Spagna - 24
sommo del monte, dove sorge un'altissima loggia che chiude il recinto
del Generalife. I viali dei giardini, le larghe scale che conducon
dall'uno all'altro, e le aiuole piene di fiori, sono fiancheggiate da
alte spalliere, sormontate da archi e divise da capanni di mirti curvati
e intrecciati con graziosi disegni; e ad ogni ripiano sorgon casine
bianche, ombreggiate da pergolati, e da gruppi d'aranci e di cipressi
disposti con pittoresca simmetria. L'acqua vi è profusa ancora come ai
tempi degli arabi e dà al luogo una grazia, una freschezza e una vita
da non potersi descrivere. Da ogni parte si sente mormorio di ruscelli e
di fontane; si svolta da un viale, s'incontra uno zampillo; ci si
affaccia a una finestra, si vede uno schizzo che giunge fino al
davanzale; si entra in mezzo a un gruppo d'alberi, e si riceve nel viso
gli spruzzi d'una cascatella; dovunque ci si volga, c'è acqua che salta,
o che scorre, o che piove, gorgogliando e luccicando tra l'erbe e i
cespugli. Dall'alto della loggia scende la vista sopra tutti quei
giardini che van giù a chine, a salti, a scaglioni; si sprofonda
nell'abisso di vegetazione che separa i due monti, abbraccia tutta la
cinta dell'Alhambra, colle cupole dei suoi tempietti, colle torri
lontane, coi sentieri che serpeggiano fra le sue rovine; si stende sulla
città di Granata, sulla pianura, sui colli, e scorre con uno sguardo
solo tutte le cime della Sierra Nevada, che paion tanto vicine da
poterci arrivare in un'ora. E mentre contemplate questo spettacolo, vi
accarezza l'orecchio il mormorio di cento zampilli e il suono fievole
delle campane della città, che vien su a ondate, or sì or no, insieme a
un odor misterioso di paradiso terrestre, che dà dei fremiti di voluttà
da far impallidire.
Di là dal Generalife, sulla sommità d'un monte più alto, ora nudo e
squallido, sorgevano ai tempi degli Arabi altri palazzi reali e si
stendevano altri giardini, congiunti fra loro da grandi viali
fiancheggiati da mirti. Ora tutte quelle meraviglie d'architettura,
coronate di boschi, di fontane e di fiori, quelle fatate reggie aeree,
quei nidi splendidi e odorosi d'amore e di delizia, sono scomparsi, e
appena qualche mucchio di macerie o qualche breve tratto di muro
«Ne fa fede e ricordo al passeggiero.»
Ma quelle rovine che desterebbero altrove un sentimento di malinconia,
non lo destano dinanzi allo spettacolo di quella bellissima natura, al
cui incanto non pare che abbian mai potuto aggiungere nulla le più
meravigliose opere dell'uomo.
* * * * *
Rientrando in città, mi fermai a una estremità della _Carrera del
Darro_, dinanzi a una casa riccamente adornata di bassorilievi che
rappresentano scudi araldici, armature, cherubini e leoni, con un
piccolo terrazzino sull'angolo, sopra 'l quale, parte sur un muro, parte
sull'altro, lessi la seguente misteriosa iscrizione, in grandi caratteri
di stampa:
ESPERANDO LA DEL CIELO,
che significa, tradotto letteralmente:--_Aspettando quella del
cielo._--Curioso di sapere il senso riposto di quelle parole, le notai
per interrogarne il dotto padre del mio amico, il quale me ne diede due
spiegazioni, l'una pressochè sicura, ma poco romantica; l'altra
romantica, ma molto dubbiosa. La quale è questa. La casa apparteneva a
Don Fernando di Zafra, segretario dei Re Cattolici, che aveva una
bellissima figliuola. Un giovine idalgo, di famiglia nemica o inferiore
di nobiltà alla famiglia dei Zafra, s'innamorò della figliuola, ne fu
amato, la chiese in sposa, non l'ebbe. Il rifiuto del padre aggiunse
esca al fuoco amoroso dei due giovani, le finestre della casa son basse,
l'innamorato, una notte, riuscì a dar la scalata, e a entrar nella
stanza della fanciulla. O abbia rovesciato una seggiola entrando, o
abbia tossito, o abbia gettato un leggero grido di gioia al veder la sua
bella amante colle chiome sciolte e le braccia aperte, la tradizione non
lo dice, e nessuno lo sa; ma è certo che Don Fernando di Zafra, inteso
rumore, accorse, vide, e cieco di furore si slanciò sul malcapitato
giovane per metterlo a morte. Ma il giovane riuscì a fuggire; Don
Fernando, inseguendolo, s'abbattè in uno dei propri paggi fautore di
quegli amori, che aveva aiutato l'idalgo a entrar nella casa; lo
scambiò, in su quel subito, per il seduttore; e senza udir spiegazioni e
preghiere, lo fece afferrare e impiccare al terrazzino della casa. La
tradizione narra che mentre la povera vittima gridava:--Pietà!
Pietà!--l'offeso padre gli rispose accennandogli il terrazzino:--Là
starai _esperando la del cielo_! (aspettando quella del
cielo);--risposta ch'egli fece poi incidere sur una pietra del muro, a
perpetuo spavento dei seduttori e dei mezzani.
* * * * *
Consacrai il resto della giornata alle chiese e ai conventi.
La cattedrale di Granata merita, anche meglio di quella di Malaga, che
pure è bella e magnifica, di essere descritta parte per parte; ma basta
oramai di descrizioni di chiese. Fu fondata nel 1529 dai re cattolici,
sulle rovine della principal moschea della città; ma rimase incompiuta.
Ha una grande facciata con tre porte, ornata di statue e di
bassorilievi; ed è formata da cinque navate, divise da venti smisurati
pilastri composti d'un fascio di sottili colonne. Le cappelle
racchiudono quadri del Boccanegra, sculture del Torrigiani, tombe ed
ornamenti preziosi. È mirabile sopra tutte la cappella maggiore,
sorretta da venti colonne corintie, divise in due ordini, sul primo dei
quali si alzano le statue colossali dei dodici apostoli, e sul secondo
un cornicione coperto di ghirlande e di teste di cherubini. Di sopra
ricorre un giro di leggiadre finestre a vetri coloriti che rappresentano
la Passione, e dal fregio che le corona si slanciano in alto dieci archi
arditi che forman la vòlta della cappella. Negli archi che sorreggon le
colonne si ammirano sei grandi dipinti di Alonso Cano, che hanno fama di
essere l'opera sua più completa e più bella.
E poichè ho nominato Alonso Cano, nativo di Granata, uno dei più valenti
pittori spagnuoli del secolo decimosettimo, che sebbene discepolo della
scuola sivigliana piuttosto che fondatore, come altri vorrebbe, d'una
scuola sua, non è meno originale dei suoi più grandi contemporanei;
voglio metter qui alcuni tratti della sua indole e della sua vita, poco
conosciuti fuori di Spagna, ma singolarmente notevoli. Alonso Cano fu il
più accattabrighe, il più iroso, il più violento dei pittori spagnuoli.
Passò la vita litigando. Era ecclesiastico. Dal 1652 al 1658, per sei
anni consecutivi, senza un giorno d'interruzione, litigò coi canonici
della cattedrale di Granata, della quale egli era ragioniere, perchè non
voleva, giusta i patti stipulati, diventare suddiacono. Prima di partire
da Granata, spezzò colle sue mani una statua di sant'Antonio da Padova,
che aveva fatto egli stesso d'incarico d'un auditore della Cancelleria,
perchè costui si permise di osservargli che il prezzo che gliene
domandava gli pareva un po' caro. Nominato maestro di disegno del
principe reale, che, a quanto pare, non era nato col bernoccolo della
pittura, lo aspreggiò in tal maniera, che lo costrinse a ricorrere al Re
per esser levato dalle sue mani. Rimandato, per una grazia speciale, a
Granata, presso il Capitolo della cattedrale, serbò così profondo il
rancore degli antichi suoi litigi con quei canonici, che in vita sua non
volle più dare una pennellata per loro. Ma questo è poco. Nutriva un
cieco, bestiale, inestinguibile odio contro gli ebrei, e s'era ficcato
in capo che il toccare in qualunque modo un ebreo o un qualsiasi oggetto
stato toccato da lui, gli dovesse recare sventura. Con questa fissazione
fece le più strampalate stravaganze del mondo. Se passando per la strada
urtava in un ebreo, si levava issofatto il vestito infetto, e tornava a
casa in maniche di camicia. Se per caso riusciva a scoprire che, lui
assente, un servitore aveva ricevuto un ebreo in casa sua, cacciava il
servitore, buttava via le scarpe colle quali aveva premuto l'impiantito
profanato dal circonciso, faceva disfare e rifare, qualche volta,
persino l'impiantito. E trovò modo di litigare anche morendo. Essendo
ridotto in fin di vita, e presentandogli il confessore un crocifissaccio
fatto coll'accétta perchè lo baciasse, egli lo spinse in là colla mano,
e disse:--_Padre, datemi una croce nuda, perchè io possa venerare Gesù
Cristo come egli è in sè e come io lo contemplo nella mia mente._--Con
tutto ciò, aveva un cuore eletto, caritatevole, abborriva da ogni
volgare azione, ed amava di profondo e purissimo amore l'arte in che si
rese immortale.
Tornando alla chiesa, quando ebbi fatto il giro di tutte le cappelle e
mi disponevo ad uscire, mi colse il sospetto che qualcosa mi rimanesse
ancora a vedere. Non avevo letto la _Guida_ e nessuno m'aveva detto
nulla; ma io mi sentivo dentro una voce che mi diceva:--Cerca!--e
cercavo infatti cogli occhi da tutte le parti senza saper che cercassi.
Un cicerone mi osservò, mi si avvicinò, come fanno tutti, di sbieco,
come un assassino, e mi domandò con aria di mistero: "_Quiere Usted
algo?_" (Vuol qualche cosa?)
"Vorrei," risposi, "che mi diceste se c'è altro da vedere in questa
cattedrale, oltre a quello che si vede di qui!"
"_Cómo!_" esclamò il cicerone, "_todavia no ha visto Usted la capilla
real?_"
"Che c'è nella cappella reale?"
"_Que hay? Caramba! Nada ménos que los sepulcros de Ferdinando é Isabel
la Católica!_"
Volevo dire! Avevo nella mente il posto preparato per questa idea, e
l'idea non c'era! I re cattolici dovevano ben essere sepolti a Granata,
dove combatterono l'ultima gran guerra cavalleresca del medio evo, e
dove diedero a Cristoforo Colombo l'incarico di armare le navi che lo
condussero al nuovo mondo! Corsi, più che non andai, alla Cappella
reale, preceduto dal cicerone zoppicante; un vecchio sacrestano ci
aperse la porta della sacristia, e prima di lasciarmi entrare a veder le
tombe, mi condusse davanti a una specie d'armadio a vetri, ripieno di
oggetti preziosi, e mi disse:
"Lei saprà che Isabella la Cattolica per fornire a Cristoforo Colombo il
denaro che gli occorreva ad armare le navi per il suo viaggio, non
sapendo dove trovarne, perchè le casse dello Stato eran vuote, mise in
pegno le sue gioie."
"Sì; ebbene?" domandai con impeto, e prevedendo la risposta, mi sentivo
battere il cuore.
"Ebbene," rispose il sacrestano; "la scatola nella quale la Regina
chiuse le sue gioie per farle impegnare, è questa."
E così dicendo aperse l'armadio, prese la scatola e me la porse.
Oh! dicano un po' quello che vogliono gli uomini forti; per me, quelle
son cose che mi fanno tremare e piangere! Ho toccata la scatola che
contenne i tesori pei quali Colombo potè scoprire l'America! Ogni volta
che ripeto queste parole, il sangue mi si rimescola! E soggiungo:--L'ho
toccata con queste mani,--e mi guardo le mani.
Quell'armadio contiene ancora la spada di re Ferdinando, la corona e lo
scettro d'Isabella, un messale e parecchi altri ornamenti del re e della
regina.
Entrammo nella Cappella, fra l'altare e una gran cancellata di ferro che
lo separa dallo spazio rimanente, davanti a due grandi mausolei
marmorei, ornati di statuette e di bassorilievi di gran pregio, sull'un
dei quali sono stese le statue di Ferdinando e d'Isabella, vestiti dei
loro abiti reali, colla corona, la spada e lo scettro; sull'altro, le
statue di altri due principi di Spagna; e intorno alle statue, leoni,
angeli, stemmi, ed ornamenti svariati, che presentano un aspetto
regalmente austero e magnifico.
Il sacrestano accese una fiaccola e accennandomi una specie di botola,
situata in dirittura della corsia che separa i due mausolei, mi pregò di
alzare il coperchio per scendere nel sotterraneo. Il cicerone m'aiutò,
scoprimmo la botola, il sacrestano scese, e io gli tenni dietro giù per
una scaletta angusta fino a una piccola stanza sotterranea, nella quale
eran cinque casse di piombo, cerchiate di ferro, ciascuna segnata di due
iniziali sormontate da una corona. Il sacrestano abbassò la fiaccola, e
toccandole con una mano, l'una dopo l'altra, tutte e cinque, mi disse
con voce lenta e solenne:
"Qui riposa la gran regina Isabella la Cattolica."
"Qui riposa il gran re Ferdinando V."
"Qui riposa il re Filippo I."
"Qui riposa la regina Giovanna la pazza."
"Qui riposa donna Maria, sua figliuola, morta nell'età di nove anni."
"Dio li abbia tutti nella sua santa pace!"
E piantato la fiaccola in terra, incrociò le braccia e chiuse gli occhi,
come per darmi agio di fare le mie meditazioni.
* * * * *
Ci sarebbe da aggobbire a tavolino, chi volesse descrivere tutti i
monumenti religiosi di Granata: la stupenda Certosa, il Monte-Sacro che
racchiude le grotte dei martiri, la chiesa di San Geronimo dove è
sepolto il gran capitano Consalvo di Cordova, il convento di Santo
Domingo fondato dall'Inquisitore Torquemada, quello dell'Angelo che
contiene pitture del Cano e del Murillo, ed altri molti; ma io suppongo
che chi legge sia già assai più stanco di me, e però gli faccio grazia
di un monte di descrizioni che probabilmente non gli darebbero che una
idea assai confusa delle cose.
Ma poichè ho nominato il sepolcro del gran capitano Consalvo di Cordova,
non posso trattenermi dal tradurre un curioso documento che a lui si
riferisce, e che mi fu dato appunto nella chiesa di San Geronimo da un
sacrestano ammiratore delle gesta di quell'eroe.
Il documento è redatto a modo di aneddoto nei termini seguenti.
«Ogni passo del gran Capitano, Don Gonzalo di Cordova, fu un assalto, ed
ogni assalto una vittoria; il suo sepolcro nel convento dei Geronimi di
Granata, fu adornato di dugento bandiere conquistate da lui. I suoi
emuli invidiosi, ed in particolar modo i Tesorieri nel regno di Napoli,
nel 1506, indussero il Re a chieder conto a Gonzalo dell'uso che aveva
fatto delle grandi somme ricevute dalla Spagna per le spese della guerra
in Italia; e in fatti il Re fu tanto piccino da acconsentire ed anco
assistere all'atto della _conferencia_.
Gonzalo accolse quella domanda con altissimo disprezzo, e si propose di
dare una severa lezione ai Tesorieri ed al Re, intorno al modo di
trattare e considerare un conquistatore di Regni.
Rispose con grande indifferenza e serenità che avrebbe preparato i conti
per il giorno seguente, e fatto vedere chi dei due fosse il debitore, se
lui o il fisco: il quale reclamava centotrenta mila ducati rimessigli
per prima rata; ottanta mila scudi per la seconda, tre milioni per la
terza, undici milioni per la quarta, tredici per la quinta; e così
seguitava a riferire il grave, _gangoso_ (dalla voce nasale) e scimunito
segretario che autorizzava un atto così importante.
Il gran Gonzalo mantenne la sua parola; si presentò alla seconda
udienza, e tirato fuori il voluminoso libro nel quale aveva notate le
sue giustificazioni, cominciò a leggere a voce alta e sonora le seguenti
parole:
«Ducento mila settecento trentasei ducati e nove reali ai frati, alle
monache e ai poveri, affinchè pregassero Dio per il trionfo delle armi
spagnuole.
Cento milioni in pale, zappe e picconi.
Cento mila ducati in polvere e palle.
Dieci mila ducati in guanti profumati per preservare i soldati dal puzzo
dei cadaveri dei nemici stesi sul campo di battaglia.
Centosettanta mila ducati per rifare campane distrutte dal continuo
sonare per sempre nuove vittorie riportate sopra i nemici.
Cinquanta mila ducati in acquavite per i soldati in una giornata di
battaglia.
Un milione e mezzo di ducati per mantenere prigionieri e feriti.
Un milione in messe di grazia e _Te Deum_ all'Onnipossente.
Trecento milioni di suffragi pei morti.
Settecento mila quattrocento novantaquattro ducati in spie e.....
Cento milioni per la pazienza che ho mostrato ieri all'udire che il Re
domandava dei conti a chi gli ha regalato un Regno.
Questi sono i celebri conti del grande Capitano, i cui originali stanno
nelle mani del Conte di Altimira.
Uno dei conti originali con la firma autografa del gran Capitano esiste
nel Museo militare di Londra, dove con gran cura vien custodito.»
* * * * *
Letto questo documento, tornai all'albergo facendo tra Consalvo di
Cordova e i generali spagnuoli dei nostri tempi dei maligni raffronti,
che alta ragion di stato, come si dice nelle tragedie, mi vieta di
riferire.
In quell'albergo ne vedevo ogni giorno una nuova. V'eran molti studenti
d'università venuti da Malaga e da altre città dell'Andalusia per dar
l'esame di laurea a Granata, non so se perchè qui fossero di manica più
larga, o per che altra ragione. Desinavan tutti alla tavola rotonda. Una
mattina, a colezione, uno d'essi, un giovanetto di poco più di
vent'anni, annunziò che alle due dopo mezzogiorno doveva dar l'esame di
diritto canonico, e che non essendo molto sicuro del fatto suo, aveva
deciso di bere un bicchier di vino, per rinfrescarsi le sorgenti
dell'eloquenza. Non uso a bere che vino annacquato, commise l'imprudenza
di vuotare d'un sol fiato un bicchiere di vino di Jerez. Il suo viso si
alterò all'istante in così strana maniera, che se non avessi visto il
cangiamento coi miei occhi, avrei creduto che non fosse più il viso di
prima.
--Ora basta!--gli gridaron gli amici.
Ma il giovane, che si sentiva diventato tutt'a un tratto forte, ardente
e temerario, lanciò ai compagni uno sguardo compassionevole, e ordinò
con un atto maestoso al cameriere di versargli un altro bicchiere.
--Ti ubriacherai!--gli dissero.
Per tutta risposta, egli mandò giù il secondo bicchiere.
Allora gli prese una parlantina meravigliosa. A tavola v'era una ventina
di persone, in pochi minuti attaccò discorso con tutti, e fece mille
rivelazioni sulla sua vita passata e sui suoi disegni per l'avvenire.
Disse che era di Cadice, che aveva ottomila lire di rendita all'anno, e
voleva darsi alla carriera diplomatica, perchè con quella rendita,
aggiuntovi qualcosa che gli avrebbe lasciato un suo zio, poteva fare una
buona figura dove si sia; che aveva stabilito di pigliar moglie a
trent'anni, e di sposare una donna alta come lui, perchè, a suo avviso,
la moglie doveva avere la stessa statura del marito, per evitare che
l'uno o l'altro pigliasse il di su; che quando era ragazzo s'era
innamorato della figliuola d'un console americano, bella come un fiore e
soda come una pina, ma con una voglia rossa dietro un orecchio, che
stava molto male, benchè essa la sapesse coprire assai bene colla
mantiglia, e faceva veder colla salvietta in che modo la copriva; e che
Don Amedeo era un uomo troppo ingenuo per poter riuscire a governar la
Spagna; e che fra il poeta Zorilla e il poeta Espronceda, egli avea
sempre preferito l'Espronceda; e che ceder Cuba all'America era una
corbelleria, e che dell'esame di diritto canonico egli se ne rideva, e
che voleva bere altre quattro dita di vino di Jerez, che era il primo
vino d'Europa.
Bevve il terzo bicchiere, malgrado i buoni consigli e le disapprovazioni
degli amici, e dopo aver cicalato un altro po' in mezzo alle risa
dell'uditorio, all'improvviso tacque, guardò fisso fisso una signora che
aveva dirimpetto, abbassò la testa e s'addormentò. Io credetti che per
quel giorno non si sarebbe presentato all'esame; ma m'ingannai.
Un'oretta dopo lo svegliarono, andò su a lavarsi il viso, corse
all'Università ancora tutto assonnato, diede l'esame, e fu promosso a
maggior gloria del vino di Jerez e della diplomazia spagnuola.
* * * * *
I giorni seguenti gl'impiegai a vedere i monumenti, o per dir meglio, le
rovine dei monumenti arabi che, oltre all'Alhambra e al Generalife,
attestano l'antico splendore di Granata. Poichè fu l'ultimo baluardo
dell'Islam, Granata è fra le città di Spagna quella che ne serbò più
numerosi ricordi. Sulla collina che si chiama di _Dinadamar_ (fonte
delle lagrime), si vedono ancora le rovine di quattro torri, che
s'innalzavano ai quattro angoli d'una grande cisterna, nella quale
affluivano dalla Sierra le acque che servivano agli usi della parte più
alta della città. Là eran bagni, giardini e ville, delle quali non
rimane più traccia, e di là si abbracciava con un colpo d'occhio la
città coi suoi minareti, colle sue terrazze, colle sue moschee
biancheggianti in mezzo alle palme e ai cipressi. Là presso si vede
ancora una porta araba, chiamata porta d'Elvira, formata da un grande
arco coronato di merli. Più oltre rovine di palazzi di Califfi. Presso
il passeggio l'_Alameda_, una torre quadrata, con entro una gran sala
ornata di quelle solite iscrizioni arabe. Presso il Convento di San
Domingo, resti di giardini e di palazzi che erano una volta congiunti
all'Alhambra per mezzo d'una via sotterranea. Dentro la città,
l'Alcaiceria, mercato arabo quasi intatto, formato di parecchie
stradine diritte e strette come corridoi, fiancheggiate da due file di
botteghe l'una unita all'altra, che presentano uno strano aspetto di
bazar asiatico. Infine, non si può far un passo per Granata, che non
s'incontri un arco, un arabesco, una colonna, un mucchio di pietre che
rammenta il suo fantastico passato di Sultana.
Quanti giri e rigiri non feci per quelle strade tortuose, nelle ore più
calde della giornata, sotto un sole che mi scottava il cervello, senza
incontrare anima nata! Anche a Granata, come nelle altre città
d'Andalusia, la gente non si fa viva che la notte; e la notte si rifà
della prigionia del dì, affollandosi e rimescolandosi sui passeggi
pubblici colla fretta e la furia d'una moltitudine, una metà della quale
cercasse l'altra metà per affari urgenti. La folla più fitta è
all'Alameda; e però passai all'Alameda le mie serate, col Gongora che mi
parlava di monumenti arabi, con un giornalista che mi parlava di
politica, con un altro giovanotto che mi parlava di donne, non di rado
tutti e tre insieme, con mio piacere infinito, perchè quella gazzarra da
scolaretti, a tempo e luogo, mi rinfresca l'anima, come fa all'erba (per
rubare una bella similitudine) quella pioggerella estiva che cade con
affrettato moto come di trepida gioia.
Se avessi da dire qualcosa del popolo di Granata, mi troverei impacciato
perchè non l'ho visto. Di giorno, per le strade, non incontravo nessuno;
di notte non ci si vedeva; non v'eran teatri aperti; quando avrei potuto
trovar qualcuno in città, ciondolavo per le sale o per i viali
dell'Alhambra; e poi avevo tanto da fare per veder ogni cosa nello
spazio di tempo che m'ero prefisso, che non mi restavan nemmen dei
ritagli per intavolar conversazione, come feci nelle altre città, in
mezzo alle strade e nei caffè, coi popolani in cui m'imbattevo.
Ma per quanto seppi da chi era in grado di darmi delle notizie sicure,
il popolo di Granata non gode d'una eccellente riputazione in Spagna. Si
dice che è maligno, violento, vendicativo, accoltellatore, il che non è
punto smentito dalle cronache cittadine delle gazzette; e non si dice,
ma si sa che in Granata l'istruzione popolare è anche più bassa che a
Siviglia, e che in altre città spagnuole di minor conto; e che, in
generale, tutte le cose che non posson esser fatte dal sole e dalla
terra, che ne fanno pur tante, vanno alla peggio, o per indolenza, o per
ignoranza, o per confusione. Granata non è congiunta dalla strada
ferrata a nessuna città importante, vive sola, in mezzo ai suoi
giardini, dentro la cerchia delle sue montagne, lieta dei frutti che la
terra le produce sotto la mano, cullandosi mollemente nella vanità della
sua bellezza e nell'orgoglio della sua storia, oziando, sonnecchiando,
fantasticando, e contentandosi di rispondere, con uno sbadiglio, a chi
le rimprovera il suo stato:--Io diedi alla Spagna il pittore Alonso
Cano, il poeta Luigi di Leon, lo storico Ferdinando del Castillo,
l'orator sacro Luigi di Granata, il ministro Martinez della Rosa; ho
pagato il mio debito; lasciatemi in pace;--che è la risposta che fan
quasi tutte le città meridionali della Spagna, troppo più belle, ahimè!
che saggie e operose; e troppo più altere che civili. Ah! chi le ha
vedute, non può mai stancarsi di esclamare:--Peccato!
* * * * *
--Ora che ha visto tutte le meraviglie dell'arte araba e della
vegetazione tropicale, le resta a vedere, perchè possa dire di conoscer
Granata, il borgo dell'Albaicin. Prepari l'animo a un mondo nuovo, metta
la mano sul portamonete e mi segua.--
Così mi disse il Gongora l'ultima sera del mio soggiorno a Granata. Era
con noi un giornalista repubblicano, di nome Melchiorre Almago,
direttore dell'_Idea_, un giovanotto simpatico e gentile, che per
accompagnarci sacrificò il desinare e un articolo di fondo che andava
ruminando fin dalla mattina. Ci mettemmo in cammino, arrivammo fino alla
piazza dell'_Audiencia_. Là il Gongora mi accennò una viuzza tortuosa
che va su per un colle, e mi disse:--Qui comincia l'_Albaicin_;--e il
signor Melchiorre toccando una casa col bastone, soggiunse:--Qui
comincia il territorio della repubblica.--
Infilammo la viuzza, passammo da quella in un'altra, da questa in una
terza, sempre salendo, senza ch'io vedessi nulla di straordinario, per
quanto guardassi curiosamente da tutte le parti. Strade strette, case
meschine, vecchie addormentate sugli scalini delle porte, mamme che
spidocchian bambini, cani che sbadigliano, galli che cantano e ragazzi
cenciosi che corrono e schiamazzano, e altre cose che si vedono in
tutti i sobborghi; in quelle strade non c'era nulla di più. Sennonchè,
via via che salivamo, l'aspetto delle case e della gente s'andava
mutando: i tetti più bassi, le finestre più rade, le porte più piccine,
gli abitanti più cenciosi. Nel mezzo d'ogni strada correva un rigagnolo
dentro un letto in muratura all'uso arabo; qua e là, sopra le porte e
intorno alle finestre, si vedevano resti di arabeschi e frammenti di
colonnine; negli angoli delle piazze, fontane e pozzi del tempo della
dominazione dei Mori. Ad ogni centinaio di passi che si faceva, pareva
di tornar addietro di cinquant'anni verso l'età dei Califfi. I miei due
compagni mi toccavano tratto tratto col gomito dicendo:--Guardi quella
vecchia--Guardi quella bambina--Guardi quell'uomo.--Ed io guardavo e
dimandavo:--Che gente è questa?--Se mi fossi trovato là all'improvviso,
avrei creduto, al veder quegli uomini e quelle donne, di essere in un
villaggio dell'Affrica; tanto i visi, il vestire, il modo di muoversi,
di parlare, di guardare,--a così breve distanza dal centro di
Granata,--eran diversi da quelli della gente che avevo vista fino
allora. Ad ogni svoltata, mi fermavo per guardare in volto i miei
compagni, e questi mi dicevano:--Questo non è nulla; qui siamo nella
parte civile dell'Albaicin; questo è il quartiere _parigino_ del
sobborgo; andiamo oltre.
Andammo oltre; le strade parevan letti di torrenti, sentieri scavati
nelle roccie, tutte rialzi, fossi, scoscendimenti, macigni; alcune
ripide da non poterci salire un mulo, altre strette da passarci un uomo
a stento; quali ingombre di donne e di fanciulli seduti in terra; quali
erbose e deserte e tutte d'un aspetto squallido, selvaggio, strano, del
quale non potrebbe fornire neanco un'immagine il più meschino dei nostri
villaggi, perchè quella è una miseria che serba l'impronta d'un'altra
razza e i colori d'un altro continente. Girammo per un labirinto di
strade, passando di tempo in tempo sotto un grande arco arabo o per
un'alta piazzuola dalla quale si abbracciava con uno sguardo la valle
immensa, i monti coperti di neve e una parte della città sottoposta, e
arrivammo alla fine in una strada più sassosa e più angusta di quante
s'eran viste fino allora, nella quale ci arrestammo per pigliar fiato.
--Qui--mi disse il giovane archeologo--comincia il vero Albaicin. Guardi
quella casa!--Guardai; era una casa bassa, affumicata, mezzo rovinata,
con una porta che pareva la finestra d'una cantina, dinanzi alla quale
si vedeva movere sotto un ammasso di cenci, un gruppo, o piuttosto un
mucchio di vecchie e di bambini, che al nostro apparire alzarono gli
del Generalife. I viali dei giardini, le larghe scale che conducon
dall'uno all'altro, e le aiuole piene di fiori, sono fiancheggiate da
alte spalliere, sormontate da archi e divise da capanni di mirti curvati
e intrecciati con graziosi disegni; e ad ogni ripiano sorgon casine
bianche, ombreggiate da pergolati, e da gruppi d'aranci e di cipressi
disposti con pittoresca simmetria. L'acqua vi è profusa ancora come ai
tempi degli arabi e dà al luogo una grazia, una freschezza e una vita
da non potersi descrivere. Da ogni parte si sente mormorio di ruscelli e
di fontane; si svolta da un viale, s'incontra uno zampillo; ci si
affaccia a una finestra, si vede uno schizzo che giunge fino al
davanzale; si entra in mezzo a un gruppo d'alberi, e si riceve nel viso
gli spruzzi d'una cascatella; dovunque ci si volga, c'è acqua che salta,
o che scorre, o che piove, gorgogliando e luccicando tra l'erbe e i
cespugli. Dall'alto della loggia scende la vista sopra tutti quei
giardini che van giù a chine, a salti, a scaglioni; si sprofonda
nell'abisso di vegetazione che separa i due monti, abbraccia tutta la
cinta dell'Alhambra, colle cupole dei suoi tempietti, colle torri
lontane, coi sentieri che serpeggiano fra le sue rovine; si stende sulla
città di Granata, sulla pianura, sui colli, e scorre con uno sguardo
solo tutte le cime della Sierra Nevada, che paion tanto vicine da
poterci arrivare in un'ora. E mentre contemplate questo spettacolo, vi
accarezza l'orecchio il mormorio di cento zampilli e il suono fievole
delle campane della città, che vien su a ondate, or sì or no, insieme a
un odor misterioso di paradiso terrestre, che dà dei fremiti di voluttà
da far impallidire.
Di là dal Generalife, sulla sommità d'un monte più alto, ora nudo e
squallido, sorgevano ai tempi degli Arabi altri palazzi reali e si
stendevano altri giardini, congiunti fra loro da grandi viali
fiancheggiati da mirti. Ora tutte quelle meraviglie d'architettura,
coronate di boschi, di fontane e di fiori, quelle fatate reggie aeree,
quei nidi splendidi e odorosi d'amore e di delizia, sono scomparsi, e
appena qualche mucchio di macerie o qualche breve tratto di muro
«Ne fa fede e ricordo al passeggiero.»
Ma quelle rovine che desterebbero altrove un sentimento di malinconia,
non lo destano dinanzi allo spettacolo di quella bellissima natura, al
cui incanto non pare che abbian mai potuto aggiungere nulla le più
meravigliose opere dell'uomo.
* * * * *
Rientrando in città, mi fermai a una estremità della _Carrera del
Darro_, dinanzi a una casa riccamente adornata di bassorilievi che
rappresentano scudi araldici, armature, cherubini e leoni, con un
piccolo terrazzino sull'angolo, sopra 'l quale, parte sur un muro, parte
sull'altro, lessi la seguente misteriosa iscrizione, in grandi caratteri
di stampa:
ESPERANDO LA DEL CIELO,
che significa, tradotto letteralmente:--_Aspettando quella del
cielo._--Curioso di sapere il senso riposto di quelle parole, le notai
per interrogarne il dotto padre del mio amico, il quale me ne diede due
spiegazioni, l'una pressochè sicura, ma poco romantica; l'altra
romantica, ma molto dubbiosa. La quale è questa. La casa apparteneva a
Don Fernando di Zafra, segretario dei Re Cattolici, che aveva una
bellissima figliuola. Un giovine idalgo, di famiglia nemica o inferiore
di nobiltà alla famiglia dei Zafra, s'innamorò della figliuola, ne fu
amato, la chiese in sposa, non l'ebbe. Il rifiuto del padre aggiunse
esca al fuoco amoroso dei due giovani, le finestre della casa son basse,
l'innamorato, una notte, riuscì a dar la scalata, e a entrar nella
stanza della fanciulla. O abbia rovesciato una seggiola entrando, o
abbia tossito, o abbia gettato un leggero grido di gioia al veder la sua
bella amante colle chiome sciolte e le braccia aperte, la tradizione non
lo dice, e nessuno lo sa; ma è certo che Don Fernando di Zafra, inteso
rumore, accorse, vide, e cieco di furore si slanciò sul malcapitato
giovane per metterlo a morte. Ma il giovane riuscì a fuggire; Don
Fernando, inseguendolo, s'abbattè in uno dei propri paggi fautore di
quegli amori, che aveva aiutato l'idalgo a entrar nella casa; lo
scambiò, in su quel subito, per il seduttore; e senza udir spiegazioni e
preghiere, lo fece afferrare e impiccare al terrazzino della casa. La
tradizione narra che mentre la povera vittima gridava:--Pietà!
Pietà!--l'offeso padre gli rispose accennandogli il terrazzino:--Là
starai _esperando la del cielo_! (aspettando quella del
cielo);--risposta ch'egli fece poi incidere sur una pietra del muro, a
perpetuo spavento dei seduttori e dei mezzani.
* * * * *
Consacrai il resto della giornata alle chiese e ai conventi.
La cattedrale di Granata merita, anche meglio di quella di Malaga, che
pure è bella e magnifica, di essere descritta parte per parte; ma basta
oramai di descrizioni di chiese. Fu fondata nel 1529 dai re cattolici,
sulle rovine della principal moschea della città; ma rimase incompiuta.
Ha una grande facciata con tre porte, ornata di statue e di
bassorilievi; ed è formata da cinque navate, divise da venti smisurati
pilastri composti d'un fascio di sottili colonne. Le cappelle
racchiudono quadri del Boccanegra, sculture del Torrigiani, tombe ed
ornamenti preziosi. È mirabile sopra tutte la cappella maggiore,
sorretta da venti colonne corintie, divise in due ordini, sul primo dei
quali si alzano le statue colossali dei dodici apostoli, e sul secondo
un cornicione coperto di ghirlande e di teste di cherubini. Di sopra
ricorre un giro di leggiadre finestre a vetri coloriti che rappresentano
la Passione, e dal fregio che le corona si slanciano in alto dieci archi
arditi che forman la vòlta della cappella. Negli archi che sorreggon le
colonne si ammirano sei grandi dipinti di Alonso Cano, che hanno fama di
essere l'opera sua più completa e più bella.
E poichè ho nominato Alonso Cano, nativo di Granata, uno dei più valenti
pittori spagnuoli del secolo decimosettimo, che sebbene discepolo della
scuola sivigliana piuttosto che fondatore, come altri vorrebbe, d'una
scuola sua, non è meno originale dei suoi più grandi contemporanei;
voglio metter qui alcuni tratti della sua indole e della sua vita, poco
conosciuti fuori di Spagna, ma singolarmente notevoli. Alonso Cano fu il
più accattabrighe, il più iroso, il più violento dei pittori spagnuoli.
Passò la vita litigando. Era ecclesiastico. Dal 1652 al 1658, per sei
anni consecutivi, senza un giorno d'interruzione, litigò coi canonici
della cattedrale di Granata, della quale egli era ragioniere, perchè non
voleva, giusta i patti stipulati, diventare suddiacono. Prima di partire
da Granata, spezzò colle sue mani una statua di sant'Antonio da Padova,
che aveva fatto egli stesso d'incarico d'un auditore della Cancelleria,
perchè costui si permise di osservargli che il prezzo che gliene
domandava gli pareva un po' caro. Nominato maestro di disegno del
principe reale, che, a quanto pare, non era nato col bernoccolo della
pittura, lo aspreggiò in tal maniera, che lo costrinse a ricorrere al Re
per esser levato dalle sue mani. Rimandato, per una grazia speciale, a
Granata, presso il Capitolo della cattedrale, serbò così profondo il
rancore degli antichi suoi litigi con quei canonici, che in vita sua non
volle più dare una pennellata per loro. Ma questo è poco. Nutriva un
cieco, bestiale, inestinguibile odio contro gli ebrei, e s'era ficcato
in capo che il toccare in qualunque modo un ebreo o un qualsiasi oggetto
stato toccato da lui, gli dovesse recare sventura. Con questa fissazione
fece le più strampalate stravaganze del mondo. Se passando per la strada
urtava in un ebreo, si levava issofatto il vestito infetto, e tornava a
casa in maniche di camicia. Se per caso riusciva a scoprire che, lui
assente, un servitore aveva ricevuto un ebreo in casa sua, cacciava il
servitore, buttava via le scarpe colle quali aveva premuto l'impiantito
profanato dal circonciso, faceva disfare e rifare, qualche volta,
persino l'impiantito. E trovò modo di litigare anche morendo. Essendo
ridotto in fin di vita, e presentandogli il confessore un crocifissaccio
fatto coll'accétta perchè lo baciasse, egli lo spinse in là colla mano,
e disse:--_Padre, datemi una croce nuda, perchè io possa venerare Gesù
Cristo come egli è in sè e come io lo contemplo nella mia mente._--Con
tutto ciò, aveva un cuore eletto, caritatevole, abborriva da ogni
volgare azione, ed amava di profondo e purissimo amore l'arte in che si
rese immortale.
Tornando alla chiesa, quando ebbi fatto il giro di tutte le cappelle e
mi disponevo ad uscire, mi colse il sospetto che qualcosa mi rimanesse
ancora a vedere. Non avevo letto la _Guida_ e nessuno m'aveva detto
nulla; ma io mi sentivo dentro una voce che mi diceva:--Cerca!--e
cercavo infatti cogli occhi da tutte le parti senza saper che cercassi.
Un cicerone mi osservò, mi si avvicinò, come fanno tutti, di sbieco,
come un assassino, e mi domandò con aria di mistero: "_Quiere Usted
algo?_" (Vuol qualche cosa?)
"Vorrei," risposi, "che mi diceste se c'è altro da vedere in questa
cattedrale, oltre a quello che si vede di qui!"
"_Cómo!_" esclamò il cicerone, "_todavia no ha visto Usted la capilla
real?_"
"Che c'è nella cappella reale?"
"_Que hay? Caramba! Nada ménos que los sepulcros de Ferdinando é Isabel
la Católica!_"
Volevo dire! Avevo nella mente il posto preparato per questa idea, e
l'idea non c'era! I re cattolici dovevano ben essere sepolti a Granata,
dove combatterono l'ultima gran guerra cavalleresca del medio evo, e
dove diedero a Cristoforo Colombo l'incarico di armare le navi che lo
condussero al nuovo mondo! Corsi, più che non andai, alla Cappella
reale, preceduto dal cicerone zoppicante; un vecchio sacrestano ci
aperse la porta della sacristia, e prima di lasciarmi entrare a veder le
tombe, mi condusse davanti a una specie d'armadio a vetri, ripieno di
oggetti preziosi, e mi disse:
"Lei saprà che Isabella la Cattolica per fornire a Cristoforo Colombo il
denaro che gli occorreva ad armare le navi per il suo viaggio, non
sapendo dove trovarne, perchè le casse dello Stato eran vuote, mise in
pegno le sue gioie."
"Sì; ebbene?" domandai con impeto, e prevedendo la risposta, mi sentivo
battere il cuore.
"Ebbene," rispose il sacrestano; "la scatola nella quale la Regina
chiuse le sue gioie per farle impegnare, è questa."
E così dicendo aperse l'armadio, prese la scatola e me la porse.
Oh! dicano un po' quello che vogliono gli uomini forti; per me, quelle
son cose che mi fanno tremare e piangere! Ho toccata la scatola che
contenne i tesori pei quali Colombo potè scoprire l'America! Ogni volta
che ripeto queste parole, il sangue mi si rimescola! E soggiungo:--L'ho
toccata con queste mani,--e mi guardo le mani.
Quell'armadio contiene ancora la spada di re Ferdinando, la corona e lo
scettro d'Isabella, un messale e parecchi altri ornamenti del re e della
regina.
Entrammo nella Cappella, fra l'altare e una gran cancellata di ferro che
lo separa dallo spazio rimanente, davanti a due grandi mausolei
marmorei, ornati di statuette e di bassorilievi di gran pregio, sull'un
dei quali sono stese le statue di Ferdinando e d'Isabella, vestiti dei
loro abiti reali, colla corona, la spada e lo scettro; sull'altro, le
statue di altri due principi di Spagna; e intorno alle statue, leoni,
angeli, stemmi, ed ornamenti svariati, che presentano un aspetto
regalmente austero e magnifico.
Il sacrestano accese una fiaccola e accennandomi una specie di botola,
situata in dirittura della corsia che separa i due mausolei, mi pregò di
alzare il coperchio per scendere nel sotterraneo. Il cicerone m'aiutò,
scoprimmo la botola, il sacrestano scese, e io gli tenni dietro giù per
una scaletta angusta fino a una piccola stanza sotterranea, nella quale
eran cinque casse di piombo, cerchiate di ferro, ciascuna segnata di due
iniziali sormontate da una corona. Il sacrestano abbassò la fiaccola, e
toccandole con una mano, l'una dopo l'altra, tutte e cinque, mi disse
con voce lenta e solenne:
"Qui riposa la gran regina Isabella la Cattolica."
"Qui riposa il gran re Ferdinando V."
"Qui riposa il re Filippo I."
"Qui riposa la regina Giovanna la pazza."
"Qui riposa donna Maria, sua figliuola, morta nell'età di nove anni."
"Dio li abbia tutti nella sua santa pace!"
E piantato la fiaccola in terra, incrociò le braccia e chiuse gli occhi,
come per darmi agio di fare le mie meditazioni.
* * * * *
Ci sarebbe da aggobbire a tavolino, chi volesse descrivere tutti i
monumenti religiosi di Granata: la stupenda Certosa, il Monte-Sacro che
racchiude le grotte dei martiri, la chiesa di San Geronimo dove è
sepolto il gran capitano Consalvo di Cordova, il convento di Santo
Domingo fondato dall'Inquisitore Torquemada, quello dell'Angelo che
contiene pitture del Cano e del Murillo, ed altri molti; ma io suppongo
che chi legge sia già assai più stanco di me, e però gli faccio grazia
di un monte di descrizioni che probabilmente non gli darebbero che una
idea assai confusa delle cose.
Ma poichè ho nominato il sepolcro del gran capitano Consalvo di Cordova,
non posso trattenermi dal tradurre un curioso documento che a lui si
riferisce, e che mi fu dato appunto nella chiesa di San Geronimo da un
sacrestano ammiratore delle gesta di quell'eroe.
Il documento è redatto a modo di aneddoto nei termini seguenti.
«Ogni passo del gran Capitano, Don Gonzalo di Cordova, fu un assalto, ed
ogni assalto una vittoria; il suo sepolcro nel convento dei Geronimi di
Granata, fu adornato di dugento bandiere conquistate da lui. I suoi
emuli invidiosi, ed in particolar modo i Tesorieri nel regno di Napoli,
nel 1506, indussero il Re a chieder conto a Gonzalo dell'uso che aveva
fatto delle grandi somme ricevute dalla Spagna per le spese della guerra
in Italia; e in fatti il Re fu tanto piccino da acconsentire ed anco
assistere all'atto della _conferencia_.
Gonzalo accolse quella domanda con altissimo disprezzo, e si propose di
dare una severa lezione ai Tesorieri ed al Re, intorno al modo di
trattare e considerare un conquistatore di Regni.
Rispose con grande indifferenza e serenità che avrebbe preparato i conti
per il giorno seguente, e fatto vedere chi dei due fosse il debitore, se
lui o il fisco: il quale reclamava centotrenta mila ducati rimessigli
per prima rata; ottanta mila scudi per la seconda, tre milioni per la
terza, undici milioni per la quarta, tredici per la quinta; e così
seguitava a riferire il grave, _gangoso_ (dalla voce nasale) e scimunito
segretario che autorizzava un atto così importante.
Il gran Gonzalo mantenne la sua parola; si presentò alla seconda
udienza, e tirato fuori il voluminoso libro nel quale aveva notate le
sue giustificazioni, cominciò a leggere a voce alta e sonora le seguenti
parole:
«Ducento mila settecento trentasei ducati e nove reali ai frati, alle
monache e ai poveri, affinchè pregassero Dio per il trionfo delle armi
spagnuole.
Cento milioni in pale, zappe e picconi.
Cento mila ducati in polvere e palle.
Dieci mila ducati in guanti profumati per preservare i soldati dal puzzo
dei cadaveri dei nemici stesi sul campo di battaglia.
Centosettanta mila ducati per rifare campane distrutte dal continuo
sonare per sempre nuove vittorie riportate sopra i nemici.
Cinquanta mila ducati in acquavite per i soldati in una giornata di
battaglia.
Un milione e mezzo di ducati per mantenere prigionieri e feriti.
Un milione in messe di grazia e _Te Deum_ all'Onnipossente.
Trecento milioni di suffragi pei morti.
Settecento mila quattrocento novantaquattro ducati in spie e.....
Cento milioni per la pazienza che ho mostrato ieri all'udire che il Re
domandava dei conti a chi gli ha regalato un Regno.
Questi sono i celebri conti del grande Capitano, i cui originali stanno
nelle mani del Conte di Altimira.
Uno dei conti originali con la firma autografa del gran Capitano esiste
nel Museo militare di Londra, dove con gran cura vien custodito.»
* * * * *
Letto questo documento, tornai all'albergo facendo tra Consalvo di
Cordova e i generali spagnuoli dei nostri tempi dei maligni raffronti,
che alta ragion di stato, come si dice nelle tragedie, mi vieta di
riferire.
In quell'albergo ne vedevo ogni giorno una nuova. V'eran molti studenti
d'università venuti da Malaga e da altre città dell'Andalusia per dar
l'esame di laurea a Granata, non so se perchè qui fossero di manica più
larga, o per che altra ragione. Desinavan tutti alla tavola rotonda. Una
mattina, a colezione, uno d'essi, un giovanetto di poco più di
vent'anni, annunziò che alle due dopo mezzogiorno doveva dar l'esame di
diritto canonico, e che non essendo molto sicuro del fatto suo, aveva
deciso di bere un bicchier di vino, per rinfrescarsi le sorgenti
dell'eloquenza. Non uso a bere che vino annacquato, commise l'imprudenza
di vuotare d'un sol fiato un bicchiere di vino di Jerez. Il suo viso si
alterò all'istante in così strana maniera, che se non avessi visto il
cangiamento coi miei occhi, avrei creduto che non fosse più il viso di
prima.
--Ora basta!--gli gridaron gli amici.
Ma il giovane, che si sentiva diventato tutt'a un tratto forte, ardente
e temerario, lanciò ai compagni uno sguardo compassionevole, e ordinò
con un atto maestoso al cameriere di versargli un altro bicchiere.
--Ti ubriacherai!--gli dissero.
Per tutta risposta, egli mandò giù il secondo bicchiere.
Allora gli prese una parlantina meravigliosa. A tavola v'era una ventina
di persone, in pochi minuti attaccò discorso con tutti, e fece mille
rivelazioni sulla sua vita passata e sui suoi disegni per l'avvenire.
Disse che era di Cadice, che aveva ottomila lire di rendita all'anno, e
voleva darsi alla carriera diplomatica, perchè con quella rendita,
aggiuntovi qualcosa che gli avrebbe lasciato un suo zio, poteva fare una
buona figura dove si sia; che aveva stabilito di pigliar moglie a
trent'anni, e di sposare una donna alta come lui, perchè, a suo avviso,
la moglie doveva avere la stessa statura del marito, per evitare che
l'uno o l'altro pigliasse il di su; che quando era ragazzo s'era
innamorato della figliuola d'un console americano, bella come un fiore e
soda come una pina, ma con una voglia rossa dietro un orecchio, che
stava molto male, benchè essa la sapesse coprire assai bene colla
mantiglia, e faceva veder colla salvietta in che modo la copriva; e che
Don Amedeo era un uomo troppo ingenuo per poter riuscire a governar la
Spagna; e che fra il poeta Zorilla e il poeta Espronceda, egli avea
sempre preferito l'Espronceda; e che ceder Cuba all'America era una
corbelleria, e che dell'esame di diritto canonico egli se ne rideva, e
che voleva bere altre quattro dita di vino di Jerez, che era il primo
vino d'Europa.
Bevve il terzo bicchiere, malgrado i buoni consigli e le disapprovazioni
degli amici, e dopo aver cicalato un altro po' in mezzo alle risa
dell'uditorio, all'improvviso tacque, guardò fisso fisso una signora che
aveva dirimpetto, abbassò la testa e s'addormentò. Io credetti che per
quel giorno non si sarebbe presentato all'esame; ma m'ingannai.
Un'oretta dopo lo svegliarono, andò su a lavarsi il viso, corse
all'Università ancora tutto assonnato, diede l'esame, e fu promosso a
maggior gloria del vino di Jerez e della diplomazia spagnuola.
* * * * *
I giorni seguenti gl'impiegai a vedere i monumenti, o per dir meglio, le
rovine dei monumenti arabi che, oltre all'Alhambra e al Generalife,
attestano l'antico splendore di Granata. Poichè fu l'ultimo baluardo
dell'Islam, Granata è fra le città di Spagna quella che ne serbò più
numerosi ricordi. Sulla collina che si chiama di _Dinadamar_ (fonte
delle lagrime), si vedono ancora le rovine di quattro torri, che
s'innalzavano ai quattro angoli d'una grande cisterna, nella quale
affluivano dalla Sierra le acque che servivano agli usi della parte più
alta della città. Là eran bagni, giardini e ville, delle quali non
rimane più traccia, e di là si abbracciava con un colpo d'occhio la
città coi suoi minareti, colle sue terrazze, colle sue moschee
biancheggianti in mezzo alle palme e ai cipressi. Là presso si vede
ancora una porta araba, chiamata porta d'Elvira, formata da un grande
arco coronato di merli. Più oltre rovine di palazzi di Califfi. Presso
il passeggio l'_Alameda_, una torre quadrata, con entro una gran sala
ornata di quelle solite iscrizioni arabe. Presso il Convento di San
Domingo, resti di giardini e di palazzi che erano una volta congiunti
all'Alhambra per mezzo d'una via sotterranea. Dentro la città,
l'Alcaiceria, mercato arabo quasi intatto, formato di parecchie
stradine diritte e strette come corridoi, fiancheggiate da due file di
botteghe l'una unita all'altra, che presentano uno strano aspetto di
bazar asiatico. Infine, non si può far un passo per Granata, che non
s'incontri un arco, un arabesco, una colonna, un mucchio di pietre che
rammenta il suo fantastico passato di Sultana.
Quanti giri e rigiri non feci per quelle strade tortuose, nelle ore più
calde della giornata, sotto un sole che mi scottava il cervello, senza
incontrare anima nata! Anche a Granata, come nelle altre città
d'Andalusia, la gente non si fa viva che la notte; e la notte si rifà
della prigionia del dì, affollandosi e rimescolandosi sui passeggi
pubblici colla fretta e la furia d'una moltitudine, una metà della quale
cercasse l'altra metà per affari urgenti. La folla più fitta è
all'Alameda; e però passai all'Alameda le mie serate, col Gongora che mi
parlava di monumenti arabi, con un giornalista che mi parlava di
politica, con un altro giovanotto che mi parlava di donne, non di rado
tutti e tre insieme, con mio piacere infinito, perchè quella gazzarra da
scolaretti, a tempo e luogo, mi rinfresca l'anima, come fa all'erba (per
rubare una bella similitudine) quella pioggerella estiva che cade con
affrettato moto come di trepida gioia.
Se avessi da dire qualcosa del popolo di Granata, mi troverei impacciato
perchè non l'ho visto. Di giorno, per le strade, non incontravo nessuno;
di notte non ci si vedeva; non v'eran teatri aperti; quando avrei potuto
trovar qualcuno in città, ciondolavo per le sale o per i viali
dell'Alhambra; e poi avevo tanto da fare per veder ogni cosa nello
spazio di tempo che m'ero prefisso, che non mi restavan nemmen dei
ritagli per intavolar conversazione, come feci nelle altre città, in
mezzo alle strade e nei caffè, coi popolani in cui m'imbattevo.
Ma per quanto seppi da chi era in grado di darmi delle notizie sicure,
il popolo di Granata non gode d'una eccellente riputazione in Spagna. Si
dice che è maligno, violento, vendicativo, accoltellatore, il che non è
punto smentito dalle cronache cittadine delle gazzette; e non si dice,
ma si sa che in Granata l'istruzione popolare è anche più bassa che a
Siviglia, e che in altre città spagnuole di minor conto; e che, in
generale, tutte le cose che non posson esser fatte dal sole e dalla
terra, che ne fanno pur tante, vanno alla peggio, o per indolenza, o per
ignoranza, o per confusione. Granata non è congiunta dalla strada
ferrata a nessuna città importante, vive sola, in mezzo ai suoi
giardini, dentro la cerchia delle sue montagne, lieta dei frutti che la
terra le produce sotto la mano, cullandosi mollemente nella vanità della
sua bellezza e nell'orgoglio della sua storia, oziando, sonnecchiando,
fantasticando, e contentandosi di rispondere, con uno sbadiglio, a chi
le rimprovera il suo stato:--Io diedi alla Spagna il pittore Alonso
Cano, il poeta Luigi di Leon, lo storico Ferdinando del Castillo,
l'orator sacro Luigi di Granata, il ministro Martinez della Rosa; ho
pagato il mio debito; lasciatemi in pace;--che è la risposta che fan
quasi tutte le città meridionali della Spagna, troppo più belle, ahimè!
che saggie e operose; e troppo più altere che civili. Ah! chi le ha
vedute, non può mai stancarsi di esclamare:--Peccato!
* * * * *
--Ora che ha visto tutte le meraviglie dell'arte araba e della
vegetazione tropicale, le resta a vedere, perchè possa dire di conoscer
Granata, il borgo dell'Albaicin. Prepari l'animo a un mondo nuovo, metta
la mano sul portamonete e mi segua.--
Così mi disse il Gongora l'ultima sera del mio soggiorno a Granata. Era
con noi un giornalista repubblicano, di nome Melchiorre Almago,
direttore dell'_Idea_, un giovanotto simpatico e gentile, che per
accompagnarci sacrificò il desinare e un articolo di fondo che andava
ruminando fin dalla mattina. Ci mettemmo in cammino, arrivammo fino alla
piazza dell'_Audiencia_. Là il Gongora mi accennò una viuzza tortuosa
che va su per un colle, e mi disse:--Qui comincia l'_Albaicin_;--e il
signor Melchiorre toccando una casa col bastone, soggiunse:--Qui
comincia il territorio della repubblica.--
Infilammo la viuzza, passammo da quella in un'altra, da questa in una
terza, sempre salendo, senza ch'io vedessi nulla di straordinario, per
quanto guardassi curiosamente da tutte le parti. Strade strette, case
meschine, vecchie addormentate sugli scalini delle porte, mamme che
spidocchian bambini, cani che sbadigliano, galli che cantano e ragazzi
cenciosi che corrono e schiamazzano, e altre cose che si vedono in
tutti i sobborghi; in quelle strade non c'era nulla di più. Sennonchè,
via via che salivamo, l'aspetto delle case e della gente s'andava
mutando: i tetti più bassi, le finestre più rade, le porte più piccine,
gli abitanti più cenciosi. Nel mezzo d'ogni strada correva un rigagnolo
dentro un letto in muratura all'uso arabo; qua e là, sopra le porte e
intorno alle finestre, si vedevano resti di arabeschi e frammenti di
colonnine; negli angoli delle piazze, fontane e pozzi del tempo della
dominazione dei Mori. Ad ogni centinaio di passi che si faceva, pareva
di tornar addietro di cinquant'anni verso l'età dei Califfi. I miei due
compagni mi toccavano tratto tratto col gomito dicendo:--Guardi quella
vecchia--Guardi quella bambina--Guardi quell'uomo.--Ed io guardavo e
dimandavo:--Che gente è questa?--Se mi fossi trovato là all'improvviso,
avrei creduto, al veder quegli uomini e quelle donne, di essere in un
villaggio dell'Affrica; tanto i visi, il vestire, il modo di muoversi,
di parlare, di guardare,--a così breve distanza dal centro di
Granata,--eran diversi da quelli della gente che avevo vista fino
allora. Ad ogni svoltata, mi fermavo per guardare in volto i miei
compagni, e questi mi dicevano:--Questo non è nulla; qui siamo nella
parte civile dell'Albaicin; questo è il quartiere _parigino_ del
sobborgo; andiamo oltre.
Andammo oltre; le strade parevan letti di torrenti, sentieri scavati
nelle roccie, tutte rialzi, fossi, scoscendimenti, macigni; alcune
ripide da non poterci salire un mulo, altre strette da passarci un uomo
a stento; quali ingombre di donne e di fanciulli seduti in terra; quali
erbose e deserte e tutte d'un aspetto squallido, selvaggio, strano, del
quale non potrebbe fornire neanco un'immagine il più meschino dei nostri
villaggi, perchè quella è una miseria che serba l'impronta d'un'altra
razza e i colori d'un altro continente. Girammo per un labirinto di
strade, passando di tempo in tempo sotto un grande arco arabo o per
un'alta piazzuola dalla quale si abbracciava con uno sguardo la valle
immensa, i monti coperti di neve e una parte della città sottoposta, e
arrivammo alla fine in una strada più sassosa e più angusta di quante
s'eran viste fino allora, nella quale ci arrestammo per pigliar fiato.
--Qui--mi disse il giovane archeologo--comincia il vero Albaicin. Guardi
quella casa!--Guardai; era una casa bassa, affumicata, mezzo rovinata,
con una porta che pareva la finestra d'una cantina, dinanzi alla quale
si vedeva movere sotto un ammasso di cenci, un gruppo, o piuttosto un
mucchio di vecchie e di bambini, che al nostro apparire alzarono gli