nel Tevere poco sotto del ponte Palatino,
con tale ampiezza che vi si poteva scendere in barca, avendo quattro
metri e mezzo di larghezza e più di dieci d’altezza; e a prevenire
i rigurgiti del fiume, v’entrava ad angolo acuissimo. Nel 1742 si
scoprì un altro acquedotto non meno meraviglioso, tredici metri
sotto al suolo presente, di travertino, e perciò più recente e forse
posteriore alle guerre puniche: tremuoti, sovrapposti edifizj, quindici
secoli di abbandono non ne spostarono pietra. L’emissario del lago
Albano, alto metri 2.27, largo 1.62, è tagliato nel tufo vulcanico
per duemila trecentrentasette metri di lunghezza, e allo sbocco la
volta è regolarmente costrutta di pietre a cuneo. A Volterra, mentre
il naturalista studia le copiose saline, gli alabastri, le miniere
del rame, i lagoni dell’acido borico, l’antiquario ammira infiniti
cimelj raccolti nel museo civico, e le gigantesche mura, e la Porta
all’arco sotto alla cattedrale, colla volta perfettamente circolare di
diciannove grandi pietre squadrate, e colla serraglia grossolanamente
effigiata: oltre una cisterna a triplice volta. Più riccamente finite
sono due altre porte a Perugia; e par veramente merito degli Etruschi
l’aver indovinato l’importanza dell’arco, che poi i Romani doveano
usare alla bellezza monumentale: mentre vuolsi che solo al fine del v
secolo Democrito insegnasse ai Greci il fabbricare a volta con pietre
cuneiformi. Etrusco è pure l’anfiteatro di Sutri, scarpellato nella
rupe e del giro di mille passi; e così il teatro di Adria, e fors’anche
l’anfiteatro di Verona. Da Cere a Vejo sussiste tuttora la strada
selciata.
L’ordine toscano tiene del dorico, con importanti modificazioni;
ma non sappiamo se fosse veramente proprio degli Etruschi, giacchè
verun monumento ce ne avanza. Secondo Vitruvio, i loro tempj erano
quadrilunghi, nella proporzione di cinque a sei: il santuario avea tre
celle, di cui la media più vasta: nel pronao erano distribuite colonne
molto distanti, e di sette diametri con base e capitello; e al disopra
la trabeazione di legno ornata di mensole, e con una cimasa sporgente:
costruzioni che Vitruvio qualifica di pesanti, goffe e nane. Le case
disponevano in tutt’altra foggia da’ Greci, in modo che la principale
camera stesse in mezzo, verso la quale piovevano le acque dal tetto
circostante (_impluvium_).
[SEPOLCRI]
Varrone descrive il sepolcro di Porsena presso Clusio, che, se vogliam
tirarne qualche concetto dalle particolarità certamente fantastiche,
era una costruzione di settantacinque metri in quadro e alta sedici,
con anditi intricati a somiglianza del labirinto di Creta, di pietre
a squadra, sormontato da cinque piramidi, larghe novantacinque metri
ed alte il doppio, e congiunte in cima da un cerchio di bronzo ed un
cappello, donde pendeano campane: su questo poi Plinio diceva erette
quattro altre piramidi, e un nuovo piano con sovrappostene altre
cinque; idealità ineffettibile[75]. Bensì cinque obelischi si ergono
presso Albano su quel che il vulgo intitola sepolcro degli Orazj e
Curiazj.
E i sepolcri sono gli edifizj di cui maggior numero si è salvato in
Etruria. Sempre sotterranei, o cavati ne’ fianchi d’un monte o a piè
d’un masso trasformato in monumento: ove il terreno non si prestasse
all’escavazione, si costruivano di muro, ma sempre coperti, quasi per
celarli ad ogni occhio; sicchè bisogna fra macìe di sassi e spinose
marruche cercare que’ tesori, a differenza dei Romani che gli esponeano
lungo le strade.
Già sullo scorcio del 1600 si era penetrato nella necropoli di
Tarquinia, scavata nel tufo in mezzo ad una pianura presso Corneto,
dodici miglia da Civitavecchia e tre dal mare: poi dalle tombe
di Perugia, fra molti etruschi monumenti, si erano tratte urne,
specchi, pietre incise, scarabei, vasi dipinti, figurine di bronzo
graziosissime. Un altro sepolcro alla torre di San Manno colà presso, e
l’unico a fior di terra, diede la regina delle iscrizioni etrusche.
Questa ed altre scoperte aveano fatte i due secoli precedenti, non
tenendo memoria del modo ond’erano disposte le tombe, nè levandone i
disegni. Ma dopo il 1824 con ben altra diligenza s’indagarono quelle di
Tarquinia, e lord Kinnaird ne trasse di bei vasi e preziose anticaglie;
poi nel 28, sulle rive della Fiora ripastinando alcuni cucuzzoli
di terra che in paese chiamano cucumelle, si scoperse una camera
sepolcrale, dietro la quale altre, donde Luciano Buonaparte principe
di Canino cavò ben tremila vasi, di beltà e grandezza singolari, e
lavori di bronzo, oro, avorio (venduti poi al Museo Britannico), che
gli fecero conghietturare fosse colà situata Vetulonia, capo della
federazione etrusca.
Questi sepolcri, che stendonsi per molte miglia, parrebbero destinati
ciascuno ad una famiglia. Il tumulo, ossia il mucchio di terra, n’è
la forma originaria, talvolta alla base circondato di pietroni, che
talaltra ascendono gradinati a formare un cono, ma non mai a foggia
di piramide. Se dall’apertura a imbuto tu scendi per tacche fatte
nella parete, ti trovi in camere traenti luce sol dall’entrata,
con volte quali a botte come le nostre, quali a lacunari, quali a
spinapesce, sorrette da pilastri quadrati di tufo, con membrature di
semplice e robusto profilo; e dipinti su ogni cosa combattimenti, o
rappresentazioni dello stato postumo delle anime, come i lari col
vigile cane, demoni alati che tirano in cocchio il defunto, o con
martelli percuotono una figura virile, ignuda e prostesa. Altre camere
sono a loculi come i colombarj di Roma, in cui collocare l’urnetta
delle ceneri vulgari; nè di rado sviluppansi in sembianza di labirinti.
Preso a scandagliare il suolo, tesori si rinvennero dappertutto. Le
cucumelle presso Vulci sono camere circolari entro il tufo, sopra cui
colline di cotto: la più insigne gira non meno di settanta metri, e
nel mezzo una torre quadrilatera, forse un tempo circondata da quattro
altre a cono, di cui una sola or è in piedi. Toscanella e Bomarzo
nella val della Matra n’hanno di scavate nelle roccie perpendicolari,
alcune colla porta a fregi; presso Cortona son coniche, a modo de’
nuraghi; e di muro una che intitolano la grotta di Pitagora. Degli
ipogei di Agilla, uno vastissimo è preceduto da vestibolo, come i
tempj moderni. Cere, che ora è Cervetri, sulla destra della via romana
per Civitavecchia, rivelò la sua necropoli a lacunari, e con lunghi
corridoj e porte archeggiate o piramidali, e panchine, tutto ricavato
nel nenfro, tufo vulcanico.
Un sepolcro trovato nel 1836 con volta acuta, che vorrebbesi dell’età
pelasga e certamente anteriore alla influenza greca, constava di
due lunghe celle, comunicanti per una porta, chiusa fin a mezzo da
un parapetto, sul quale posavano due vasi di bronzo; due d’argento
pendeano dalla sommità d’essa porta. Appo l’entrata stava un caldano
di bronzo su tripode di ferro, poi una specie di candelabro da
profumi, adorno d’animali simbolici; là vicino un caldano minore; in
faccia rottami d’un carro a quattro ruote; e sulla dritta un letto
di bronzo, formato di lamine in croce: letto e carro fabbricati per
vivi, e qui conversi ad uso funereo. Ai due capi del letto sorgevano
due altarini di ferro: in faccia si vedevano sospesi otto scudi di
bronzo sottilissimo, misti con freccie e stromenti da battaglia e
da sacrifizj. Davanti al letto e in una camera laterale trentasei
idoletti d’argilla nera, figuranti un vecchio che il mento barbuto
appoggia alle mani. Chiovi di bronzo nella volta sosteneano vasi dello
stesso metallo; e in fondo alla cella una raccolta di vezzi d’oro e
d’argento, i manichi di sei ombrelli, e coppe e piatti d’argento. Il
cadavere, probabilmente femminile, era coperto di tanti giojelli, che
dei frantumi d’oro misti alla terra si potè empiere un capace paniere;
oltre un diadema, una collana, due braccialetti, catene, fibule, e un
pettorale in filagrana d’oro, composto di nove zone concentriche con
rilevate moltissime forme simboliche.
Altre tombe somigliano a tempietti, forse per famiglie sacerdotali.
Quelle di Castel d’Asso o Castellaccio presso Viterbo sono
importantissime fra le ricavate nel tufo per l’architettura esterna,
con ricchi frontoni e cornici a triglifi, e porte rastremate, che,
come la generale inclinazione a piramide delle pareti, rammentano
lo stile egizio: del dorico sentono invece quelle di Norcia, dove
si vede un bassorilievo, che è l’unico compiuto ed esteso frontone
in Italia. Le traccie di colori sopra molti membri attestano che
si usava la decorazione policromatica, che testè credevasi misero
ripiego del medioevo, e invece compare sulle statue più classiche e
nei tempj meglio vantati dell’antichità. Al sepolcro de’ Volumnj,
scoperto a Perugia il 1840, nulla fu scomposto per farne cortesia
agli osservatori: è nel tufo con camere semplici senza pitture nè
altro ornamento che una colonnetta esterna portante la scritta;
regolarmente costruito col tetto a doppia tesa, a croce latina, il cui
fondo ad abside serve alla sepoltura: dentro v’ha urne, iscrizioni,
statuette[76]. Ivi stesso, due anni dappoi, si trovò una figura
di bronzo giacente, che nel seno conteneva le ossa, come era pure
dell’Adone del museo Gregoriano. In questo e nella raccolta Campana a
Roma accolgonsi arredi d’oro cavati dalle tombe, di tale squisitezza da
scoraggiare gli orafi nostri più esperti.
Queste tombe rivelarono la vita e la civiltà degli Etruschi, come
Ercolano e Pompej quella de’ Romani, essendovi imitate o simboleggiate
le azioni della vita privata, talora anche nella forma esterna, più
spesso nella disposizione interiore e ne’ profusi arredi domestici. E
gli scheletri e le pitture ci attestano come a ragione gli Etruschi
fosser detti _obesi et pingues_[77], avendo viso pieno, grandi occhi,
naso grosso, mento prominente, testa grande, piccola statura, braccia
corte, corpo tozzo. Rasi la barba; spesso inghirlandati la fronte;
l’anello al mignolo della mano sinistra[78].
Nelle iscrizioni non leggi parola che indichi dolore nè melanconico
addio. Nessuna statua di marmo sinora, bensì di metallo, tufo calcare,
alabastro, argilla; alcune per accessorio di ciste, candelabri, patere;
altre isolate e più franche e originali; ma tutte rigide di membra,
faccia ovale molto allungata, occhi a fior di testa e tirati in su,
come anche la bocca; gambe parallele, e talora non disgiunte; fisonomia
senza carattere: più volte stendonsi lettere sull’abito o sulle coscie.
A Corneto fu restituita dal suolo una statua intera di cotto, che a
grandezza naturale figura un uomo di piena virilità, con corona d’oro.
Il Bacco giacente, pure di colto, tratto dalla necropoli di Tarquinia
e conservato a Corneto, è delle statue più grandiose ed eleganti fra
le etrusche. La lupa del Campidoglio, che forse è il monumento posto
al fico ruminale a Roma nel 204 avanti Cristo, emula qualvogliasi
capo d’arte per robusta espressione. Graziosa è la Menerva e ben
lavorata, comechè priva d’idealità. Il Metello, detto l’Arringatore
della galleria di Firenze; il fanciullo abbracciante l’oca nel museo di
Leida, di sì cara ingenuità; il guerriero di bronzo, venuto da Todi al
museo Gregoriano, vanno fra’ meglio pregiati lavori, se s’aggiunga la
donna ornata, senza testa, che da Vulci passò alla gliptoteca dì Monaco.
Gran merito hanno le pietre incise, con soggetti di mitologia greca.
Dai sepolcri di Perugia uscì una delle più belle, rappresentante
i sette eroi sotto Tebe, coi loro nomi greci in forma etrusca. Lo
scarabeo, comunissimo fra gli Egiziani, è pure forma molto solita
delle pietre etrusche, e se ne trovano nelle tombe infilati per lo
lungo, o legati in anelli e versatili. Si ammirano pure i disegni
fatti sul rovescio degli specchi di bronzo e sulle ciste mistiche.
Altre ricchezze già ricavarono da quei tesori inesauribili; uno scudo
cesellato di tre piedi di diametro, un mascherone di bronzo cogli occhi
di smalto, idoletti smaltati, coppe d’argento, armadure, specchi di
bronzo, che altri crede patere, intagliati nella parte concava.
[VASI ETRUSCHI]
Dovizia ancor più speciale e vantata sono i vasi etruschi. Accennarono
i Romani che in Etruria se ne fabbricassero di terra, ma ad uso
comune[79]. Plinio, che ragionò tutte le varietà delle arti belle,
nulla toccò de’ vasi figurati; nè alcuno menziona l’uso di sepellirli
nelle tombe. Ne’ musei se n’aveano alcuni d’incerta provenienza,
e dopo Lachausse, Bergier, Dempstero, Montfaucon, pubblicarono
il disegno d’alcuni i nostri Gori, Bonarroti, Passeri. Primo il
Targioni-Tozzetti, descrivendo la gita dalla Gonfolina all’Ambrogiana,
riferisce che in San Michele a Luciano il 1752 si trovò un pozzo
«rinterrato dalle alluvioni del vicino Arno. La particolarità più
curiosa si è che, vuotandosi questo rinterro, vi si trovarono molti
vasi di antico lavoro fatti a ruota, di terra cotta parte nera, parte
sbiancata sottile, e alcuni con vernice o nera o carnicina, ma senza
pitture. La loro forma è molto varia, ma per lo più sono del genere
di quei vasi che chiamavano _urcei_, con un solo manico ben fatto,
sull’andare delle moderne mescirobe e de’ boccali, e non hanno il
marco del figulo. Molto malagevole si è l’intendere come mai tanti di
questi antichi vasi sieno restati sommersi in questo pozzo... Chi sa se
esso pozzo nel tempo del paganesimo non fosse sacro, o che o i vicini
popoli, o i passeggieri per la contigua via militare, non vi gettassero
dentro tali vasi con qualche liquido, per offerta o sagrifizio alle
false deità?»[80].
Essendo ancora una rarità, venivano giudicati con idee sistematiche;
e Millin, Lanzi, Maffei, Zanoni, Tischheim, Böttiger, Winckelmann
li giudicavano indubbiamente opera greca, e quest’ultimo sfidava a
produrne alcuno trovato in Toscana. Ma dopo che dal territorio al nord
di Civitavecchia, dove già furono Tarquinia, Cere, Clusio, Bomarzo,
Vulci, in un sol anno fin tremila se ne estrassero, a migliaja furono
trovati in tutti i sepolcri di Toscana; onde fu forza credere ad
un’arte veramente etrusca e originale.
Ma ecco sbucare vasi simili d’altre parti, al settentrione di Roma come
al mezzodì, a Velitra de’ Volsci come a Preneste dei Latini, dalle
rovine d’Adria come nella Magna Grecia, dove a Locri e Taranto pare
si fabbricassero e diffondessero all’interno e sulle coste d’Apulia e
Lucania: altri ne diè Napoli, e Rovo nell’Apulia quelli forse di più
stupenda bellezza, sopra un solo trovandosi ben cencinquanta figure
d’uomini, maschere, uccelli, pesci: Canusio n’ha a ribocco, e le
contrade montuose della Basilicata o le mediterranee della Puglia;
alquanti Pesto e Sorrento, e molti Nola, di popolazione osca passata
poi agli Etruschi e ai Sanniti; e Cuma, le cui tombe rivelate nel 1843
estendonsi per venticinque secoli. In Sicilia ne offrono principalmente
la costa orientale e la meridionale, come Agrigento, Gela, Camerina;
pochi Siracusa, molti Leontini ed Acre; altri il paese che di buon’ora
venne occupato dai Cartaginesi. Fu dunque proposto di chiamar questi
vasi, non più etruschi, bensì italioti: ma che? Corinto, Atene, altri
luoghi di Grecia ne discoprirono pur essi, e le isole, e perfino la
Crimea, e le altre colonie greche dell’Eusino, e la Cirenaica.
Tanta ricchezza avviluppò le dispute sull’origine e lo scopo dei
vasi, e sull’originalità dell’arte etrusca, mentre gli artisti non
finivano d’ammirare tanta varietà ed eleganza di foggie, di vernici, di
pitture. Oltre le forme usuali ingentilite, alcuni sono bizzarramente
foggiati a piedi, a barche, ad animali, a corni, a teste; talora il
manico è un leone, una lucertola, un intreccio di serpenti, il Fallo.
Chiusi, residenza di Porsena, diede moltissimi vasi, singolari per
aver le figure rilevate, e non essere fatti collo stampo nè cotti al
forno. Ve n’ha di gialli con figure nere; di neri con figure rosse;
di neri affatto; di color naturale con un leggero soprasmalto; alcuni
effigiati con semplici contorni, altri con fregi; alcuni squisitamente
dipinti da una parte e rustici dall’altra, forse da esser veduti d’un
fianco solo; in altri la composizione gira tutto il vaso, od una scena
è sovrapposta all’altra, o una contraria all’altra, come sarebbe
un idillio e un fatto tragico; ovvero in una pariglia di vasi due
momenti del medesimo racconto. I nuziali ritraggono scene voluttuose;
i panatenaici, le gare ginnastiche a cui si piaceano gli antichi; i
funerarj, l’estremo congedo, o sagrifizj ferali, o genj della morte:
altri figurano scene domestiche. Gli antichi ignoravano la prospettiva,
il cui difetto viepiù si risente su queste superficie convesse o
concave; le figure, invece d’aggrupparsi, compajono al piano stesso,
colle teste e i piedi in profilo, anche le poche volte che il corpo è
di prospetto.
[LORO FORMA ED ETÀ]
Le iscrizioni esprimono o augurj, o eccitamenti al bere, o versi, e
spesso il nome del dipintore. Ma pittore di lècyti sonava come da noi
pittore di boccali; e da siffatti doveano esser dipinti i vasi, sui
quali riproducevano forse le composizioni di artisti, alla buona ma con
molta libertà e colla spigliatezza che vuolsi nel lavorare a fresco.
Laonde questi dipinti ci conserverebbero almeno un ricordo de’ migliori
quadri perduti. Chè del resto la pittura in Toscana non era ancora
un’indipendente imitazione della natura; ma o serviva all’architettura,
o contentavasi di richiamare all’intelletto alcuni segni caratteristici
mediante forme convenzionali. Pertanto valeasi di soli quattro colori,
nè rifuggiva dal fare uccelli e alberi cerulei o rossi, un cavallo
con testa bruna, criniera e coda gialla, collo rosso picchiettato di
giallo, gialle, rosse, nere le gambe, una coscia gialla, una bruna; e
negli uomini il nudo rosso, bianco nelle donne.
Si pretese assegnare una cronologia almeno comparativa tra que’ vasi,
e dicono più antichi quelli di fondo giallastro con figure ranciate
o brune non lucenti, mentre le figure rosse su fondo nero erano da
principio inusate. Questo primo periodo, dal XVI al X secolo, offre
linee dure, attitudini inusate, persone esili, teste ovali, allungate
indietro, finite in menti acuti, cogli occhi tirati in su, le braccia
spenzoloni, i piedi paralleli, le pieghe agli abiti indicate appena
con un frego, e grossieri gli ornamenti. Dal secolo X al V appare un
secondo stile, con contorni meglio decisi, ma esagerate le espressioni,
la musculatura, l’atteggiamento, dita intirizzite, profili risentiti,
ignorante attaccatura di membri. Contemporanei al fiore dell’arte greca
sarebbero i migliori, con ornati gentili, ma le figure sempre peccanti
d’eccessivo e manierato. Via via si sbizzarrì nelle forme, ne’ meandri,
dal delicato si passò all’aggraziato, e si cadde nel negletto e nel
convenzionale.
[ORIGINE DEI VASI ETRUSCHI]
Anche dalle scene può argomentarsi la maggiore o minore antichità; e
d’altissima vorrebbero quelli che imitano disegni egizj ed orientali,
con persone di duplice natura, sfingi alate, mostri bizzarri, genj a
due o quattro ali, scarabei.
Cronologia convenzionale, perocchè muove dal supposto d’un progresso
regolare, nè tiene conto della diversa abilità degli operaj. Bensì
d’alcuni vasi può il tempo argomentarsi dai luoghi ove si trovano:
Vetulonia antichissima darebbe i primi; i vasi vulcenti sarebbero
anteriori ad ogni anticaglia greca e romana; i neri di Albano, spesso
a campana, tengonsi dovuti ad aborigeni; i più recenti sembrano quelli
d’Ercolano e Pompej, neri e verniciati ma non dipinti.
Gli scrittori d’arti belle aveano asserito che queste derivassero tutte
dalla Grecia; greci eransi detti i primi e pochi vasi etruschi, e
altrettanto volle sostenersi anche quando a migliaja furono resi dalle
terre nostre. Vi dava appoggio il portare alcuni di essi il nome del
pittore o del vasajo, od altra iscrizione greca e principalmente Τῶν
ἀθηνήθεν ἄθλων, cioè _premj dati in Atene_; onde supposero fosser di
que’ vasi che in Atene si distribuivano ai vincitori dei giuochi, e che
qui portati, si deponessero nella tomba del premiato. Molti soggetti
delle pitture si riferiscono a greca mitologia, e recano i noti simboli
delle divinità olimpiche; lo stile poi de’ vasi stessi tiene del greco,
e corrisponde alle varie età delle arti elleniche. Damarato, migrando
da Corinto a Tarquinia, menò seco i vasaj Euchiri ed Eugramo[81]:
linguaggio mitico, che esprimerebbe avere i Toscani imparato dai
Greci il disegnare grazioso e il modellar bene. Pertanto il dire arte
etrusca disconviene quanto il dire americane le opere fabbricate su
l’altro continente da Europei. Perchè i primi lavori in Roma vennero di
Toscana, etrusco chiamarono i Romani lo stile duro e arcaico, ignorando
che questo era proprio anche dei Greci; e viepiù si confermarono in
tale distinzione quando acquistarono in Grecia lavori di squisita
perfezione, al cui confronto credettero proprio degli Etruschi quello
stile, che non era in realtà se non il greco antico.
[ORIGINE DEI VASI ETRUSCHI]
Così argomentano i grecanici: ma d’altra parte, mentre scarsi
s’incontrano altrove, abbondanti e bellissimi si trovano i vasi in
Italia; e sembra si possa drittamente indurre che là si fabbricassero
ove si adoperavano; e poichè non valeano ad altro uso, giacchè i più
mancano di fondo, ed hanno la superficie nè fusa nè vetrificata come
si vorrebbe per servire al modo delle nostre stoviglie, e trovatisi
affatto nuovi, dobbiamo crederli destinati o interamente o specialmente
ai sepolcri. Ora chi vorrà credere andassero i nostri a cercare dagli
stranieri ciò che serviva ai riti patrj? Certo alla Grecia era insueto
questo deporre i vasi nelle tombe. I somiglianti che si rinvengono
nell’Attica, sono pochi e meno eleganti; quelli della Sicilia,
legatissima colla Grecia, non vincono i veramente etruschi e nolani.
Ben potè qualche Etrusco aver riportato un premio panatenaico: ma
riflettendo alla difficoltà di comunicazione degli antichi, e alla
fragilità dei vasi stessi, chi s’adagerà a credere che questi a
migliaja fossero trasportati, e non per altro che per sepellirli? Le
leggende e i soggetti greci mostrerebbero soltanto come antico sia
l’andazzo dell’imitare, e quanto forte l’influenza greca ed estesi
i poemi omerici, i quali del resto raccolsero rapsodie vocali, che
poteano esser divulgate fra Pelasgi e Tirreni, o fra quelli comunque
nominati, che antichissimamente popolarono e la Grecia e l’Italia,
senza che si possa asserire qual prima. La scritta che riferimmo,
potrebbe anche esprimere _uno dei certami provenienti da Atene_, che
cioè fossero distribuiti nei giuochi che Italia imitava dall’Attica.
Sappiamo che i vasi etruschi di bronzo erano cerchi in Grecia[82]; poi
dai sepolcreti uscirono e statue e arredi e fregi e pitture, più che
non n’abbia dati la Grecia. Almeno le pitture murali sarà forza dirle
eseguite in luogo: or bene, esse vanno sull’identico stile dei vasi.
In questi poi non mancano soggetti originali e riferibili alla
mitologia etrusca, con genj ignoti alla ellenica: le stesse scene
greche vi appajono ritratte con qualche originalità; ne’ panatenaici
più belli, lo scudo di Menerva porta gli stemmi delle città etrusche;
soggetti greci sono accompagnati da caratteri e da cifre all’etrusca.
La superbia ellenica sarebbesi piegata a blandire la nazionalità
straniera? Le figure qui sono sempre di profilo, coll’occhio rotondo
e di prospetto a guisa degli uccelli, naso prominentissimo, elmi
chiusi, abiti attaccati alle corazze e aderenti alle gambe. V’ha poi
particolarità di paese, per le quali gli esperti discernono i vasi
vulcenti dai nolani e dagli apuli: circostanza che basterebbe ad
attestare operaj locali, se pure i grecanici non si schermissero col
dire che greci artisti venissero a lavorarli qui.
Certamente sull’Adriatico da Spina e da Ravenna, e sul Tirreno da
Agilla, Alsio, Tarquinia si mantennero corrispondenze colla Grecia; ma
le somiglianze d’arte provenivano da queste comunicazioni, oppure da
immigrazione e conquista? Poi gli Etruschi al par de’ Greci deducono
la loro civiltà vogliasi dire dai Pelasgi, o più genericamente da una
comune fonte orientale, che dà ragione delle somiglianze. L’Italia
precorse in coltura la Grecia; onde di qui potè l’arte esser trasferita
nell’Ellade che la perfezionò, e quel mirabile concorso d’evenienze
potè poi di ricambio rimbalzare sugli Etruschi. Probabilmente e Greci
ed Etruschi fabbricarono i vasi che qui si trovano; e forse ai Greci
vanno attribuiti quelli di terra più fina e leggera, neri dentro, fuori
gialli o rossicci e talvolta pur neri; etruschi ritenendo quelli di
Tarquinia, Volterra, Perugia, Orvieto, Viterbo, Acquapendente, Corneto,
giallo pallido i più, con vernice rossastra e figure in nero, abiti
nostrali, barba e capelli prolissi, divinità alate[83].
[VASI ETRUSCHI]
Poi si domanda a che servissero, qual cosa significassero tanti vasi.
Non ad uso alcuno, nè tampoco al banchetto funerale, perchè i più
mancano di fondo, e tutti son vergini. Erano un segno d’iniziazione,
deposto con quelli addetti ai misteri? inviterebbero a crederlo i
soggetti, appellanti spesso a riti dionisiaci ed eleusini: ma quasi
a sventare le ingegnose induzioni, una tomba a Vulci presentò ben
novecento ciotole ordinarie e rozze, come una bottega di scodellajo.
Su tutti questi punti disputano, e lungamente ancora disputeranno gli
archeologi; ma a qualunque sistema piaccia attenersi, queste preziose
reliquie, di cui si gloriano tutti i musei d’Europa, attestano una
fiorente civiltà. Esaminate in complesso, non ci fanno vedere quel
progresso regolare, per cui si ammira la Grecia; provano anzi che gli
Etruschi, se sapeano appropriarsi l’altrui, raffinare l’esecuzione
meccanica, applicare all’utilità domestica o alla comune, mancavano
del genio inventivo e di quel libero lancio per cui la Grecia divenne
insuperabile. Pure, nel mentre l’arte orientale rimane immobile, e
gli Egizj, per mutar di secoli, non mutano il modo delle piramidi e
degli ipogei, in Etruria l’arte si conserva fedele al principio, ma sa
procedere e rinnovellarsi.
[FINE DEGLI ETRUSCHI]
Di tanto incivilimento le memorie perirono tutte. Delle tre Etrurie,
la padana fu sterminata dai Galli; la campana dai Sabini, che
precipitatisi dalla montagna, presero Vulturnio e la intitolarono
Capua: Roma fece il resto, e le guerre di Silla distrassero i generosi
patrioti e i monumenti, massime scritti; la vendetta dei vincitori si
compiacque d’annichilare i ricordi di quella che avevano avuta prima
Pelasgi che poco sopra contemplammo, di sassi scabri o appena slabrati,
appartengono a quel primo periodo, ove l’uomo non provvede con essi
che alla necessità, nè ancora si eleva a quei concetti che mutano la
pratica manuale in arte bella. La religione è la fonte, e il culto è
la forma più universale di questa ideale bellezza, rivelazione della
presenza divina in un oggetto visibile; ond’è che le belle arti, con un
fondo comune di sentimenti, variano secondo il carattere d’una nazione,
e secondo il culto tributato agli enti sovrannaturali e alle tombe.
E impronta originale ebbero le arti nell’Etruria. Non cerchiamo
blandimenti alla vanità col pretendere che fra noi nascessero esse,
e da noi le imparassero i Greci, ai quali era serbato recarle alla
perfezione: ma che qui siano antichissime, molti riscontri storici
il provano. Romolo rubò in Etruria un carro di bronzo; Plinio cita
pitture di Ardea, anteriori alla fondazione di Roma; Bolsena in fenicio
esprimerebbe città degli artisti, e da questa i Romani predarono
duemila statue, probabilmente di terra cotta; la fiorente Adria fu
distrutta dai Galli quando passarono le Alpi ne’ primi secoli di Roma,
onde anteriori devono tenersi le tante opere e i bellissimi vasi che
n’escono tuttodì. Agli Etruschi spetta il merito delle opere più
antiche di Roma, quali la mura esterna del Campidoglio, l’arginatura
del Tevere, e la cloaca massima, la cui volta interiore è chiusa da una
seconda, e questa da una terza, fatte di massi di peperino a cuneo,
combacianti senza cemento, in modo da non essersi sconnesse pel lasso
di tanti secoli. Serviva essa a dare scolo alle acque stagnanti fra
il Capitolino e il Palatino, traversava il fôro romano e il boario,
e il Velàbro, e gettavasi nel Tevere poco sotto del ponte Palatino,
con tale ampiezza che vi si poteva scendere in barca, avendo quattro
metri e mezzo di larghezza e più di dieci d’altezza; e a prevenire
i rigurgiti del fiume, v’entrava ad angolo acuissimo. Nel 1742 si
scoprì un altro acquedotto non meno meraviglioso, tredici metri
sotto al suolo presente, di travertino, e perciò più recente e forse
posteriore alle guerre puniche: tremuoti, sovrapposti edifizj, quindici
secoli di abbandono non ne spostarono pietra. L’emissario del lago
Albano, alto metri 2.27, largo 1.62, è tagliato nel tufo vulcanico
per duemila trecentrentasette metri di lunghezza, e allo sbocco la
volta è regolarmente costrutta di pietre a cuneo. A Volterra, mentre
il naturalista studia le copiose saline, gli alabastri, le miniere
del rame, i lagoni dell’acido borico, l’antiquario ammira infiniti
cimelj raccolti nel museo civico, e le gigantesche mura, e la Porta
all’arco sotto alla cattedrale, colla volta perfettamente circolare di
diciannove grandi pietre squadrate, e colla serraglia grossolanamente
effigiata: oltre una cisterna a triplice volta. Più riccamente finite
sono due altre porte a Perugia; e par veramente merito degli Etruschi
l’aver indovinato l’importanza dell’arco, che poi i Romani doveano
usare alla bellezza monumentale: mentre vuolsi che solo al fine del v
secolo Democrito insegnasse ai Greci il fabbricare a volta con pietre
cuneiformi. Etrusco è pure l’anfiteatro di Sutri, scarpellato nella
rupe e del giro di mille passi; e così il teatro di Adria, e fors’anche
l’anfiteatro di Verona. Da Cere a Vejo sussiste tuttora la strada
selciata.
L’ordine toscano tiene del dorico, con importanti modificazioni;
ma non sappiamo se fosse veramente proprio degli Etruschi, giacchè
verun monumento ce ne avanza. Secondo Vitruvio, i loro tempj erano
quadrilunghi, nella proporzione di cinque a sei: il santuario avea tre
celle, di cui la media più vasta: nel pronao erano distribuite colonne
molto distanti, e di sette diametri con base e capitello; e al disopra
la trabeazione di legno ornata di mensole, e con una cimasa sporgente:
costruzioni che Vitruvio qualifica di pesanti, goffe e nane. Le case
disponevano in tutt’altra foggia da’ Greci, in modo che la principale
camera stesse in mezzo, verso la quale piovevano le acque dal tetto
circostante (_impluvium_).
[SEPOLCRI]
Varrone descrive il sepolcro di Porsena presso Clusio, che, se vogliam
tirarne qualche concetto dalle particolarità certamente fantastiche,
era una costruzione di settantacinque metri in quadro e alta sedici,
con anditi intricati a somiglianza del labirinto di Creta, di pietre
a squadra, sormontato da cinque piramidi, larghe novantacinque metri
ed alte il doppio, e congiunte in cima da un cerchio di bronzo ed un
cappello, donde pendeano campane: su questo poi Plinio diceva erette
quattro altre piramidi, e un nuovo piano con sovrappostene altre
cinque; idealità ineffettibile[75]. Bensì cinque obelischi si ergono
presso Albano su quel che il vulgo intitola sepolcro degli Orazj e
Curiazj.
E i sepolcri sono gli edifizj di cui maggior numero si è salvato in
Etruria. Sempre sotterranei, o cavati ne’ fianchi d’un monte o a piè
d’un masso trasformato in monumento: ove il terreno non si prestasse
all’escavazione, si costruivano di muro, ma sempre coperti, quasi per
celarli ad ogni occhio; sicchè bisogna fra macìe di sassi e spinose
marruche cercare que’ tesori, a differenza dei Romani che gli esponeano
lungo le strade.
Già sullo scorcio del 1600 si era penetrato nella necropoli di
Tarquinia, scavata nel tufo in mezzo ad una pianura presso Corneto,
dodici miglia da Civitavecchia e tre dal mare: poi dalle tombe
di Perugia, fra molti etruschi monumenti, si erano tratte urne,
specchi, pietre incise, scarabei, vasi dipinti, figurine di bronzo
graziosissime. Un altro sepolcro alla torre di San Manno colà presso, e
l’unico a fior di terra, diede la regina delle iscrizioni etrusche.
Questa ed altre scoperte aveano fatte i due secoli precedenti, non
tenendo memoria del modo ond’erano disposte le tombe, nè levandone i
disegni. Ma dopo il 1824 con ben altra diligenza s’indagarono quelle di
Tarquinia, e lord Kinnaird ne trasse di bei vasi e preziose anticaglie;
poi nel 28, sulle rive della Fiora ripastinando alcuni cucuzzoli
di terra che in paese chiamano cucumelle, si scoperse una camera
sepolcrale, dietro la quale altre, donde Luciano Buonaparte principe
di Canino cavò ben tremila vasi, di beltà e grandezza singolari, e
lavori di bronzo, oro, avorio (venduti poi al Museo Britannico), che
gli fecero conghietturare fosse colà situata Vetulonia, capo della
federazione etrusca.
Questi sepolcri, che stendonsi per molte miglia, parrebbero destinati
ciascuno ad una famiglia. Il tumulo, ossia il mucchio di terra, n’è
la forma originaria, talvolta alla base circondato di pietroni, che
talaltra ascendono gradinati a formare un cono, ma non mai a foggia
di piramide. Se dall’apertura a imbuto tu scendi per tacche fatte
nella parete, ti trovi in camere traenti luce sol dall’entrata,
con volte quali a botte come le nostre, quali a lacunari, quali a
spinapesce, sorrette da pilastri quadrati di tufo, con membrature di
semplice e robusto profilo; e dipinti su ogni cosa combattimenti, o
rappresentazioni dello stato postumo delle anime, come i lari col
vigile cane, demoni alati che tirano in cocchio il defunto, o con
martelli percuotono una figura virile, ignuda e prostesa. Altre camere
sono a loculi come i colombarj di Roma, in cui collocare l’urnetta
delle ceneri vulgari; nè di rado sviluppansi in sembianza di labirinti.
Preso a scandagliare il suolo, tesori si rinvennero dappertutto. Le
cucumelle presso Vulci sono camere circolari entro il tufo, sopra cui
colline di cotto: la più insigne gira non meno di settanta metri, e
nel mezzo una torre quadrilatera, forse un tempo circondata da quattro
altre a cono, di cui una sola or è in piedi. Toscanella e Bomarzo
nella val della Matra n’hanno di scavate nelle roccie perpendicolari,
alcune colla porta a fregi; presso Cortona son coniche, a modo de’
nuraghi; e di muro una che intitolano la grotta di Pitagora. Degli
ipogei di Agilla, uno vastissimo è preceduto da vestibolo, come i
tempj moderni. Cere, che ora è Cervetri, sulla destra della via romana
per Civitavecchia, rivelò la sua necropoli a lacunari, e con lunghi
corridoj e porte archeggiate o piramidali, e panchine, tutto ricavato
nel nenfro, tufo vulcanico.
Un sepolcro trovato nel 1836 con volta acuta, che vorrebbesi dell’età
pelasga e certamente anteriore alla influenza greca, constava di
due lunghe celle, comunicanti per una porta, chiusa fin a mezzo da
un parapetto, sul quale posavano due vasi di bronzo; due d’argento
pendeano dalla sommità d’essa porta. Appo l’entrata stava un caldano
di bronzo su tripode di ferro, poi una specie di candelabro da
profumi, adorno d’animali simbolici; là vicino un caldano minore; in
faccia rottami d’un carro a quattro ruote; e sulla dritta un letto
di bronzo, formato di lamine in croce: letto e carro fabbricati per
vivi, e qui conversi ad uso funereo. Ai due capi del letto sorgevano
due altarini di ferro: in faccia si vedevano sospesi otto scudi di
bronzo sottilissimo, misti con freccie e stromenti da battaglia e
da sacrifizj. Davanti al letto e in una camera laterale trentasei
idoletti d’argilla nera, figuranti un vecchio che il mento barbuto
appoggia alle mani. Chiovi di bronzo nella volta sosteneano vasi dello
stesso metallo; e in fondo alla cella una raccolta di vezzi d’oro e
d’argento, i manichi di sei ombrelli, e coppe e piatti d’argento. Il
cadavere, probabilmente femminile, era coperto di tanti giojelli, che
dei frantumi d’oro misti alla terra si potè empiere un capace paniere;
oltre un diadema, una collana, due braccialetti, catene, fibule, e un
pettorale in filagrana d’oro, composto di nove zone concentriche con
rilevate moltissime forme simboliche.
Altre tombe somigliano a tempietti, forse per famiglie sacerdotali.
Quelle di Castel d’Asso o Castellaccio presso Viterbo sono
importantissime fra le ricavate nel tufo per l’architettura esterna,
con ricchi frontoni e cornici a triglifi, e porte rastremate, che,
come la generale inclinazione a piramide delle pareti, rammentano
lo stile egizio: del dorico sentono invece quelle di Norcia, dove
si vede un bassorilievo, che è l’unico compiuto ed esteso frontone
in Italia. Le traccie di colori sopra molti membri attestano che
si usava la decorazione policromatica, che testè credevasi misero
ripiego del medioevo, e invece compare sulle statue più classiche e
nei tempj meglio vantati dell’antichità. Al sepolcro de’ Volumnj,
scoperto a Perugia il 1840, nulla fu scomposto per farne cortesia
agli osservatori: è nel tufo con camere semplici senza pitture nè
altro ornamento che una colonnetta esterna portante la scritta;
regolarmente costruito col tetto a doppia tesa, a croce latina, il cui
fondo ad abside serve alla sepoltura: dentro v’ha urne, iscrizioni,
statuette[76]. Ivi stesso, due anni dappoi, si trovò una figura
di bronzo giacente, che nel seno conteneva le ossa, come era pure
dell’Adone del museo Gregoriano. In questo e nella raccolta Campana a
Roma accolgonsi arredi d’oro cavati dalle tombe, di tale squisitezza da
scoraggiare gli orafi nostri più esperti.
Queste tombe rivelarono la vita e la civiltà degli Etruschi, come
Ercolano e Pompej quella de’ Romani, essendovi imitate o simboleggiate
le azioni della vita privata, talora anche nella forma esterna, più
spesso nella disposizione interiore e ne’ profusi arredi domestici. E
gli scheletri e le pitture ci attestano come a ragione gli Etruschi
fosser detti _obesi et pingues_[77], avendo viso pieno, grandi occhi,
naso grosso, mento prominente, testa grande, piccola statura, braccia
corte, corpo tozzo. Rasi la barba; spesso inghirlandati la fronte;
l’anello al mignolo della mano sinistra[78].
Nelle iscrizioni non leggi parola che indichi dolore nè melanconico
addio. Nessuna statua di marmo sinora, bensì di metallo, tufo calcare,
alabastro, argilla; alcune per accessorio di ciste, candelabri, patere;
altre isolate e più franche e originali; ma tutte rigide di membra,
faccia ovale molto allungata, occhi a fior di testa e tirati in su,
come anche la bocca; gambe parallele, e talora non disgiunte; fisonomia
senza carattere: più volte stendonsi lettere sull’abito o sulle coscie.
A Corneto fu restituita dal suolo una statua intera di cotto, che a
grandezza naturale figura un uomo di piena virilità, con corona d’oro.
Il Bacco giacente, pure di colto, tratto dalla necropoli di Tarquinia
e conservato a Corneto, è delle statue più grandiose ed eleganti fra
le etrusche. La lupa del Campidoglio, che forse è il monumento posto
al fico ruminale a Roma nel 204 avanti Cristo, emula qualvogliasi
capo d’arte per robusta espressione. Graziosa è la Menerva e ben
lavorata, comechè priva d’idealità. Il Metello, detto l’Arringatore
della galleria di Firenze; il fanciullo abbracciante l’oca nel museo di
Leida, di sì cara ingenuità; il guerriero di bronzo, venuto da Todi al
museo Gregoriano, vanno fra’ meglio pregiati lavori, se s’aggiunga la
donna ornata, senza testa, che da Vulci passò alla gliptoteca dì Monaco.
Gran merito hanno le pietre incise, con soggetti di mitologia greca.
Dai sepolcri di Perugia uscì una delle più belle, rappresentante
i sette eroi sotto Tebe, coi loro nomi greci in forma etrusca. Lo
scarabeo, comunissimo fra gli Egiziani, è pure forma molto solita
delle pietre etrusche, e se ne trovano nelle tombe infilati per lo
lungo, o legati in anelli e versatili. Si ammirano pure i disegni
fatti sul rovescio degli specchi di bronzo e sulle ciste mistiche.
Altre ricchezze già ricavarono da quei tesori inesauribili; uno scudo
cesellato di tre piedi di diametro, un mascherone di bronzo cogli occhi
di smalto, idoletti smaltati, coppe d’argento, armadure, specchi di
bronzo, che altri crede patere, intagliati nella parte concava.
[VASI ETRUSCHI]
Dovizia ancor più speciale e vantata sono i vasi etruschi. Accennarono
i Romani che in Etruria se ne fabbricassero di terra, ma ad uso
comune[79]. Plinio, che ragionò tutte le varietà delle arti belle,
nulla toccò de’ vasi figurati; nè alcuno menziona l’uso di sepellirli
nelle tombe. Ne’ musei se n’aveano alcuni d’incerta provenienza,
e dopo Lachausse, Bergier, Dempstero, Montfaucon, pubblicarono
il disegno d’alcuni i nostri Gori, Bonarroti, Passeri. Primo il
Targioni-Tozzetti, descrivendo la gita dalla Gonfolina all’Ambrogiana,
riferisce che in San Michele a Luciano il 1752 si trovò un pozzo
«rinterrato dalle alluvioni del vicino Arno. La particolarità più
curiosa si è che, vuotandosi questo rinterro, vi si trovarono molti
vasi di antico lavoro fatti a ruota, di terra cotta parte nera, parte
sbiancata sottile, e alcuni con vernice o nera o carnicina, ma senza
pitture. La loro forma è molto varia, ma per lo più sono del genere
di quei vasi che chiamavano _urcei_, con un solo manico ben fatto,
sull’andare delle moderne mescirobe e de’ boccali, e non hanno il
marco del figulo. Molto malagevole si è l’intendere come mai tanti di
questi antichi vasi sieno restati sommersi in questo pozzo... Chi sa se
esso pozzo nel tempo del paganesimo non fosse sacro, o che o i vicini
popoli, o i passeggieri per la contigua via militare, non vi gettassero
dentro tali vasi con qualche liquido, per offerta o sagrifizio alle
false deità?»[80].
Essendo ancora una rarità, venivano giudicati con idee sistematiche;
e Millin, Lanzi, Maffei, Zanoni, Tischheim, Böttiger, Winckelmann
li giudicavano indubbiamente opera greca, e quest’ultimo sfidava a
produrne alcuno trovato in Toscana. Ma dopo che dal territorio al nord
di Civitavecchia, dove già furono Tarquinia, Cere, Clusio, Bomarzo,
Vulci, in un sol anno fin tremila se ne estrassero, a migliaja furono
trovati in tutti i sepolcri di Toscana; onde fu forza credere ad
un’arte veramente etrusca e originale.
Ma ecco sbucare vasi simili d’altre parti, al settentrione di Roma come
al mezzodì, a Velitra de’ Volsci come a Preneste dei Latini, dalle
rovine d’Adria come nella Magna Grecia, dove a Locri e Taranto pare
si fabbricassero e diffondessero all’interno e sulle coste d’Apulia e
Lucania: altri ne diè Napoli, e Rovo nell’Apulia quelli forse di più
stupenda bellezza, sopra un solo trovandosi ben cencinquanta figure
d’uomini, maschere, uccelli, pesci: Canusio n’ha a ribocco, e le
contrade montuose della Basilicata o le mediterranee della Puglia;
alquanti Pesto e Sorrento, e molti Nola, di popolazione osca passata
poi agli Etruschi e ai Sanniti; e Cuma, le cui tombe rivelate nel 1843
estendonsi per venticinque secoli. In Sicilia ne offrono principalmente
la costa orientale e la meridionale, come Agrigento, Gela, Camerina;
pochi Siracusa, molti Leontini ed Acre; altri il paese che di buon’ora
venne occupato dai Cartaginesi. Fu dunque proposto di chiamar questi
vasi, non più etruschi, bensì italioti: ma che? Corinto, Atene, altri
luoghi di Grecia ne discoprirono pur essi, e le isole, e perfino la
Crimea, e le altre colonie greche dell’Eusino, e la Cirenaica.
Tanta ricchezza avviluppò le dispute sull’origine e lo scopo dei
vasi, e sull’originalità dell’arte etrusca, mentre gli artisti non
finivano d’ammirare tanta varietà ed eleganza di foggie, di vernici, di
pitture. Oltre le forme usuali ingentilite, alcuni sono bizzarramente
foggiati a piedi, a barche, ad animali, a corni, a teste; talora il
manico è un leone, una lucertola, un intreccio di serpenti, il Fallo.
Chiusi, residenza di Porsena, diede moltissimi vasi, singolari per
aver le figure rilevate, e non essere fatti collo stampo nè cotti al
forno. Ve n’ha di gialli con figure nere; di neri con figure rosse;
di neri affatto; di color naturale con un leggero soprasmalto; alcuni
effigiati con semplici contorni, altri con fregi; alcuni squisitamente
dipinti da una parte e rustici dall’altra, forse da esser veduti d’un
fianco solo; in altri la composizione gira tutto il vaso, od una scena
è sovrapposta all’altra, o una contraria all’altra, come sarebbe
un idillio e un fatto tragico; ovvero in una pariglia di vasi due
momenti del medesimo racconto. I nuziali ritraggono scene voluttuose;
i panatenaici, le gare ginnastiche a cui si piaceano gli antichi; i
funerarj, l’estremo congedo, o sagrifizj ferali, o genj della morte:
altri figurano scene domestiche. Gli antichi ignoravano la prospettiva,
il cui difetto viepiù si risente su queste superficie convesse o
concave; le figure, invece d’aggrupparsi, compajono al piano stesso,
colle teste e i piedi in profilo, anche le poche volte che il corpo è
di prospetto.
[LORO FORMA ED ETÀ]
Le iscrizioni esprimono o augurj, o eccitamenti al bere, o versi, e
spesso il nome del dipintore. Ma pittore di lècyti sonava come da noi
pittore di boccali; e da siffatti doveano esser dipinti i vasi, sui
quali riproducevano forse le composizioni di artisti, alla buona ma con
molta libertà e colla spigliatezza che vuolsi nel lavorare a fresco.
Laonde questi dipinti ci conserverebbero almeno un ricordo de’ migliori
quadri perduti. Chè del resto la pittura in Toscana non era ancora
un’indipendente imitazione della natura; ma o serviva all’architettura,
o contentavasi di richiamare all’intelletto alcuni segni caratteristici
mediante forme convenzionali. Pertanto valeasi di soli quattro colori,
nè rifuggiva dal fare uccelli e alberi cerulei o rossi, un cavallo
con testa bruna, criniera e coda gialla, collo rosso picchiettato di
giallo, gialle, rosse, nere le gambe, una coscia gialla, una bruna; e
negli uomini il nudo rosso, bianco nelle donne.
Si pretese assegnare una cronologia almeno comparativa tra que’ vasi,
e dicono più antichi quelli di fondo giallastro con figure ranciate
o brune non lucenti, mentre le figure rosse su fondo nero erano da
principio inusate. Questo primo periodo, dal XVI al X secolo, offre
linee dure, attitudini inusate, persone esili, teste ovali, allungate
indietro, finite in menti acuti, cogli occhi tirati in su, le braccia
spenzoloni, i piedi paralleli, le pieghe agli abiti indicate appena
con un frego, e grossieri gli ornamenti. Dal secolo X al V appare un
secondo stile, con contorni meglio decisi, ma esagerate le espressioni,
la musculatura, l’atteggiamento, dita intirizzite, profili risentiti,
ignorante attaccatura di membri. Contemporanei al fiore dell’arte greca
sarebbero i migliori, con ornati gentili, ma le figure sempre peccanti
d’eccessivo e manierato. Via via si sbizzarrì nelle forme, ne’ meandri,
dal delicato si passò all’aggraziato, e si cadde nel negletto e nel
convenzionale.
[ORIGINE DEI VASI ETRUSCHI]
Anche dalle scene può argomentarsi la maggiore o minore antichità; e
d’altissima vorrebbero quelli che imitano disegni egizj ed orientali,
con persone di duplice natura, sfingi alate, mostri bizzarri, genj a
due o quattro ali, scarabei.
Cronologia convenzionale, perocchè muove dal supposto d’un progresso
regolare, nè tiene conto della diversa abilità degli operaj. Bensì
d’alcuni vasi può il tempo argomentarsi dai luoghi ove si trovano:
Vetulonia antichissima darebbe i primi; i vasi vulcenti sarebbero
anteriori ad ogni anticaglia greca e romana; i neri di Albano, spesso
a campana, tengonsi dovuti ad aborigeni; i più recenti sembrano quelli
d’Ercolano e Pompej, neri e verniciati ma non dipinti.
Gli scrittori d’arti belle aveano asserito che queste derivassero tutte
dalla Grecia; greci eransi detti i primi e pochi vasi etruschi, e
altrettanto volle sostenersi anche quando a migliaja furono resi dalle
terre nostre. Vi dava appoggio il portare alcuni di essi il nome del
pittore o del vasajo, od altra iscrizione greca e principalmente Τῶν
ἀθηνήθεν ἄθλων, cioè _premj dati in Atene_; onde supposero fosser di
que’ vasi che in Atene si distribuivano ai vincitori dei giuochi, e che
qui portati, si deponessero nella tomba del premiato. Molti soggetti
delle pitture si riferiscono a greca mitologia, e recano i noti simboli
delle divinità olimpiche; lo stile poi de’ vasi stessi tiene del greco,
e corrisponde alle varie età delle arti elleniche. Damarato, migrando
da Corinto a Tarquinia, menò seco i vasaj Euchiri ed Eugramo[81]:
linguaggio mitico, che esprimerebbe avere i Toscani imparato dai
Greci il disegnare grazioso e il modellar bene. Pertanto il dire arte
etrusca disconviene quanto il dire americane le opere fabbricate su
l’altro continente da Europei. Perchè i primi lavori in Roma vennero di
Toscana, etrusco chiamarono i Romani lo stile duro e arcaico, ignorando
che questo era proprio anche dei Greci; e viepiù si confermarono in
tale distinzione quando acquistarono in Grecia lavori di squisita
perfezione, al cui confronto credettero proprio degli Etruschi quello
stile, che non era in realtà se non il greco antico.
[ORIGINE DEI VASI ETRUSCHI]
Così argomentano i grecanici: ma d’altra parte, mentre scarsi
s’incontrano altrove, abbondanti e bellissimi si trovano i vasi in
Italia; e sembra si possa drittamente indurre che là si fabbricassero
ove si adoperavano; e poichè non valeano ad altro uso, giacchè i più
mancano di fondo, ed hanno la superficie nè fusa nè vetrificata come
si vorrebbe per servire al modo delle nostre stoviglie, e trovatisi
affatto nuovi, dobbiamo crederli destinati o interamente o specialmente
ai sepolcri. Ora chi vorrà credere andassero i nostri a cercare dagli
stranieri ciò che serviva ai riti patrj? Certo alla Grecia era insueto
questo deporre i vasi nelle tombe. I somiglianti che si rinvengono
nell’Attica, sono pochi e meno eleganti; quelli della Sicilia,
legatissima colla Grecia, non vincono i veramente etruschi e nolani.
Ben potè qualche Etrusco aver riportato un premio panatenaico: ma
riflettendo alla difficoltà di comunicazione degli antichi, e alla
fragilità dei vasi stessi, chi s’adagerà a credere che questi a
migliaja fossero trasportati, e non per altro che per sepellirli? Le
leggende e i soggetti greci mostrerebbero soltanto come antico sia
l’andazzo dell’imitare, e quanto forte l’influenza greca ed estesi
i poemi omerici, i quali del resto raccolsero rapsodie vocali, che
poteano esser divulgate fra Pelasgi e Tirreni, o fra quelli comunque
nominati, che antichissimamente popolarono e la Grecia e l’Italia,
senza che si possa asserire qual prima. La scritta che riferimmo,
potrebbe anche esprimere _uno dei certami provenienti da Atene_, che
cioè fossero distribuiti nei giuochi che Italia imitava dall’Attica.
Sappiamo che i vasi etruschi di bronzo erano cerchi in Grecia[82]; poi
dai sepolcreti uscirono e statue e arredi e fregi e pitture, più che
non n’abbia dati la Grecia. Almeno le pitture murali sarà forza dirle
eseguite in luogo: or bene, esse vanno sull’identico stile dei vasi.
In questi poi non mancano soggetti originali e riferibili alla
mitologia etrusca, con genj ignoti alla ellenica: le stesse scene
greche vi appajono ritratte con qualche originalità; ne’ panatenaici
più belli, lo scudo di Menerva porta gli stemmi delle città etrusche;
soggetti greci sono accompagnati da caratteri e da cifre all’etrusca.
La superbia ellenica sarebbesi piegata a blandire la nazionalità
straniera? Le figure qui sono sempre di profilo, coll’occhio rotondo
e di prospetto a guisa degli uccelli, naso prominentissimo, elmi
chiusi, abiti attaccati alle corazze e aderenti alle gambe. V’ha poi
particolarità di paese, per le quali gli esperti discernono i vasi
vulcenti dai nolani e dagli apuli: circostanza che basterebbe ad
attestare operaj locali, se pure i grecanici non si schermissero col
dire che greci artisti venissero a lavorarli qui.
Certamente sull’Adriatico da Spina e da Ravenna, e sul Tirreno da
Agilla, Alsio, Tarquinia si mantennero corrispondenze colla Grecia; ma
le somiglianze d’arte provenivano da queste comunicazioni, oppure da
immigrazione e conquista? Poi gli Etruschi al par de’ Greci deducono
la loro civiltà vogliasi dire dai Pelasgi, o più genericamente da una
comune fonte orientale, che dà ragione delle somiglianze. L’Italia
precorse in coltura la Grecia; onde di qui potè l’arte esser trasferita
nell’Ellade che la perfezionò, e quel mirabile concorso d’evenienze
potè poi di ricambio rimbalzare sugli Etruschi. Probabilmente e Greci
ed Etruschi fabbricarono i vasi che qui si trovano; e forse ai Greci
vanno attribuiti quelli di terra più fina e leggera, neri dentro, fuori
gialli o rossicci e talvolta pur neri; etruschi ritenendo quelli di
Tarquinia, Volterra, Perugia, Orvieto, Viterbo, Acquapendente, Corneto,
giallo pallido i più, con vernice rossastra e figure in nero, abiti
nostrali, barba e capelli prolissi, divinità alate[83].
[VASI ETRUSCHI]
Poi si domanda a che servissero, qual cosa significassero tanti vasi.
Non ad uso alcuno, nè tampoco al banchetto funerale, perchè i più
mancano di fondo, e tutti son vergini. Erano un segno d’iniziazione,
deposto con quelli addetti ai misteri? inviterebbero a crederlo i
soggetti, appellanti spesso a riti dionisiaci ed eleusini: ma quasi
a sventare le ingegnose induzioni, una tomba a Vulci presentò ben
novecento ciotole ordinarie e rozze, come una bottega di scodellajo.
Su tutti questi punti disputano, e lungamente ancora disputeranno gli
archeologi; ma a qualunque sistema piaccia attenersi, queste preziose
reliquie, di cui si gloriano tutti i musei d’Europa, attestano una
fiorente civiltà. Esaminate in complesso, non ci fanno vedere quel
progresso regolare, per cui si ammira la Grecia; provano anzi che gli
Etruschi, se sapeano appropriarsi l’altrui, raffinare l’esecuzione
meccanica, applicare all’utilità domestica o alla comune, mancavano
del genio inventivo e di quel libero lancio per cui la Grecia divenne
insuperabile. Pure, nel mentre l’arte orientale rimane immobile, e
gli Egizj, per mutar di secoli, non mutano il modo delle piramidi e
degli ipogei, in Etruria l’arte si conserva fedele al principio, ma sa
procedere e rinnovellarsi.
[FINE DEGLI ETRUSCHI]
Di tanto incivilimento le memorie perirono tutte. Delle tre Etrurie,
la padana fu sterminata dai Galli; la campana dai Sabini, che
precipitatisi dalla montagna, presero Vulturnio e la intitolarono
Capua: Roma fece il resto, e le guerre di Silla distrassero i generosi
patrioti e i monumenti, massime scritti; la vendetta dei vincitori si
compiacque d’annichilare i ricordi di quella che avevano avuta prima
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