Speranze e glorie; Le tre capitali: Torino, Firenze, Roma - 08

confisca austriaca del suo podere di Treviso; da una città all'altra
d'Italia è costretto a viaggiare con le cautele d'un fuggiasco per
evitar gli Stati donde è bandito; è relegato da ultimo dentro ai
confini del Piemonte e della Liguria dove gli è forza di scendere fino
ai teatri più miseri, e dalla salute mal ferma è ricondotto ogni
inverno al suo romitorio di Torre Pellice, donde lo ricaccia alla
scena, e dalla scena al commercio, il bisogno; ma non si perde d'animo
mai. Altero e indomabile, egli lotta con le censure dispotiche, coi
municipii gretti, con gli appaltatori ingordi, con le compagnie
privilegiate, con cittadinanze indifferenti o, per ragion di parte,
malevole, che gli avvelenano la gioia dei trionfi, e, pure lottando e
peregrinando senza tregua, lavora e crea senza posa. Crea personaggi,
educa alunni, divina ingegni, incoraggia autori, propone e discute
soggetti di dramma, ricorre tutte le letterature drammatiche, commenta
e traduce, scrive di politica e d'arte, vagheggia fino agli ultimi
giorni, per il risorgimento del teatro, il suo sogno d'una Compagnia
libera, e soltanto sul letto di morte, e dopo aver provveduto alla
sorte della moglie adorata che gli singhiozza sul cuore, trova
finalmente riposo. Quanto fu tempestosa la sua vita, tanto la sua
morte è serena; affranto da tante fatiche, egli s'addormenta
senz'affanno, e sul suo viso tragico, ultimo riflesso della coscienza
intemerata, resta un sorriso.

Quale fu l'arte sua? Audacia sarebbe il tentar di descriverla con
ricordi vaghi dell'adolescenza. Ma chi lo potrebbe far degnamente?
Dicendo, come altri disse, che classico e realista ad un tempo, e
novatore senza infrangere ogni tradizione della scuola antica,
studiava i grandi personaggi nella storia, nella letteratura,
nell'anima propria, e li coloriva giovandosi con sagacia acutissima
della sua varia e profonda esperienza della vita, e dava loro con
efficacia insuperabile il grido delle sue gagliarde passioni, si dice
l'armonia e la profondità delle sue facoltà artistiche, non
l'originalità stupenda della sua recitazione.
Dicendo che, maestro impareggiabile nell'arte di modulare il verso e
il periodo e di dare allo studio faticoso l'apparenza dell'ispirazione
spontanea, egli accoppiò a una mobilità maravigliosa del volto una
voce a cui erano concessi i passaggi più ardui e le note più alte e
terribili che possano erompere dal petto umano, che la sua persona
poderosa si ergeva come la forma ideale della maestà e della forza e
si piegava e immeschiniva fino all'aspetto più compassionevole
dell'infermità e della miseria, e che il suo passo parlava e il suo
gesto scolpiva e i suoi occhi fulminavano, si dice quello che d'altri
grandi attori fu detto.
E chi anche lo descrivesse nella rappresentazione intera d'un
personaggio, rammentando, come altri fece, le voci, i gesti, i passi,
ogni idea sua propria, renderebbe pur sempre una sola delle cento
facce del suo genio; il quale da Lindoro a Saul, da Luigi undecimo a
Edipo, ascese tutta quanta, la scala smisurata del dramma, come nella
dizione magistrale della «Divina Commedia» risalì da Vanni Fucci a San
Pietro.
Potremmo accumulare immagini sopra immagini, e faremmo per chi non
l'intese opera vana, come il definir con parole a chi non lo vide ciò
che distingue dagli altri mille il viso d'un uomo. Non v'è giudizio di
posteri per l'arte che rifà più vivamente la vita. Grida di dolore e
di sdegno a cui sobbalzava la folla come alla voce stessa della patria
e in cui pareva espandersi l'odio d'un'intera generazione contro la
tirannide, scoppi di pianto disperato onde mille visi impallidivano,
lampi della parola che illuminavano recessi ignorati dell'anima e
altezze non prima vedute del pensiero ond'egli era interprete, e
atteggiamenti nobili e superbi come forme statuarie di Michelangelo,
voi non siete più che nella mente d'alcuni, nati nella prima metà del
secolo, e sarete fra pochi anni scomparsi affatto anche dalla memoria
degli uomini.
Scomparsi, ma non perduti.
Come non si perde l'acqua fecondatrice che la terra beve e rispande in
umor vitale su per le fibre dell'erbe e degli alberi, tale è di tutto
ciò, che fu la grande arte sua: gli accenti, gli atti, gli sguardi,
tramutati in forza di passione e di idee nella generazione che li vide
e li udì, operano ancora, eredità ignorata, nella generazione
presente, e in mille echi e riverberi vivono tuttavia nell'arte
d'oggi, e nell'arte avvenire perdureranno. L'arte si trasforma e
procede, ma Gustavo Modena non muore. Sulla fronte dei novatori più
arditi brilla ancora un raggio del suo spirito, e fin che nel teatro
italiano avranno culto la verità e la grandezza, ad ogni
rappresentazione dei capolavori ch'egli segnò del suggello del suo
genio, si vedrà passare in fondo alla scena l'ombra enorme del suo
capo.

Ma non nell'arte soltanto e nel nostro spirito: rimane gran parte
dell'anima sua in quell'epistolario incomparabile, nel quale, più che
l'arguzia inesausta e la cultura varia e l'agile vigore d'uno stile
esuberante di vita, anche i suoi più fieri avversali politici son
forzati ad ammirare la sincerità profonda e la saldezza incrollabile
della sua fede.
Repubblicano fu, nel fondo dell'anima, dalla prima giovinezza alla
morte, e propugnatore d'una politica audacemente rivoluzionaria,
aborrente da ogni aiuto straniero, che non procedesse anch'esso da
rivoluzione, intendendo a una confederazione europea di repubbliche. E
certo è che quanto ei voleva sarebbe stato saggio e attuabile se tutti
gli italiani avessero avuto mente e fibra pari alla sua. Questo
appunto egli credè fermamente, come lo credè il suo maestro; onde gli
parve verità afferrabile quell'ideale che, giusta la sentenza d'un
grande, è la verità veduta di lontano; e lontana facevano allora la
verità dalla sua fede le moltitudini immature a quella forma di
reggimento liberissimo e impotenti a quell'azione indipendente,
unanime, eroica, fuor della quale egli non vedeva salute. Il
disinganno lo trafisse; ma da quello ch'ei stimò errore e sventura del
suo popolo, non da misere ambizioni deluse, non da angusto
risentimento d'orgoglio offeso, derivò l'amarezza iraconda che lo fece
così fieramente severo coi suoi contemporanei e con l'opera loro. E
però il suo dolore è nobile, l'ira generosa, e il grido che s'alza
dalla sua coscienza spartana contro la servilità e la corruzione che
dànno di sè i primi segni, è grido di profeta. E fa professione di
scettico invano: egli infuria e impreca perchè soffre, e soffre perchè
ama ancora; e nel suo riso di disprezzo trema un ruggito e il sarcasmo
atroce che gli scatta dalle labbra stilla sangue del suo cuore.
Ah, quanto è diversa l'opera dell'uomo dalla parola della sua collera!
Dice:--Disprezzo il mio prossimo, sono nauseato di tutti e d'ogni
cosa;--ma, stanco e infermo, e bastante appena a provvedere a sè
stesso, recita a beneficio di compagni d'arte e di Società operaie,
soccorre emigrati e proscritti, e fino a pochi giorni prima di morire
porge la sua povera borsa a quanti naufraghi del teatro gli tendon la
mano. Scrive:--L'Italia è morta; stoltezza è sacrificare i moltissimi
buoni alla rigenerazione dei molti vilissimi;--ma sottoscrive a
prestiti per la causa italiana, sussidia giornali, fonda tiri a segno,
dà il suo obolo e il suo consiglio per affrettare ogni moto in cui
appaia un barlume di speranza, e la notizia dei supplizi di Mantova
gli strappa dall'anima dilaniata lacrime di sangue. Afferma--che il
nome della sua patria gli s'è fatto odioso e che vuol rifugiarsi e
farsi seppellire in un angolo della Svizzera dove non ne giunga più il
suono;--ma, invitato a recarsi in America, dove potrebbe assicurar
l'agiatiezza della sua vecchiaia, dalla patria non ha il coraggio di
staccarsi e, indispettito contro sè medesimo, rifiuta, e resta nel suo
eremo, dove si leva innanzi giorno per attinger l'acqua e accendere il
fuoco. Grida in un impeto di rabbia:--Meglio la casa d'Absburgo che ci
trattava a ragione come negri;--ma quando in nome dell'arciduca
Massimiliano gli sono offerti salvacondotto, onori e guadagni perchè
vada a recitare in Milano austriaca--No--risponde--piuttosto la fame.

Tale era in fondo questo povero grande cuore ferito che, a parole,
malediceva la patria e rinnegava l'umanità; tale era quest'anima in
stato di procella perpetua, quest'artista glorioso e sdegnoso che, se
il teatro gli fosse stato precluso, sarebbe riuscito uno scrittore
illustre, che, se a più alte prove lo avessero posto gli eventi,
sarebbe stato un eroe, che se avesse sortito la ricchezza l'avrebbe
usata come quei benefattori insigni che la storia ricorda e il popolo
benedice.
Bello è che sorga un monumento in suo onore nella Capitale del
Piemonte, che fu ultimo rifugio alla sua vita errante e campo dei suoi
ultimi trionfi. Non meno di quello che sorgerà nella sua Venezia
nativa sarà rispettato e amato questo dal popolo, che per trent'anni
lo attese. E la gioventù verrà con reverenza a contemplare questa
fronte che non piegò mai, questi occhi in cui rifulse il genio, questa
bocca che non macchiò nè adulazione nè menzogna, questo petto nel
quale fremettero tutti i dolori e tutte le ire della patria oppressa,
e che con pari coraggio sfidò la tirannia, sopportò la povertà, lottò
per l'ideale e affrontò la morte....
Resti qui dunque perpetuamente, o Maestro venerato, la tua immagine,
fidata alla guardia amorosa di questa Torino che raccolse il tuo
ultimo sospiro e custodisce le tue ossa; resti invulnerata dai secoli
al bacio del sole e della gloria, e dalla bocca di pietra spiri ancora
alle generazioni venture il soffio della libera e grande anima tua.


VII.
Per Felice Cavallotti.

Sono trascorsi sette giorni; alla prima oppressione dello sgomento e
del dolore, che ci oscurarono lo spirito e ci strapparono il pianto
dal cuore, è succeduta la tristezza profonda e lucida, che ricorda,
medita e lamenta: eppure non possiamo ancor pronunziare senza un
fremito d'angoscia ribelle a ogni rassegnazione, senza una ripugnanza
del cuore incredulo e delle labbra tremanti--come se fossero
un'orribile menzogna, queste tre sciagurate parole:--Felice Cavallotti
non è più!--Noi non possiamo rassegnarci a pensare:--Altre ingiustizie
pubbliche, altre violazioni della libertà, altri conati della reazione
si succederanno,--ed egli le ignorerà; la patria patirà nuovi dolori,
correrà nuovi pericoli, subirà forse altre vergogne--e le sue labbra
taceranno; altri frodatori del comune avere, altri corruttori delle
istituzioni patrie e profanatori del santo nome d'Italia compiranno le
loro imprese, e la sua mano vindice--smascheratrice implacabile di
tutti i mercanti del patriottismo--rimarrà inerte; supremi interessi
nazionali si discuteranno, si combatteranno grandi battaglie
politiche, care feste della patria, anniversari di giornate gloriose,
conquiste e trionfi della libertà e del diritto si celebreranno in
adunanze fraterne e solenni,--ed egli non v'assisterà. Felice
Cavallotti che voleva dir forza, moto, azione, speranza
inestinguibile, giovinezza perpetua--Felice Cavallotti che per noi
teneva luogo d'una legione, del quale sentivamo anche da lontano
l'alito possente e la voce che echeggiava sul paese come uno squillo
di tromba--Felice Cavallotti che la nostra immaginazione, precorrendo
il tempo, godeva a rappresentarsi ancora operoso e combattente nell
più tarda vecchiaia, circondato dalla reveranza e dalla gratitudine
pubblica.... bisogna pur che ci rassegniamo a profferire, a ripetere,
a configgerci nel cervello e nel cuore queste tre terribili e quasi
incredibili parole:--Felice Cavallotti e morto!

Commemorarlo? A che pro, se da tanti giorni non si parla che di lui?
se la sua vita intera è presente al pensiero di tutti? E com'è
possibile, mentre dura intenso ancora il dolore, aver libera la
facoltà che ordina i fatti, collega i particolari, chiarisce e giudica
i moventi e gl'intenti delle passioni e degli atti? Altri farà questo
un giorno, forse molti lo faranno, e faranno opera utile e bella. Lo
prenderanno fanciullo, crescente nel seno d'una famiglia amorosa, ma
più vicina alla povertà che all'agiatezza, esercitato fin dai primi
anni a sopportar con animo forte le privazioni, educato agli studi
severi dal padre, dotto filologo, ch'egli aiuta nei suoi lavori;
spiegheranno come nella furia delle sue prime letture di libri
cavallereschi abbia avuto origine quello spirito generoso,
avventuroso, battagliero, irrequieto che agitò tutta la sua vita; lo
seguiranno a passo a passo, da quando, poco più che fanciullo, si
mette a capo d'una dimostrazione patriottica e vaticina in un opuscolo
l'unificazione della Germania, via via, per le varie tappe, soldato dì
Garibaldi a Milazzo e al Volturno, collaboratore dell'«Indipendente»
del Dumas a Napoli, poi a Milano, studente di legge, poeta e
giornalista ad un tempo, faticante per guadagnarsi il pane; poi
soldato un'altra volta nel '66, combattente a Vezza, in Val Camonica;
poi da capo giornalista, nella capitale lombarda, polemista baldanzoso
e indomabile, che smette a ogni tratto la penna per impugnare la
sciabola; tradotto di processo in processo, fuggiasco all'estero,
nascosto in Milano, poetante nella prigionia, e dopo ogni processo e
ogni prigionia più infiammato e più audace di prima.
E pervenuto a questo punto il biografo non sarà ancora che al
principio. Egli dovrà accompagnarlo nella sua vita parlamentare per un
quarto di secolo, deputato di Corteolona, di Pavia, di Milano, di
Piacenza; saldo sempre nella sua fede repubblicana, ma, com'egli
disse--«italiano prima, repubblicano poi»;--lottante, salvo rare e
brevi tregue, contro tutti i ministeri; paladino dell'Italia
irredenta, nemico dell'alleanza austriaca, oppugnatore degli armamenti
rovinosi, avversario della politica affricana, denunciatore di tutte
le violazioni della legge, di tutti gli abusi del potere, di tutti gli
sperperi dell'amministrazione; fiero, infaticabile rivendicatore della
moralità pubblica, fu istigatore di tutti i prevaricatori e corrotti e
complici loro, potenti ed oscuri, nel parlamento, nella stampa, nei
tribunali, nei comizi, in tutte le regioni e da tutte le tribune
d'Italia. Ma dovrà aggiungere il biografo come a questa lunga e
guerresca vita parlamentare, segnata di discorsi e di tempeste
memorabili, egli intrecciasse ancora, quasi senza interruzione per
molti anni, l'opera poetica e drammatica, alternata di dure lotte e di
vittorie sudate, e come all'opera della creazione artistica
accompagnasse l'opera erudita, critica e polemica, condotta con lunghi
e pazienti studi, nel campo del teatro, della storia, della nuova
poesia: opera interrotta alla sua volta da nuovi processi, da nuovi
duelli, da nuove tempeste, da commemorazioni ispirate e memorande di
grandi fatti e di grandi morti, e da faticose e ardimentose campagne
elettorali; e come infine in mezzo alle lotte, alle cadute e ai
trionfi, inteso sempre e soprattutto alla grande voce del paese, egli
abbandonasse ogni cosa sua quando suonava il grido d'una sventura
pubblica, e accorresse a Napoli e a Palermo a soccorrere e a confortar
le vittime dell'epidemia col coraggio d'un eroe e con l'amor d'un
fratello. Sì, ammirabile vita, nella quale i venturi, secondo i
principii politici e l'indole loro, potranno trovare errori, violenze,
temerità, disarmonie; ma non disconoscere una grande forza diretta da
una coscienza onesta, da un profondo amore della patria, da un'ardente
passione per la verità, per la giustizia, per il bene;--ma non
rifiutarsi ad ammirare una maravigliosa cospirazione di virtù della
mente e dell'animo, rarissime a trovarsi riunite, quali son l'impeto
dell'entusiasmo e la tenacia ferrea della volontà, la vigoria
infaticabile del pensiero e dell'azione, e con una nobile ambizione di
gloria, col sentimento e il culto della bellezza, con la vivacità
degli affetti, con tutto quello che fa bella e cara la vita, la forza
d'un cuore sempre pronto ad affrontar le persecuzioni, gli odii, il
dolore, la povertà, a rinunziare senza titubanza e senza rammarico a
ogni bene della vita e alla vita stessa, come se per lui la pace, gli
affetti, la gloria, l'esistenza non avessero valore alcuno se
accettate a prezzo di una transazione con la propria coscienza a d'una
violenza fatta alla propria ragione. Sì, ammirabile vita, che si può
simboleggiare in questa bella figura: un soldato con la camicia rossa,
con una corona di poeta sulla fronte, ritto sopra una tribuna; il
quale mostra le mani alla patria per cui ha combattuto per
quarant'anni con la spada, con la penna e con la parola, e le
dice:--Guardate, sono pure! Non le ho macchiate mai che del mio
sangue.
Vediamo ora, rapidamente, il poeta lirico, il drammatico, l'oratore,
il polemista, il cittadino, l'uomo.

Poeta fu, nel più profondo dell'anima. Di poeta ebbe--per usar le
parole d'un suo illustre avversario--il soffio, l'essenza alata,
l'anima lirica. Non cercò nuove forme: fece sue quelle della poesia
patriottica che palpitava in tutti i cuori quand'egli s'affacciò alia
vita, le forme del Rossetti, del Berchet, del Manzoni. Dice egli
stesso all'autore della «battaglia di Maclodio»:--«quest'umile cetra
apprese le forme da te, e il mio canto modula alla tua scuola gli
accenti d'una speranza che non è più la tua».--L'impeto della passione
soverchiante non gli poteva consentire le sottili e pazienti industrie
di stile e d'armonia, che più tardi vennero in onore. La sua poesia fu
propriamente un canto sgorgante dall'anima, poesia di battaglia, piena
dì strepito d'armi, di schianti di fulmine, di fremiti di popolo, di
grida d'ira e di dolore. La successione delle sue strofe di
decasillabi somiglia all'incalzarsi di manipoli di combattenti che
corrono all'assalto; nelle quali le rime sono punte di spada e i
tronchi finali urrà di vittoria. Ma nell'uniformità dei metri facili e
sonori, quanta varietà d'ispirazioni, dall'inno alla satira, alla
romanza, all'elegia, all'epigramma, ed anche quanta sincerità e
freschezza giovanile di passione! L'anima affaticata dagli urti e
dalle procelle, ferita qualche volta dal taglio del sarcasmo di qui si
fa arma, si rifugia in sè stessa, cerca conforto negli affetti gentili
e pace in fantasie e sogni di solitudine e di oblìo, e allora un nuovo
poeta vi appare, d'una dolcezza e d'una delicatezza squisita, che vi
tocca le più intime fibre del cuore. Ma già questo poeta voi lo
indovinate anche nelle poesie di battaglia, dove a ogni tratto spunta
un fiore, brilla una goccia di pianto, suona una nota di mestizia
soavissima. Vi ricordate quando dice al Manzoni morto:--«dormi, o
vecchio, e sopra la tua zolla ti conforti i placidi sonni la rosa che
ti donò Garibaldi»?--e quando dice a Adelaide Cairoli, rammentandole
il giorno che pregava alla tomba del suo primo figliuolo caduto:--«Ma
allora, dopo la preghiera, ti rialzavi più forte, perchè ti
rimanevano, ti baciavano ancora in viso quattro figli; e t'era così
dolce il cercare su quei quattro volti il sorriso del tuo morto!»--E
quando al poeta che impreca, infuriando, al cadavere della donna amata
che lo fece soffrire, dice quella dolce e sapiente parola:--«Ah no,
non insultarla! Ah non nelle maledizioni e nello scherno troverai il
refrigerio che vai cercando, povero poeta! Tu non sarai guarito se non
il giorno che perdonerai!»
E vorrei proseguire: vorrei imitar l'esempio di Emilio Augier, che
all'Accademia francese, dovendo tesser l'elogio d'un poeta illustre,
disse:--Quale omaggio migliore gli si può rendere che quello di
recitare i suoi versi? e conchiuse:--Non aggiungiamo nulla: portiamo
con noi intera la nostra commozione, e che il poeta tramonti nella sua
gloria.--Ma recitar quei versi che furono la più schietta e calda
espressione dell'anima sua, e darmi così l'illusione di riudir quella
voce che non udrò mai più, non potrei: la commozione me li
soffocherebbe nel cuore. Evochiamo una sola, la più bella forse delle
sue creazioni, quella in cui più mirabilmente s'accordano l'altezza
del concetto, la grandezza del disegno e l'andamento grave e solenne
del ritmo che par che segni il passo di Leonida armato nel silenzio
della notte. Alla mente di tutti, senza dubbio, è presente la figura
augusta dell'eroe che, al raggio delle stelle, risorto dalla tomba
d'Antelo, con la grande asta nel pugno, discende, circonvolato
dall'aquile, per andar a cercare se sia sorta nel mondo una nuova
gloria pari a quella delle Termopili, e riposar là, in mezzo ai
fratelli degni, dei suoi trecento. Si sofferma, ma non si arresta a
Clierniea. No,--dice ai Tebani morti che lo chiamano:
No, no, dormite in pace! Vano fu il sangue, eroi!
Periste e non salvaste l'ellenia libertà!
Giunge a Maratona; ma non s'arresta.--No,--grida ai caduti che lo
invocano--qui non rimango.--
Tutto, voi, tutto aveste! la gloria e la vittoria
Pei lari! È troppo dolce, morti, dormir così!
Giunge alle isole Arginuse, sulle onde sparse di triremi infrante e di
salme insanguinate; ma non cede all'invito di Callicràtida:
«No»--dice--«foste prodi, cinque contro venti; ma foste Elleni contro
Elleni--e fu una squallida lotta».
Giunge al campo di battaglia d'Isso; ma procede, dicendo ai soldati di
Alessandro, vincitori dei Persiani:
... Salvete, o morti! Leonida non dorme
Dove a un tiranno i lauri il greco acciar donò.
E non s'arresta a Gerusalemme dove l'invocano i crociati spenti,
perchè, dice, «io non pugnai per espiar peccati nè mossi in cerca
d'avventure e di ricchezza». E non s'arresta alle Piramidi, alla voce
dei soldati di Buonaparte, perchè, grida:
Io non guidai sul colle i miei Trecento a Dite,
La libertà sul labbro e la conquista in cor!
E non s'arresta a Zama, dove gridano il suo nome i soldati di
Scipione, sgominatore d'Annibale:
E voi giacete! Io passo! Troppi eravate in campo!
E i numidi elefanti v'apersero il sentier.
E trascorre oltre il campo di Munda, sordo alle voci dei legionari di
Cesare, ai quali rinfaccia il motto del capitano:
Sul colle io per la patria pugnai, non per la vita:
Vincitori di Munda, lasciatemi passar!
E attraversa fiumi e monti, passa il Pirene, giunge in Provenza, si
sofferma sul Rodano dove Mario distrasse i Teutoni; ma non s'arresta
alla voce dei soldati di Mario, perchè sul sacro colle egli non
attese, scrutando le stelle, l'ora in cui potesse combattere con la
certezza della vittoria.
E varca le Alpi e scende in Lombardia; ma, sospinto dal ricordo della
pace di Costanza, neppure a Legnano si arresta, perché
Se non dà frutti il sangue che val gloria d'allori?
Se libertà non germina, che val d'armi virtù?
Morti feconde io cerco, non vinti o vincitori;
Morti feconde e libere, tra quei che non son più.
E giunge finalmente sulla riva del Tevere, in vista di San Pietro,
davanti a un'ara modesta, donde cento voci fioche lo salutano:
Noi pur, noi pur pugnammo in cinque contro venti,
E non fu indarno, o patria, nè il sangue, nè il morir!
A noi non la vittoria, ma dei fiacchi lo scherno:
Non i felici oròscopi, ma il pallido dover:
Non fratricidi allori, ma l'abbandon fraterno:
Non di tiranni il soldo, ma il raggio d'un pensier.
L'alme donammo al fato, non bugiarde parole,
Dall'ombra degli avelli guardando all'avvenir!...--
L'Ombra, inchinando l'asta, grida:--Stanotte vuole
Coi morti di Mentana Leonida dormir!
E così ora «tramonti il poeta nella sua gloria» accanto al suo
Leonida, egli che alle Termopili sarebbe morto tra i primi, e che in
difesa della libertà e della giustizia combattè per trecento.
L'autor drammatico. Nessuno, certo, attende qui un'analisi ragionata
di quell'opera complessa e varia, coronata di successi clamorosi,
provocatrice di aspre battaglie, feconda di tante vive discussioni
storiche e artistiche, nella quale dal dramma storico in versi, i
«Pezzenti», il «Guido», l'«Agnese»,--dove la poesia e la fantasia
predominavano e la storia non era che fondamento e facciata,--Felice
Cavallotti passò al grande dramma storico in prosa--l'«Alcibiade» e i
«Messenj»--poggiato sopra una più minuta indagine del tempo e sopra un
più profondo studio del vero, per trascorrere poi, con la «Sposa di
Menecle», alla commedia intima di soggetto antico, e infine al moderno
dramma psicologico, spingendosi fino all'idillio e al proverbio. Il
cuore e la ragione insieme si ribellano oggi anche a una critica
riverente. A noi basta rammentare che se neppur nel teatro non cercò
nuove forme, attenendosi, come voleva la natura del suo ingegno, alla
tradizione romantica, sulle traccie di Victor Hugo e dello Schiller,
anche nel teatro portò il soffio della sua anima lirica, che tutto
riscalda e vivifica, la santa fiamma dell'amor di patria e di libertà,
una forza grande di sincerità giovanile e di virile coscienza, un
continuo, amoroso, poderoso conato verso la bellezza e la grandezza,
che ci leva in alto lo spirito e ci move il cuore anche quando non
arriva dove fende. Chi potrebbe oggi esaminare, ponderare, discutere,
mentre le creature della sua mente ci si affollano intorno velate di
nero come la sua immagine, a cui fanno un corteo dolente e glorioso,
come figli intorno al simulacro funerario del padre? Altro non
possiamo fare che rammentarle e salutarle. E sfolgorante Raul che,
levando la spada in cospetto al cadavere di Maria, grida al duca
d'Alba: «Troppo tardi. Oggi saremo in molti ai funerali. A me,
pezzenti!»--È tragico il vecchio padre traditore del suo sangue che
svela al figliuolo adorato la propria infamia, mentre suonano i
rintocchi della campana che lo chiamano a combattere, con quelle
semplici e terribili parole:--«Ferma! Io son Guido!»--È bello e
generoso il giovine Scandiano che al duca di Mantova, ebbro di piacere
e d'orgoglio, narra tra gli splendori della festa la fame e la
disperazione del popolo di Mantova. È splendido il vecchio re di
Messenia che, ritto sulle rupi, strappa la bandiera tirannica di
Sparta e chiama alla rivolta il suo popolo col superbo grido:--«dove
passa Aristomene, Sparta non ha bandiera!»--E pietoso e venerando è il
vecchio Menecle che riprende dalle pareti lo scudo e la spada antica
per chiedere alla morte per la patria l'oblio della dolce illusione
perduta. E più alto di tatti, come una statua d'oro e di bronzo,
segnata di mille colpì, ma salda e trionfante ancora sul suo
piedistallo di marmo pario, ci sorge davanti il greco gigantesco e
multiforme, che riunì in sè Cesare e Coriolano, Sardanapalo ed
Antonio,--«tutte le faccie del polièdro umano»--e mentre passano
dietro di lui, come visioni, i giardini e le piazze, le sale d'Atene,
la spiaggia di Sicilia, il lido di Sparta, le acque dell'Ellesponto,
le montagne di Frigia, e quella fuga maravigliosa d'assemblee, di
eserciti, di campi di battaglia, di feste trionfali e di solitudini,
che pare il giro di un mondo intorno ad un uomo,--noi non salutiamo in
lui l'Alcibiade antico, vincitor di Bisanzio e di Calcedonia, ma la
creazione più grande, più fortunata, più cara del poeta perduto; la
salutiamo con la certezza che, quando pure dovessero le altre andar
travolte dal tempo, quella resterà, splendida e palpitante di vita
immortale. E se anche tanti pregi di pensiero e d'ispirazione non
risplendessero nelle sue tanto applaudite e combattute opere
drammatiche, sarebbero queste ancora amate e riverite da noi per il
tesoro di studi amorosi e di dotti commenti che egli vi profuse
intorno, per le tempestose ansie giovanili che gli costarono, per le
ebbrezze ardenti che gli diedero, per i profondi e dolci conforti che
recarono ai suoi grandi dolori e alle sue affannose fatiche di soldato
della libertà e di tribuno della patria.
Eppure la più alta e potente manifestazione del suo ingegno e
dell'animo suo egli la diede, a nostro credere, nell'oratoria. Oratore
grande, insuperabile forse, se la natura non gli avesse negato
qualcuna di quelle piccole doti sussidiarie, puramente fisiche, onde
il grande oratore s'integra. Due oratori erano in lui, potenti del
pari. L'oratore popolare e improvviso, che stentatamente incominciava,