Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 04

più affini ad essi: tal nome deriverebbe da Tirra, città nella Lidia;
lo perchè Erodoto chiamò Lidj i Tirreni[45]. I Pelasgi-Tirreni si
discernerebbero dalle altre propagini pelasghe in quanto non abitavano
le coste, ma regioni interne, come la Tessaglia e l’Arcadia; non pirati
ma agricoli; ed affini sì, pur differenti di religione e di favella.
E inclinazione d’animi onesti e d’ingegni temperati il porre la ragione
fra due estremi; e già quel Greco vantava la potenza delle medie
proporzionali. Ma a questi asserti come chetarci se dappertutto gli
Elleni ci si rappresentano quali oppressi dei Tirreni? I confronti
della lingua, delle credenze, della civiltà non autorizzano a sì
precise conseguenze chi, come noi, ammetta una fratellanza di popoli,
anteriore alle nazionali separazioni. Su di che, noi proponemmo di
aggregare i Tirreni alla prima immigrazione che si conosca in Italia:
ridotti servili ne’ secoli che qui stettero i Pelasgi, si rialzarono
poi a nuovo dominio.
Ma i Tirreni erano poi tutt’una cosa cogli Etruschi? Certamente gli
Etruschi non usano linguaggio analogo al greco, come i Pelasgi;
hanno lucumonie, e federazioni, e religione di genj, e vaticinj, al
differente dei Tirreni-Pelasgi. Le tribù che abitavano attorno ad Adria
forse si strinsero cogli Oschi in una lega chiamata degli Atr-Oschi,
donde il nome d’Etruschi. Alcuno suppone che un popolo nuovo, detto
i Raseni, scendesse dalla Rezia sopra l’Italia, la conquistasse,
piantandosi fra le città pelasgiche dell’interno e della costa, e
fosse chiamato degli Etruschi, come furono detti Britanni gli Angli,
Messicani e Peruviani i creoli di Spagna, e Longobardi noi. Niuna
traccia per altro fra gli antichi di tale conquista rasena.
A negare che gli Etruschi fossero greci varrebbe, oltre il loro parlare
affatto distinto, il vedere che i Latini applicarono il nome di Pelasgi
ai Greci[46] ed anche agli schiavi; dal che noi inducemmo che gli
avanzi de’ Pelasgi rimanessero al nord soggiogati dagli Umbri-Galli,
come al sud gli Enotrj e i Peucezj da’ Pelasgi-Elleni, formando il
vulgo servile. Al tempo di Catone chiamavansi Etruria il paese, Tuschi
gli abitanti; e possiamo credere che quel nome vivesse nelle bocche,
donde, sotto gli ultimi imperatori, fu fatto il nome di Tuscia, non
prima scritto.
L’accertare l’origine degli Etruschi, e quanta parte di civiltà qui
recassero, riesce viepiù difficile perchè i sacerdoti, in cui mano
stavano gli annali, poterono alterarli a loro talento: poi micidiali
guerre li distrussero, ed i Romani affettarono disprezzarli, benchè
alle famiglie illustri fosse vanto il derivare da quel popolo[47].
[CITTÀ E COLONIE ETRUSCHE]
Per raccogliere il poco che possiamo, gli Etruschi, o entrati allora
in Italia, o ridestatisi dal servaggio, si trovarono incontro gli
Umbri, ai quali tolsero trecento città[48], confinandoli in una sola
provincia, che serbò il nome di Umbria, sebbene poi li ricevessero
in alleanza e in comunione di sacrifizj[49]; si distesero nelle
campagne che or sono il Bolognese, il Ferrarese e il Polesine, e nelle
pianure fra l’Alpi e l’Appennino. Il Po difese da loro i Veneti, gente
illirica: i Liguri ricovrarono fra i monti, cedendo il pian paese e il
golfo della Spezia, dove essi Etruschi fondarono Luni, possedendo così
tutta la costa.
Dappertutto gli Etruschi collocarono colonie; fondarono sul Po una
nuova Etruria che, come l’interiore, contava dodici città, fra cui
Adria sul mare allo sbocco del Po e dell’Adige, Fèlsina, Melpo
(Melzo?), Mantova, così detta forse da Mantus, loro Bacco infernale,
e divenuta poi capo della confederazione circumpadana. Nel Piceno
fabbricarono Capra montana e Capra marittima, e l’Adria picena.
Piombali sui Casci, prischi abitatori del Lazio, stabilirono per
confine l’Albula, assoggettarono le terre dei Volsci, passarono il
Liri, e nella felice Campania piantarono altre dodici colonie, tra
cui Nola, Ercolano, Pompej, Marcina, e prima fra tutte Vulturnio: pure
sembra che il grosso della popolazione osca vi rimanesse in qualche
luogo, in altri i Sanniti rivalessero alla loro conquista.
Centro di questo dominio era l’Etruria propria fra l’Arno e il Tevere,
dove fabbricarono altre città, cinte con solide mura di pietroni, o si
valsero di quelle già fortificate dai Pelasgi. Primeggiavano tra esse
Clusio, Volterra, Cortona, Arezzo, Perugia, Volsinia, Vetulonia, Cere,
Tarquinia, Vejo[50], oltre una schiera di terre lungo il mare, e nel
paese or infamato dalla mal’aria. Rimpetto all’Elba, Populonia occupava
la cima occidentale del promontorio di Piombino. Rusella in forte
postura sovra uno sprone del monte, dominava la maremma grossetana.
Vejo circuiva sette miglia, s’un dirupo a dodici miglia da Roma, ricca
di territorio ubertoso in poggio e in piano sulla destra del Tevere,
abbracciando fin i colli del Gianicolo e del Vaticano. Tarquinia
consideravasi come cuna del popolo etrusco, e fondata da Tarconte,
l’eroe divino in cui di questo sono personificate le imprese, e da cui
diceansi pure fondate Pisa e Mantova. Cere, che i Pelasgi nominavano
Agilla, fu loro metropoli religiosa, e teneva a Delfo l’erario comune,
indizio, se non di derivazione, almeno di parentela ellenica. Nelle
tradizioni di questa ricordavasi un tiranno crudelissimo, Masenzio,
simbolo dell’oppressione etrusca sopra que’ paesi; e forse a lor
dominio stettero anche i Volsci e i Rutuli: Tusculo ne conserva il
nome; anzi sin il monte Celio, uno dei sette di Roma, la qual Roma
forse non era che la fortezza più meridionale della confederazione
etrusca.
Parve un momento che gli Etruschi potessero congiungere tutta Italia:
ma sconfitti da Gerone di Siracusa, si trovarono costretti a limitare
all’Etruria il loro imperio, rinserrato più sempre dalla riazione di
Liguri, Galli, Sanniti, infine distrutto dai Romani.
E scarsissime memorie ci rimasero della stupenda loro civiltà, in
parte greca od asiatica, in parte originale, non senza influssi
dell’aborigena e della pelasga. Chi però dall’estensione di quella
volesse indurre una grande antichità degli Etruschi, mostrerebbe
dimenticare come la civiltà, in quante storie conosciamo, appaja sempre
dativa, cioè o importata di fuori o rivelata dal cielo: nè diversamente
va il caso per gli Etruschi.
[RELIGIONE DEGLI ETRUSCHI]
È insito nei popoli il bisogno di sapere donde venissero, come
cominciasse il mondo. Dio l’avea rivelato da principio, ma la
parola sua andò confondendosi tra le genti per modo, che dalla
mala interpretazione di essa derivarono le tante false religioni e
capricciose cosmogonie. Spesso però una classe più dotta o più morale
conservava maggior tesoro di quelle verità, e le comunicava a pochi,
iniziati nelle allusive cerimonie de’ misteri; mentre al vulgo, più
disposto a credere e adorare che capace di comprendere e sapere,
le presentava sotto forme simboliche o materiali, che lo tenevano
nell’errore e sotto la dipendenza d’essi sacerdoti. Di qui tante
varietà di culti, impiantate sopra la concordanza de’ principali dogmi,
e la significazione di riti che a prima vista sembrano null’altro che
assurdi. Nè per questo noi ci abbandoniamo, come tanti, ad ammirare
quelle religioni; perocchè se tu vai in fondo di qual sia di esse,
côgli sempre il culto della natura, vuoi nel complesso, vuoi nelle
parti, non separando l’idea della divinità da quella della natura,
confondendo la rappresentazione colla cosa rappresentata, il dogma
coll’immagine che lo esprime. Insomma l’idea di Dio non era perita,
bensì quella che la materia fosse stata chiamata dal nulla per
volontà libera di lui; onde essa materia consideravasi come qualcosa
d’indipendente, vedendo nel mondo due termini, e perciò tutte le cose
esser Dei, e adorando ora l’uomo, ora gli astri, ora le forze della
natura. Ne veniva di conseguenza il credere, sebben solo più tardi
siasi professato, che il tutto è Dio, con quel panteismo che è la fede
meno alta a svolgere il vero sentimento religioso. Forse i sacerdoti vi
ravvisavano qualcosa di meglio; ma il popolo rimaneva in un grossolano
feticismo, che gli presentava ignobili oggetti, idee oscene. I Greci
seppero dal simbolo passare al mito; ma ancora il culto arrestavasi
sull’uomo, per quanto bello, elegante, affettuoso.
[RELIGIONE DEGLI ETRUSCHI]
Gli Etruschi da un lato ci sono dati come immuni dalle greche
favole[51]; dall’altro come padri delle superstizioni. Mentre un
villano apriva il solco, balzò fuori Tagete, fanciullo di forme,
vecchio di senno, il quale _cantò_ una dottrina, fondamento alla
scienza degli aruspici; e di lui e di Bacchede suo condiscepolo
sono operai libri rituali, principalmente in ciò che concerne
l’estispicio[52]. Questo mito, dal quale comincia la vita stabile
degli Etruschi, indica però già un popolo industrioso e costituito e
sacerdotale. Sebbene non formasse una vera Casta, pure l’aristocrazia
sacerdotale predominava, escludendo i forestieri, e fondando la propria
potenza sul diritto divino e sugli auspizj. Ereditario nelle famiglie,
il sacerdozio era distribuito in una gerarchia, dai camilli o novizj
fin al sommo sacerdote, che veniva eletto dai voti di tutti i dodici
popoli. Auspice della guerra e della pace era il collegio sacerdotale;
per riti si sceglievano i magistrati, per riti si fondavano le città e
gli accampamenti, si distribuiva il popolo in curie e centurie; sacri
erano i confini, sacra l’agricoltura; dalla divinazione deducevansi
la proprietà, il diritto pubblico ed il privato, giacchè Dio medesimo
aveva ordinato,—Spartite i terreni, vivete all’amichevole, venerate
i termini, non aggravate le taglie; se no, malori, pesti, fulmini,
procelle».
Tra’ principali studj de’ sacerdoti era il contemplare il volo degli
uccelli e i fulmini. Gli uccelli distinguevansi in _lieti_ annunziatori
di salute e felicità, e _tristi_ che presagivano il contrario. Ciascuna
classe poi suddivideasi in altre molte: _volsgræ_, che si straziavano
un l’altro col becco e cogli artigli; _remores_, la cui apparizione
ritardava un’impresa; _inhibæ_, _inebræ_, _enebræ_, che l’arrestavano;
_arculvæ_, _arcivæ_ o _arcinæ_, che la stornavano. Non si conviene sul
senso degli _oscines_ e _præpeles_: ma sembra i primi fossero quelli
la cui voce dava un presagio qualunque, tristo o propizio; gli altri,
il cui volo era fausto segno, massime qualora si dirigessero difilato
all’osservatore. Se dopo quest’augello ne compariva un altro d’augurio
sinistro (_altera avis_), restava eliso l’augurio precedente. Noto è
quanto tale scienza operasse nella nomina de’ magistrali, e in tutti
gli affari pubblici anche in Roma: il volo di una civetta sospendeva
sovente le assemblee del popolo, annunziando essa morte o fuoco;
l’aquila era felicissimo augurio fra gli Etruschi come fra’ Romani[53].
Diceasi che i sacerdoti etruschi sapessero attrarre (_elicere_) i
fulmini, e s’accorsero che questi producevano mutamento di colori,
e che alcuni piombavano dal cielo, altri sorgevano di terra[54].
Ritualmente distinguevano i fulmini in _fumida_, _sicca_, _clara_,
_peremptalia_, _affectata_.....: i _pubblici_ riguardavano a tutto lo
Stato, e davano augurj per trent’anni; i _privati_, a un individuo,
valendo per dieci anni al più; i _famigliari_, ad una casa sola, e
riferivansi a tutta la vita. Sacro restava il luogo ove cadessero.
Forse si accorderanno queste disparità ove si faccia distinzione
fra la dottrina arcana e la vulgata. Se credessimo al Passeri[55],
l’arcana ammetteva un Dio solo, una rivelazione, l’uomo formato di
fango, decaduto da migliore stato; i buoni dopo morte si trasformano
in Dei; i peccati leggieri si espiano in questa o nell’altra vita; ai
gravi, eterne pene. Troppo è facile applicare ad altri tempi e popoli i
concetti e i sentimenti nostri.
Nei pochi documenti sopravanzatici troviamo la religione degli Etruschi
grave e melanconica, come di gente a cui era prefinito il numero
di secoli che essa e il mondo durerebbero. Dio creò l’universo in
seimila anni: nel primo millesimo il cielo e la terra; nel secondo
il firmamento; nel terzo le acque; nel quarto il sole e la luna; nel
quinto le anime degli uccelli, dei rettili, degli altri esseri che
vivono nell’aria, sulla terra e nell’acqua; nel sesto l’uomo, il cui
lignaggio durerà quanto durò la creazione[56], cioè cinque millennj.
[DIVINITÀ]
Nella religione vulgata, supreme divinità erano Tina o Giove, Cupra
o Giunone, e Menerva, a ciascuna delle quali consacravasi un tempio
in ogni città federata, dove tre porte alludevano pure a questa
trinità[57]. Il genio Gioviale, padre del miracoloso Tagete, indicato
come quarta divinità penate, riguardavasi per figlio di Giove e fattore
degli uomini. Trasportando anche nel cielo il sistema rappresentativo
che usavano in terra, da dodici Dei Consenti, sei maschi e sei femmine,
facevano assistere Tina, anima del mondo, e vivente nel mondo, padre
delle anime; eppure anch’egli sottoposto al Destino, agli Dei Involuti,
che erano veramente la causa suprema: alla quale divinità appartiene
Norzia, dea del tempo. Sta accanto a Tina, e talvolta con esso
s’identifica Giano, fratello di Camasene donna e pesce; il quale tiene
le chiavi da aprir l’anno e le porte della città, e col doppio volto
guarda l’oriente e l’occidente. Fichi con foglie di lauro in onor suo
si davano a strenna del capodanno, reliquie dell’agreste suo culto.
Forse erano variate rappresentazioni del nume stesso quelle che
prendiamo per divinità distinte. Così Tina ora compare come il Zeus
olimpico, ora coll’edera di Bacco, ora col lauro d’Apollo, ora coi
raggi del Sorano sabino; egli Termine per difendere i confini, egli
Quirino per la guerra, egli dio sotterraneo. Giunone somiglia in
qualche caso a Venere, ed ora è Populonia come dea del popolo; or
Libera come moglie di Liber, Giove bacchico; or corrisponde a Cerere,
più tardi conosciuta in Etruria. Menerva soprantende al destino,
identica con Norzia e Valenzia, e con Illitia; talora con Pale.
Ogni dio, ogni uomo, ogni casa, ogni città aveva il proprio genio
custode, sostanze intermedie fra l’uomo e la divinità. Due assistono
a ciascun uomo, ispirandolo uno al bene, l’altro al male. Perocchè la
sopraddetta dualità della creazione, e l’aspetto de’ disordini del
mondo introdussero ben presto la credenza di un doppio principio,
uno avverso all’altro; e il Vejovis era l’iddio autore del male, e
turbatore dell’ordine dell’universo. La casa, con tutte le dolcezze
che l’accompagnano, è custodita dal Lare, la cui immagine si conserva
nell’atrio (_larario_), e cui altare era il focolajo domestico, mentre
i Penati, genj della divinità, vi versano abbondanza e consolazioni,
assicurano il triplice bene di una patria, una famiglia, un possesso.
I Penati erano o pubblici o domestici: ai primi presedevano Tina e
Vesta, e adoravansi ne’ tempj; gli altri otteneano culto nella casa,
ed erano stati uomini[58]. Un’anima uscendo dal corpo, diventa Lemure
o Mane[59]: se adotta la posterità della sua famiglia, chiamasi il
_lare domestico_; se per le iniquità è agitata, v’appare come _larva_,
spaventevole ai malvagi[60]. Perciò gli avi sepellivansi nelle case: ad
or ad ora i Mani tornavano a visitare i loro parenti, poi a determinate
solennità uscivano tutti dai funerei loro asili; onde se ne celebrava
la commemorazione.
Dai forestieri e dagli aborigeni gli Etruschi accettarono poi un
ciclo più esteso di numi e di genj; anzi, o dalle tradizioni antiche
pelasgiche o da quelle delle colonie trassero le tante idee elleniche,
espresse nelle loro pitture. Ma chiare nozioni come formarcene, se i
loro dogmi rimasero un arcano de’ sacerdoti, unici depositarj della
scienza e del sacro linguaggio allegorico? Tagete aveva insegnato che
il cielo è un tempio[61], ove gli Dei siedono a settentrione guardando
a mezzodì e avendo a sinistra l’oriente, parte benefica, a destra
l’occidente, parte infausta dove la luce si spegne. Diceasi _cardine_
la linea di tal guardatura, intersecata ad angolo retto da un’altra
detta _decumana_; e l’intersezione costituiva il tempio.
Fra gli Etruschi, come in Oriente, i riti sono necessarj a legittimare
ogni atto pubblico e privato; gli uomini vengono governati per
interpretazioni di sogni, di fenomeni, di astri: pure il sacerdozio non
costituisce una pura teocrazia, come colà, giacchè il patriziato inizia
la cittadina attività, e prelude all’indipendenza de’ politici diritti.
La nobiltà, cioè la gente conquistatrice, era composta di signori
(_lucumoni_), che dai castellari sulle alture tenevano in soggezione i
pianigiani. In ciascuna città un lucumone rendeva giustizia ogni nono
giorno, e rappresentava gli altri nelle assemblee generali, tenute
a Volsinia o a Vetulonia. Uno fra i lucumoni era, nelle adunanze di
primavera, sortito capo della federazione[62], avendo per insegne la
porpora, la veste dipinta, corona d’oro, scettro coll’aquila, scuri,
fasci, sedia curule[63], e dodici littori, somministrati uno da
ciascuna città.
Quelle idee religiose, per le quali gli uomini e gli Dei restavano
compresi in uno Stato o diremmo in una Chiesa sola, e in un patto che
li metteva in corrispondenza, doveano produrre concetti d’ordine: e
appunto per la forza dell’ordine l’austera nobiltà signoreggiò sempre
nell’interno, e lungamente sopra i vicini popoli. Mancava però del
vigore che nasce dalla unità; e gare di lucumoni e di città, gelosia
degli ordini inferiori, odio di parti e di razza laceravano il paese,
e impedirono di collegare tutti i popoli italiani, come avevano già
tentato e Sanniti e Pelasgi, e come solo potè far Roma, aggiogandoseli
tutti colla forza non più che coi mirabili ordinamenti civili.
Delle schiatte principali erano clienti le inferiori, che rimanevano
plebe, divisa in tribù, curie e centurie, esclusa dagli eserciti, i
quali perciò riduceansi a cavalleria.
[LUCUMONI. PLEBE]
Lucumone, nobili, plebei formavano dunque lo Stato. Nell’interno
diversamente ordinate erano le dodici città, ma tutte insieme
eleggevano un pontefice supremo per le feste nazionali. Il territorio
di ciascuna ne comprendeva molt’altre, provinciali, colonie e suddite,
abitate dalla stirpe soggiogata di Aborigeni e Pelasgi, sempre esclusa
dai diritti che la plebe romana conquistò, e senza assemblee, giacchè
ogni cosa decidevasi in quelle dei lucumoni. Fazioni sorgeano, ma
tra le famiglie dominatrici in senso oligarchico, senza che mai si
costituisse il popolo, la comunità. Solo più tardi Volsinia, assalita
dai Romani, resistette col dar le armi alla classe inferiore ed ai
braccianti, i quali in compenso ottennero la cittadinanza, e diritto di
testare, d’imparentarsi coi dominanti, di sedere in senato. Se siffatta
rivoluzione (dipinta come atrocissima dall’invidia dei nobili) fosse
stata imitata da tutte le città, sarebbesi in quelle formato il Comune
plebeo, e quindi la forza; quale di fatto apparve allorchè gli Etruschi
si sollevarono al tempo di Silla, dopo che il dominio forestiero aveva
tolte di mezzo le prische distinzioni.
L’originalità negli Etruschi non tardò a venir alterata da mescolanza
forestiera; e singolarmente uno sciame greco, probabilmente venuto
dall’Asia Minore, v’introdusse foggie e consuetudini, le quali riesce
difficile sceverare dalle indigene. Crebbe allora il lusso; nei
festini, dove anche le donne erano ammesse, sfoggiavasi suntuosità di
vesti e squisitezza di vivande[64]; e se le turpitudini onde Teopompo
fa aggravio ai Toscani, accomunamento delle donne, ostentati amori
maschili, sentono l’eccesso d’una satira, pure trovano appoggio nelle
oscene loro dipinture.
[CITTÀ. COMMERCIO]
Gli Etruschi si estesero, per via di colonie, come si è veduto; e
diversi dai soliti conquistatori, invece di distruggere edificavano
città. Simili in ciò ai Pelasgi, vi faceano predominare idee e numeri
simbolici; dodici città nell’Etruria, dodici sul Po, dodici al
mezzodì[65], di pianta quadrata, orientate come prescriveva l’augure,
e le più abbracciavano due colli, del più alto de’ quali stava a
cavaliere la rôcca. Molti porti aprivano al commercio, e principale
Luni nel golfo della Spezia; e anche i primarj cittadini pare
applicassero al traffico, pel quale l’Etruria serviva d’intermedio
fra il mare e la restante Italia. Antichissima dev’essere la loro
padronanza sul mare, che da loro ebbe nome di Tirreno e d’Adriatico;
navi tirrene mercatavano nell’Jonio a gara coi Fenicj[66]; Agilla porse
sessanta galee per combattere i Focesi nelle acque di Sardegna; anzi
gli Etruschi, in un catalogo antico che manca di data e d’autenticità,
sono fin chiamati signori del mare[67]. Dai molti scarabei ed altri
lavori egiziani, dalle gemme d’Oriente, dall’ambra del Settentrione,
che si estraggono dai loro sepolcri, ci sono indicate relazioni di
commercio co’ paesi del Nilo, colla Cirenaica, col Baltico. Dallo
stretto di Gibilterra certamente tentaron sbucare, e piantar colonie in
un’isola ignota, ma furono impediti dalla gelosia dei Cartaginesi, Al
par di tutti i popoli antichi, abusarono della potenza marittima per
corseggiare; e i pirati tirreni vennero in sì tremenda reputazione,
che Rodi come gran vanto conservava ne’ suoi tempj i rostri tolti
alle loro navi. Gerone, mosso per isbrattar da loro i mari, li ruppe,
e la sconfitta dovette ben essere piena se, poco stante, quando i
Siracusani trassero a conquistare l’isola d’Elba, veruna flotta tirrena
non protesse la Corsica, nè si sviarono i nemici che coll’oro; e così
quando Dionigi minacciò il littorale di Cere. Pure, allorchè già era
in decadenza, l’Etruria passava per la più ricca, forte e popolosa
provincia d’Italia[68].
Il nome di Tirreni accenna ad industria, o deducasi dalle torri, o da
_tiremh_ coltivatore. All’agricoltura soprantendeva un collegio di
sacerdoti arvali; coll’aratro si descriveva il circuito delle nuove
città, quasi a indicare quell’arte come legame de’ civili consorzj;
conquistarono il patrio terreno dalle acque del Clani e dell’Arno,
elevandolo per via delle colmate. Munivano acquedotti meravigliosi,
come quello traverso la Gonfolina per asciugare il lago che fra Signia
e Prato ondeggiava dove ora sorge Firenze; un altro presso l’Incisa
per sanare il Valdarno superiore; interrirono la Chiana; altrove ai
laghi stagnanti ne’ bacini e negli estinti crateri aprirono sfoghi
sotterranei, somiglianti ai moderni pozzi trivellati. Non però
riuscirono a migliorare l’aria della maremma, ove, allora come adesso,
diceasi che si arricchisce in un anno e si muore in sei mesi. Gli
sbocchi del Po e dell’Arno erano regolati da scaricatori e imboccature;
anzi aveano ideato ridurre in canale tutto il Po, opera che l’Italia
libera compirà.
[ARTI E SCIENZE ETRUSCHE]
Versati nell’astronomia, gli Etruschi misurarono assennatamente il
tempo. Cominciavano il giorno dal mezzodì, a differenza di quel
sistema che fu detto alla italiana, ove cominciasi dalla sera. Invece
della settimana, usavano l’ottava; e ogni nono giorno era d’affari,
d’udienza, di giustizia, di mercati (_nonæ, nundinæ_). Trentotto ottave
formavano l’anno, di trecenquattro giorni, in dieci mesi: centodieci
di tali anni costituivano un ciclo, che potremmo chiamare secolo,
diviso in ventidue lustri; e perchè corrispondessero cogli anni solari,
all’undecimo ed al ventiduesimo lustro intercalavasi un mese di tre
ottave, sicchè al fine del secolo compivansi giorni quarantamila
e censettantasette; laonde l’anno tropico riuscirebbe di giorni
trecensessantacinque, cinque ore, quaranta minuti, ventidue secondi;
più esatto che non il giuliano, giacchè non differisce dal vero che di
otto minuti e ventitre secondi[69].
Anche nella medecina ebbero fama[70]. Vi si trovano idee sul fuoco
centrale, analoghe a quelle che insegnava testè Fourier. Della
loro abilità chimica darebbe buon segno Plinio, dicendo che, dopo
preparate le stoffe con riagenti, potevano, tuffandole in una sola
tinta, improntarle a colori e figure differenti. Studiarono sui
numeri, e probabilmente sono etrusche le cifre che noi chiamiamo
romane. Stromenti musicali inventarono, fra cui le tibie tirrene e il
corno ritorto; e a suon di flauti facevano il pane e battevano gli
schiavi[71]. A loro fanno onore dei mulini a mano, degli sproni alle
navi, della stadera detta campana. I Romani desunsero da essi la bolla
d’oro, segno di nobiltà, i fasci consolari colla scure, lo scettro
sormontato dall’aquila, la porpora del capo dello Stato, i littori, la
pretesta giovanile, la toga virile, la sedia curule, la clamide de’
trionfanti, gli anelli de’ cavalieri, i calzari senatorj e guerreschi,
le corone trionfali, le falci da potare, i giuochi scenici ed i
circensi, le cerimonie de’ Feciali. Se vi aggiungete la divisione in
tribù, curie, centurie, gli auguri, i pretori, gli edili, un fôro pe’
comizj, le dissensioni fra nobili e plebei, l’Etruria vi parrà una Roma
anticipata; nè vi saprà strano che alcuno considerasse i Romani come
una colonia etrusca, prevalsa poi alla madre patria.
[LETTERATURA ETRUSCA]
L’alfabeto etrusco deriva dalla fonte comune degli europei e dal
fenicio, e scrivesi da dritta a sinistra. Veneravano le Camene,
ispiratrici de’ canti in lode de’ grand’uomini. Nè di letteratura
furono sprovvisti[72]: Varrone sembra indicare un Volumnio tosco,
autore di tragedie; a’ commedianti in latino fu dato il nome di
_histriones_, dall’etrusca parola _ister_; d’Etruria vennero a Roma
letterati insigni; i patrizj romani mandavano colà i loro figliuoli da
educare; e fin ai tempi d’Alarico si spediva a consultare quegli auguri
per la salvezza della patria.
Potea però ottenersi incremento grandioso del sapere o slancio di
poesia là dove lo studio era ristretto nel sistema sacerdotale e
nell’interpretazione de’ segni celesti? Fatto è che nulla ce n’è
rimasto, e la lingua medesima ci è arcana. Lami, Lanzi, Passeri,
Spanemio, Gori, Bourget vollero trar questa dal greco, Bardetti e
Scricchio dal settentrione, unendola insomma al gruppo indo-germanico;
mentre Reinesio ed altri l’attaccavano al fenicio, e Merula all’arabo,
cioè al ceppo semitico. In fatto Lud da Mosè è posto tra i figli di
Sem[73], lo che indicherebbe semitici i Lidj, che sin ai tempi di Ciro
trovansi in relazione coi Babilonesi: e chi crede gli Etruschi colonia
lidia, crederà parlassero semitico. I pochi elementi che ne conosciamo
ostano a tale supposizione: ma ad ogni modo, per fiancheggiare le varie
opinioni si contorsero ed alterarono talmente le loro iscrizioni, che
meno se ne richiederebbe a dimostrare che la lingua del Madagascar è
figliata dal latino.
Ci si domanda forse perchè le città italiane non diedero uno storico,
un poeta, un filosofo, mentre tanti ne rammentano le colonie greche?
come mai, con tanto commercio, non batterono monete, sicchè solo
trecento anni prima di Cristo ne troviamo d’argento a Populonia, di
rame a Volterra? perchè non un legislatore, un eroe, che sopravvivesse
al tempo? La risposta noi crediamo stia nella nostra ignoranza. Da
jeri ci ponemmo a cercare le antichità nostrali, e v’ha paesi in
Italia men conosciuti che non l’Egitto e l’India. Cinquanta anni fa
non sarebbe potuto dirsi che gli Etruschi mai non ebbero vasi, perchè
gli autori latini non ne fanno quasi cenno? Ma Varrone assevera che
gli annali etruschi risalivano all’origine delle singole città; dalla
fondazione di ciascuna principiava un’età, la quale terminava colla
morte dell’ultimo fra quanti erano nati in quel giorno stesso; allora
cominciava l’età seconda, che si chiudeva alla morte dell’ultimo fra
coloro che viveano al principiare, e così via: lo che prova ch’essi
tenevano registro dei nati e morti[74]. Ma i Greci, come i Francesi
moderni, non parlavano che di sè: i Romani, sprezzatori di ciò
che trovavano fra i conquistati, sì poco dissero dell’Etruria, che
non fanno quasi menzione delle stupende rarità di essa, le mura, i
sepolcreti, i vasi.
[COSTRUZIONI ETRUSCHE]
È disputato se ai Pelasgi o agli Etruschi siano dovute le mura di
Cortona, di Rusella, di Fiesole, di Populonia, d’Aurinia, di Signia, di
Cosa, fatte con grandi poligoni di travertino, commessi senza cemento.
Etrusco vuolsi il tabulario del Campidoglio, e così il muro di Tivoli,
che non appare pelasgico, com’è invece un jerone colà presso, e tre