Spagna - 25
occhi pieni di sonno e colle mani scarne tolsero di sulla soglia non so
quali immondizie che impedivano il passo.
"Entriamo," disse l'amico.
"Entrare?" domandai.
Se m'avessero detto che di là da quel muro v'era un quissimile della
famosa Corte dei Miracoli che descrisse Vittor Hugo, non avrei esitato a
credere. Nessuna porta m'aveva mai detto più imperiosamente di
quella:--Allontanati.--Non saprei trovarle miglior paragone di quello
della bocca spalancata d'una gigantesca strega, che mandasse un alito
pregno di miasmi pestilenziali. Ma mi feci coraggio ed entrai.
Oh meraviglia! Era il cortile d'una casa araba, cinto di colonnine
graziose, sormontato da archi leggerissimi, con quegli indescrivibili
ricami dell'Alhambra intorno alle porticine e alle finestrine binate,
colle travi e gli assiti del soffitto scolpiti e coloriti, colle
nicchiette per i vasi dei fiori e le urne dei profumi, col bagno nel
mezzo, con tutte le traccie e i ricordi della deliziosa vita d'una
famiglia opulenta! E in quella casa abitava quella povera gente!
Uscimmo, entrammo in altre case, in tutte trovai qualche frammento
d'architettura e di scultura araba. Il Gongora mi diceva di tratto in
tratto:--Qui c'era un Harem--Là i bagni delle donne--Lassù la stanzina
d'una favorita;--e io figgevo gli occhi avidi su tutti i pezzi di muro
rabescato e su tutte le colonnine delle finestre, come per domandar loro
la rivelazione di qualche segreto, un nome, una parola magica colla
quale potessi ricostrurre in un istante l'edifizio rovinato ed evocare
le belle arabe che ci eran vissute. Ma ahimè! in mezzo alle colonne e
sotto gli archi delle finestrine non si vedevano che cenci e visi
rugosi!
Fra le altre case, entrammo in una dove trovammo un gruppo di ragazze
che cucivano all'ombra d'un albero del cortile, sorvegliate da una
vecchia. Lavoravano tutte intorno a una gran pezza di panno a striscie
nere e bigie, che mi parve un tappeto o una coperta da letto. Mi
avvicinai e domandai a una delle cucitrici: "_Que es esto?_"
Alzaron tutte la testa e con un movimento concorde spiegarono il panno
in modo che potessi veder bene il loro lavoro. L'avevo appena visto, che
gridai:--"Lo compro."
Si misero tutte a ridere. Era un mantello da montanaro andaluso, fatto
per portarsi a cavallo, della forma d'un rettangolo, con un'apertura nel
mezzo per farci passar la testa, ricamato in lana di vivi colori lungo i
due lati più corti, e intorno all'apertura. Il disegno dei ricami che
rappresentano uccelli e fiori fantastici, verdi, azzurri, bianchi, rossi
e gialli, tutti in un mucchio, è rozzo, come lo potrebbe fare un
bambino; la bellezza del lavoro è tutta nella veramente meravigliosa
armonia dei colori. Non saprei esprimere la sensazione che produce la
vista di quel mantello, se non dicendo che ride, e che desta allegrezza;
e che mi pare impossibile l'immaginare nulla di più gaio, di più
festivo, di più fanciullescamente e graziosamente capriccioso. È una
cosa da guardare quando s'è di malumore per rasserenarsi, o quando si
vuol scrivere una strofa gentile per l'albo d'una signora, o quando
s'aspetta una persona che si vuol ricevere col più piacevole dei nostri
sorrisi.
"Quando saranno finiti questi ricami?" domandai a una delle ragazze.
"_Hoy mismo,_" (oggi stesso) risposero tutte in coro.
"E quanto vale questo mantello?"
"_Cinco...._" balbettò una.
La vecchia la fulminò con un'occhiata che voleva dire:--Citrulla!--e
rispose in fretta: "_Seis duros._"
Sei _duros_ sono trenta lire; non mi parve molto; e misi la mano al
portamonete.
Il Gongora slanciandomi uno sguardo che voleva dire:--Minchione,--e
trattenendomi pel braccio disse: "Un momento! _Seis duros_ sono uno
sproposito!"
La vecchia gli lanciò un'altra occhiata che voleva dire:--Brigante!--e
rispose: "Non posso darlo a meno."
Il Gongora le diede un altro sguardo che voleva dire:--Bugiarda;--e
disse: "Andiamo, lo potete dare a quattro _duros_; alla gente del paese
non chiedete di più."
La vecchia insistè, e continuammo per un po' a scambiarci cogli occhi i
titoli di minchione, di gabbamondo, di guastamestieri, di bugiardo, di
avaro, di sciupone, finchè il mantello mi fu dato per cinque _duros_;
pagai, lasciai il mio indirizzo, ed uscimmo benedetti e raccomandati a
Dio dalla vecchia, e seguiti per un buon tratto dai grandi occhi neri
delle ricamatrici.
E continuammo ad andare di strada in strada, in mezzo a case di più in
più meschine, a visi di più in più neri, a cenci di più in più luridi. E
non s'arrivava mai alla fine, e io dicevo ai miei compagni: "Mi fanno
la finezza di dirmi se Granata ha dei confini, e dove li ha? Si può
sapere dove andiamo, e come si farà per tornare a casa?" e i miei
compagni ridevano e tiravano innanzi.
"O che c'è da vedere ancora qualcosa di più strano?" dimandai a un certo
punto.
"Di più strano?" mi rispose un dei due: "Ma questa seconda parte del
borgo che lei ha veduta appartiene ancora alla civiltà; è il quartiere
se non _parigino_ almeno _madrileno_ dell'Albaicin; e c'è ben altro;
andiamo oltre."
Si percorse una lunghissima strada sparsa di donne appena vestite che ci
guardavano come gente piovuta dalla luna; si attraversò una piazzetta
piena di bambini e maiali amichevolmente confusi; si passò per altre due
o tre stradicciuole, ora salendo, ora scendendo, ora in mezzo alle case,
ora in mezzo alle macerie, ora tra gli alberi, ora tra le roccie, e si
arrivò finalmente in un luogo solitario, sul fianco d'una collina, di
dove si vedeva, in faccia il Generalife; a destra l'Alhambra; sotto, una
valle profonda coperta d'un foltissimo bosco.
Cominciava a imbrunire, non si vedeva nessuno, non si sentiva una voce.
"Qui finisce il borgo?" domandai.
I due compagni risero e mi dissero: "Guardi da quella parte."
Mi voltai e vidi lungo una strada che si perdeva nel bosco lontano, una
sterminata fila di case.... di case? di tane scavate nella terra, con un
po' di muro dinanzi, con buchi per finestre e screpolature per porte, e
piante selvatiche d'ogni specie di sopra e dai lati; veri covi di belve,
nei quali, al chiarore di lumicini appena visibili, formicolavano i
gitani a centinaia; un popolo brulicante nelle viscere del monte, più
povero, più nero, più selvaggio di quello visto fino allora; un'altra
città, sconosciuta alla maggior parte dei Granatini, inaccessibile agli
agenti della polizia, chiusa agli impiegati del censimento, ignara
d'ogni legge e d'ogni governo, vivente non si sa come, numerosa non si
sa quanto, straniera alla città, alla Spagna, alla civiltà moderna, con
linguaggio e statuti ed usi proprii, superstiziosa, falsa, ladra,
accattona, feroce.
"S'abbottoni il soprabito e badi all'orologio," mi disse il Gongora; "e
andiamo avanti."
Non avevamo fatto cento passi quando un ragazzo seminudo, nero come le
pareti del suo tugurio, ci scorse, gettò un grido, e facendo cenno ad
altri ragazzi che lo seguissero, si slanciò verso di noi; dietro i
ragazzi accorsero le donne; dietro le donne, gli uomini; e poi vecchie e
vecchi e altri bambini; e in men che non si dice fummo circondati da una
folla. I miei due amici, riconosciuti come Granatini, riuscirono a
mettersi in salvo; rimasi io solo nelle péste. Mi pare di vedere ancora
quei ceffi, di udire ancora quelle voci, di sentirmi ancora addosso
quelle mani. Gesticolando, gridando, dicendo mille cose che io non
capivo, tirandomi per le falde, pel panciotto, per le maniche, mi si
stringevano addosso come un branco d'affamati, mi alitavan nel viso, mi
mozzavano il respiro. Eran la più parte seminudi, macilenti, colle
camicie che cadevano a brani, coi capelli scarmigliati e polverosi,
orribili a vedersi; mi pareva d'esser Don Rodrigo in mezzo alla folla
degli appestati in quel famoso sogno della notte d'agosto. Che vuole
questa gente? mi domandavo; dove mi son lasciato condurre? Come uscirò
di qui? Provavo quasi un senso di paura e guardavo intorno con
inquietudine. A poco a poco cominciai a capir qualcosa.
--Io ho una piaga in una spalla,--mi diceva uno;--non posso lavorare; mi
dia qualche soldo.
--Io ho una gamba rotta,--diceva un altro.
--Io ho un braccio paralitico.
--Io ho fatto una lunga malattia.
--_Un cuarto, señorito!_
--_Un real, caballero!_
--_Una peceta para todos!_
Quest'ultima voce fu accolta con un grido generale d'approvazione:--_Una
peceta para todos!_ (Una lira per tutti).
Tirai fuori, con un po' di trepidazione, il portamonete; tutti si
alzarono sulla punta dei piedi; i più vicini ci misero il mento dentro;
quei di dietro misero il mento sulla testa dei primi; i più lontani
stesero le braccia.
"Un momento," gridai; "chi è fra tutti voi altri colui che ha più
autorità?"
Tutti ad una voce, tendendo le braccia verso una sola persona, mi
risposero: "_Esta!_"
Era una spaventevole vecchia tutta naso e tutta mento, con un gran
ciuffo di capelli bianchi ritto sul capo a modo di pennacchio, con una
bocca che pareva la buca delle lettere, con poco più d'una camicia
addosso, nera, incartapecorita, mummificata; la quale mi si avvicinò
inchinandosi e sorridendo, e tendendo le mani per afferrare le mie.
"Che volete?" domandai facendo un passo indietro.
"_La ventura!_" gridarono tutti.
"Ditemi dunque la ventura," risposi tendendo la mano.
La vecchia strinse fra le sue dieci, non dico dita, ma ossi informi, la
mia povera mano, vi posò su il suo naso aguzzo, rialzò il capo, mi
guardò fisso, appuntò il dito verso di me, e dondolandosi e fermandosi
ad ogni frase, come se recitasse delle strofette, mi disse con accento
ispirato:
--_Tu has nacido en un dia señalado._--(Tu sei nato in un giorno
segnalato.)
--_Y el dia que morirás será un dia señalado tambien._--(E il giorno che
morirai sarà pure un giorno segnalato.)
--_Tu tienes un caudal asombroso._--(Possiedi ricchezze spaventose.)
Qui borbottò non so che d'amanti, di matrimonio, di felicità, onde capii
che supponeva ch'io fossi ammogliato, e poi soggiunse:
--_El dia que te casaste hubo en tu casa muchos dares y tomares._--(Il
giorno che ti ammogliasti si fecero grandi feste in casa tua: vi furono
molti _dare_ e _pigliare_.)
--_Y otra se quedó llorando._--(E un'altra donna ne pianse.)
--_Y cuando tu la vees te se abren las alas del corazon._--(E quando tu
la vedi ti si aprono le ali del cuore.)
E avanti su questo tenore, dicendo che avevo amanti e amici e tesori e
gioie che m'aspettavano tutti i giorni dell'anno in tutti i paesi del
mondo. Mentre la vecchia parlava, tutti tacevano, come se credessero che
profetasse davvero. Chiuse finalmente la profezia con una formola di
commiato, e chiuse la formola allargando le braccia e spiccando un salto
in un atteggiamento di danza. Io diedi la _peceta_, e la folla proruppe
in grida, in applausi, in canti, facendomi intorno mille strani gesti e
salti, e salutandomi a spintoni e a colpi di mano sulla spalla come un
vecchio amico, finchè, a forza di divincolarmi e di urtare ora l'uno ora
l'altro, riuscii ad aprirmi un varco e a raggiungere gli amici. Ma un
nuovo pericolo ci minacciava. La notizia dell'arrivo d'uno straniero
s'era sparsa, le tribù s'erano mosse, la città dei gitani era tutta in
rumore; dalle case vicine, dai tugurii lontani, dall'alto della collina,
dal fondo della valle, accorrevano ragazzi, donne coi bimbi in collo,
vecchi col bastone, storpi e malati impostori, profetesse settuagenarie
che volevano dir la ventura; un esercito di pezzenti ci veniva addosso
da ogni parte. Era notte; non c'era da esitare; pigliammo la corsa, come
scolaretti, alla volta della città. Allora ci scoppiò alle spalle un
gridío di casa del diavolo e i più lesti si misero ad inseguirci.
Grazie al cielo, dopo una breve galoppata, ci trovammo al sicuro,
stanchi, ansanti, coperti di polvere; ma salvi.
"A qualunque costo," mi disse ridendo il signor Melchiorre, "bisognava
scappare; se no si sarebbe tornati a casa senza camicia."
"E noti," soggiunse il Gongora, "che non abbiamo veduto che le porte del
borgo dei gitani; la parte civile; non si può dire il Parigi, nè il
Madrid; ma almeno la Granata dell'Albaicin; se fossimo andati oltre! se
lei avesse veduto il resto!"
"Ma quante migliaia sono questa gente?" domandai.
"Non si sa."
"In che modo vivono?"
"Non si capisce."
"Che autorità riconoscono?"
"Una sola: _los reyes_ (i re), capi delle famiglie o delle case, quelli
che hanno più danari e più anni. Essi non escon mai dal loro borgo, non
sanno nulla, vivono al buio di tutto ciò che accade fuor della cerchia
delle loro case. Le dinastie cadono, i governi si trasformano, gli
eserciti si battono, ed è un miracolo se ne giunge la notizia fino al
loro orecchio. Domandi loro se Isabella è ancora sul trono o no: non lo
sanno. Domandi loro chi è Don Amedeo: non ne hanno mai inteso il nome.
Nascono e muoiono come le mosche, e vivono come secoli fa,
moltiplicandosi senza uscire dai propri confini; ignoranti e ignorati,
non vedendo altro in tutta la loro vita fuor che la valle che s'apre
sotto i loro piedi e l'Alhambra che torreggia sul loro capo."
Ripassammo per tutte le strade percorse prima, ora deserte ed oscure, e
mi pareva che non finissero mai; e sali e scendi e svolta e gira e
rigira; finalmente s'arrivò nella piazza dell'_Audiencia_, in mezzo alla
città di Granata, nel mondo civile. Alla vista dei caffè e delle
botteghe illuminate, provai un senso di piacere, come se fossi tornato
alla vita cittadina dopo un anno di soggiorno in una landa disabitata.
* * * * *
La sera del dì dopo partii per Valenza. Mi ricordo che pochi momenti
prima di partire, dovendo pagare il conto dell'albergo, osservai al
padrone che nella nota c'era segnata una candela di più, e gli domandai
ridendo: "Me la toglie?" Il padrone afferrò la penna, e togliendo venti
centesimi dal totale della somma, rispose con voce che voleva parer
commossa:
"Diavolo! fra Italiani!...."
XIII.
VALENZA.
Il viaggio da Granata a Valenza, fatto tutto _de un tiron_, come si dice
in Spagna, o d'un fiato, è uno di quegli spassi che un uomo ragionevole
si piglia una volta sola nella vita. Da Granata a Menjibar, villaggio
posto sulla riva sinistra del Guadalquivir tra Iaen e Andujar, è una
nottataccia di diligenza; da Menjibar all'Alcazar di San Juan è una
mezza giornata di strada ferrata, in un carrozzone senza tendine, in
mezzo a pianure nude come la palma della mano, con quel po' po' di sole;
e dall'Alcazar di San Juan a Valenza, tenuto conto di tutta una serata
che si passa nella stazione dell'Alcazar aspettando il treno, è un'altra
notte e un'altra mattinata, per arrivar poi alla sospirata città sul
punto di mezzogiorno quando la natura, come direbbe Emilio Praga,
raccapriccia all'orrida idea che ci siano ancor quattro mesi di estate.
Ma bisogna dire che il paese che si percorre sul principio e sulla fine
di questo viaggio è così bello che se si fosse capaci di un sentimento
gentile quando si casca dal sonno e si va in acqua dal caldo, ci sarebbe
da andare mille volte in visibilio. È un viaggio di vedute inaspettate,
di cambiamenti improvvisi, di contrasti stravaganti, di colpi di scena,
per così dire, della natura, di trasformazioni meravigliose e
fantastiche, che lascia nella mente non so che vaga illusione d'aver
percorso, non un tratto della Spagna, ma tutto un meridiano della terra,
a traverso i paesi più disparati. Dalla _vega_ di Granata, che
attraversate al lume della luna, quasi aprendovi la via fra i boschi e i
giardini, in mezzo a una vegetazione pomposa che par che vi s'affolli
intorno come un mare gonfiato per avvolgervi ed inghiottirvi nei suoi
cavalloni di verzura; riuscite in mezzo a monti brulli e dirupati ove
non si vede traccia d'abitazione umana, rasentate l'orlo dei precipizii,
costeggiate le rive dei torrenti, scorrete in fondo ai burroni, vi par
di esservi smarriti in un labirinto di roccie. Di qui riuscite un'altra
volta in mezzo alle colline verdi e ai campi fioriti dell'alta
Andalusia, e poi tutto a un tratto spariscon campi e colline, e vi
trovate in mezzo alle montagne di pietra della Sierra Morena, che vi
pendon da ogni parte sul capo e vi chiudon tutt'intorno l'orizzonte come
le pareti d'un abisso immenso. Uscite dalla Sierra Morena, vi si stendon
davanti le deserte pianure della Mancia; uscite dalla Mancia,
v'inoltrate nella florida pianura d'Almansa, svariata d'ogni maniera di
coltivazioni, che presenta l'aspetto d'un vastissimo tappeto a
scacchiere dipinto di tutte le sfumature di verde che possano uscire
dalla tavolozza d'un paesista. E finalmente di là dalla pianura
d'Almansa, s'apre un'oasi deliziosa, una terra benedetta da Dio, un vero
paradiso terrestre, il regno di Valenza; dai confini del quale fino alla
città, si trascorre in mezzo ai giardini, ai vigneti, a folte macchie
d'aranci, a villette bianche coronate di terrazze, a villaggi allegri
dipinti di vivi colori, a gruppi, a filari, a boschetti di palme, di
melagrani, di aloè, a canneti di zucchero, a sterminate siepi di fichi
d'India, a lunghe catene di collinette e di poggi di forma conica,
coltivati a orticelli, a giardinetti, ad aiuoline, scaccheggiati
minutamente di cima in fondo e variopinti come grandi mazzi di erbe e di
fiori; e per tutto una vegetazione ardente, che colma ogni vuoto, che
soverchia ogni altezza, che veste ogni sporgenza, che s'alza, che
spenzola, che striscia, che si pigia, s'ammucchia, s'intralcia, vi
impedisce la vista, vi chiude la strada, vi abbarbaglia di verde, vi
stanca di bellezza, vi confonde coi suoi capricci e le sue follie, e vi
fa l'effetto come d'una figliazione improvvisa della terra accesa d'una
febbre voluttuosa dal fuoco d'un vulcano segreto.
* * * * *
Il primo edifizio che dà nell'occhio entrando in Valenza, è un immenso
Circo di tori, situato a destra della strada ferrata, formato da quattro
ordini sovrapposti di archi sorretti da robusti pilastri, tutto di
mattoni, arieggiante, alla lontana, il Colosseo. È il Circo dei tori,
dove il quattro settembre del 1871 il re Amedeo al cospetto di
diciassette mila persone strinse la mano al celebre _torero_
soprannominato il Tato, monco d'una gamba, che, essendo direttore dello
spettacolo, aveva chiesto il permesso d'andargli a presentare i suoi
omaggi nel palco. Valenza è tutta piena di ricordi del duca d'Aosta. Il
sacrestano della cattedrale possiede un cronometro d'oro, colle sue
iniziali in diamanti, e una catena imperlata, regalatagli da lui quando
andò a pregare nella capella di _Nuestra Señora de los Desamparados_.
Nell'Ospizio di questo nome i poveri si ricordano d'aver un giorno
ricevuto dalla mano sua il loro pane quotidiano. Nell'opificio di
musaici di un tal Nolla si conservan due mattoni, sull'uno dei quali
egli incise di suo pugno il proprio nome, e sull'altro il nome della
regina. Nella piazza di Tetuan il popolo addita la casa del conte di
Cervellon, nella quale ei fu ospitato; che è la casa medesima dove
Ferdinando VII firmò nel 1814 i decreti che annullavano la Costituzione,
dove abdicò la regina Cristina nel 1840, dove passò alcuni giorni la
regina Isabella nell'anno 1858. Infine, non v'è angolo della città nel
quale non si possa dire: qui strinse la mano a un popolano; qui visitò
un opificio, qui passò a piedi, lontano dal suo seguito, circondato da
una folla, fiducioso, sereno, sorridente.
E fu appunto Valenza, poichè sono a parlare del duca d'Aosta, fu Valenza
la città nella quale una bambina di cinque anni, recitandogli dei versi,
toccò quel terribile argomento del _Rey extranjero_ colle più nobili e
più sensate parole che si sian forse pronunziate in Spagna da parecchi
anni a questa volta; parole che se tutta la Spagna avesse raccolte e
meditate, forse ella si sarebbe risparmiate molte delle calamità che
l'hanno colpita e che l'aspettano; parole che forse, un giorno, qualche
spagnuolo rammenterà sospirando, e che già fin d'ora traggono dagli
avvenimenti una luce meravigliosa di verità e di bellezza. E poichè i
versi son gentili e facili, io li trascrivo. La poesia è intitolata _Dio
e il Re_, e dice così:
«Dios, en todo soberano,
Creò un dia á los mortales,
Y á todos nos hizo[7] iguales
Con su poderosa mano.
No reconoció Naciones
Ni colores ni matices[8]
Y en ver los hombres felices
Cifró sus aspiraciones.
El Rey, che su imágen es,
Su bondad debe imitar
Y el pueblo no ha de indagar
Si es aleman ó francés.
¿Porqué con ceño[9] iracundo
Rechazarle[10] siendo bueno?
Un Rey de bondades lleno[11]
Tiene por su patria el mundo.
[12]Vino de nacion estraña
Cárlos Quinto emperador,
Y conquistó su valor
Mil laureles para España.
Y es un recuerdo glorioso
Aunque en guerra cimentado,
El venturoso reinado
De Felipe el Animoso.
Hoy el tercero sois Vos
Nacido en estraño suelo
Que viene á ver nuestro cielo
Puro destello de Dios.
Al rayo de nuestro sol
Sed bueno, justo y leal,
Que á un Rey bueno y liberal
Adora el pueblo español.
Y á vuestra frente el trofeo
Ceñid[13] de perpetua gloria,
Para que diga la historia
--Fué grande el Rey Amadeo.--»
Oh povera ragazzina, quante cose saggie hai detto tu, e quante cose
insensate hanno fatto gli altri!
* * * * *
La città di Valenza, se vi s'entra ripensando alle ballate dei poeti che
ne cantarono le meraviglie, non pare che risponda alla bella immagine
che ce n'eravamo formata nella mente; e d'altra parte non offre
quell'aspetto sinistro al quale ci si prepara, se si bada alla sua
giusta fama di città turbolenta, battagliera, fomentatrice di guerre
civili e piuttosto vaga dell'odor della polvere che della fragranza dei
suoi boschetti d'aranci. È una città costrutta sur una vasta e florida
pianura, sulla riva destra del Guadalaviar, che la separa dai suoi
sobborghi, un po' lontana dalla rada che le serve di porto, tutta
strade tortuose, fiancheggiate da case alte, sgraziate e multicolori, e
però di men gradevole aspetto che le strade delle città andaluse, e
prive affatto di quella vaga aria orientale che muove così caramente la
fantasia. Sulla riva sinistra del fiume si stende uno stupendo passeggio
formato da maestosi viali e da bei giardini, al quale si giunge uscendo
dalla città per la porta del Cid, fiancheggiata da due grosse torri
merlate, chiamata col nome dell'eroe perchè per essa egli passò nel 1094
dopo avere scacciato i Mori da Valenza. La cattedrale, costrutta in uno
spazio dove sorse un tempio a Diana al tempo dei Romani, poi una chiesa
a San Salvatore al tempo dei Goti, poi una moschea al tempo degli Arabi,
convertita daccapo in chiesa dal Cid, mutata una seconda volta in
moschea dagli Arabi nel 1101, e per una terza volta in chiesa dal re Don
Iaime dopo la cacciata definitiva degli invasori, è un vasto edifizio,
straricco di ornamenti e di tesori; ma che non può reggere il confronto
colla maggior parte delle altre cattedrali spagnuole. V'hanno parecchi
palazzi degni di esser visti, come il palazzo dell'_Audiencia_, che è un
bel monumento del decimosesto secolo, nel quale si radunavano le Cortes
del regno di Valenza; la _casa de ayuntamiento_, costrutta tra il secolo
XV e il XVI, nella quale si conserva la spada di Don Iaime, le chiavi
della città e la bandiera dei Mori; e sopra tutti la _Lonja_, la Borsa
dei negozianti, per la sua celebre sala formata da tre grandi navate
divise da ventiquattro colonne torte sulle quali s'incurvano con uno
slancio ardito gli archi leggieri delle vôlte, e l'occhio riceve da
quell'architettura una gradevole impressione di gaiezza e d'armonia. E
infine v'è un museo di pittura che non è tra gli ultimi di Spagna.
Ma a dire il vero in quei pochi giorni ch'io rimasi a Valenza aspettando
un bastimento, ebbi più il capo alla politica che all'arte. Ed
esperimentai la verità delle parole che prima di partir dall'Italia
avevo inteso dire da un illustre italiano, il quale conosce la Spagna
come casa sua: «Lo straniero che vive, anche per breve tempo, in
Ispagna, è condotto a poco a poco, senza quasi ch'ei se n'accorga, a
scaldarsi il sangue e a beccarsi il cervello sulla politica, come se la
Spagna fosse il suo paese, o le sorti del suo paese pendessero dalle
sorti della Spagna. Le passioni son tanto ardenti, la lotta è così
accanita, e in questa lotta è sempre così apertamente in giuoco
l'avvenire, la salute, la vita della nazione, che non è possibile, a chi
nulla nulla sia latino d'immaginazione e di fibra, il rimaner spettatore
indifferente. Bisogna agitarsi, parlar nei crocchi, pigliar sul serio le
elezioni, imbrancarsi nella folla che fa le dimostrazioni politiche,
rompersi con qualche amico, formarsi una società di gente che la pensi
come noi, e farsi, in una parola, spagnuolo fino al bianco dell'occhio.
E via via che si diventa spagnuoli, si scorda l'Europa, come se fosse
agli Antipodi, e si finisce col non veder più che la Spagna, come se la
governassimo noi, e tutti i suoi interessi fossero nelle nostre mani.»
Così è, e così m'avvenne. In quei pochi giorni era naufragato il
Ministero conservatore, e i radicali avevano il vento in poppa; la
Spagna era tutta in ribollimento; cadevano governatori, generali,
impiegati di tutti i gradi e di tutte le amministrazioni; una folla di
gente nuova irrompeva negli uffizi dei ministeri gettando grida
d'allegrezza; lo Zorilla doveva inaugurare un'èra nuova di prosperità e
di pace; Don Amedeo aveva avuto un'ispirazione dal cielo; la libertà
aveva vinto; la Spagna era salva. Anch'io, sentendo suonar la banda
dinanzi alla casa del nuovo governatore, sotto un bel cielo stellato, in
mezzo al popolo allegro, ebbi un barlume di speranza che il trono di Don
Amedeo potesse finalmente allargar le radici, e mi rammaricai d'essere
stato troppo facile a pronosticar male. E quella commedia che
rappresentava lo Zorilla nella sua villa quando non voleva a nessun
costo accettare la presidenza del Ministero, e rimandava indietro amici
e deputazioni, e finalmente, spossato dal continuo dir di no, cadeva in
deliquio dicendo di sì, mi dava, allora, un alto concetto della fermezza
del suo carattere, e mi induceva a bene augurare del nuovo Governo. E
dicevo tra me ch'era un peccato partir dalla Spagna allora che
l'orizzonte si faceva azzurro e il palazzo reale di Madrid si tingeva di
color di rosa. E già ventilavo il disegno di tornare a Madrid per
goderci la soddisfazione di poter mandare in Italia delle notizie
consolanti, le quali m'avrebbero fatto perdonare l'imprudenza che avevo
avuto fino allora di non dire delle bugie. E ripetevo i versi del Prati:
«Oh qual destin t'aspetta
Aquila giovinetta!»
e salvo un po' di gonfiezza negli appellativi, mi pareva che
racchiudessero una profezia, e immaginavo di vedere il poeta in piazza
Colonna, a Roma, e di corrergli incontro per dargli il mi rallegro e
serrargli la mano....
* * * * *
La più bella cosa a vedersi in Valenza è il mercato. I contadini
valenzani sono di tutta la Spagna i più artisticamente e bizzarramente
vestiti. Per fare una bella figura in mezzo alle maschere dei nostri
veglioni, non avrebbero che da entrare in teatro tal quale si trovano i
giorni di festa e di mercato per le strade di Valenza e per le vie della
campagna. Al vedere i primi così vestiti, vien da ridere, e non si può
credere in nessuna maniera che sian contadini spagnuoli. Hanno non so
che aria di greci, di beduini, di giuocatori di pallone, di danzatori di
corda, di donne mezzo spogliate per andare a letto, di comparse da
tragedia non finite di vestire, di gente faceta che voglia far ridere a
spese sue. Hanno una camicia bianca ed ampia che tien luogo di
giacchetta, un panciottino di velluto di vario colore aperto sul petto,
un par di calzoni di tela, della forma di quei degli zuavi, che non
quali immondizie che impedivano il passo.
"Entriamo," disse l'amico.
"Entrare?" domandai.
Se m'avessero detto che di là da quel muro v'era un quissimile della
famosa Corte dei Miracoli che descrisse Vittor Hugo, non avrei esitato a
credere. Nessuna porta m'aveva mai detto più imperiosamente di
quella:--Allontanati.--Non saprei trovarle miglior paragone di quello
della bocca spalancata d'una gigantesca strega, che mandasse un alito
pregno di miasmi pestilenziali. Ma mi feci coraggio ed entrai.
Oh meraviglia! Era il cortile d'una casa araba, cinto di colonnine
graziose, sormontato da archi leggerissimi, con quegli indescrivibili
ricami dell'Alhambra intorno alle porticine e alle finestrine binate,
colle travi e gli assiti del soffitto scolpiti e coloriti, colle
nicchiette per i vasi dei fiori e le urne dei profumi, col bagno nel
mezzo, con tutte le traccie e i ricordi della deliziosa vita d'una
famiglia opulenta! E in quella casa abitava quella povera gente!
Uscimmo, entrammo in altre case, in tutte trovai qualche frammento
d'architettura e di scultura araba. Il Gongora mi diceva di tratto in
tratto:--Qui c'era un Harem--Là i bagni delle donne--Lassù la stanzina
d'una favorita;--e io figgevo gli occhi avidi su tutti i pezzi di muro
rabescato e su tutte le colonnine delle finestre, come per domandar loro
la rivelazione di qualche segreto, un nome, una parola magica colla
quale potessi ricostrurre in un istante l'edifizio rovinato ed evocare
le belle arabe che ci eran vissute. Ma ahimè! in mezzo alle colonne e
sotto gli archi delle finestrine non si vedevano che cenci e visi
rugosi!
Fra le altre case, entrammo in una dove trovammo un gruppo di ragazze
che cucivano all'ombra d'un albero del cortile, sorvegliate da una
vecchia. Lavoravano tutte intorno a una gran pezza di panno a striscie
nere e bigie, che mi parve un tappeto o una coperta da letto. Mi
avvicinai e domandai a una delle cucitrici: "_Que es esto?_"
Alzaron tutte la testa e con un movimento concorde spiegarono il panno
in modo che potessi veder bene il loro lavoro. L'avevo appena visto, che
gridai:--"Lo compro."
Si misero tutte a ridere. Era un mantello da montanaro andaluso, fatto
per portarsi a cavallo, della forma d'un rettangolo, con un'apertura nel
mezzo per farci passar la testa, ricamato in lana di vivi colori lungo i
due lati più corti, e intorno all'apertura. Il disegno dei ricami che
rappresentano uccelli e fiori fantastici, verdi, azzurri, bianchi, rossi
e gialli, tutti in un mucchio, è rozzo, come lo potrebbe fare un
bambino; la bellezza del lavoro è tutta nella veramente meravigliosa
armonia dei colori. Non saprei esprimere la sensazione che produce la
vista di quel mantello, se non dicendo che ride, e che desta allegrezza;
e che mi pare impossibile l'immaginare nulla di più gaio, di più
festivo, di più fanciullescamente e graziosamente capriccioso. È una
cosa da guardare quando s'è di malumore per rasserenarsi, o quando si
vuol scrivere una strofa gentile per l'albo d'una signora, o quando
s'aspetta una persona che si vuol ricevere col più piacevole dei nostri
sorrisi.
"Quando saranno finiti questi ricami?" domandai a una delle ragazze.
"_Hoy mismo,_" (oggi stesso) risposero tutte in coro.
"E quanto vale questo mantello?"
"_Cinco...._" balbettò una.
La vecchia la fulminò con un'occhiata che voleva dire:--Citrulla!--e
rispose in fretta: "_Seis duros._"
Sei _duros_ sono trenta lire; non mi parve molto; e misi la mano al
portamonete.
Il Gongora slanciandomi uno sguardo che voleva dire:--Minchione,--e
trattenendomi pel braccio disse: "Un momento! _Seis duros_ sono uno
sproposito!"
La vecchia gli lanciò un'altra occhiata che voleva dire:--Brigante!--e
rispose: "Non posso darlo a meno."
Il Gongora le diede un altro sguardo che voleva dire:--Bugiarda;--e
disse: "Andiamo, lo potete dare a quattro _duros_; alla gente del paese
non chiedete di più."
La vecchia insistè, e continuammo per un po' a scambiarci cogli occhi i
titoli di minchione, di gabbamondo, di guastamestieri, di bugiardo, di
avaro, di sciupone, finchè il mantello mi fu dato per cinque _duros_;
pagai, lasciai il mio indirizzo, ed uscimmo benedetti e raccomandati a
Dio dalla vecchia, e seguiti per un buon tratto dai grandi occhi neri
delle ricamatrici.
E continuammo ad andare di strada in strada, in mezzo a case di più in
più meschine, a visi di più in più neri, a cenci di più in più luridi. E
non s'arrivava mai alla fine, e io dicevo ai miei compagni: "Mi fanno
la finezza di dirmi se Granata ha dei confini, e dove li ha? Si può
sapere dove andiamo, e come si farà per tornare a casa?" e i miei
compagni ridevano e tiravano innanzi.
"O che c'è da vedere ancora qualcosa di più strano?" dimandai a un certo
punto.
"Di più strano?" mi rispose un dei due: "Ma questa seconda parte del
borgo che lei ha veduta appartiene ancora alla civiltà; è il quartiere
se non _parigino_ almeno _madrileno_ dell'Albaicin; e c'è ben altro;
andiamo oltre."
Si percorse una lunghissima strada sparsa di donne appena vestite che ci
guardavano come gente piovuta dalla luna; si attraversò una piazzetta
piena di bambini e maiali amichevolmente confusi; si passò per altre due
o tre stradicciuole, ora salendo, ora scendendo, ora in mezzo alle case,
ora in mezzo alle macerie, ora tra gli alberi, ora tra le roccie, e si
arrivò finalmente in un luogo solitario, sul fianco d'una collina, di
dove si vedeva, in faccia il Generalife; a destra l'Alhambra; sotto, una
valle profonda coperta d'un foltissimo bosco.
Cominciava a imbrunire, non si vedeva nessuno, non si sentiva una voce.
"Qui finisce il borgo?" domandai.
I due compagni risero e mi dissero: "Guardi da quella parte."
Mi voltai e vidi lungo una strada che si perdeva nel bosco lontano, una
sterminata fila di case.... di case? di tane scavate nella terra, con un
po' di muro dinanzi, con buchi per finestre e screpolature per porte, e
piante selvatiche d'ogni specie di sopra e dai lati; veri covi di belve,
nei quali, al chiarore di lumicini appena visibili, formicolavano i
gitani a centinaia; un popolo brulicante nelle viscere del monte, più
povero, più nero, più selvaggio di quello visto fino allora; un'altra
città, sconosciuta alla maggior parte dei Granatini, inaccessibile agli
agenti della polizia, chiusa agli impiegati del censimento, ignara
d'ogni legge e d'ogni governo, vivente non si sa come, numerosa non si
sa quanto, straniera alla città, alla Spagna, alla civiltà moderna, con
linguaggio e statuti ed usi proprii, superstiziosa, falsa, ladra,
accattona, feroce.
"S'abbottoni il soprabito e badi all'orologio," mi disse il Gongora; "e
andiamo avanti."
Non avevamo fatto cento passi quando un ragazzo seminudo, nero come le
pareti del suo tugurio, ci scorse, gettò un grido, e facendo cenno ad
altri ragazzi che lo seguissero, si slanciò verso di noi; dietro i
ragazzi accorsero le donne; dietro le donne, gli uomini; e poi vecchie e
vecchi e altri bambini; e in men che non si dice fummo circondati da una
folla. I miei due amici, riconosciuti come Granatini, riuscirono a
mettersi in salvo; rimasi io solo nelle péste. Mi pare di vedere ancora
quei ceffi, di udire ancora quelle voci, di sentirmi ancora addosso
quelle mani. Gesticolando, gridando, dicendo mille cose che io non
capivo, tirandomi per le falde, pel panciotto, per le maniche, mi si
stringevano addosso come un branco d'affamati, mi alitavan nel viso, mi
mozzavano il respiro. Eran la più parte seminudi, macilenti, colle
camicie che cadevano a brani, coi capelli scarmigliati e polverosi,
orribili a vedersi; mi pareva d'esser Don Rodrigo in mezzo alla folla
degli appestati in quel famoso sogno della notte d'agosto. Che vuole
questa gente? mi domandavo; dove mi son lasciato condurre? Come uscirò
di qui? Provavo quasi un senso di paura e guardavo intorno con
inquietudine. A poco a poco cominciai a capir qualcosa.
--Io ho una piaga in una spalla,--mi diceva uno;--non posso lavorare; mi
dia qualche soldo.
--Io ho una gamba rotta,--diceva un altro.
--Io ho un braccio paralitico.
--Io ho fatto una lunga malattia.
--_Un cuarto, señorito!_
--_Un real, caballero!_
--_Una peceta para todos!_
Quest'ultima voce fu accolta con un grido generale d'approvazione:--_Una
peceta para todos!_ (Una lira per tutti).
Tirai fuori, con un po' di trepidazione, il portamonete; tutti si
alzarono sulla punta dei piedi; i più vicini ci misero il mento dentro;
quei di dietro misero il mento sulla testa dei primi; i più lontani
stesero le braccia.
"Un momento," gridai; "chi è fra tutti voi altri colui che ha più
autorità?"
Tutti ad una voce, tendendo le braccia verso una sola persona, mi
risposero: "_Esta!_"
Era una spaventevole vecchia tutta naso e tutta mento, con un gran
ciuffo di capelli bianchi ritto sul capo a modo di pennacchio, con una
bocca che pareva la buca delle lettere, con poco più d'una camicia
addosso, nera, incartapecorita, mummificata; la quale mi si avvicinò
inchinandosi e sorridendo, e tendendo le mani per afferrare le mie.
"Che volete?" domandai facendo un passo indietro.
"_La ventura!_" gridarono tutti.
"Ditemi dunque la ventura," risposi tendendo la mano.
La vecchia strinse fra le sue dieci, non dico dita, ma ossi informi, la
mia povera mano, vi posò su il suo naso aguzzo, rialzò il capo, mi
guardò fisso, appuntò il dito verso di me, e dondolandosi e fermandosi
ad ogni frase, come se recitasse delle strofette, mi disse con accento
ispirato:
--_Tu has nacido en un dia señalado._--(Tu sei nato in un giorno
segnalato.)
--_Y el dia que morirás será un dia señalado tambien._--(E il giorno che
morirai sarà pure un giorno segnalato.)
--_Tu tienes un caudal asombroso._--(Possiedi ricchezze spaventose.)
Qui borbottò non so che d'amanti, di matrimonio, di felicità, onde capii
che supponeva ch'io fossi ammogliato, e poi soggiunse:
--_El dia que te casaste hubo en tu casa muchos dares y tomares._--(Il
giorno che ti ammogliasti si fecero grandi feste in casa tua: vi furono
molti _dare_ e _pigliare_.)
--_Y otra se quedó llorando._--(E un'altra donna ne pianse.)
--_Y cuando tu la vees te se abren las alas del corazon._--(E quando tu
la vedi ti si aprono le ali del cuore.)
E avanti su questo tenore, dicendo che avevo amanti e amici e tesori e
gioie che m'aspettavano tutti i giorni dell'anno in tutti i paesi del
mondo. Mentre la vecchia parlava, tutti tacevano, come se credessero che
profetasse davvero. Chiuse finalmente la profezia con una formola di
commiato, e chiuse la formola allargando le braccia e spiccando un salto
in un atteggiamento di danza. Io diedi la _peceta_, e la folla proruppe
in grida, in applausi, in canti, facendomi intorno mille strani gesti e
salti, e salutandomi a spintoni e a colpi di mano sulla spalla come un
vecchio amico, finchè, a forza di divincolarmi e di urtare ora l'uno ora
l'altro, riuscii ad aprirmi un varco e a raggiungere gli amici. Ma un
nuovo pericolo ci minacciava. La notizia dell'arrivo d'uno straniero
s'era sparsa, le tribù s'erano mosse, la città dei gitani era tutta in
rumore; dalle case vicine, dai tugurii lontani, dall'alto della collina,
dal fondo della valle, accorrevano ragazzi, donne coi bimbi in collo,
vecchi col bastone, storpi e malati impostori, profetesse settuagenarie
che volevano dir la ventura; un esercito di pezzenti ci veniva addosso
da ogni parte. Era notte; non c'era da esitare; pigliammo la corsa, come
scolaretti, alla volta della città. Allora ci scoppiò alle spalle un
gridío di casa del diavolo e i più lesti si misero ad inseguirci.
Grazie al cielo, dopo una breve galoppata, ci trovammo al sicuro,
stanchi, ansanti, coperti di polvere; ma salvi.
"A qualunque costo," mi disse ridendo il signor Melchiorre, "bisognava
scappare; se no si sarebbe tornati a casa senza camicia."
"E noti," soggiunse il Gongora, "che non abbiamo veduto che le porte del
borgo dei gitani; la parte civile; non si può dire il Parigi, nè il
Madrid; ma almeno la Granata dell'Albaicin; se fossimo andati oltre! se
lei avesse veduto il resto!"
"Ma quante migliaia sono questa gente?" domandai.
"Non si sa."
"In che modo vivono?"
"Non si capisce."
"Che autorità riconoscono?"
"Una sola: _los reyes_ (i re), capi delle famiglie o delle case, quelli
che hanno più danari e più anni. Essi non escon mai dal loro borgo, non
sanno nulla, vivono al buio di tutto ciò che accade fuor della cerchia
delle loro case. Le dinastie cadono, i governi si trasformano, gli
eserciti si battono, ed è un miracolo se ne giunge la notizia fino al
loro orecchio. Domandi loro se Isabella è ancora sul trono o no: non lo
sanno. Domandi loro chi è Don Amedeo: non ne hanno mai inteso il nome.
Nascono e muoiono come le mosche, e vivono come secoli fa,
moltiplicandosi senza uscire dai propri confini; ignoranti e ignorati,
non vedendo altro in tutta la loro vita fuor che la valle che s'apre
sotto i loro piedi e l'Alhambra che torreggia sul loro capo."
Ripassammo per tutte le strade percorse prima, ora deserte ed oscure, e
mi pareva che non finissero mai; e sali e scendi e svolta e gira e
rigira; finalmente s'arrivò nella piazza dell'_Audiencia_, in mezzo alla
città di Granata, nel mondo civile. Alla vista dei caffè e delle
botteghe illuminate, provai un senso di piacere, come se fossi tornato
alla vita cittadina dopo un anno di soggiorno in una landa disabitata.
* * * * *
La sera del dì dopo partii per Valenza. Mi ricordo che pochi momenti
prima di partire, dovendo pagare il conto dell'albergo, osservai al
padrone che nella nota c'era segnata una candela di più, e gli domandai
ridendo: "Me la toglie?" Il padrone afferrò la penna, e togliendo venti
centesimi dal totale della somma, rispose con voce che voleva parer
commossa:
"Diavolo! fra Italiani!...."
XIII.
VALENZA.
Il viaggio da Granata a Valenza, fatto tutto _de un tiron_, come si dice
in Spagna, o d'un fiato, è uno di quegli spassi che un uomo ragionevole
si piglia una volta sola nella vita. Da Granata a Menjibar, villaggio
posto sulla riva sinistra del Guadalquivir tra Iaen e Andujar, è una
nottataccia di diligenza; da Menjibar all'Alcazar di San Juan è una
mezza giornata di strada ferrata, in un carrozzone senza tendine, in
mezzo a pianure nude come la palma della mano, con quel po' po' di sole;
e dall'Alcazar di San Juan a Valenza, tenuto conto di tutta una serata
che si passa nella stazione dell'Alcazar aspettando il treno, è un'altra
notte e un'altra mattinata, per arrivar poi alla sospirata città sul
punto di mezzogiorno quando la natura, come direbbe Emilio Praga,
raccapriccia all'orrida idea che ci siano ancor quattro mesi di estate.
Ma bisogna dire che il paese che si percorre sul principio e sulla fine
di questo viaggio è così bello che se si fosse capaci di un sentimento
gentile quando si casca dal sonno e si va in acqua dal caldo, ci sarebbe
da andare mille volte in visibilio. È un viaggio di vedute inaspettate,
di cambiamenti improvvisi, di contrasti stravaganti, di colpi di scena,
per così dire, della natura, di trasformazioni meravigliose e
fantastiche, che lascia nella mente non so che vaga illusione d'aver
percorso, non un tratto della Spagna, ma tutto un meridiano della terra,
a traverso i paesi più disparati. Dalla _vega_ di Granata, che
attraversate al lume della luna, quasi aprendovi la via fra i boschi e i
giardini, in mezzo a una vegetazione pomposa che par che vi s'affolli
intorno come un mare gonfiato per avvolgervi ed inghiottirvi nei suoi
cavalloni di verzura; riuscite in mezzo a monti brulli e dirupati ove
non si vede traccia d'abitazione umana, rasentate l'orlo dei precipizii,
costeggiate le rive dei torrenti, scorrete in fondo ai burroni, vi par
di esservi smarriti in un labirinto di roccie. Di qui riuscite un'altra
volta in mezzo alle colline verdi e ai campi fioriti dell'alta
Andalusia, e poi tutto a un tratto spariscon campi e colline, e vi
trovate in mezzo alle montagne di pietra della Sierra Morena, che vi
pendon da ogni parte sul capo e vi chiudon tutt'intorno l'orizzonte come
le pareti d'un abisso immenso. Uscite dalla Sierra Morena, vi si stendon
davanti le deserte pianure della Mancia; uscite dalla Mancia,
v'inoltrate nella florida pianura d'Almansa, svariata d'ogni maniera di
coltivazioni, che presenta l'aspetto d'un vastissimo tappeto a
scacchiere dipinto di tutte le sfumature di verde che possano uscire
dalla tavolozza d'un paesista. E finalmente di là dalla pianura
d'Almansa, s'apre un'oasi deliziosa, una terra benedetta da Dio, un vero
paradiso terrestre, il regno di Valenza; dai confini del quale fino alla
città, si trascorre in mezzo ai giardini, ai vigneti, a folte macchie
d'aranci, a villette bianche coronate di terrazze, a villaggi allegri
dipinti di vivi colori, a gruppi, a filari, a boschetti di palme, di
melagrani, di aloè, a canneti di zucchero, a sterminate siepi di fichi
d'India, a lunghe catene di collinette e di poggi di forma conica,
coltivati a orticelli, a giardinetti, ad aiuoline, scaccheggiati
minutamente di cima in fondo e variopinti come grandi mazzi di erbe e di
fiori; e per tutto una vegetazione ardente, che colma ogni vuoto, che
soverchia ogni altezza, che veste ogni sporgenza, che s'alza, che
spenzola, che striscia, che si pigia, s'ammucchia, s'intralcia, vi
impedisce la vista, vi chiude la strada, vi abbarbaglia di verde, vi
stanca di bellezza, vi confonde coi suoi capricci e le sue follie, e vi
fa l'effetto come d'una figliazione improvvisa della terra accesa d'una
febbre voluttuosa dal fuoco d'un vulcano segreto.
* * * * *
Il primo edifizio che dà nell'occhio entrando in Valenza, è un immenso
Circo di tori, situato a destra della strada ferrata, formato da quattro
ordini sovrapposti di archi sorretti da robusti pilastri, tutto di
mattoni, arieggiante, alla lontana, il Colosseo. È il Circo dei tori,
dove il quattro settembre del 1871 il re Amedeo al cospetto di
diciassette mila persone strinse la mano al celebre _torero_
soprannominato il Tato, monco d'una gamba, che, essendo direttore dello
spettacolo, aveva chiesto il permesso d'andargli a presentare i suoi
omaggi nel palco. Valenza è tutta piena di ricordi del duca d'Aosta. Il
sacrestano della cattedrale possiede un cronometro d'oro, colle sue
iniziali in diamanti, e una catena imperlata, regalatagli da lui quando
andò a pregare nella capella di _Nuestra Señora de los Desamparados_.
Nell'Ospizio di questo nome i poveri si ricordano d'aver un giorno
ricevuto dalla mano sua il loro pane quotidiano. Nell'opificio di
musaici di un tal Nolla si conservan due mattoni, sull'uno dei quali
egli incise di suo pugno il proprio nome, e sull'altro il nome della
regina. Nella piazza di Tetuan il popolo addita la casa del conte di
Cervellon, nella quale ei fu ospitato; che è la casa medesima dove
Ferdinando VII firmò nel 1814 i decreti che annullavano la Costituzione,
dove abdicò la regina Cristina nel 1840, dove passò alcuni giorni la
regina Isabella nell'anno 1858. Infine, non v'è angolo della città nel
quale non si possa dire: qui strinse la mano a un popolano; qui visitò
un opificio, qui passò a piedi, lontano dal suo seguito, circondato da
una folla, fiducioso, sereno, sorridente.
E fu appunto Valenza, poichè sono a parlare del duca d'Aosta, fu Valenza
la città nella quale una bambina di cinque anni, recitandogli dei versi,
toccò quel terribile argomento del _Rey extranjero_ colle più nobili e
più sensate parole che si sian forse pronunziate in Spagna da parecchi
anni a questa volta; parole che se tutta la Spagna avesse raccolte e
meditate, forse ella si sarebbe risparmiate molte delle calamità che
l'hanno colpita e che l'aspettano; parole che forse, un giorno, qualche
spagnuolo rammenterà sospirando, e che già fin d'ora traggono dagli
avvenimenti una luce meravigliosa di verità e di bellezza. E poichè i
versi son gentili e facili, io li trascrivo. La poesia è intitolata _Dio
e il Re_, e dice così:
«Dios, en todo soberano,
Creò un dia á los mortales,
Y á todos nos hizo[7] iguales
Con su poderosa mano.
No reconoció Naciones
Ni colores ni matices[8]
Y en ver los hombres felices
Cifró sus aspiraciones.
El Rey, che su imágen es,
Su bondad debe imitar
Y el pueblo no ha de indagar
Si es aleman ó francés.
¿Porqué con ceño[9] iracundo
Rechazarle[10] siendo bueno?
Un Rey de bondades lleno[11]
Tiene por su patria el mundo.
[12]Vino de nacion estraña
Cárlos Quinto emperador,
Y conquistó su valor
Mil laureles para España.
Y es un recuerdo glorioso
Aunque en guerra cimentado,
El venturoso reinado
De Felipe el Animoso.
Hoy el tercero sois Vos
Nacido en estraño suelo
Que viene á ver nuestro cielo
Puro destello de Dios.
Al rayo de nuestro sol
Sed bueno, justo y leal,
Que á un Rey bueno y liberal
Adora el pueblo español.
Y á vuestra frente el trofeo
Ceñid[13] de perpetua gloria,
Para que diga la historia
--Fué grande el Rey Amadeo.--»
Oh povera ragazzina, quante cose saggie hai detto tu, e quante cose
insensate hanno fatto gli altri!
* * * * *
La città di Valenza, se vi s'entra ripensando alle ballate dei poeti che
ne cantarono le meraviglie, non pare che risponda alla bella immagine
che ce n'eravamo formata nella mente; e d'altra parte non offre
quell'aspetto sinistro al quale ci si prepara, se si bada alla sua
giusta fama di città turbolenta, battagliera, fomentatrice di guerre
civili e piuttosto vaga dell'odor della polvere che della fragranza dei
suoi boschetti d'aranci. È una città costrutta sur una vasta e florida
pianura, sulla riva destra del Guadalaviar, che la separa dai suoi
sobborghi, un po' lontana dalla rada che le serve di porto, tutta
strade tortuose, fiancheggiate da case alte, sgraziate e multicolori, e
però di men gradevole aspetto che le strade delle città andaluse, e
prive affatto di quella vaga aria orientale che muove così caramente la
fantasia. Sulla riva sinistra del fiume si stende uno stupendo passeggio
formato da maestosi viali e da bei giardini, al quale si giunge uscendo
dalla città per la porta del Cid, fiancheggiata da due grosse torri
merlate, chiamata col nome dell'eroe perchè per essa egli passò nel 1094
dopo avere scacciato i Mori da Valenza. La cattedrale, costrutta in uno
spazio dove sorse un tempio a Diana al tempo dei Romani, poi una chiesa
a San Salvatore al tempo dei Goti, poi una moschea al tempo degli Arabi,
convertita daccapo in chiesa dal Cid, mutata una seconda volta in
moschea dagli Arabi nel 1101, e per una terza volta in chiesa dal re Don
Iaime dopo la cacciata definitiva degli invasori, è un vasto edifizio,
straricco di ornamenti e di tesori; ma che non può reggere il confronto
colla maggior parte delle altre cattedrali spagnuole. V'hanno parecchi
palazzi degni di esser visti, come il palazzo dell'_Audiencia_, che è un
bel monumento del decimosesto secolo, nel quale si radunavano le Cortes
del regno di Valenza; la _casa de ayuntamiento_, costrutta tra il secolo
XV e il XVI, nella quale si conserva la spada di Don Iaime, le chiavi
della città e la bandiera dei Mori; e sopra tutti la _Lonja_, la Borsa
dei negozianti, per la sua celebre sala formata da tre grandi navate
divise da ventiquattro colonne torte sulle quali s'incurvano con uno
slancio ardito gli archi leggieri delle vôlte, e l'occhio riceve da
quell'architettura una gradevole impressione di gaiezza e d'armonia. E
infine v'è un museo di pittura che non è tra gli ultimi di Spagna.
Ma a dire il vero in quei pochi giorni ch'io rimasi a Valenza aspettando
un bastimento, ebbi più il capo alla politica che all'arte. Ed
esperimentai la verità delle parole che prima di partir dall'Italia
avevo inteso dire da un illustre italiano, il quale conosce la Spagna
come casa sua: «Lo straniero che vive, anche per breve tempo, in
Ispagna, è condotto a poco a poco, senza quasi ch'ei se n'accorga, a
scaldarsi il sangue e a beccarsi il cervello sulla politica, come se la
Spagna fosse il suo paese, o le sorti del suo paese pendessero dalle
sorti della Spagna. Le passioni son tanto ardenti, la lotta è così
accanita, e in questa lotta è sempre così apertamente in giuoco
l'avvenire, la salute, la vita della nazione, che non è possibile, a chi
nulla nulla sia latino d'immaginazione e di fibra, il rimaner spettatore
indifferente. Bisogna agitarsi, parlar nei crocchi, pigliar sul serio le
elezioni, imbrancarsi nella folla che fa le dimostrazioni politiche,
rompersi con qualche amico, formarsi una società di gente che la pensi
come noi, e farsi, in una parola, spagnuolo fino al bianco dell'occhio.
E via via che si diventa spagnuoli, si scorda l'Europa, come se fosse
agli Antipodi, e si finisce col non veder più che la Spagna, come se la
governassimo noi, e tutti i suoi interessi fossero nelle nostre mani.»
Così è, e così m'avvenne. In quei pochi giorni era naufragato il
Ministero conservatore, e i radicali avevano il vento in poppa; la
Spagna era tutta in ribollimento; cadevano governatori, generali,
impiegati di tutti i gradi e di tutte le amministrazioni; una folla di
gente nuova irrompeva negli uffizi dei ministeri gettando grida
d'allegrezza; lo Zorilla doveva inaugurare un'èra nuova di prosperità e
di pace; Don Amedeo aveva avuto un'ispirazione dal cielo; la libertà
aveva vinto; la Spagna era salva. Anch'io, sentendo suonar la banda
dinanzi alla casa del nuovo governatore, sotto un bel cielo stellato, in
mezzo al popolo allegro, ebbi un barlume di speranza che il trono di Don
Amedeo potesse finalmente allargar le radici, e mi rammaricai d'essere
stato troppo facile a pronosticar male. E quella commedia che
rappresentava lo Zorilla nella sua villa quando non voleva a nessun
costo accettare la presidenza del Ministero, e rimandava indietro amici
e deputazioni, e finalmente, spossato dal continuo dir di no, cadeva in
deliquio dicendo di sì, mi dava, allora, un alto concetto della fermezza
del suo carattere, e mi induceva a bene augurare del nuovo Governo. E
dicevo tra me ch'era un peccato partir dalla Spagna allora che
l'orizzonte si faceva azzurro e il palazzo reale di Madrid si tingeva di
color di rosa. E già ventilavo il disegno di tornare a Madrid per
goderci la soddisfazione di poter mandare in Italia delle notizie
consolanti, le quali m'avrebbero fatto perdonare l'imprudenza che avevo
avuto fino allora di non dire delle bugie. E ripetevo i versi del Prati:
«Oh qual destin t'aspetta
Aquila giovinetta!»
e salvo un po' di gonfiezza negli appellativi, mi pareva che
racchiudessero una profezia, e immaginavo di vedere il poeta in piazza
Colonna, a Roma, e di corrergli incontro per dargli il mi rallegro e
serrargli la mano....
* * * * *
La più bella cosa a vedersi in Valenza è il mercato. I contadini
valenzani sono di tutta la Spagna i più artisticamente e bizzarramente
vestiti. Per fare una bella figura in mezzo alle maschere dei nostri
veglioni, non avrebbero che da entrare in teatro tal quale si trovano i
giorni di festa e di mercato per le strade di Valenza e per le vie della
campagna. Al vedere i primi così vestiti, vien da ridere, e non si può
credere in nessuna maniera che sian contadini spagnuoli. Hanno non so
che aria di greci, di beduini, di giuocatori di pallone, di danzatori di
corda, di donne mezzo spogliate per andare a letto, di comparse da
tragedia non finite di vestire, di gente faceta che voglia far ridere a
spese sue. Hanno una camicia bianca ed ampia che tien luogo di
giacchetta, un panciottino di velluto di vario colore aperto sul petto,
un par di calzoni di tela, della forma di quei degli zuavi, che non