Storia degli Italiani, vol. 01 (di 15) - 03

contemporanei degli Atlantidi al par degli Egizj, vale a dire anteriori
ad ogni storia; la favola gli associa ai ricordi di Bacco, di Giove,
dei Satiri; ed Esiodo, contemporaneo di Omero, rammemora «i forti
Tirreni, illustri fra gli Dei e gli eroi».
[ABORIGENI]
Erano di quest’antichissima genìa gli Euganei e gli Orobj, che
precedettero gli Umbri; e così i Camuni, i Leponzj ed altri del
Trentino; sia che da quelle parti settentrionali fossero calati in
Italia, sia che fra quelle alpi avessero piantato stazioni per riparare
la penisola dalle correrie dei Galli[29]. A que’ Tirreni apparteneano
per avventura anche i Taurisci, o montanari nella subalpina
occidentale; e nella media Italia gli Etruschi e gli Opici, appellativo
fors’anche questo generico, indicante terragni[30], e contratto in
Opschi ed Oschi, al quale aggiungendo l’articolo, n’esce il vocabolo
Toschi. Certo i Tirreni sono considerati dagli antichi come diversi dai
Siculi e dai Pelasgi: la loro lingua sembra rimanesse al fondo delle
italiche; ed anche nel fiore di Roma la plebe e la gioventù prendeano
spasso dalle Favole Atellane, cantate in osco; poi quando la maestà
romana declinò, l’osco sopravvisse col vulgo rimasto, e divenne forse
padre dell’odierno idioma.
[IBERI]
Ma un elemento semitico vi si mescolò, se pure non li precedette, per
opera degli Iberi, gente finnico-tartara o, come dicono i più recenti,
turanica, venuta dall’Iberia asiatica vicina all’Armenia, diciotto
secoli avanti Cristo, e largamente diffusa in Europa, dove per mare
procedette fin nella Spagna, alla quale attribuì il proprio nome, e
dove lasciò ne’ Baschi la propria favella, non meno che ai Finnici,
nell’estremità opposta d’Europa[31]. A questo nome si apparentavano i
Liguri nell’alta Italia; nella media forse gl’Itali, collocatisi lungo
la marina occidentale fra la Macra e il Tevere; nella bassa i Sicani,
che Tucidide chiama Iberi. Esso Tucidide riscontra il fiume Sicano
nelle vicinanze de’ Liguri, che (dic’egli) abitavano a mare sopra
Marsiglia: e poichè il nome de’ Sicani accostasi a quel de’ Sequani,
assisi alla sorgente della Senna, v’ha chi arguisce doversi ascrivere
al loro lignaggio i Celti, e a ciò attribuisce le molte parole che
nell’italiano, e più nel siciliano, rimasero di celtica radice[32].
[LIGURI]
Secondo alcuni dunque la gente Ibera sarebbe abitata in Italia prima
ancora che vi venissero gli Indoeuropei, e di là trarrebbero le tante
parole dei nostri idiomi, estranie alle lingue ariane, e massime i
vocaboli di luoghi. Ma ecco altri invece dedurre i Sicani dall’Epiro, e
farli identici coi Pelasgi (CORCIA); altri crederli un ramo de’ Tirreni
(ABEKEN), che modificato dalla mistione cogli Aborigeni o Caschi, formò
i Latini. Anche gli Umbri, altri popoli primissimi in Italia, da alcuni
si vorrebbero Liguri: ma questo nome di Liguri ci sembra generico
anzichè speciale, e certo era diffuso su grande ampiezza; gli Oschi
medesimi si denominavano Liguri; Edwards, mediante la storia naturale
e il confronto de’ cranj, ravvicinò la stirpe ligure alle celtiche:
in modo che non uscirebbe di buona congettura chi ascrivesse tutti
i prischi Italiani alla grande migrazione che si dinota col nome di
Celti, estesissima razza, che forse non è diversa dalla scitica.
[UMBRI]
Illirio, Celta, Gallo, nati da Polifemo e da Galatea, popolarono il
primo l’Illiria, gli altri due l’Italia col nome di Umbri. Questo
linguaggio mitologico adombra la migrazione antichissima de’ Celti,
i quali, scampati al diluvio[33], dalla Tesprozia e dalla Tracia si
estesero a settentrione dell’Europa fin al capo Domes-ness nella
Curlandia, e sulle coste occidentali sino al Finisterre della Spagna.
Nel lunghissimo vagare per la selva Ercinia, che allora ombreggiava
tutta l’Europa boreale, e per l’Alta Asia sino alle frontiere della
Cina, perdettero la memoria della loro provenienza. Non è del nostro
intendimento il cercare se fossero semitici, per la lunga dimora e
per la mistione tramutati poi in indo-europei. Restringendoci alla
storia, diremo che col nome di _Ambra_ o _Amhra_, in loro favella
significante nobile, prode, scesero in Italia, e vi si divisero in tre
bande, da cui ebbero titolo tre provincie: Oll-Umbria o alta Umbria fra
l’Appennino e l’Jonio; Is-Umbria o bassa, attorno al Po; Vill-Umbria
o littorale, che fu poi l’Etruria. Catone vorrebbe che Ameria, loro
città, sia stata ricostruita trecentottantun anno prima di Roma[34];
epoca storica, al di là della quale non sopravanzano che le favole de’
tempi saturnj. Cacciando Liguri e Siculi, gli Umbri occuparono dunque
la parte orientale dell’Italia, l’occidentale lasciando agli Iberi,
e furono il popolo prepollente della penisola; col nome di Sarsinati
abitarono Perugia, con quello di Camerti Clusio, e possedettero
trecencinquantotto borgate[35].
[PELASGI]
Contemporaneamente a queste ondate d’interi popoli, ne venivano di
parziali; nè tutti erano giapetici: e Titani, Ciclopi, Lestrigoni,
che pajono aver preceduto i Siculi nell’isola che da questi prese il
nome, forse derivavano dalla stirpe di Cam e dall’Africa. Men tosto
migrazioni di popoli interi, che colonie e conquiste sono a dire le
seguenti irruzioni in Italia, e quella che s’impronta col nome de’
Pelasgi.
Nulla più disputato ai dì nostri, che la derivazione, gli andamenti
e l’indole de’ Pelasgi[36]. Alcuni li farebbero semitici: i più gli
adunano alla grande famiglia caucasea degli Sciti, una parte della
quale, traverso alla Tessaglia, si arrestò in Grecia e nel Peloponneso
col nome di Pelasgi ed Elleni, suddivisi poi in Eolj, Jonj, Dori,
Achei, e si dilatò nelle isole dell’Arcipelago e in Italia; un’altra,
valicando il Tauro, occupò l’Asia Minore, la Frigia, la Lidia, la
Troade, e passato il Bosforo, prese stanza nella Tracia.
Che che ne sia, essi precedono ne’ paesi civili quelle generazioni che
acquistarono classica rinomanza. I Greci li faceano favolosi quanto
i Titani e i Ciclopi; barbari del resto, che mandarono a conquasso
le belle contrade, finchè dall’ira divina sottoposti a terribili
disastri, soccombettero e furono ridotti servi. Tal è il linguaggio di
una nuova generazione contro quella che essa spodestò: eppure anche
nelle malevole tradizioni greche i Pelasgi appajono fondatori di città,
cavatori di miniere, maestri di religione, di arti, sin di un alfabeto.
In Italia giunsero in più riprese; e la prima con Enotro e Peucezio
figli di Licaone, che, diciassette generazioni avanti la caduta di
Troja, dall’Arcadia e dalla Tessaglia addussero una colonia, la prima
che per mare uscisse di Grecia[37]. I Peucezj si collocarono sul golfo
Jonico, gli Enotrj a scirocco, incivilendo i popoli campani. Nuovi
fiotti di popoli snidarono altri Pelasgi dalla Macedonia e dal paese
di Dodòna, cui da due secoli coltivavano; onde traverso alla Pannonia,
all’Illirico, alla Dalmazia, approdarono alle foci del Po, dove
fabbricarono Spina.
Trovavano essi i Tirreni già soggiogati e in condizione di schiavi, gli
Umbri assisi sul pendìo orientale, gli Iberi o Liguri nell’occidentale,
e potentissimi i Siculi. Dato di cozzo in una tribù di questi,
chiamata degli Aurunci od Ausonj, i Pelasgi applicarono il nome
d’Ausonia all’intero paese. Provarono nemici gli Umbri, e alleati gli
aborigeni della Sabina, che aveano cominciato addensare le capanne
senza chiusa di mura, e che allora popolarono di città le creste
dell’Appennino.
I Pelasgi non naturarono mai la loro padronanza sul nostro paese;
malvisti sempre come stranieri e conquistatori, dovettero mantenervisi
armati; tre secoli lottarono coi Siculi, finchè li spinsero nell’isola
che da loro ebbe nome di Sicilia.
[RELIGIONE DE’ PELASGI]
Erodoto, il più antico storico greco, dice che i Pelasgi «sacrificavano
pregando gli Dei, ai quali però non applicavano nè nomi nè soprannomi,
chiamandoli soltanto Dei»[38]. Forse ciò esprime che tenessero un
Dio solo: ma probabilmente nel loro culto era divinizzata la natura,
le forze feconde e ordinatrici di essa esprimendo in simboli, di cui
restò orma nel culto italico, come i Fauni, Vesta, Anna Perenna,
Pale, ed altre divinità estranie all’Olimpo greco. Il dio Termine
per loro simboleggiava i possessi stabili: Vesta, la sanzione divina
dell’associazione della donna coll’uomo: onde avrebbero essi introdotto
fra i rozzi Italioti queste personificazioni religiose dello stato
famigliare e del diritto di proprietà, importantissimi dove la
costituzione pubblica riposa sopra la domestica[39]. A Vesta ardeva il
fuoco perpetuo, custodito da vergini per le quali era delitto capitale
il lasciarlo spegnere e il macchiar la castità. Nella Sabina posero un
oracolo, somigliante a quel dell’Epiro.
Particolare al nome Pelasgo era pure il culto dei misteriosi Cabiri o
Dioscuri; i quali al vulgo erano offerti come pianeti personificati,
che in forma di stelle o di fuochi apparivano ai naviganti; mentre
agli iniziati de’ misteri, cui sacrarj erano l’isola di Samotracia e
Dodòna nell’Epiro, esprimevano il concetto di una trinità, formata
dell’onnipotente, del gran fecondatore e della gran fecondatrice[40].
Ad essi serviva di ministro un Casmilo; nei loro misteri, che tennero
gran parte nelle religioni italiche, garantivansi gl’iniziati contro
le procelle ed altre sventure: ma le cerimonie tendeano principalmente
alla purificazione delle anime. Il neofito confessava i suoi peccati,
subiva prove severe, sacrifizj espiatorj; il sacerdote poteva assolvere
anche dall’omicidio: ma lo spergiurare e l’uccisione nei tempj erano
colpe riservate a un tribunale, che poteva anche punirle di morte.
Nelle iniziazioni il neofito, coronato di ulivo e cinto d’una fusciaca
purpurea, era collocato sopra una seggiola; e in cerchio ad esso
gl’iniziati, tenendosi per mano, guidavano una danza al canto d’inni
sacri. L’iniziato più non deponea la sacra benda, che fu poi adottata
anche nei riti bacchici, coi quali aveano pure comuni le cerimonie
impudiche.
Le somiglianze del culto italo coll’ellenico non isfuggirono ai Greci;
e Dionigi d’Alicarnasso avverte che non trattasi solo d’identità di
tipi e di forme, esprimenti le idee generali di potenza o protezione
speciale, ma fin d’attributi, di vesti, d’usi tradizionali, di tregue
religiose, di pompe e sagrifizj, di costruzione rituale dei tempj.
Alcune divinità greche furono introdotte nel culto latino a tempi
conosciuti, come Apollo nel 429 di Roma, Esculapio nel 459, nel 449
l’ara massima di Ercole: ma le maggiori avrebbero potuto piantarsi dopo
già costituite quelle società, così tenaci della tradizione, senza
eccitarvi un generale sovvertimento? e l’opposizione avrebbe potuto
dalla storia essere inavvertita? Convien dunque supporle venute qui
coi popoli stessi, massime coi Pelasgi, tanto più se si ponga mente
alla fisionomia nazionale di esse divinità, e alla loro coerenza colle
istituzioni civili.
Questo poco e null’altro sapremmo de’ Pelasgi, se non ci rimanessero
avanzi di meravigliosi loro edifizj. A principio l’uomo nel
procacciarsi un’abitazione non pensa che a schermirsi dalle intemperie
e dalle belve, fortunato ove il suolo gli offre caverne naturali od
opportunità di formarne, come le tante di Sicilia, massime in vai
di Noto, al Peloro, a Spaccaforno, ad Ipsica, sovrapposte talvolta
come i solaj d’una casa o i loculi d’un colombario. Colà doveano
abitare i Lestrigoni, i Lotofagi, i Polifemi, quegli altri mostri in
cui l’età poetica raffigurò le genti fuori del civile consorzio, e
che limitavansi ad abbellire le grotte ove si ricoveravano, o dove
riponevano la moglie, l’iddio, le reliquie dei cari estinti. Sacri
spechi perciò incontriamo nelle più remote storie: in uno il re Numa
Pompilio conferiva colla ninfa Egeria; da un altro la sibilla di Cuma
rendeva i suoi oracoli; molti sotterranei mostrano l’antica Etruria e
le isole del Mediterraneo[41], ornati coi primi tentativi dell’arte;
e sovra tutti notevole è l’ipogeo presso l’antica Fiesole, in pietra
arenaria compatta di strati distinti, che il vulgo attribuisce alle
fate, e l’erudito non sa a qual uso.
[TROGLODITI]
Agli scavi trogloditici succedono le costruzioni sopra terra,
nominate ciclopiche dai nostri Ciclopi di Sicilia, supposti giganti,
che poterono sovrapporre massi enormi, non isquadrati, stanti
per la propria mole, disposti in torri ovvero in mura con porte.
Queste mura alcune sono di pietroni di varia grossezza, affatto
scabri, e rinzaffati con ciottoli e scaglie; altre di macigni
poligoni disposti al modo medesimo, grossolanamente martellati, e di
forma e mole disuguale; altre di parallelepipedi rozzi, collocati
perpendicolarmente: cemento non appare in nessuna. Nell’isola di Gozo
fu così costruita la torre de’ Giganti, forse dai Fenicj, composta di
due monumenti internamente comunicanti. Sono pur tali i Nuraghi di
Sardegna, coni elevati da dodici a quindici metri, e finiti in tondo,
fatti con dadi d’un metro negli strati meno erti, irregolari sempre e
senza calcina. Sorgono sopra alture, cinti talvolta d’un terrapieno fin
del giro di cento metri, fortificati da un muro alto tre e di simile
costruzione, circuiti talora da altri simili coni di minor dimensione.
Chi li crede trofei, chi are del fuoco: ma se si riflette che ne
esistono forse tremila, non si può crederli che abitazioni o sepolcri,
principalmente di sacerdoti, lo perchè non vi si trovano mai armi,
bensì ornamenti femminili e idoletti[42].
[EDIFIZJ CICLOPICI]
Chi ha precisato quali caratteri distinguano l’architettura ciclopica
dalla pelasgica? Questa, ammirabile non per regolarità come la greca,
ma per la mole dei materiali e per somiglianza colle opere della
natura, non adopravasi a servigio di re o ad onore di numi, ma ad utile
sociale, in mura, vie, acquedotti, canali; e quel vivo sentimento della
vita cittadina, rivelato dalla costruzione di tante città, sopravvisse
ne’ futuri Italiani, propensi sempre alla vita di comune. Di tal
maniera sussistono muraglie, od isolate o cintura di città: e fattura
del diavolo le dice il vulgo, attonito a quegli ingenti massi, quali
irregolari, come a Cosa, ad Arpino, ad Aufidena; quali riquadrati, come
nell’antichissimo bastione di Roma, e in quei di Volterra e Fregelle;
quali regolari, come a Cortona e Fiesole; spesso ancora di costruzione
mescolata, sempre senza calce, e che mostrano l’uso di molte braccia e
portentosa gagliardia.
[MURA PELASGICHE]
Solo dopo che nel 1792 si scopersero ruine sul monte Circeo, venne
fissata l’attenzione agli edifizj pelasgici, che ora son uno de’ punti
più studiati dagli archeologi, e moltissimi riscontri ai nostri si
trovarono nel Peloponneso, nell’Attica, in Beozia, in Tessaglia, nella
Focide, nell’Epiro, nella Tracia, nell’Asia Minore, paesi abitati da
Pelasgi. Ma mentre pochi n’ha la Grecia, da trecento ne mostra l’Italia
ne’ paesi degli Aborigeni, dei Sabini, dei Marsi, degli Ernici, e
nelle città latine a mare. Principale tra quest’ultime è Terracina
(_Anxur_); seguono il poligono recinto di Fundi, e le mura e le porte
di Arpino e di Alatri, e quelle di Venda, Ferentino e Preneste, a massi
irregolari, quali cingevano pure sulle montagne volsche Norba, Signia,
Cora. Sull’altra gronda dell’Appennino fra i Sanniti rimane traccia
di siffatti edifizj a Boviano, ad Esernia, a Calatia, fors’anche ad
Aufidena; fra i Marsi ad Alba, ad Atina, e intorno al lago Fùcino. Da
questo alle contrade tiburtine, abitate dai montanari Equi e Sabini,
sembra usasse assai tal modo di fabbricare gigantesco, apparendone i
resti a Cicolano e a Rieti, dove già furono Tiora, Nursi, Sura, e
verso Monteverde e Siciliano e Vicovaro. Scarseggiano negli Abruzzi; ma
nell’Umbria se ne ammirano ad Ameria, a Cesi, a Spoleto, e maggiori a
Cosa. Finiscono tra l’Esi e l’Ombrone; l’Italia settentrionale non ne
ha, non l’Etruria interiore; in Sicilia vorrebbesi vederne a Cefalù e
sul monte Erice.
Nella mura dell’acropoli d’Arpino la porta è a cuneo; parallelepipeda
ad Alatri, trapezia a Norba, al Circeo, a Signia, ma le spalle sembrano
montagne: l’arco appare rozzo nell’acquedotto presso Terracina,
regolare nel ponte di Cora, e più in qualche avanzo di Circeo, e nella
porta gemina di Signia. Talvolta sono costruzioni rotonde, coperte di
cupole formate di lastroni disposti orizzontalmente con progressiva
sporgenza; come in molti sepolcri a Norba, a Tarquinia, a Vulci, e
in quello insigne di Elpenore sul Circeo, e nel carcere Tulliano a
Roma, che probabilmente in origine fu una cisterna, siccome quello di
Tuscolo, quadro e sormontato da cupola a cono.
Non ci vorremo dunque collocare con quelli che riguardano i Pelasgi
soltanto come un’orda ragunaticcia e feroce, la quale non abbia che
messo a sperpero il paese. Se fosse, n’avremmo un appoggio a quel vanto
dato da Plinio all’Italia, ch’essa sembri fatata dagli Dei a restituire
agli uomini l’umanità: ma tutto all’opposto, altri lodano i Pelasgi sin
d’avere portato qui l’alfabeto, giacchè Evandro, insegnator di questo,
veniva dall’Arcadia, loro stanza.
Molto soffersero[43] in Italia i Pelasgi in grazia della sterilità e
siccità dei campi, ma più ancora pei vulcani, dal cui imperversare
furono, 1300 anni avanti Cristo, costretti abbandonare l’Etruria,
ove le loro città vennero insalubri per le esalazioni delle paludi,
formatesi di mezzo a terreni o depressi od elevati: Cere, una di esse,
sedeva a quattro miglia dal cratere in cui stagna il lago di Bracciano;
l’aria mefitica di Gravisca restò proverbiale fra’ Romani; Cosa per
questa rimase deserta; Saturnia, città incontestabilmente pelasgica,
era s’una delle ultime colline del vulcano di Santa Fiora.
Oppressi da tali disastri e da malattie strane, i Pelasgi interrogarono
l’oracolo di Dodona, e n’ebbero risposta essere gli Dei sdegnati
perchè, avendo promesso ai Cabiri la decima di tutto quanto nascerebbe,
non aveano offerta quella de’ figliuoli. La spietata risposta parve
ancor peggio del male; il popolo tumultuò, e prese in sospetto i
capi: di qui crebbero i patimenti; stanchi de’ quali, alcuni Pelasgi
migrarono, o tornando ai paesi dond’erano venuti, o procedendo ad
occidente, massime verso l’Iberia, dove Sagunto e Tarragona mostrano
mura di loro costruzione. I rimasti, da nuovi popoli furono non
distrutti, ma spossessati e ridotti a condizione servile. I Sibariti
in fatto chiamavano Pelasgi gli schiavi, che probabilmente erano gli
Enotrj da loro soggiogati; e forse enotrj erano i Bruzj, schiavi
rivoltati. Rimasti come servi campagnuoli della nobiltà urbana, forse
a servigio di questa fabbricarono altre mura di città, che anche più
tardi serbano carattere di robustezza.
Chi visiti San Pietro d’Alba nei Marsi, riconosce tre gradini di
costruzione pelasgica, sormontati da un tempio romano, al quale i
Goti aggiunsero una tribuna ad abside, e il medioevo una facciata,
mentre l’interno è ornato da sei colonne di marmo corintio. Questa
mescolanza non è il simbolo perpetuo della storia degli Italiani? e
sarà mai sperabile che altri pianti un sistema, il quale valga unico a
spiegare le mille varietà? Sanno d’alchimia più che di chimica cedeste
manipolazioni della storia, per cui a cinquemila anni di lontananza
si pretende dar la formola delle affinità, indicare la separazione
dei popoli, ridurre a calcolo il caos. Ogni ipotesi troppo generale
soccombe alla sincera indagine; e se è sconfortante che i dotti
rimangano ambigui, ed i migliori sforzi riescano soltanto ad un forse,
è umiliante che per quel forse si palleggi dall’uno all’altro il titolo
d’ignorante o di presuntuoso.
_Nota del 1874._
[ANTICHITÀ PREISTORICHE]
Le recenti scoperte di oggetti antichissimi, di rozzissimi arnesi,
d’armi di silice, d’ossa rosicchiate o intagliate, di teschi umani
entro grotte o ne’ paduli o nelle torbiere, e fin sotto a terreni
di altra età geologica, portarono a un nuovo studio, che chiamarono
antichità preistoriche. Ergendo ipotesi arditissime sovra fatti
ancora indeterminati, si negò l’unica derivazione dell’uomo, si volle
perfino crederlo null’altro che la trasformazione graduale di scimie
antropomorfe, avvenuta in diverse parti del globo, e nel volgere di
milioni d’anni.
Tutto ciò non ha a fare colla storia, la quale non può prender le mosse
che dalle tradizioni nostre, dai nostri monumenti. I quali in verità
attestarono uno stato quasi selvaggio delle popolazioni indigene,
che, non possedendo ancora i metalli, si valeano delle pietre; poi
usarono il rame, che più facilmente si trova puro; tardi approfittarono
del ferro, divenuto poi principale stromento di civiltà. Giancarlo
Conestabile assevera all’età del rame fosse contemporaneo l’uso
del ferro, che trova _spessissimo_ presente e mescolato all’altro
metallo ne’ lavori artistici e industriali; donde induce che l’uso
del ferro cominciò qui assai prima che nel Settentrione. Questi
uomini preistorici sarebbero o brachicefali nell’Italia superiore, o
dolicocefali nella inferiore: misti nella centrale.
Accordando colle scoperte recenti le tradizioni, abbiamo che, dopo il
periodo pliocenico, l’Italia era occupata dal mare, donde sporgeano
come isole le vette dei monti. Fra le selve d’alto fusto viveano genti
selvagge con elefanti, rinoceronti, ippopotami, cervi da enormi corna,
bovi primigeni ed altre specie perite. Da queste difendeansi con arme
di selce: albergavano entro grotte, ovvero su palafitte in mezzo alle
acque, dove rimasero gli avanzi de’ loro cibi. Così passarono l’età dei
ghiacci: allo squagliarsi de’ quali la pianura andava asciugandosi, e
le genti vi scendevano, perfezionando il vivere, gli utensili, le armi.
Testimonj di questi progressi dalla pietra al bronzo poi al ferro non
sono scarsi in Italia, massime nella settentrionale, in abitazioni
lacustri dei laghi di Lombardia, in necropoli dell’Emilia, in capanne,
in terramare; ma segnarne la successione e l’età comparativa è troppo
difficile.
Accontentandoci di esaminare le popolazioni storiche, pare dimostrato
che la stirpe Aria o Indo-europea, partendo dalle terre traversate
dall’Oxo, di là del Caspio e della Scizia, venisse in Europa in quattro
rami, il Celtico, il Germanico, il Greco italico o Pelasgo, il Lituano
slavo. Forse trenta secoli avanti Cristo avvenne la prima emigrazione
di Celti, quasi contemporanea a quella dei Pelasgi, che stabilitisi
nell’Asia Minore e sull’Ellesponto, spinsero ramificazioni in Italia,
dove occuparono le creste degli Appennini, respingendo gli Aborigeni,
dei quali son forse avanzi gli Japigi della Messapia, gli Opsci, gli
Ausonj della Lucania, e i Liguri, che pajono i più antichi abitatori,
nell’età detta della pietra.
Dell’istesso ramo Ario erano gli Umbri e Latini, quelli di dominio più
esteso, questi limitati al paese del basso Tevere.
Viene terza un’immigrazione greco-pelasgica dall’Arcadia, dalla
Tessaglia, dall’Epiro, per mare sbarcando nell’Italia propriamente
detta, ch’è la Calabria, denominata da Enotro e Peucezio, e alle foci
del Po, dove fondarono Spina.
Cozzi dei sopraggiunti coi già stanziati agitarono quell’età pelasgica,
in cui si venivano accostando e fondendo le varie genti; i Pelasgi
dilatarono l’uso dei metalli: costruirono le mura ciclopiche.
Ma quattordici secoli avanti Cristo cominciò l’immigrazione
pelasgo-tirenica dall’Asia Minore alle rive occidentali della penisola
centrale, e comparve il nome di Etruschi; i quali è incerto se fossero
ariani o semitici. Per chiarire questo dubbio e le altre congetture
adopransi argomenti filosofici e altri fisici, che non sempre
s’accordano: nè gli uni sono più decisivi degli altri. Gli antropologi
dissentono fra loro fondamentalmente, e intanto raccolgono cranj delle
varie genti, dalla loro conformazione volendo dedurne l’origine. Ma
venendo al popolo su cui è maggiore la curiosità, convengono che gli
Etruschi sono una mescolanza di gente più civile e men numerosa, cogli
Italioti più numerosi e incolti.
I filologi rifiutano l’origine celtica degli Umbri, ascrivendoli al
ramo ario-pelasgico, come i Siculi e i Liburni, affini cogli Japigi,
de’ quali resta qualche iscrizione non ancora decifrata, ma che accenna
all’Illiria.
Il padre, poi cardinale Tarquinj, fu l’ultimo a sostenere le origini
semitiche e s’appoggiò a nomi geografici, quali
APINNIN sommità, monti a catena.
PISA _Pissa_, abbondanza.
PERUSIA _Perosa_, villereccia.
UDINE _Odina_, amena.
SORA _Isor_, rupe.
ISCHIA _Ischina_, mio desiderio.
VESUVIO _Veth-ubim_, casa delle caligini.
PENNA DI BILLI _pinnath_, sommità di Amone, di Bito, Punta
di Ammone.
ASCOLI _Aschelon_ ne’ Filistei.
ARIMINO _Arimanon_ di là del Giordano.
SIENA _Senaa_ città della tribù di Benjamino.
ROMA _Ruma_ in Cananea, residenza di Abimelec.
CARIDDI _Chor obdam_, antro pericoloso.
ZANCLE _Zalga_, falce.
Ascoli ripudia affatto il concetto del Tarquinj e dello Stickel: e così
Giovanni Flechia, di cui è notevole la _Grammatica storica comparata
dei dialetti italiani_.
Che gli Etruschi siano semitici è negato dallo studio delle arti loro
non meno che dal linguaggio, sebbene pochissimo ancora conosciuto.
Dovettero essi venir dall’Asia Minore per mare, non già dalle Alpi;
dove trovansi bensì loro reliquie, ma che provano solo essersi anche
colà esteso l’impero degli Etruschi, i quali andavano fin sul Baltico
in cerca dell’ambra.
Le lingue dei tre popoli più antichi, Osci, Umbri, Etruschi, ben
distinte fra loro, vennero assorbite o distrutte dal latino, ma dai
pochi avanzi si accerta che nel linguaggio degli Osci o Sanniti non
è traccia di semitico, ed è affine al latino arcaico. L’umbro si
scosta dalle forme del Lazio, pure le sette tavole eugubine conducono
a riconoscerlo d’origine comune coll’osco-romano, esclusa ogni
derivazione nè semitica nè celtica.
Non così d’accordo si va per l’etrusco, pure nol si spiega con
nessuna lingua semitica nè celtica: e i monumenti numerosissimi ma
di pochissime parole e di nessuna importanza storica, malgrado le
abbreviazioni, le scorrezioni, le alterazioni fonetiche, l’assicurano
al ramo ariano.
Tali sono le induzioni ultime di Corssen, di Fabretti, di Conestabile.


CAPITOLO III.
Gli Etruschi.

La gente da cui i Pelasgi si trovarono incalzati, doveva esser quella
che da sè chiamavasi dei Raseni, dai Greci fu detta dei Tirseni o
Tirreni[44], e dai Romani degli Etruschi o Tuschi.
Chi erano essi?
[ORIGINE DEGLI ETRUSCHI]
Misteri succedono a misteri; e qui pure, invece di riposare sulla
dimostrazione, siamo ridotti ad ipotesi, desunte dal carattere
generale. Erodoto fa uscire gli Etruschi dalla Lidia, annestandone
l’origine alle vicende degli Eraclidi. Ellanico, padre della storia
greca, li vuole tutt’una cosa coi Pelasgi approdati a Spina. Dionigi
d’Alicarnasso ripudia entrambe le opinioni, propendendo a quelli che
li fanno indigeni d’Italia: ma la perdita dei libri ove espresso egli
trattava degli Etruschi, ci sottrasse gli argomenti ai quali esso
appoggiava. I moderni campeggiano coll’una e coll’altra credenza, niuno
con prove trionfanti, ma al solito mescolando erudizione e fantasia,
esame e passione, e non già mentendo il vero, ma dissimulando gli
argomenti in contrario. Però quante assurdità, mascherate d’invenzione,
si risparmierebbero se si sapesse che da tanto tempo furono e sostenute
e confutate!
Gli uni dicono:—Tant’è vero ch’erano Greci, che consultavano l’oracolo
di Delfo; usavano un ordine architettonico che è semplificazione del
dorico; fabbricavano vasi identici coi greci per la materia, pel
lavoro, pei soggetti, per le iscrizioni».—No (soggiungono altri),
erano indubbiamente Pelasgi; e lo provano i numeri simbolici, le
austere dottrine, l’essersi mantenuti in relazione con Mileto e Sibari,
città joniche ed achee, sorelle dei Pelasgi, mentre avversavano a
Siracusa e agli altri Dori». Sopraggiunge chi tenta conciliare le due
opinioni inventando i Pelasgi-Tirreni, detti così perchè Tirrenia fosse
chiamata l’Etruria dai Greci, e tirreniche le popolazioni in Grecia