Speranze e glorie; Le tre capitali: Torino, Firenze, Roma - 05

nell'avvenire e ti persuaderai che, pure avendo l'aspetto di tuoi
nemici, siamo veri amici dei tuoi figli e dei figli loro.

Diciamo allo scienziato e all'artista:--Come puoi tu, uomo di scienza,
sospettar nemica tua una dottrina che sopra una fede illimitata nel
progresso della scienza in larga parte si fonda, che dal
perfezionamento della macchina, dalla prevalenza dell'agricoltura
razionale, dallo sfruttamento scientifico di tutte le forze della
natura attende ad un tempo e una diminuzione dello sforzo umano e una
raddoppiata produzione? Come puoi tu, scrittore e artista, temere il
trionfo d'una dottrina che vuole estendere a tutti, nella maggior
misura possibile, i godimenti dello spirito, e centuplicare con questo
il numero degli uomini atti a comprendere l'opera tua? E se la società
futura chiedesse a te, scienziato, il sacrifizio di volgere la tua
scienza a fini più direttamente umani, e a te, artista, quello di
scendere più spesso dall'altezza del tuo lavoro libero all'ufficio di
educatore delle moltitudini, come non vi parrebbe dolce un tal
sacrifizio, ricompensato da una tanto più diffusa ammirazione e più
vasta gratitudine? E come non sentite che un più alto dovere di
generosità e di sacrifizio è imposto ai privilegiati dell'intelletto,
a coloro che portano sulla fronte dalla nascita questo segno luminoso
della predilezione del destino?

Diciamo all'umanitario, al filantropo:--O tu che combatti l'opera
nostra, perchè credi la carità sufficiente a risolver la gran
quistione che affanna il mondo, disingannati in faccia all'evidenza
dei fatti, e vieni con noi. No, non si scioglie la quistione con la
beneficenza. Non si feconda una vasta terra portandovi l'acqua ad
orciòli; ma spandendovi per una rete di larghi canali l'onda
inesauribile della montagna. La tua carità non può nulla per i milioni
d'uomini a cui è intercettata legalmente, per forza delle cose, una
troppo gran parte dei frutti del loro lavoro; è impotente davanti al
grande fatto della disoccupazione, prodotto dalle crisi disastrose,
che derivano dall'anarchia della produzione; e può far meno ancora per
quella grande moltitudine lavoratrice, alla quale il pane non manca,
ma che domanda una diminuzione di fatica, un'educazione civile, un
posto più onorato nel mondo, a cui non ha meno diritto che al pane.
No, i rimedi che ti consiglia il cuore non bastano; occorre che tu dia
l'opera della tua ragione. Vieni con noi, poichè il tuo cuore è buono;
e senza lasciare l'opera della carità, domanda con noi la giustizia;
solleva i miseri, ma lavora tu pure a sradicar la miseria; conforta i
vinti, ma aiutaci a preparare una società, in cui, per quanto lo
concedono la natura e la fortuna, non ci siano più nè vinti nè
vincitori.

Diciamo al ricco:--Se ti dice la ragione che è giusta la nostra causa,
e ti trattiene dall'abbracciarla il timore di affrettare per te e pei
tuoi figli la perdita della ricchezza, tu vivi in un inganno.
Proseguendo così le cose, non sarà il socialismo che ti toglierà il
tuo bene; saranno le catastrofi politiche e finanziarie a cui
conducono inevitabilmente il militarismo, la guerra, il debito, il
disordine, inseparabili dall'ordinamento sociale che difendi. La
caduta lontana della tua fortuna non sarà effetto della dottrina
socialista; ma delle grandi necessità sociali e economiche da cui la
dottrina è nata, e per cui si diffonde. Tu temi rivoluzioni,
sconvolgimenti, rapine! Ma se è tutto questo appunto che il socialismo
mira a impedire, contenendo le passioni violente che soffocano il
germoglio delle idee feconde, prevenendo le rivoluzioni col sollecitar
l'evoluzione, scomponendo e rifacendo l'edificio a mano a mano, perchè
la società non abbia a rimanere mai sconvolta e atterrita in mezzo a
un campo di macerie. Come non comprendi che questo movimento immenso
tende al bene di tutti? Abbraccia la nostra causa, e combattendo per
essa, tu che hai la ricchezza, darai un esempio, tu che hai
l'indipendenza, sarai una forza, e ti sentirai libero dai due peggiori
tormenti della tua vita, che sono la smania d'acquistare e il terrore
di perdere, perchè la coscienza d'esser giusto e magnanimo varrà per
te il più prezioso dei tesori, sarà la sola, vera felicità che nessun
evento, nessuna forza potrà strappar dal tuo cuore.

E al fanciullo del ricco, finalmente, noi rivolgiamo questo
discorso:--Tu sei nato nell'agiatezza. Se vorrai conquistarti un posto
onorato nel mondo, ti costerà assai men fatica che agli altri, perchè
sarai come un uomo armato in una lotta in cui quasi tutti gli altri
sono inermi. Sei sicuro fin d'ora che non avrai mai da patir
privazioni, mai da umiliarti per non perdere il pane, che potrai
essere facilmente buono, onesto, rispettato, contento. Ora, vedi
quanta miseria v'è intorno a te, quante dure fatiche che dànno appena
da vivere, quanti milioni di fanciulli lasciati nell'ignoranza e
nell'abbandono, quante famiglie ridotte all'indigenza senza colpa,
quante disuguaglianze ingiuste, quanti dolori senza speranza, e quante
ire e quanti odî. Ebbene, se ti dicessero che v'è modo di far sì che
tutte queste miserie siano scemate, che il lavoro non manchi a nessuno
e sia reso men duro a tutti, che tutti i fanciulli possano istruirsi e
educarsi, che le disugaglianze ingiuste scompaiano, che gli odî di
classe si spengano, che la società diventi come una grande famiglia,
in cui, se non la felicità regni almeno la pace; ma che per ottener
tutto questo bisogna che tutti i ragazzi come te rinunzino alla loro
sorte privilegiata, rientrino nelle condizioni comuni, e si rassegnino
a lavorare e a lottare per vivere modestamente come tutti gli altri,
consentiresti tu al sacrifizio? E il fanciullo ci risponde
immediatamente, irresistibilmente:--Oh, sì, vi consentirei! E come si
potrebbe non consentirvi?--E noi non gli diciamo più altro: gli
abbiamo messo il buon germe nel cuore.

Questi sono i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Se non sono ogni
giorno dell'anno così benevoli, nè espressi sempre con parole così
miti, non è perchè tacciano nel nostro cuore: è perchè siamo uomini,
ossia per natura deboli, soggetti all'orgoglio, facili a irritarci
della calunnia, e anche perchè è troppo sovente offesa in noi quella
libertà di pensiero e di parola, che è una sacra eredità lasciataci
dai nostri padri e dovrebbe essere una condizione inviolabile del
nostro patto nazionale. Ma ogni anno, in questo giorno, noi rinnoviamo
sinceramente il proposito di mantener sempre l'animo e la parola alti
come la nostra Idea. Non è questo l'ultimo degli effetti benefici
della festa del 1° Maggio. E noi confidiamo che questa festa sarà
celebrata ogni anno con più serena dignità. Oh certo, essa sarà ben
più splendida e più solenne nell'avvenire! E non sarà celebrata
soltanto nelle strade e nelle assemblee; ma anche nelle famiglie,
nelle quali tutte l'idea socialista finirà con lo stringere quei
vincoli, che ora in molte rallenta, e spezza in alcune. Sarà il giorno
in cui le coscienze e i cuori restii, vinti da lento lavoro della
ragione e dalla forza degli avvenimenti, faranno atto di dedizione e
di riconciliazione con le persone amate; il giorno in cui il padre
dirà al figliuolo:--Sì, figliuol mio, sei tu che hai ragione, sei più
buono e più giusto di me, non son più soltanto tuo padre, sono un tuo
__compagno__;--il giorno in cui la moglie dirà al marito:--T'ho
contrariato, perdonami; non ti comprendevo, ora ti comprendo; e tutta
l'anima mia è con te e per la tua causa;--il giorno in cui la madre
dirà a suo figlio:--Mi arrendo; vedo ora dov'è la verità e la
giustizia; la tua festa del 1° Maggio sarà d'ora innanzi anche la
festa di tua madre.--Sì, sarà forse lontano, ma questo giorno verrà.
Noi lo crediamo come crediamo che la terra germina sotto il raggio del
sole. Crediamo che il 1° Maggio resterà e ingrandirà negli anni e nei
popoli, e che dopo aver redento il lavoro ucciderà la guerra, e che
dopo aver confuso le classi affratellerà le nazioni, e che sarà
benedetto dalle generazioni venture come una delle date più fauste e
più gloriose della storia del mondo.

Torino, 1896.


V.
Per Giuseppe Garibaldi
(_Commemorazione popolare_).

Invitato a commemorare Giuseppe Garibaldi in questo giorno nel quale
ogni cuore italiano risente più viva la tristezza d'averlo perduto,
non terrò un discorso ampio e ordinato dell'opera e della funzione
storica compiuta da lui, poichè nulla o poco oramai ne rimane a dire
che non torni superfluo a un uditorio di italiani colti. Parlerò il
linguaggio facile e caldo del patriotta, che, invece di dissertare sul
passato, lo risuscita, lo rivive e lascia andar tutta l'anima all'onda
degli affetti e delle memorie. Spero, così parlando, di consentire
alla disposizione d'animo dei miei uditori, ai quali non parrà forse
occasione opportuna d'un ragionamento pacato il primo anniversario di
una morte compianta. In ogni modo io chiedo perdono a voi del mio
ardimento, come già l'ho chiesto, dentro al cuore, alla memoria
augusta e amata, a cui consacro le mie parole.

La miglior prova della grandezza di Garibaldi è questa: che nessuna
narrazione, per quanto diffusa e eloquente delle sue avventure e delle
sue gesta, potrebbe aver mai la efficacia che ha la esposizione
brevissima e nuda dei sommi capi della sua storia.
Concedetemi di farne qui l'esperienza, a modo d'esordio, con quella
semplicità che è una forma di rispetto per l'altezza dell'argomento e
con quella rapidità precipitosa che il cammino lunghissimo impone.

Nasce a Nizza, nel 1807, figliuolo di un modesto capitano di mare, e
comincia la vita, si può dire, con due atti eroici: a otto anni,
salvando da una gora una donna che annega; a tredici, salvando una
barca di compagni dal naufragio. Adora il mare, s'imbarca mozzo in un
brigantino, viaggia in oriente. A diciassett'anni va sulla tartana del
padre a Fiumicino, e visita la prima volta Roma, dove, tra
l'entusiasmo patriottico per le grandi memorie, gli balena la prima
idea dell'incanalamento del Tevere, che propugnerà cinquant'anni dopo,
con ardore ancor giovanile, nella Capitale d'Italia. Continua i
viaggi, è più volte assalito e depredato dai pirati, si riduce povero
a Costantinopoli, dove s'ammala, e fa il precettore di ragazzi per
vivere. Poi, ritornato a Nizza, divenuto capitano di bastimento,
riprende le navigazioni ardite e avventurose, con le quali principia
ad acquistar fama e simpatia; tanto che ad ogni suo ritorno gli corre
incontro sul molo una folla di popolo, a festeggiarlo, a rallegrarsi
con lui, che onora sui mari e fa onorar nei porti d'Italia e di
Francia il nome della sua città nativa. Tale è l'alba della sua
gloria.

In uno dei suoi viaggi in levante ode parlar per la prima volta della
«Giovine Italia», e, tocco dalla fiamma che lo arderà fino alla morte,
tornato appena in Europa, si presenta in Marsiglia a Giuseppe Mazzini,
si ascrive all'associazione, si vota per sempre alla patria. Recatosi
in Liguria, si mette all'opera, stringe relazione coi più arditi
patriotti, si arrola semplice marinaio nella flotta regia per far
propaganda fra gli equipaggi e cooperare con essi al moto imminente di
Genova. Falliti questo e il moto di Piemonte e la spedizione di
Savoia, ripara in Francia, è arrestato, riesce a fuggire, è condannato
a morte, prende altro nome, s'imbarca secondo in un brigantino, e dopo
aver salvato dalle acque un giovinetto nel porto di Marsiglia, salpa
per l'oriente. Ma, tediato della vita mercantile, s'assolda nella
flottiglia del Bey di Tunisi, e scontento anche del nuovo stato, butta
via la divisa, ritorna a Marsiglia desolata dal colèra, si fa
infermiere negli ospedali, compie l'opera pietosa fin che dura la
morìa, e non vedendo luce d'aurora in Italia, s'imbarca sopra un
bastimento di commercio e parte per l'America.

E qui incomincia il suo periodo eroico. Arrivato al Brasile, per
campare, si dà al commercio di cabotaggio; poi, con una barca e sedici
uomini, move guerra di corsaro contro l'impero, per la provincia di
Rio Grande ribelle. Conquistata una goletta, è assalito sul Plata da
due lancioni dell'Uruguay, mandati a arrestarlo; li respinge restando
gravemente ferito; è raccolto quasi morente da una nave brasiliana e
portato prigioniero a Gualeguay; guarisce, fugge, è inseguito,
ripreso, frustato, torturato; ma riesce a tornare a Rio Grande, dove
gli è dato il comando d'una flottiglia. Combatte, vince, naufraga,
riprende il mare e la lotta; ricaccia il nemico dal porto d'Imbituba,
protegge la ritirata dei Riograndesi, resistendo con tre navi a
venticinque, poi con settanta uomini a cinquecento; si batte a Santa
Vittoria, si batte alla stazione di Taquary, si batte all'assedio di
San Josè, e smarriti e ritrovati la sposa Annita e Menotti bambino,
già pianti perduti, a traverso a foreste sterminate, sotto pioggie
dirotte, soffrendo il freddo e la fame, cacciando al laccio e domando
puledri, spingendo davanti a sè un armento di buoi, che gli muoion per
via, riesce finalmente a Montevideo, dove, per guadagnarsi il pane, si
mette a insegnar matematiche.
Non è che una breve tregua. L'Uruguay è in guerra col Rosas, dittatore
dell'Argentina. Stretta dal pericolo, la repubblica ricorre a lui, già
famoso, che accetta il comando d'una flottiglia e s'accinge a
un'impresa disperata. Salpa da Montevideo, sfugge alle batterie di
Martin Garcia, sguiscia fra le navi fulminanti della squadra
argentina, passa sotto una tempesta di fuoco a la Boyada, a las
Concas, a Cerrito, e proseguendo per Corrientes, assalito da forze
superiori a Nueva Cava, dopo una resistenza eroica di tre giorni e tre
notti, si salva coi suoi, incendiando le navi. Incalzato dalle truppe
del Rosas, a cui scampa combattendo, ritorna a Montevideo assediata,
sostiene la difesa guidando a sortite temerarie la legione italiana,
salva l'esercito difensore da una ritirata disastrosa, e assunto il
comando d'una nuova flottiglia e risalito con questa e con parte della
legione l'Uruguay, batte il general Lavalleja all'Eridero, s'avanza
sul fiume fino a Salto, e si spinge per terra fino a Tapevi, dove
vince la terribile battaglia di Sant'Antonio, per cui è proclamato
benemerito della repubblica. E prosegue la lotta intorno a Salto, per
terra e per acqua, finchè, richiamato dal Governo che gli affida nuove
navi e nuove truppe, risale da capo il fiume fino a las Vacas, vince
ancora una volta le schiere riunite dei luogotenenti del Gomez, e
ritorna finalmente nella capitale della repubblica, dove la sua
splendida campagna americana, di cui ogni vittoria ha fatto palpitare
l'Italia, si chiude dopo dieci anni al giungere delle prime notizie
dei moti del quarantotto, che lo richiamano alla patria.

Fa vela per l'Europa con un drappello dei suoi legionari e, salvato il
naviglio da un incendio in alto mare, arriva a Nizza, abbraccia la sua
vecchia madre e va a offrir la sua spada a Carlo Alberto. Non
accettata l'offerta, corre a Milano, dove il governo provvisorio gli
conferisce il comando di cinquemila volontari: troppo tardi. Ma
risoluto a combattere a ogni costo, anche caduta Milano, respinto
l'ordine del duca di Genova di scioglier le bande, richiama il paese
alle armi, arringa le popolazioni, tragitta il Ticino, occupa Arona,
risale il lago Maggiore, sbaraglia una colonna austriaca a Luino,
s'impadronisce di Varese e, stretto infine da tre corpi nemici, s'apre
la via con la baionetta a traverso alle truppe del general d'Aspre, a
Morazzone; donde, travestito da contadino, andando giorno e notte per
rupi e per macchie come una fiera inseguita, ripara in Svizzera ad
aspettare gli eventi.

Ma non li aspetta, li provoca; e va dalla Svizzera a Nizza, e da
Nizza, fra gli applausi di tutta la riviera d'occidente, a Genova, di
dove salpa con cinquecento volontari per portar aiuto alla Sicilia
insorta. Trattenuto dal popolo a Livorno e indotto a prendere il
comando dell'esercito toscano, si conduce a Firenze, donde, mutata
idea, parte con la sua colonna per recar soccorso a Venezia. Fermato
dal generale Zucchi alle Filigare, retrocede e accorre a Roma, e dopo
aver combattuto il brigantaggio e compressa la reazione in quel di
Rieti, nominato generale romano, vince i francesi a Villa Panfili, va
incontro ai Borbonici, li respinge da Palestrina, li batte a Velletri,
s'impadronisce di Rocca d'Arce, ritorna alla città assediata, dirige
con folgorante valore la difesa, e scampata la vita quasi per prodigio
nel combattimento disperato di Villa Spada, esce dalle mura, quando
tutto è perduto, con la sua legione, per risollevare l'Umbria e le
Marche, e sfugge con una marcia maravigliosa d'accorgimenti, di
fatiche e d'audacie a quattro eserciti, il francese, l'austriaco, il
borbonico, lo spagnuolo, che gli dànno la caccia invano per venti
giorni da Monte Rotondo a San Marino, dove, sotto la protezione della
repubblica, depone le armi.

Ma non rinunzia a combattere. Ribelle all'arciduca Ernesto che
gl'impone il ritorno in America, scompare di notte, con duecento fidi,
da San Marino, guizza fra le sentinelle nemiche, perviene alla riva
dell'Adriatico, e tenta, con una squadra di barche a vela, di
raggiunger Venezia. È assalito dagli incrociatori austriaci, si getta
sulla costa di Magnavacca, e fugge tra boscaglie e canneti, braccato
da gendarmi e da croati; e gli muor tra le braccia la moglie, a cui
non può dar sepoltura, e riprende la corsa per le paludi di Ravenna,
e, varcato il confine toscano, riesce a rifugiarsi a Chiavari, dove
l'autorità piemontese l'arresta. Costretto a lasciare il Piemonte,
cerca asilo a Tunisi, ma il Bey gli rifiuta l'asilo; ripara alla
Maddalena, dove salva dal naufragio un canotto sardo, ma il Governo
sardo lo sfratta anche dall'isola e lo manda a Gibilterra; respinto
anche da Gibilterra, si rivolge alla Spagna: lo respinge anche la
Spagna; e allora si raccoglie a Tangeri, dove imprende a scrivere le
sue memorie. Ma tutt'a un tratto getta la penna, e va da Tangeri a
Liverpool, e da Liverpool a Nuova York, dove si mette a fabbricar
candele, e di là, comandante d'un legno mercantile, dopo esser stato
in fin di vita a Panama, al Perù, e dal Perù alla China, e di qui a
Nuova York un'altra volta, e da Nuova York in Europa, dove si da al
cabotaggio da capo, e pianta la tenda nell'isola di Caprera, donde lo
chiama Vittorio Emanuele nel cinquantanove a capitanare i cacciatori
delle Alpi.

Scoppiata la guerra, con una brigata di tremila e cinquecento
cacciatori, senza un solo pezzo d'artiglieria, ributta gli austriaci a
Ponte di Casale, entra in Lombardia, batte il nemico a Varese, lo
batte a San Salvatore, lo batte a San Fermo, entra vittorioso a Como,
a Bergamo, a Brescia, donde la sua presenza sola allontana il nemico;
passa sotto gli ordini del re, e si batte ancora una volta prodemente,
a Rezzato. E appena conchiusa la pace, si rimette all'opera. Chiamato
dal Ricasoli, riordina e rianima l'esercito toscano; eletto secondo
comandante dell'esercito dell'Italia centrale, va con due divisioni,
per provocare l'insurrezione nelle Marche, sui confini pontifici,
donde Vittorio Emanuele lo richiama; e a Genova promove la
sottoscrizione per un milione di fucili, e a Torino fonda
l'«Associazione della nazione armata», e, deputato di Nizza, va a
combattere in Parlamento la cessione della sua città natale alla
Francia. Ma dalla riva del Po lo porta un'ispirazione divina alla riva
del mare. Salpa coi __mille__ da Quarto, sfugge agli incrociatori
borbonici, sbarca a Marsala, vince a Calatafimi, vince a Palermo,
vince a Milazzo, passa lo stretto, s'impadronisce di Reggio, trasvola
come un fulmine, spazzando dinanzi a sè ogni resistenza, da Reggio a
Salerno, entra trionfante in Napoli sotto la minaccia dei forti non
espugnati, sconfigge l'esercito di Francesco II al Volturno, respinge
una sortita da Capua, proclama l'annessione delle due Sicilie, depone
la dittatura, rifiuta ogni ricompensa, e dispare.

Da Caprera, visitata da ammiratori d'ogni popolo, va, deputato di
Napoli, a Torino, a perorar la causa dei suoi volontari alla Camera,
dove solleva una tempesta; ma si riconcilia col Cavour tre dì dopo, e
scampato a un tentativo d'assassinio nella sua isola, rifiutato il
comando dell'esercito offertogli dagli Stati Uniti, composti
nell'assemblea di Genova i dissidi del partito rivoluzionario, compie
un viaggio trionfale nella Lombardia, preparando in segreto un colpo
di mano contro l'Austria. Fallito questo, corre a Palermo a lanciare
il grido: «Roma o morte», attraversa la Sicilia, salpa da Catania,
sbarca con tremila volontari in Calabria. A Aspromonte è arrestato
dall'esercito regio, ferito, imprigionato, prosciolto, ricondotto al
suo scoglio; dove, estrattagli la palla dal piede, ma ridotto sulle
grucce, dolente ancora, promove una spedizione per la Polonia insorta;
dopo di che, invitato, si reca in Inghilterra ed entra in Londra fra
l'entusiasmo frenetico d'un milione di creature umane, che lo salutano
come un dio. Tornato in Italia, va a predisporre all'isola d'Ischia,
sotto gli auspici del re, una spedizione in oriente, per suscitare un
moto contro l'Austria nella Galizia e nell'Ungheria; e il disegno va a
monte; ma un altro campo di guerra lo chiama; e alla testa di
trentamila volontari irrompe nel Trentino, si batte contro gli
austriaci a Monte Suello, dov'è ferito di palla a una gamba, si batte
a Vezza, si batte a Condino, espugna il forte d'Ampola, s'impadronisce
di Monte Notta, conquista Monte Giovo, vince a Bezzecca, e non depone
le armi che alle porte di Trento, dove l'armistizio lo arresta.

Tornato alla sua isola, ne riparte per fare un viaggio nel Veneto e
nella Toscana, predicando una spedizione su Roma; e migliaia di
volontari si movono; ma quando egli sta per varcare i confini, è
arrestato, è tradotto prigioniero in Alessandria, ricondotto a
Caprera, posto sotto la guardia di nove legni da guerra. Ma invano.
Sfugge solo di notte, in una chiatta, alla vigilanza della squadra,
raggiunge la Maddalena, approda in una barca di pescatori in Sardegna,
arriva ignorato a Livorno e a Firenze, vola nello Stato romano, vince
i pontifici a Monterotondo, s'impadronisce di Viterbo, di Frosinone,
di Velletri, e marcia su Roma. Soverchiato a Mentana, in una battaglia
accanita in cui cerca invano la morte, da pontifici e francesi
riuniti, e ripassato il confine, è arrestato alla stazione di Filigne,
messo di forza in un treno, portato prigioniero al Varignano, e
ricondotto un'altra volta a Caprera; di dove un'altra volta fa vela
per accorrere in aiuto alla Francia repubblicana, invasa dai tedeschi.
E batte i tedeschi a Chatillon-sur-Seine, vince a Prenois, vince nelle
fazioni di Saint-Martin e di Saint-Symphorien, difende per tre giorni
Digione, strappa una bandiera al nemico a Pouilly, e glorioso di venti
combattimenti, in cui non toccò una sconfitta, eletto deputato
d'Algeri, pagato d'ingratitudine all'assemblea di Bordeaux, rinuncia
alla deputazione e ritorna, addolorato, ma senza rancori, al suo
scoglio.

Ed ora non combatterà più: la sua grande epopea di capitano è finita.
Ma non quella di tribuno della patria e di apostolo universale di
giustizia e di pace. Parla una parola alta e serena nella quistione
formidabile che sorge con l'«Internazionale», va a Roma a caldeggiare
la sua antica idea dell'incanalamento del Tevere, si pone a capo della
«Lega della democrazia», va ancora una volta a Milano per la
commemorazione solenne di Mentana, tuona di sdegno generoso contro
l'invasione francese di Tunisi, torna per l'ultima volta nella sua
amata Palermo per il festeggiamento dei Vespri, si vale ancora negli
ultimi giorni di ogni ora di respiro che gli dà la malattia di cui
morrà per far sentire la sua voce in pro degli oppressi d'ogni paese e
predicar la speranza d'un miglior avvenire per la sua Italia e pel
mondo; e finalmente, un mese prima di compiere il settantacinquesimo
anno, la sera del due di giugno del 1882, rende l'anima grande
all'infinito. Quanti secoli trascorreranno prima che si chiuda in
un'altra vita umana una così maravigliosa istoria di lotte, d'affanni,
d'ardimenti, di miracoli di prodezza, di genio e di forza, rivolti
tutti a un così santo fine e coronati da una così luminosa fortuna?
Oh, glorifichiamolo pure. Nessuna lode è soverchia sulla sua tomba.
Dante gli avrebbe dedicato un canto, Michelangelo una statua, Galileo
una stella.

E ora che altro si può dire, se non quello che tutti sanno: che il
merito supremo di Garibaldi fu di aver reso popolare il movimento
italiano? E diciamolo pure, poichè è una di quelle verità che il
consenso comune appunto rende sempre grato il ripetere. Togliamo col
pensiero Garibaldi dalla storia della nostra rivoluzione. Non si può
giudicare storicamente impossibile che la liberazione e l'unificazione
d'Italia si compissero senza il concorso dell'opera sua. Noi possiamo
supporre l'esercito dei Borboni vinto e disperso in tre grandi
battaglie successive dall'esercito di Vittorio Emanuele, sceso dalle
Marche, o l'insurrezione di Sicilia vincitrice, qualche anno più
tardi, con l'aiuto di quella stessa brigata Reggio che Garibaldi aveva
chiesto al re, comandata da un generale dell'esercito, e sbarcata a
Marsala dalla regia flotta. Ma che immenso vuoto non ci ritroveremmo
dinanzi! Possiamo raffigurarci Napoli senza il Vesuvio e Venezia senza
San Marco? Il popolo italiano sarebbe ugualmente redento e uno; ma
quasi ci pare che sarebbe un altro popolo; poichè nè Vittorio
Emanuele, nè il Cavour, nè il Mazzini avrebbero potuto destargli
nell'animo la fiamma per cui la nostra rivoluzione divampò davanti al
mondo come un incendio. E in fatti: il Mazzini era un apostolo, non
potente che per la forza della parola, la quale nè a tutti giunge, nè
da tutti è intesa, ed ha effetti sparsi e lenti; oltrechè al Mazzini
mancò la virtù abbagliante della fortuna. Il Cavour era un grande uomo
di Stato; ma solitario e quasi invisibile al popolo nella sua
altezza; nè la natura del suo genio nè quella della sua opera eran
tali da essere pienamente comprese e da poter suscitare l'entusiasmo
delle moltitudini lontane dal campo in cui egli operava. Vittorio
Emanuele era un re popolare e guerriero; ma non era figlio del popolo;
e la sua forza, la sua azione era così complessa e commista con quella
del suo governo, informata d'elementi così diversi, palesi ed occulti,
facili e non facili a comprendersi e a valutarsi, che non potevano le
plebi, in specie quelle del mezzogiorno, vedere come incarnata in lui
la rivoluzione d'Italia e quasi inviscerarsi la sua gloria e sentire
nel proprio sangue il suo sangue. Ora Garibaldi raccolse in sè tutto
quello che a quei tre italiani insigni mancò. Ebbe la fortuna che
fallì al Mazzini, l'aureola maravigliosa che non ebbe il Cavour, e
quel fascino di guerriero combattente per impulso e vincente per genio
e per valore proprio che non poteva avere Vittorio Emanuele; e
aggiunse a tutto ciò una potenza infinita di farsi amare. Questo era
necessario all'Italia. Dieci milioni d'italiani, sciogliendosi
dall'odio mortale che li aveva scatenati contro la tirannia borbonica,
si ritrovarono con l'immenso amore di Garibaldi nel cuore. Egli non fu
soltanto una grande forza: fu l'originalità, la bellezza, la poesia
della rivoluzione italiana. Egli ebbe questo grande merito in faccia
alla storia, come disse in Germania un illustre apologista del conte
Cavour: quello d'insegnare ai suoi contemporanei e alle future
generazioni la consolante verità: «che anche in tempi grandemente
civili la santa energia d'una passione primitiva è una potenza fra gli
uomini».

E quale potenza! Essa fu tale che l'averne veduto i segni incantevoli
è per gli italiani della generazione che tramonta uno dei più grandi
conforti della vita. E giova notare prima d'ogni cosa che Garibaldi
rinfiammò all'improvviso l'entusiasmo delle moltitudini in un momento
in cui ve n'era bisogno supremo. La pace di Villafranca, troncando
all'improvviso sul Mincio la guerra che doveva «liberar l'Italia fino
all'Adriatico» ci aveva posti in condizioni difficili e tristi.
Minacciati dall'Austria, con la quale, anche più forte sul Mincio che