Speranze e glorie; Le tre capitali: Torino, Firenze, Roma - 15

A poco a poco ritorna la quiete. Il Montecchi continua a leggere. Il
primo nome passa. Il terzo è accolto da lunghi applausi. Otto o dieci
altri non incontrano opposizione. Qualcheduno solleva un po' di
mormorio.... Sia lodato il cielo, l'elenco è finito!
Si applaude.
Il Montecchi ricade sulla sua seggiola e si asciuga la fronte.
Allo strepito succede nella folla un vivissimo bisbiglio.
--Ora chi parla?--Chi vuol parlare?--Parla tu.--Il tale ha detto che
parlerà.--No, parla quell'altro.--Parliamo noi.--Parlino
loro.--Zitti! Parlano.
A piedi del pulpito, poco al disopra della folla, si alza una testa e
si stende una mano.
--Silenzio! Silenzio!
Si fa un grande silenzio e si ode una voce incerta e sottile:
--Io piglio la parola in un momento solenne....
Un rumore improvviso da una parte dell'anfiteatro copre la voce
dell'oratore.
--....Io piglio la parola in un momento solenne....
Un tale accanto al pulpito lo interrompe; l'oratore si volta
bruscamente:--In nome di chi parla lei? In nome del deputato
Checchetelli?
Segue un diverbio, il Montecchi si intromette, l'oratore ricomincia a
parlare.
--Forte! Forte!--grida la folla.
--Salga su!--gridano i membri della Commissione.--Venga qui sul
pulpito! Si farà sentir meglio!
E tutti insieme pigliano l'oratore per le braccia e lo tirano su.
Tutta la persona di lui sovrasta alla folla. È un giovane sui
venticinque anni, alto, pallido. Ha il capo fasciato. È stato ferito
dagli zuavi salendo in Campidoglio. La folla prorompe in applausi.
--Silenzio!
Egli parla.
Sulle prime non si sente; ma la sua voce man mano si innalza e si
rafforza, e la parola esce vibrata e distinta.
--....Ben fecero gli egregi uomini della Commissione a radunarsi in
questo antico ed angusto recinto. Essi dimostrarono con ciò che d'ora
innanzi gl'interessi del popolo non saranno più abbandonati
agl'intrighi delle consorterie, ma discussi e propugnati alla luce
del sole, in mezzo al popolo e col popolo!
Scoppio di battimani.
--Non si scherza,--bisbiglia il popolo.--Le canta chiare.--Non ha
paura di nessuno.
L'oratore prosegue:--....In questo recinto che il tempo corrose, ma
non distrusse; fra queste mura annerite dai secoli....
Violente interruzioni:--Alla questione!
L'oratore, levando al cielo lo sguardo e la mano:--Io veggo gli archi
del Colosseo popolarsi di arcani fantasmi....
Nuovo e più violento scoppio di disapprovazione e di protesta:--Alla
questione!--«Non volemo» prediche!--Le prediche «so'» finite!--Non
abbiamo bisogno di lezione!
L'oratore continua a parlare; ma la sua voce è soffocata dallo
strepito della moltitudine.
Una voce stentorea si alza al disopra di tutte le voci e fa voltare
tutte le facce:
--La cosa è chiara! L'elenco «nun ce» piace! «Nun volemo» liberali del
momento, «nun volemo» liberali d'occasione....
Applausi tonanti.
--«Volemo» gente provata, patriotti schietti, che «ce se veda chiaro»
nella vita loro!
Un'esplosione d'applausi.
E la voce di prima, con nuovo e formidabile sforzo:--«Nun volemo
mercanti de campagna!»
Terza salva d'applausi.
--Va' a parlar tu!--Va' sul pulpito!--Fa' valere le nostre ragioni!
Va'!--Presto!--Su!
Il fortunato interruttore, sollecitato e spinto da tutte le parti,
chiamato dal Montecchi, eccitato dalle grida della gente lontana, si
apre un varco tra la folla e si slancia verso la tribuna. Sbalzato da
un suo spintone cinque o sei passi indietro, mi trovo in una corrente
che move verso l'uscita, mi ci abbandono, e in pochi minuti, pesto,
sudante e spossato, mi trovo fuori del Colosseo.
Ecco tutto quello ch'io vidi.
Stetti un momento là incerto tra il tornar dentro e l'andarmene, e poi
presi un partito fra i due: salii sur un rialto del terreno accanto
all'arco di Costantino, e come soleva dirmi il mio amico Arbib, «mi
misi a fare della poesia inutile», guardando il Colosseo.--Le solite
grida,--pensavo,--la solita confusione, la commedia solita delle
radunanze popolari; ma che importa quello che vi si faccia e quello
che vi si concluda? Sono grida di libertà, e basta perchè, a sentirle
di qui e a sentirle uscire dal Colosseo, mi destino nell'anima una
gioia nuova, ineffabile, superiore a tutte le gioie che mi sian mai
venute finora dall'amor di patria.--Viva l'Italia--viva la
libertà--viva Roma redenta--....nel Colosseo! In questo campo! In
mezzo a questi archi!
E giravo l'occhio intorno come per assicurarmi del luogo dov'ero.
--....Il Bonghi dice che qui ci sentiremo piccoli. Perchè? Piccolo si
sentirà chi si vorrà misurare con chi fu grande. Noi qui non veniamo
a misurarci; ma ad ispirarci, ad attingere forza e coraggio, a
meditare e ad ammirare. Il Colosseo!--ho inteso dire;--che vi potrà
dire il Colosseo? Vi narrerà le glorie dei gladiatori e i supplizi
dei cristiani? Ed io vi rispondo:--Sì....
In quel punto uscì dall'anfiteatro un altissimo evviva e un allegro
suono di banda.
--Sì.... ecco che cosa mi dice il Colosseo. Mi dice che dove gli
uomini schiavi si sgozzavano per ricreare un tiranno, ora convengono
i cittadini a salutare l'aurora d'una vita nuova; mi dice che dove
perirono sotto le scuri o in mezzo alle fiamme gli apostoli della
libertà e dell'uguaglianza, ora convengono cittadini liberi ed
eguali a esercitare i loro diritti e a compiere i loro doveri,
coll'anima lieta e serena; e questo vi par poco? E vi par che si
possa dire che il Colosseo è muto?
Un altro scoppio di grida misto a suono di trombe mi giunse
all'orecchio.
E poi una voce distinta:--Viva la libertà!
--Ah!--esclamai, rivolto al Colosseo, come se mi potesse
intendere;--consolati, vecchio gigante; così monco e sfracellato
come ti trovi, tu non fosti mai tanto bello nè tanto grande ai tempi
degl'Imperatori!


UNA MATTINATA ALL'ALBERGO.

Non so se sia stato più vivo il piacere che provai entrando in Roma il
20 settembre, o quello che ebbi la mattina dopo, svegliandomi nella
cameretta dell'albergo, appena rinvenni dall'illusione solita di
credermi ancora dove avevo dormito la notte prima. Appena aperti gli
occhi, il mio primo pensiero fu quello che m'era venuto a Monterotondo
la mattina del 20:--Dunque quest'oggi «s'attacca!»--E stetti un
momento perplesso. A un tratto mi parve di sentirmi nell'orecchio una
potentissima voce:--Roma!--e mi scossi da capo a piedi, e balzai d'un
salto alla finestra. Apersi le imposte, e visto appena le bandiere e
udito le grida del popolo, m'entrò nel cuore tanta gioia che mi diedi
a ridere come un pazzo. Poi chiamai il cameriere, senza sapere perchè.
Venne subito, allegro anche lui ch'era un piacere.
--Che mi comanda?
--È un romano,--dissi tra me, guardandolo;--un romano cameriere! Mi fa
pena; avrà forse un lontanissimo antenato console, senatore,
pontefice massimo....
--Come vi chiamate di nome di battesimo?
--Caio.
--....Caio Flaminio,--pensai,--Caio Gracco, Caio Sicinio, Caio
Curzio....
--Qual'è il vostro cognome?
--Tittoni
--Caio Tittonio, andatemi a chiamare un barbiere.
--Vado subito.
--Un barbiere romano.
--Guardi che caso! Il barbiere dell'albergo è lombardo.--Non lo
voglio; andate a cercarmi un barbiere «romano de Roma»; fate anche
mezzo miglio, se occorre, vi ricompenserò della corsa; ma portatemi
un barbiere romano.
--Sarà servito.
E se n'andò ridendo.
Non era senza perchè la mia pretensione: volevo scrutare lo spirito
politico delle classi inferiori, e tutti sanno che quando s'è parlato
con un barbiere si può contare d'aver parlato con mezzo mondo.
Il barbiere venne. Era un barbiere dello stampo dei nostri: un
vecchietto azzimato, pulito, gaio, con le mani fredde e i rasoi
cattivi.
Mentre cominciava l'operazione, io studiavo la maniera d'entrare in
discorso.
Egli mi prevenne domandandomi con molta gentilezza:
--Il signore è emigrato?
--No.
--Italiano?
--Sì.
--Giornalista?
Diedi un balzo sulla seggiola e mi voltai a guardarlo negli occhi.
Come mai poteva già sapere che insieme con l'esercito s'erano
rovesciate su Roma le cavallette della stampa?
--Non sono giornalista.
--Dicevo, sa.... perchè ho visto il tavolino coperto di giornali e di
carte.... Che gliene pare di Roma?
--È superba.
Fece un risolino modesto.
--....Noia, c'è male.... E poi, ora, è tutt'altra vita che «ce se
vive»!
--Siete contento del cambiamento?
--Se sono contento? «Me pare da diventà matto, me pare». L'Italia una,
per Dio.... Ora speriamo che «ce» sarà fatta giustìzia.
--Di che?
--Eh signore, «ce so» molte cose da mettere a posto a Roma.
--Me lo immagino....
--....Prima di tutto, sa che cosa dovrebbe fare Sua Maestà il re
Vittorio Emanuele Secondo, appena entrato in Roma?
--Desidero di saperlo.
--Dovrebbe....--e qui stese un braccio e alzò la voce,--dovrebbe
mettere a posto «li macellari», dovrebbe; che «so na razza de cani»,
glielo dico io, e fanno pagare tutto il doppio, e «so» screanzati
che «nemmanco se ponno guardare in der grugnaccio, se ponno»,
capisce?
--Oh cospetto! È proprio questa la prima cosa che deve fare il re?
--Questa.... e un'altra. Fare una legge con la quale dica che d'ora in
avanti è fatta facoltà «a li barbieri de» metter la bottega dove
«je» pare, senza quella «prepotenza» che c'è adesso che le botteghe
debbono essere a quella data distanza l'una dall'altra. Per cagion
di questo, vede, a me m'è toccato di fare «er giovanaccio de
bottega» cinqu'anni di più, chè il locale vicino ce l'avevo, e li
baiocchi pure, ma la bottega non la potevo mettere per via di quella
legge «'nfame». Accidenti ai governi dispotici e viva Vittorio
Emanuele! Quant'ho benedetto sto giorno io!... E poi un'altra cosa.
--Dite.
Qui abbassò la voce e mi disse nell'orecchio:
--Dei barbieri che tengono dal Papa, qui, in Roma, ce n'è la su'
parte, glielo assicuro io.
--Ebbene?
--Accopparli.
--Siete severo.
--Sì, accopparli, senza misericordia «co' sta razza de cani»; se no
«er» governo italiano se ne accorgerà, stia pur sicuro.
--Speriamo che faranno la barba con la dovuta prudenza.
--Non ci speri; bisogna far man bassa.
--E altro?
--Altro.... ci son tante cose; ma dica un po', «ce» porteranno delle
buone leggi, «se» spera?
--Meglio di quelle che avevate, lo crederei.
--Bene; e dica.... Sento che «ci» hanno una grande severità pei ladri,
è vero?
Accennai di sì, voltandomi a guardarlo.
--È giusto.... Poi c'è la leva militare.... Eh già.... quella alle
donne «sarà un po' difficile de fajela entra'».
--Lo penso anch'io.
--«Gran disciplina co' sti soldati eh»?
--Quanta n'occorre, certamente. Avrete però osservato che gli
ufficiali hanno buone maniere e che i soldati son buoni ragazzi.
--Già.... e scusi, sa, se son curioso.... si parlava giusto ieri
sera.... che cos'è la «ricchezza mobile»?
--La ricchezza mobile?
--Già.
--....Provate l'altro rasoio, questo mi fa male.
--Quest'altro «je» va?
--Questo mi va.... Avete visto la luminaria di ieri sera?
--La luminaria, sì.... ma che «ce» porteranno tutte «ste imposte che
se dice»?
--Eh già, le imposte, vedete.... in Italia.... relativamente a quello
che potrebbero essere, tenuto anche conto delle condizioni agricole
e industriali del paese, e considerata la proporzione delle forze
produttive in relazione con le esigenze, dirò così, che sono molte e
gravi, d'una grande amministrazione.... Capirete che la finanza è
finanza, i bisogni, bisogni, i doveri, doveri, e per quanto si
faccia e dica dai contribuenti, è pur sempre certo che i carichi dei
cittadini sono in certo qual modo, e fino ad un certo punto,
regolati sui principii d'un sistema economico senza del quale s'è
sempre visto che gli Stati non si reggono e tutte le proprietà
pubbliche e private ne vengono a soffrire gravemente....
--È chiaro.
--Lo capite anche voi.
--Diavolo!
--Picchiano: fatemi il favore d'aprire. Entrò il calzolaio: un
gobbetto coi capelli grigi e il naso a becco.
--Scusate,--dissi al barbiere,--non posso rimandarlo indietro; bisogna
ch'io mi misuri un paio di stivaletti; mi spiccio in un momento.
--Faccia pure.
Gli stivaletti andavano.
--Quanto volete?--domandai.
--Diciotto lire.
--....Son carini.
--Non è vero? Paiono fatti apposta per il suo piede.
--Eh no, voglio dire che sono un po' salati. A Firenze li pago sedici.
--....A Firenze è un altro par di maniche, caro signore; qui si paga
tutto più caro. Ma io non sto sul tirato. A lei ch'è italiano glieli
do per diciassette.
Il barbiere fu preso da un accesso di tosse.
--Ohè, dico!--gridò il calzolaio fissandolo fieramente;--che ci avete
da fare delle osservazioni voi?
--«Gnente, gnente»; dicevo che l'Italia è un bel paese.
--E io vi dico che v'impicciate negli affari vostri, che già.... noi
altri.... «armanco».... agl'italiani la gola «nun je la tajamo».
--E «manco» noi «nun je stroppiamo li piedi».--Potrest'essere più
educato, «me pare».
--Più educato?--(accendendosi).... Io già, se ve l'ho a dire chiara e
netta, la corte agli zuavi non glie l'ho mai fatta.
--E io neppure!
--Resta a sapersi!
--Come resta a sapersi?
--«Se conoscemo».
--Sicuro che «se conoscemo».
--«Er regno» dei preti è finito.
--Me ne rallegro.
--Non «de» core.
--Più «de» voi.
--Ci ho i miei dubbi.
--Via, via,--dissi, mettendomi in mezzo,--lasciamo queste quistioni;
non son giorni questi da bisticciarsi fra amici; bisogna andar tutti
d'accordo, e gli uni dimenticare i torti degli altri, se ce ne sono.
Stringetevi la mano subito, in presenza mia, o non do il becco d'un
quattrino a nessun dei due.
Si porsero la mano, ma senza toccarsela.
--Animo, stringetevela,--dissi.
--Lui ha da dir prima viva l'Italia!--disse il barbiere.
--E io «nu je vojo dà» questa soddisfazione,--risponde l'altro.
--Animo, ditelo per far piacere a me.
--Viva.... l'Italia.
Si strinsero la mano.
Ma il calzolaio subito con un rincalzo di passione:--E io lo «so»
stato sempre italiano, capite!
--Sì, sì, lo credo,--gli dissi,--vi si vede in viso, eccovi i denari,
andatevene pure.
--E io non glie l'ho fatta mai la corte agli zuavi, sapete, non glie
l'ho fatta mai.
--Andate, andate.
--E non è questa la maniera «de» screditar la gente....
--Via....
--E «se» rivedremo....
--Chetatevi, ve ne prego, vien gente....
Entrò la stiratora, una donnicciuola sui cinquant'anni, con un'aria di
vittima, col cappellino e lo scialle messi per traverso: il calzolaio
si fermò sull'uscio.
--È lei, signore,--mi domandò la donna con voce tremante,--che mi ha
da dar della biancheria?
--Io; ma bisogna che me la riportiate domani.
--Si farà.... quello.... che.... si.... potrà.
--Che cos'avete?
La stiratora scoppiò in pianto.
--Che v'è accaduto?--domandai, avvicinandomele.
--Ah! signore.... mio fratello e mio cognato....
--Son morti?
--No.... sono impiegati alla Revisione.
--Ebbene?
--....Li mandano via.
--Chi?
--Gl'Italiani.
--Ma, che! Rimarranno nel loro impiego, statene sicura; il governo
italiano non toglierà il pane a nessuno; datevi pace, buona donna.
--Ah! no.... no.... è inutile.... glielo hanno già detto....
E un altro scoppio di pianto.
--L'avranno voluto loro,--esce a dire il calzolaio,--e se lo son
meritati.
--Che cosa?--domanda sdegnosamente la donna, sollevando il viso
bagnato di lacrime.
--«Ah! credete che nun se sappia er perchè? Ci avemo er nostro
giuramento (giungendo le mani e modulando la voce); no se pole, ci
avemo er nostro giuramento de mantenecce fedeli ar Papa»!
--Non è vero!
--Andiamo via, chè «so» i soliti mezzi «de» cercar gl'impieghi....
--«Eh, stateve zitto»,--gli ribatte il barbiere,--«nun me» state a far
tanto l'italiano «co' sta» povera donna, che tanto ve se vede sotto
la coda!
--A chi?
--A voi!
--Ve do questa scarpa sulla faccia!
--Finitela, via.
--E io «ve faccio attastà sto» rasoio.
--Fuori di casa tutti quanti!
--Ma dica lei che è emigrato....
--Non sono emigrato.
--Senta lei che è giornalista....
--Non sono giornalista; lasciatemi stare, uscite subito tutti di qui,
sono stanco dei vostri piati, andate a gridar in piazza e non mi
seccate più in casa mia!
Ciò dicendo li spingo l'un dopo l'altro verso l'uscio, ed escono
vociando tutti insieme fin giù per le scale.
--«Er regno de preti è finito»!--Non è la maniera «de» metter la gente
in mala vista dei forestieri!--Non è vero.... il giuramento.... si
resta senza pane....--È finito!--Ci rivedremo!--Giù le code!--Non è
vero!
--Andate! Andate, che il diavolo vi porti!
E chiusa in furia la porta mi gettai sul seggiolone esclamando:--Pace!
Pace,
O esacerbati spiriti fraterni!
Ah, buon Dio! Anche il 20 Settembre, visto dietro le quinte....


RICORDI DELLE CATACOMBE
(Venticinque anni dopo).

Ci andava innanzi lentamente, portando un cerino acceso e strascicando
i sandali, un piccolo frate tarchiato, che in alcuni punti teneva
quasi con le spalle tutta la larghezza del corridoio, e ci copriva con
la sua ombra.
È violenta e triste la prima impressione che si risente discendendo
dalla grande Roma piena di luce e di vita in quel freddo cimitero
sotterraneo, dove sulla morte è anche ora passata la devastazione, e
dove si vedon congiunti tutti i più tetri aspetti d'una cava, d'una
grotta e d'una carcere. E si va innanzi a malincuore, nell'odore umido
della terra, diffidando del suolo ineguale, e pensando con
inquietudine che, se il frate sparisse, si perderebbe la lena alla
corsa, e forse il lume della ragione, prima di ritrovare l'uscita. Ma,
a poco a poco, quel labirinto di anditi angusti, quelle fughe di buche
sepolcrali nereggianti nelle pareti come grandi bocche semiaperte,
quei piccoli vani per gli uffizi del culto, dove i fedeli stavan
raggruppati e stretti, come quando aspettavan nei circhi l'irruzione
delle belve, attirano e soggiogano tutti i vostri pensieri. Se vi
resta ancora un pensiero profano, cede anche questo alla vista della
prima ampolla incastrata nel tufo, nella quale siete spinti a cercare
le tracce del sangue che vi fu racchiuso, e quasi un ultimo fremito
della vita che fuggì con esso dalle vene del martire, o svanisce alla
prima lettura di una di quelle iscrizioni semplici e rozze: «Pax
tecum», con accanto un nome di battesimo, che non vi par di leggere,
ma d'udir profferire intorno a voi dalla voce sommessa di chi ha amato
e sepolto chi lo portava. Il frate si soffermava a quando a quando per
rischiarare la cripta di una famiglia, di cui è scomparso ogni avanzo,
o nomi di pellegrini d'altri secoli incisi nelle pietre, o una grata
sottile, dietro la quale, fra poche ossa biancheggianti, ci fissavano
due occhiaie profonde, con quello sguardo immobile da mille e
ottocento anni, che par che aspetti con fede invincibile l'adempimento
d'una promessa. Ma più che altro ci arrestavamo a quelle buche
mortuarie dei bambini, così strette, da parere che neanche un piccolo
cadavere potesse entrarvi, se non spinto dentro a forza come un corpo
ancora vivente e ribelle alla sepoltura. Ah, lì pure sono i bambini
quelli che vi prendono al cuore, quei poveri piccoli cristiani messi a
dormire l'un sull'altro, ammucchiati, quasi schiacciati, oppressi
anche nella morte dalla terra, come eran stati nella vita dal terrore,
e così lontani dalla luce del giorno e dal verde dei campi,
rimpiattati, più che sepolti, come carne maledetta. E col sorgere
della pietà vi cade ogni ribrezzo del luogo: una curiosità grave e
reverente vi spinge innanzi per quel labirinto tenebroso; voi cercate
con gli occhi gli epitaffi e i sepolcri come se non tutti vi dovessero
essere ignoti; sentite a poco a poco come una stretta del vincolo che
v'unisce ai morti che là riposarono, e il nome che essi ebbero comune
con voi vi risuona nell'animo con un novo suono, dolce e solenne; vi
guida sotto a quelle vôlte, infine, quasi un ricordo lontano di
ricordi lontani, soavi e misteriosi, che vi passan per la mente
affollati, senza forma di parola, come una melodia appena intesa.
Quanto vi par lontana la capitale d'Italia! Ma più lontane di ogni
cosa, quasi monumenti e mostre d'un'altra religione, le superbe
basiliche dorate e le sfarzose carrozze pontificali, che avete visto
poc'anzi, lassù, in quel mondo dove splende il sole.
*
Si discese a un altro piano di gallerie, e si riprese a andare,
nell'ombra del frate. Il lumicino rischiarava di sfuggita anditi
laterali, dove entra a stento una persona, e che svoltano
nell'oscurità a pochi passi dall'imboccatura, altri anditi riempiti da
frane di sabbia, ed altri incominciati a scavare, e lasciati lì; i
quali s'allacciano forse a una rete di sotterranei più vasta. Si passa
sotto a vôlte che vi fanno curvare la fronte; si discende per brevi
tratti, come verso l'orlo d'un precipizio; poi si risale lentamente,
si torna a discendere, si svolta e si risvolta, e par di tornare sui
proprii passi e di riconoscere crocicchi, cubiculi, sfondi già visti;
quando in realtà si procede. A volte, il suono dei vostri passi
v'illude: vi par di sentir camminare altra gente davanti e dietro di
voi, dei passi che s'avvicinano e s'allontanano, nei corridoi accanto,
al piano di sopra, al piano di sotto, come di gente sorpresa che si
sparpagli da tutte le parti, in punta di piedi. In altri momenti,
quando il frate svolta un breve tratto prima di voi e rimane per poco
invisibile, il fruscìo della sua tonaca e dei suoi sandali non vi par
più il suo; suona come se invece d'andar oltre, si riavvicinasse, e vi
balena alla fantasia un incontro miracoloso, l'apparizione di uno
spettro di quella necropoli che v'aspetti alla svoltata, immobile e
muto, e vi chiude il passo come a un miscredente sacrilego. E allora
continuate a sognare, e vedete passar vagamente, lungo le pareti nere,
al chiarore danzante della fiammella, uomini pallidi e austeri, capi
curvati, visi estatici, occhi accesi di pianto e di speranza, che si
fissano nei vostri con un'espressione di bontà ineffabile, gruppi
furtivi di gente povera e umile, una confusione silenziosa di
fanciulle, di vecchi, di servi, di gladiatori, di coloni, di patrizi,
che vanno a passo lento, con le lampade d'argilla a la mano, e
dileguano per gli ambulacri, come ombre; e pei lunghi anditi vi
giungono all'orecchio salmodie di una dolcezza infinita, e dalle porte
dei cubiculi singhiozzi di madri che adagian nella fossa i corpicini,
dicendo con accento di sovrumana certezza:--Ti rivedrò! Aspettami in
pace, figlio mio!--e sentite alle spalle i passi gravi e gli aneliti
dei fedeli che portano i corpi lacerati dalle fiere, stillanti di
sangue. Come dovevano amarsi! E come dovevano amare il loro Dio
vilipeso, beffato, effigiato sui muri con un capo animalesco, pendente
da un patibolo infame, quelli che davan la carne al fuoco e ai
flagelli piuttosto di dire che non l'amavano! E intorno alle immagini
loro si dilata e si rischiara al vostro pensiero quel labirinto
funereo che vide tanti addii supremi, tanta rassegnazione, tanto
dolore, tanto coraggio; sentite nella stessa riverenza amorosa, che la
memoria di quei morti v'ispira, d'esser loro eredi e loro figli; ma
con un senso acuto di rammarico,--col rammarico di non poter dare al
servigio della vostra fede il santo amore della povertà e l'eroico
disprezzo della vita con cui essi professarono la propria.
L'immaginazione, frattanto, vi fa un singolare inganno in quel
pellegrinaggio: il vostro pensiero, di là sotto, non risale già alla
Roma attuale; quella che __sentite__ sul vostro capo è l'antica; sentite e
pensate come se, risalendo all'aria aperta, vi doveste ritrovare fra
gli splendori e gli orrori del regno dei Cesari; e quando vi
s'affaccia improvvisa l'immagine dell'aula di Montecitorio, che avete
fissato di visitar tra un'ora coi vostri compagni di viaggio, vi
produce un senso così vivo di stupore, che del vostro stupore medesimo
rimanete maravigliati, come d'un caso non mai provato di «doppia
coscienza».
Si discende ancora a un altro piano, e da questo a un altro, in
un'aria che vi par sempre più fredda, in un buio che vi par sempre più
denso, in un nuovo labirinto di gallerie strettissime, che discendono
e risalgono, e s'aprono in bivii e in crocicchi, e s'allargano in
ambulacri e in oratori, fiancheggiate di loculi, di bisomi, di cripte,
dove al raggio del lumicino vi appaiono altre ampolle di sangue, altri
nomi di morbi, altri ossami ammucchiati, e altri occhi di teschi che
vi fissano, con quello sguardo profondo che domanda ed aspetta. In
alcuni punti i corridoi si restringono, le vôlte s'abbassano, tutti i
vani s'impiccoliscono, e par che la terra stia per chiudersi su di voi
da ogni parte e seppellirvi vivente; e allora vi prende un senso
d'oppressione, e quasi un brivido di sgomento al pensiero di tutta
quella solitudine oscura, di tutti quei cimiteri che vaneggiano l'un
sull'altro al disopra del vostro capo, di tutti quegli anditi
intricati, di tutte quelle fughe di sepolcri, di tutte quelle ombre
informi che avete visto allungarsi sulle pareti, di tutti quei passi
misteriosi che v'è parso d'udire, di tutte quelle occhiaie vuote che
v'hanno guardato. Ma basta anche allora il nome di una fanciulla
sconosciuta, con una rozza palma disegnata accanto, e quella semplice
aggiunta:--Martire--scolpita a caratteri ineguali nel sasso, a
rimettervi nello stato d'animo di poco prima, a ridestarvi tutto
quanto di più dolce e di più luminoso avete sentito e sognato nei
giorni più puri della fanciullezza davanti alla immagine grande e
candida di Cristo. La vostra mente trascorre da quella in cui
v'aggirate alle altre necropoli,--alle altre quaranta già
dissepolte,--a quelle innumerevoli non ancora esplorate,--spazia per
tutta la distesa e a tutte le profondità della enorme città
sotterranea che ospitò milioni di morti e abbracciò la cinta di Roma,
e sentite la potenza prodigiosa del soffio che di là sotto ha
sollevato il mondo, e vi conforta un nuovo e grande pensiero.--Sì, v'è
ancora nel mondo un amore immenso e una immensa speranza, nata da
quella che raggiò nelle catacombe; la forza maravigliosa che si
sprigionò da queste tenebre non è morta negli uomini: essa è solamente
sparsa, o inconscia di sè, o compressa; ma si raccoglierà, e saprà, e
si espanderà vittoriosa un'altra volta sulla faccia della terra, e
rovescierà altri idoli bugiardi, e spezzerà altre catene scellerate, e
innalzerà essa pure dei monumenti che sfideranno i secoli, e
inneggierà ai suoi martiri nelle lingue di tutti i popoli, e celebrerà
le sue vittorie con le feste più poetiche e più solenni che possa
concepire la mente umana. Sì, la storia ricomincia, e gli anatemi ai
nuovi credenti lo annunziano, perchè non son che un'eco affievolita e
paurosa degli oltraggi antichi. «Exitiabilis superstitio rursus
erumpit».
Questo pensavo, quando un soffio di aria viva mi percosse in viso, il
lumicino del frate si spense e sfolgorò il sole....

FINE.