Speranze e glorie; Le tre capitali: Torino, Firenze, Roma - 10

incontrar sotto i portici il conte Cavour, che va al Ministero,
dandosi la storica fregatina di mani; vedere i Commissari austriaci
del 59 che portano l'«ultimatum» al Presidente del Consiglio; i
corrieri che divorano la via Nuova recando le notizie delle battaglie
di Goito, di Pastrengo e di Palestro; le deputazioni dell'Italia
centrale che vanno a presentare i voti dei plebisciti; una legione di
vecchi generali predestinati a morire sui campi di battaglia; a una
cantonata Massimo d'Azeglio, in fondo a una strada Cesare Balbo, qui
il Brofferio, là il Berchet, laggiù il Gioberti; visi tristi e
gloriosi di prigionieri dei Piombi e di Castel dell'Uovo; giovani a
cui brilla sulla fronte, come un raggio, il presentimento dell'epopea
dei Mille; battaglioni abbronzati di bersaglieri della Crimea che
passano di corsa e stormi di giovani emigrati che sbarrano la strada,
agitando i cappelli, alla carrozza di Vittorio Emanuele; in ogni parte
cento immagini di quella vita ardente e tumultuosa, piena di speranze
e d'audacie, di __grida di dolore__, di canti di guerra e di fanfare
trionfali, che s'agitò per quindici anni fra queste mura.

Il centro di Torino ha una bellezza sua propria, invisibile allo
straniero indifferente, ma che deve affascinare l'Italiano nuovo
arrivato. Ogni suo angolo, ogni sua casa parla, racconta, accenna,
grida; ogni arco de' suoi portici è stato l'arco di trionfo d'un'idea
vittoriosa; sopra ogni pietra del suo lastrico si sono incontrati e
stretti la mano per la prima volta due italiani di provincie diverse,
due esuli, due soldati della grande causa comune; tutto v'è ancora
caldo del soffio immenso di amor di patria che vi passò, infiammando e
travolgendo ogni cosa, come un uragano di fuoco. Quale Italiano può
arrivar là senza sentirsi commosso? In poche città i luoghi e i
monumenti più memorabili si trovano meglio disposti per colpire
tutt'insieme lo sguardo e la mente: in un giro di pochi passi, intorno
al Palazzo Madama, si vede e si ricorda tutto. Ed è anche bella per
l'artista e per il poeta quella piazza vastissima, che arieggia il
cortile d'un palazzo smisurato. Quella reggia severa e nuda, dietro a
cui s'innalza la cupola grigia della vecchia cattedrale, il Palazzo
Madama, grave come una fortezza, sorvolato da nuvoli di colombi, il
tendone bianco delle Alpi che chiude via Dora Grossa, la cortina verde
delle colline che chiude via di Po, quel contrasto di baracconi da
fiera e di palazzi austeri, di folla e di strepito da un lato e di
solitudine tranquilla dall'altro, danno a quella parte di Torino un
aspetto misto così stranamente di città nuova e di città vecchia, di
gaiezza meridionale e di gravità nordica, di maestà di metropoli e di
semplicità provinciale, da far pensare a due città lontane che un
prodigio abbia ravvicinate e congiunte.

Ma qui non può farsi un'idea di Torino il forestiero. Quietato il
tumulto dei ricordi, bisogna ch'egli s'inoltri in quella parte della
città che è compresa fra via di Po, via Roma, il Corso del Re e il
fiume. S'egli non è mai uscito d'Italia, ne avrà senza dubbio
un'impressione nuova. La città par fabbricata sopra un immenso
scacchiere. Per quanto si giri, non si riesce che a descrivere una
greca continua. Tutte le strade, a primo aspetto, si rassomigliano:
tagliano tutte un lunghissimo rettangolo di cielo con due file di case
di color uniforme, su cui lo sguardo scivola dal cornicione al
marciapiede senza che nulla l'arresti, allineate a corda com'erano i
vecchi reggimenti piemontesi, coi guidoni e le guide sulla linea, dopo
un'ora di lavoro. Si va avanti, e par sempre di passare e di ripassare
nei medesimi luoghi. Si può camminare a occhi chiusi: non c'è da
sbagliare: ogni tanti passi, riaprendo gli occhi, si vedranno due
interminabili vie diritte a destra e a sinistra, l'una chiusa dalle
Alpi, l'altra chiusa dalle colline. Qualche somiglianza con altre
città ci si trova: si ricorda via Toledo di Palermo, Livorno, certi
quartieri di Marsiglia e di Barcellona. Ma qui c'è qualche cosa di
particolare, difficile a definirsi: non so che di più rigido e di più
corretto. Non son le case francesi, gabbioni con faccia di palazzi,
parate di decorazioni posticce; bottegaie rinfronzolite. Sono file di
«umiliate», schiere d'alunne di collegio-convitto, grosse massaie
benestanti, tarchiate, in veste da camera, che si danno francamente
per quello che sono, e spirano un'aria di bontà contegnosa, l'amor
della vita regolare, l'abitudine delle passioni contenute. Il color
giallo impera, con tutte le sue sfumature, dal calcare cupo all'oro
pallido, misto d'innumerevoli tinte verdognole e grigie, che però si
perdono in una tinta generale giallastra, un po' sbiadita, che dà alla
città un certo aspetto tranquillo di decoro ufficiale. Qua e là spicca
la nota ribelle d'una casa azzurra, in qualche punto scoppia il grido
acuto d'un edifizio rosso che fa un po' di scandalo in quel silenzio
di colori modesti; ma subito dopo si ristabilisce la disciplina in due
lunghe file di case della solita tinta, un po' imbroncite, che han
l'aria di disapprovare quelle pazzie. Percorse le prime strade, si
comincia a notare qualche corrispondenza tra la forma della città e il
carattere della popolazione. C'è espressa una certa ostinazione in
quella uniformità, c'è un'idea di schiettezza in quello sdegno d'ogni
ostentazione, un certo indizio di procedere aperto in quell'ampiezza
di spazi, un'immagine di forza in quella tarchiatura di edifizi, una
perseveranza che va dritta allo scopo in quella rettitudine di linee.
Passando per quelle vie si ricorda involontariamente la disciplina
dell'antico esercito sardo, le antiche abitudini militari della
cittadinanza, la rigidezza della burocrazia, l'onnipotenza dei
regolamenti, lo stile duro dell'Alfieri, la semplicità nuda di Silvio
Pellico, la correttezza un po' pedantesca d'Alberto Nota, l'andamento
cadenzato e simmetrico dei lunghi periodi oratorii di Angelo
Brofferio, e la chiarezza ordinata degli articoli di don Margotti, di
Giacomo Dina e del dottore Bottero. S'indovina la vita della città a
primo aspetto. Non c'è, come a Firenze, il piccolo crocicchio,
l'angoletto, la piazzetta, dove ognuno si pare a casa sua, dove è
possibile il dialogo tra la strada e la finestra e la fermata d'un'ora
con le spalle alla cantonata. Qui c'è per tutto la città aperta,
larga, pubblica, che vede tutto, che non si presta al crocchio, che
interrompe le conversazioni intime, che dice continuamente, come il
poliziotto inglese:--Circolate, lasciate passare, andate pei vostri
affari.--Si può essere usciti col miglior proposito di andare a zonzo:
si finisce sempre con fissarsi una meta. A un certo punto si sente un
po' di sazietà; l'artista si rivolta contro quella regolarità
compassata. S'ha la testa così piena di angoli retti, di parallelismi,
di simmetrie, di omologie, che, per dispetto, si vorrebbe poter
scompigliare tutta quella geometria con un colpo di bacchetta fatata,
che mettesse Torino sottosopra. Ma a poco a poco, come certi motivi
monotoni, che, a furia di sentirli ripetere, ci si fissano nel capo
irresistibilmente, così quella regolarità, a grado a grado, fa forza
al gusto e soggioga la fantasia. Si prende amore a quell'uniformità
che lascia la mente libera, a quella specie di dignità edilizia, non
ancora offesa dall'insolenza ciarlatanesca della réclame colossale, a
quelle corrispondenze di prospetti che s'indovinano prima di vederli,
come le rime delle strofe metastasiane, a quella nettezza rigorosa, a
quei grandi lembi rettangolari di cielo che ci si stendono sul capo, e
a quelle vie lunghissime in cui insensibilmente il passo s'affretta,
lo sguardo s'acumina, il petto si dilata, la mente si rischiara, e a
quelle grandi piazze e a quei grandi giardini che fanno qua e là un
largo squarcio improvviso, pieno d'aria e di verde, nella rete uggiosa
delle strade gemelle. La città sonnecchia un poco tra via di Po e via
San Lazzaro, dove grandi isolati di color cupo gettano come un'ombra
di tristezza nelle vie larghe e solitarie, nelle quali non si sente
strepito di lavoro, e la pedata di chi passa risuona sotto le vôlte
dei portoni muti e nei cortili erbosi; ma si ravviva sui confini di
Borgo Nuovo, dove per sei vie allegre e chiare, piene di popolo
minuto, si vede il verde fitto del Corso del Re, e ringiovanisce
all'estremità di tutte le strade che van da ponente a levante dove le
colline del Po mettono un riflesso di serenità e di grazia campestre.
E quanto più si va lontano dal centro, tanto più la città si fa varia
e amena. Si trovano degli angoli ariosi, tranquilli e simpatici, che
fanno pensare alla vita raccolta d'un buon capo-sezione giubilato, che
vada ogni giorno a quell'ora a leggere il giornale al caffè vicino e a
far la passeggiata igienica nel viale accanto, ed abbia la sua oretta
fissa per la visita galante a una buona amica di quarant'anni; piccoli
crocicchi puliti, d'aspetto giovanile, formati da alte case poderose,
che dominano un vasto orizzonte, dentro alle quali par di vedere le
camerette di tanti studenti di provincia, poveri, ma di buona razza
piemontese, che martellino ostinatamente sui libri, menando una vita
di sacrifizi, per prepararsi un avvenire onorato e lucroso; grandi
case aperte ad angolo verso la strada con cinque ordini di terrazzini,
che mostrano mille piccoli particolari intimi della vita torinese, dal
servitore che innaffia i fiori della contessa al primo piano, su su,
scendendo per la scala sociale via via che si sale per la scala della
casa, fino all'impiegatuccio tirato che legge il giornale sotto i
tetti e alla moglie dell'operaio che stende i suoi cenci fuori della
soffitta. Le strade essendo lunghissime, presentano successivamente
aspetti diversi: andando avanti diritto per una strada sola, si
attraversa una piccola parte di Torino commerciale, una parte di
Torino elegante, un quartiere povero, un quartiere affollato, un
quartiere deserto; si vede la città in tutti i suoi aspetti, senza
svoltare una volta sola. E non si trovan grandi contrasti. I palazzi
schierati alla pari con le grandi case borghesi, alcuni anche
dissimulati da una facciata comune, come il Palazzo dell'Università e
il Palazzo dell'Accademia filarmonica, non servono a dar carattere
alle strade. Non c'è il palazzo vistoso del gran signore, che
schiaccia gli edifizi circostanti, e dà l'immagine d'una vita
splendida e superba. L'architettura è democratica ed eguagliatrice. Le
case possono chiamarsi fra loro:--Cittadina--e darsi del tu. La
distribuzione delle classi sociali a strati sovrapposti, dal piano
nobile ai tetti, toglie alla città quelle opposizioni visibili di
magnificenza e di miseria che accendono nell'immaginazione il
desiderio inquieto e triste delle grandi ricchezze. Girando per
Torino, si prova piuttosto un desiderio di vita agiata senza sfarzo,
d'eleganza discreta, di piccoli comodi e di piccoli piaceri,
accompagnati da un'operosità regolare, confortata da un capitale
modesto, ma solido come i pilastri dei suoi portici, che dia la
sicurezza dell'avvenire.

Questo carattere apparente di Torino muta tutt'a un tratto all'entrare
in quella parte della città che si stende fra via Santa Teresa e
piazza Emanuele Filiberto. Qui la città invecchia all'improvviso di
parecchi secoli, si oscura, si stringe, s'intrica, si fa povera e
malinconica. Il forestiero che vi capita per la prima volta ne rimane
stupito, come dalla trasformazione istantanea d'una scena teatrale.
Appena v'è entrato, la città gli si chiude intorno, intercettandogli
la vista da tutte le parti, ed egli vi resta preso come in un agguato.
Le vie serpeggiano e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate da case
alte e lugubri, divise da una striscia sottile di cielo, nelle quali
non s'aprono che portoni bassi e cavernosi, per cui si vedono cortili
neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senz'uscita, sfondi umidi e
tristi di chiostro e di prigione. Par di essere discesi in una Torino
sotterranea, dove non scenda che una luce riflessa. E andando avanti
verso il Palazzo Municipale, tutto si fa più stretto, più nero e più
vecchio. Si riesce in crocicchi angusti che ricordano le scene del
Goldoni, dove si spettegola tra la strada e le finestre, in angoli di
viuzze raccolte e sinistre, in cui pare che tutte le famiglie che
v'abitano debbano far vita comune, come una tribù di gitani: si vedono
dei chiassuoli misteriosi, chiusi fra alti muri senza finestre, d'un
grigio sudicio, coperti di grandi macchie diaboliche; e là immagini di
madonne agli spigoli delle case, botteghe di barbiere col lume acceso
di mezzogiorno, covi di rigattieri che paiono vani di cantine,
albergucci di villaggio, con insegne grottesche, e cortiletti coperti
di tettoie rustiche, ingombri di carri di mercanti di campagna, e
caffè sepolcrali, che quattro avventori riempiscono. E si gira in
mezzo a file di bottegucce che han tutto fuor dell'uscio fra odori di
formaggi, di scarpe, d'olio, d'acciughe, in un puzzo di stantìo e di
rinserrato, in una mezza luce di crepuscolo, fra un va e vieni fitto
di gente affrettata che si stringe al muro per lasciar passare carri e
carrette, che ingombrano tutta la strada, e si vedono fra quella gente
certe figure che non si ritrovano che là: beghinette incartocciate a
cui si domanderebbero i connotati di Carlo Emanuele III, droghieri
vecchi come le strade, che han l'aria di aver militato contro la
Spagna, mummie d'orefici secolari, a cui vien voglia di dare,
passando, la notizia fresca dell'unificazione d'Italia. C'è in tutta
quella parte di Torino un malumore d'antica cittaduzza fortificata,
una tristezza di museo archeologico, un tal vecchiume di muri, di
merci, di facce, d'esalazioni, di tinte, che vien fatto di guardarsi
intorno coll'idea di veder ancora gl'Israeliti col nastro giallo al
braccio o di tender l'orecchio per sentir se la campana dell'antica
torre di Dora Grossa annunziasse per caso un'esecuzione capitale o la
raccolta del Consiglio decurionale della città. E quest'illusione si
fa più viva arrivando sulla piazza del Municipio. Davanti a quel
palazzo giovine di due secoli, ma d'aspetto già antico, in quella
piazzetta ombrosa affollata di gente della campagna, circondata di
portici ingombri di banchi di merciaie, attraversata dalla folla che
va al mercato di Porta Palazzo, in mezzo alle statue colossali di
Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele, fra il Duca di Genova che
brandisce la spada e la figura atletica del Conte Verde che atterra i
Saraceni, di fronte alla via stretta e austera per cui lo sguardo va
diritto al palazzo silenzioso delle antiche Segreterie, si rimane
presi così strettamente dalle memorie e dalle immagini d'un altro
tempo che par di riviverci e di vedere e di capire fin nelle sue più
intime cose l'antica capitale del Piemonte, quella piccola città rude,
severa, soldatesca, cocciuta, che preparò ostinatamente, in silenzio,
la grande lotta, e si cacciò per la prima, a capo basso, contro il
colosso nemico, coll'impeto del toro da cui ha tolto lo stemma. E si
scorda quasi, stando in quel punto, la bella Torino vasta, gaia,
crescente, che le si allarga intorno da ogni parte, e par di fare un
salto miracoloso, al rientrare improvvisamente in via Dora Grossa, che
spande un torrente d'aria e di vita nuova a traverso a quel mondo
invecchiato.
Come canzoni monotone e tristi che finiscano in una risata argentina,
tutte quelle vecchie strade che corrono da levante a ponente, vanno a
riuscire in istrade spaziose e chiare, sboccano in piazze e in
giardini, conducono ad una nuova Torino giovanile, attraversata da
larghi viali, piena di verde, ribelle all'antica disciplina
architettonica, dove al grande isolato succede la casa geniale, al
grosso pilastro la colonna snella, al terrazzino a ringhiera il
terrazzo a balaustri, al giallo tedioso mille colori ridenti e
leggieri, a una Torino simmetrica sempre, ma senza monotonia, che
spalanca verso le Alpi la gran bocca di piazza dello Statuto, come per
aspirare a grandi ondate l'aria sana e vivificante della montagna.
Tutta questa parte di Torino riceve un riflesso particolare di
bellezza dalla grande catena alpina che corona l'orizzonte delle sue
smisurate piramidi bianche. Pare che le Alpi mettano nelle sue piazze
e nelle sue strade tranquille il sentimento del silenzio immenso delle
loro solitudini. Da ogni parte spuntano le loro cime; tutto si disegna
sulla loro bianchezza; le ultime case della città sembrano fabbricate
alle loro falde; in meno d'un'ora pare che si debba arrivare ai piedi
delle prime montagne. Al levar del sole tutta la grande catena si
tinge d'un colore di rosa leggerissimo, d'una grazia infinita, che
impone quasi il silenzio all'ammirazione, come se la parola dovesse
rompere l'incanto, e far svanire la visione. E durante il giorno lo
spettacolo cangia ad ogni ora. A momenti si vedono appena dietro a un
velo di nebbia, come una linea misteriosa, i contorni altissimi delle
cime che paiono profili di nuvole enormi ed immobili. Poi la catena
immensa passa, per tutte le sfumature più fresche e più pompose
dell'azzurro, presentando tutta una tinta unita senz'ombre, che le dà
l'apparenza d'una prodigiosa muraglia verticale e merlata che separi
due mondi. Ora le montagne appariscono vicinissime, a traverso
all'aria limpida, variate d'infiniti contrasti d'ombra e di luce, per
cui si discernono nettamente tutte le creste, tutti i dorsi, tutte le
gole, tutti gli scoscendimenti, i più piccoli rilievi e le più
leggiere ondulazioni dei loro fianchi mostruosi, come si vedrebbero
col telescopio; ora svaniscono quasi nel chiarore bianco del
mezzogiorno, smisuratamente lontane, d'una tinta vaporosa che si
confonde col cielo, e ingannano l'occhio che le cerca con profili
fantastici d'altezza soprannaturale, che si dileguano quando si crede
d'averli afferrati. Alle volte si mostrano qua e là a larghi tratti,
come inquadrate negli squarci delle nuvole dopo un rovescio d'acqua,
nette e fresche sul cielo terso e profondo; altre volte cinte di
immensi viali bianchi, coronate d'aureole candide, impennacchiate di
nuvolette luminose, che danno un aspetto più solenne, con quel sorriso
di grazia passeggiera, alla maestà impassibile della loro grandezza.
Ma lo spettacolo, sempre bellissimo, è maraviglioso verso sera, quando
la luce calda del tramonto retrocede di altura in altura, e tutte
quelle vette superbe si disegnano a contorni bruni sul cielo purpureo,
come le guglie d'una città favolosa sullo splendore d'un incendio, e
quando tutto il grande cerchio delle montagne essendo già immerso
nell'ombra, il monte Rosa solitario brilla ancora della sua bella luce
rosata, come se vi battesse il raggio d'un altro sole, e le sue cime
gloriose fossero privilegiate d'un'aurora eterna.
Il forestiero deve cogliere quel momento, quando è tutto compreso
della bellezza formidabile delle Alpi, e di quel sentimento affettuoso
e triste che si prova alla vista dei confini della patria, per andare
a cercare il più piacevole degli effetti di contrasto di cui si possa
godere a Torino. Deve salire in una carrozza, e farsi condurre
rapidamente, per la via più dritta, sulla riva sinistra del Po. Là era
il poema, qui è l'idillio, davanti al quale il pensiero, che già
vagava di là delle Alpi, ritorna tutto in Italia. È un paesaggio tutto
verde, pieno di grazia, e un po' teatrale, tanto ogni sua parte è in
vista, si mostra, si porge quasi allo sguardo, e par che tradisca
l'intenzione d'un artista, più che l'opera della natura. Le colline
schierate sulla sponda opposta s'avanzano sul fiume, si ritraggono, si
dispongono ad anfiteatro, si risospingono innanzi, s'innalzano le une
sulle altre a curve leggiere e gentili, che si fanno accompagnare con
uno sguardo carezzevole e con un atto di consenso del capo; e sono
coperte di vigneti, ombreggiate di boschetti di pini, sparse di case e
di ville, non tante fitte da toglier loro la grazia della solitudine
campestre, simili qua e là nella vegetazione e nelle forme a certi
tratti delle colline del Bosforo e del Reno. Una schiera di case da
villaggio si stende lungo la riva; da una parte il Castello rosso del
Valentino specchia nelle acque le sue mura severe e i suoi tetti
acuti, e il fiume s'allunga fra due sponde romite, che si curvano in
mille piccoli seni folti di salici e d'ontani; dalla parte opposta il
paesaggio s'apre in una grande chiarezza, e s'alza in disparte, a
grandi curve riposate e superbe, la collina di Superga, coronata della
sua Basilica solitaria, accesa dal sole. Lo strepito d'un mulino, il
mormorio di una cascatella del fiume e le voci delle lavandaie
inginocchiate lungo le sponde, sono i soli rumori che turbino il
silenzio di quel vasto giardino pieno di gentilezza e di pace, dinanzi
al quale il più prosaico Prudhomme torinese si arresta, ammirando. E
il vecchio Po, largo e lento, spande in mezzo a quella gentilezza la
poesia guerriera dei suoi ricordi e delle sue glorie.
*
Ma non ha visto Torino chi non ha visto i suoi sobborghi, ciascuno dei
quali ha un carattere suo proprio, non abbastanza osservato, forse,
neppure dagli stessi Torinesi. C'è da fare un giro curiosissimo,
partendo da San Salvario, e andando su per l'antica piazza d'Armi e
per il Borgo San Donato, fino a Borgo Dora. Il Borgo San Salvario è
una specie di piccola «city» di Torino, dalle grandi case annerite,
velato dai nuvoli di fumo della grande stazione della strada ferrata,
che lo riempie tutto del suo respiro affannoso, del frastuono
metallico della sua vita rude, affrettata e senza riposo; una piccola
città a parte, giovane di trent'anni, operosa, formicolante di operai
lordi di polvere di carbone e di impiegati accigliati, che
attraversano le strade a passi frettolosi, fra lo scalpitìo dei
cavalli colossali e lo strepito dei carri carichi di merci che fan
tintinnare i vetri, barcollando fra gli omnibus, i tranvai e le
carrette, sul ciottolato sonoro. L'aspetto del sobborgo è ancora
torinese, ma arieggia la «barriera» di Parigi. I portici sono
affollati di gente affaccendata, che si disputa lo spazio; le scale
delle case risuonano di passi precipitosi; nei caffè si parla
d'affari; tutto dà l'indizio di una vita più concitata che nelle altre
parti di Torino. È una piccola Torino in «blouse», che si leva di
buon'ora, e lavora coll'orologio alla mano, senza perdere tempo; che
frequenta il teatro Balbo, passeggia sul Corso del Re e va a prendere
la tazza al Caffè Ligure, allegra e chiassosa la sera, democratica, un
po' rozza, piena di buone speranze, ariosa e pulita, e affaticata, ma
che par contenta di sè, in mezzo alla verzura e ai larghi viali che le
fanno corona, davanti alla stazione che l'assorda coi suoi fragori e i
suoi sbuffi di gigantesca officina.
*
Di là andando su per il Corso Vittorio Emanuele, si arriva alla
vecchia piazza d'Armi, in mezzo a una cittadina nata ieri, a una
specie di giardino architettonico, pittorescamente disordinato, dove
ogni settimana sboccia una casa; dove si ritrova l'«hôtel» dei Campi
Elisi, la palazzina del Viale dei Colli, la villetta genovese, il
casino svizzero, un vero visibilio di capricci sfarzosi, ciascuno dei
quali par la protesta d'una bella signora contro l'antica tirannia
dell'architettura regolamentare. Le strade strette e discrete, dove il
silenzio non è interrotto che raramente dal rumore di qualche carrozza
privata, si biforcano e serpeggiano fra i muri variopinti e le
cancellate eleganti dei giardini, girando intorno alle case mute in
curve rispettose e cortesi, e formando crocicchi simpatici, da cui si
vedono qua e là spicchi obliqui di villette lontane, terrazze a
balaustri, piccoli portici, giardinetti d'inverno coperti di vetrate,
padiglioncini e chioschetti coloriti; dietro ai quali appaiono e
dispaiono livree di cocchieri e cuffiette bianche di governanti. Si
dimenticherebbe di essere a Torino, se tutti quei tetti acuti, quei
cornicioni frangiati, quei camini di forme graziose e bizzarre, non si
disegnassero sulla bianchezza delle Alpi. È un quartiere ridente,
misto di città e di campagna, pieno di fragranze d'erbe e di fiori,
con un leggero color di mistero, un po' femmineo, che fa venir sulle
labbra dei versi di Alfredo De Musset, e sveglia mille fantasie
voluttuose di amori aristocratici, di scalette di seta e di duelli
all'ultimo sangue nel silenzio dei giardinetti chiusi, al chiarore
della luna. I giovani romanzieri di Torino si serviranno largamente,
senza dubbio, nei loro romanzi avvenire, di questa piccola città
pomposa e gentile; e intanto essa s'allarga rapidamente, e si popola
da ogni parte, aspettando il Re gigantesco destinato a torreggiare
sulle sue case.
*
Poco lontano di là, girando a destra, tutto cambia: s'entra in una
città militare. L'Arsenale, i Magazzini d'Artiglieria, il Laboratorio
pirotecnico, l'Opificio militare meccanico, la Cittadella, la grande
Caserma della Cernaia, si stendono in lunga catena da piazza Solferino
a piazza San Martino, e danno a quella parte della città un aspetto
tutto soldatesco, compiuto dai tre monumenti guerreschi del Duca di
Genova, d'Alessandro Lamarmora e di Pietro Micca, che brandiscono le
spade e la miccia. Qui a certe ore del giorno par d'essere in una
città forte, in tempo di guerra. I coscritti fanno l'esercizio sui
viali e sulla piazza Venezia, per le strade passano i picchetti di
guardia, i carri di viveri e le vetture d'ambulanza, passano ordinanze
del treno a cavallo e ordinanze di fanteria coi bimbi degli ufficiali
per mano, escono frotte di carabinieri dalla Cittadella, stormi
d'ufficiali dalla Scuola d'equitazione, sciami d'operaie dagli opifici
militari; e qualche volta, mentre l'Arsenale d'Artiglieria riempie le
strade vicine dei suoi rumori minacciosi, dal Laboratorio pirotecnico
si sentono delle detonazioni, la Caserma della Cernaia echeggia di
canti e di squilli di tromba, le bande dei reggimenti passano
suonando, e le macchine a vapore del genio militare percorrono le
strade, facendo tremare le case. Compiscono il quadro i vecchi
ufficiali giubilati che leggono la gazzetta all'ombra dei platani, e
le lunghe processioni di «figlie di militari», vestite di nero e
d'azzurro, che passano sui viali, in doppia fila, per ordine di
statura. Tutto quel quartiere di Torino piglia colore dall'esercito.
Sotto i portici ci son le piccole trattorie che tengon pensione,
affollate d'ufficiali verso l'imbrunire, camere mobiliate e libere ai
mezzanini, gran quadri di fotografi, pieni di militari puliti e
lustri, voltati tutti di prospetto, piccoli banchi di merciaiuoli,
dove il soldato va a comprare lo specchietto, la pipa, il foglio di
carta da lettera e la matassina di filo, e pilastri tappezzati di
giornali popolari illustrati, per chi vuole ingannare il tempo nel
corpo di guardia e nella stanza di picchetto. La popolazione ha pure
il suo carattere speciale. La gente di bottega conosce i segnali delle
trombe e gli orari, le erbivendole parlano di «traslocazioni di corpi»
e di «campi d'istruzione», e i monelli fischiano le arie della
ritirata. È una piccola Torino in armi, balda e allegra, nella quale
s'incontra una sentinella a ogni passo, e si cammina, la notte, sotto
la perpetua minaccia del «chi va là»; bella e pittoresca sopra tutto
di notte; coi suoi lunghi muri silenziosi, coi suoi vasti cortili
nascosti, quando la luna batte sui merli della grande caserma di
Alfonso Lamarmora, e pende
Comme un point sur un i
sul carabiniere solitario, ritto davanti al suo casotto, sopra gli
spalti deserti della Cittadella addormentata.
*
Andando innanzi verso ponente, oltrepassato il Borgo di San Donato,
che s'allunga sopra una strada sola, pigliando gradatamente l'aspetto
di un villaggio grazioso, s'entra, per il Corso Principe Eugenio, in
una parte di Torino stranissima, poco nota, nella quale la città si
perde nella campagna, e dove son raccolti i principali istituti di
beneficenza, fra cui il Ritiro del buon Pastore, l'Ospedale di San
Luigi, il Manicomio, lo Stabilimento di don Bosco, l'Ospedale di
Cottolengo; edifizi chiusi e muti, dall'aspetto di conventi e di
carceri, colle persiane rovesciate, coi finestrini ingraticolati, con