Spagna - 23
muri interni del portico erano luccicanti di musaici, i capitelli delle
colonne scintillanti d'oro, i soffitti e le volte dipinti di mille
colori, le porte chiuse da tende di seta, le nicchie piene di fiori, e
sotto i tempietti e nelle sale correva l'acqua odorosa, e dalle nari dei
leoni schizzavano dodici zampilli che ricascavan nella vasca, e l'aria
era pregna dei più deliziosi profumi dell'Arabia!
Ci trattenemmo nel cortile più d'un'ora, che ci passò come un lampo; ed
anch'io feci quello che fanno tutti in quel luogo, spagnuoli e
stranieri, uomini e donne, poeti o non poeti che siano. Feci scorrer la
mano sui muri, toccai tutte le colonnine, le strinsi colle due mani una
per una come la vitina d'una bimba, mi ci nascosi in mezzo, le contai,
le guardai da cento parti, percorsi il cortile in cento sensi, provai se
era vero che dicendo una parola sottovoce in bocca a uno dei leoni, la
si sentiva distintamente dalla bocca di tutti gli altri; cercai sui
marmi le macchie di sangue delle leggende poetiche, mi stancai gli occhi
e la mente sugli arabeschi. Vi eran parecchie signore. Le signore, nel
cortile dei Leoni, fanno ogni sorta di fanciullaggini; mettono il viso
fra le colonne gemelle, si nascondono negli angoli oscuri, siedono in
terra, stanno per ore immobili colla testa appoggiata sulla mano,
sognando. Quelle signore facevan così. Ve n'era una vestita di bianco
che, passando dietro alle colonne lontane, quando credeva di non esser
veduta, pigliava una certa andatura molle e maestosa di sultana
melanconica, e poi rideva con una sua amica: era incantevole. Il mio
amico mi diceva: "Andiamo," e io rispondevo: "Andiamo," e non potevo
muovermi. Non provavo soltanto un sentimento dolcissimo di meraviglia;
ma fremevo di piacere, e avevo addosso una smania di toccare, di
frugare, che so io, di veder dentro quei muri e quelle colonne, come se
fossero d'una materia arcana, e si dovesse scoprire nelle loro intime
parti la causa prima del fáscino che quel luogo esercitava. In tutta la
mia vita non ho mai pensato nè detto, nè dirò mai tante care follie,
tante belle scempiaggini, tante fole, tante gentili cose senza senso,
quante ne pensai e ne dissi in quell'ora.
"Ma bisogna venir qui," mi diceva il Gongora, "al levar del sole,
bisogna venirci al tramonto, bisogna venirci di notte quando splende la
luna, per veder che meraviglie di colori, di ombre e di luce! C'è da
perderci il capo!"
Andammo a vedere le sale. Al lato di levante v'è una sala chiamata della
Giustizia, alla quale si giunge passando sotto tre grandi archi, di cui
ciascuno corrisponde a una porta che dà nel cortile. È una sala lunga e
stretta, di ricca e ardita architettura, colle pareti coperte di
intricati arabeschi e di preziosi musaici, e la vòlta tutta punte e
groppi e sgonfi di stucco che pendon dagli archi, lungo le pareti, e qua
e là s'ammucchiano, si abbassano, escon gli uni dagli altri, e gli uni
gli altri si comprimono e si sovrappongono e par che si disputino lo
spazio, come le bolle d'un'acqua in bollore, presentando ancora in molti
punti le traccie dei colori antichi, che dovevan dare a quella vòlta
l'aspetto d'un padiglione coperto di fiori e di frutta sospese. La sala
ha tre piccole alcove, in ciascuna delle quali, sulla vòlta, si vede
ancora una pittura araba, a cui il tempo e la estrema rarità dei lavori
di pennello che son rimasti degli Arabi, danno un grandissimo valore. Le
pitture son fatte sul cuoio, e il cuoio è attaccato al muro. Nello
stanzino di mezzo son rappresentati, sur un fondo dorato, dieci uomini,
che si suppone esser dieci re di Granata, vestiti di bianco, col
cappuccio in capo, con una mano sulla scimitarra, seduti su cuscini
ricamati. I dipinti delle altre due alcove rappresentano castelli, dame
e cavalieri, scene di caccia e d'amore, delle quali è difficile
afferrare il significato. Ma i volti dei dieci re rispondono
meravigliosamente all'immagine che noi ci formiamo di quella gente: è
quel colore olivastro, son quelle bocche sensuali, son quegli occhi neri
dallo sguardo intento e misterioso che par sempre di veder luccicare
negli angoli oscuri delle sale dell'Alhambra.
Al lato norte del cortile v'è un'altra sala chiamata _de las dos
Hermanas_, (delle due Sorelle) da due grandi lastre di marmo che ne
formano il pavimento. È la sala più gentile dell'Alhambra. È piccola, di
forma quadrata, coperta da una di quelle vòlte in forma di cupola, che
gli Spagnuoli chiamano mezzi aranci, sorretta da colonnine ed archi
disposti in cerchio, tutta lavorata in forma d'una grotta di
stallattiti, con una infinità di punte e d'incavi, coloriti e dorati, e
così leggera alla vista, che par sia sospesa in aria, e a toccarla debba
tremolar tutta come una tenda, o squarciarsi come una nuvola, o svanire
come se non fosse che un mucchio di bolle di sapone. Le pareti
rivestite, come in tutte le altre sale, di stucco, e coperte di
arabeschi incredibilmente fitti e delicati, sono uno dei più
meravigliosi prodotti della fantasia e della pazienza umana. Più si
guarda, e più le innumerevoli linee si stringono e s'incrociano, e da
una figura nasce un'altra, e da questa una terza, e tutte tre ne
presentano una quinta che c'era sfuggita e questa si divide tutt'a un
tratto in altre dieci che non s'erano vedute, e poi si ricompone e si
trasforma daccapo; e non si finisce più di scoprir nuove combinazioni,
perchè quando le prime si riaffacciano, di già son dimenticate, e fan
l'effetto della prima volta. E ci sarebbe da perder la vista e la
ragione a voler venir a capo di quel labirinto; ci vuole un'ora per
vedere il contorno d'una finestra, gli ornamenti d'un pilastro, gli
arabeschi d'un fregio; un'ora non basta per imprimersi nella mente il
disegno d'una delle stupende porte di cedro. Ai due lati della sala vi
sono due piccole alcove; nel mezzo, un piccolo bacino con un tubo per lo
zampillo, che è congiunto al canaletto che attraversa il cortile e va
alla fontana dei Leoni. In dirittura della porta d'entrata, dal lato
opposto, v'è un'altra porta, per la quale si entra in un'altra sala
stretta e lunga, chiamata la sala degli Aranci. Da questa sala, per una
terza porta, si entra in un piccolo gabinetto chiamato il gabinetto di
Lindaraja, straricco di ornamenti, e chiuso da una graziosissima
finestra a due archi che guarda in un giardino.
Per godere tutta la bellezza di questa magica architettura bisogna uscir
dalla sala delle due Sorelle, attraversare il cortile dei Leoni, ed
entrare nella sala chiamata degli Abencerrages che si trova dal lato di
Mezzogiorno, di fronte a quella delle Sorelle, della quale ha quasi la
stessa forma e gli stessi ornamenti. D'in fondo a questa sala lo sguardo
attraversa il cortile dei Leoni, passa per la sala delle due Sorelle,
entra nella sala degli Aranci, penetra nel gabinetto di Lindaraja e
s'infila nel giardino del quale appare la folta verzura sotto gli archi
di quel gioiello di finestra. Le due aperture di questa finestra, viste
rimpicciolite così per la lontananza, e così piene di luce in fondo a
quella fuga di sale oscure, paion due grandi occhi aperti che guardino,
e fanno immaginare che di là ci siano chi sa quali misteri di paradiso.
Visto la sala degli Abencerrages, andammo a vedere i bagni che si
trovano fra la sala delle due Sorelle e il cortile dei Mirti. Scendemmo
una scaletta, passammo per uno stretto corridoio, riuscimmo in una
splendida sala, chiamata sala _de los Divanes_, nella quale venivano a
riposare le belle dei re, sui tappeti persici, al suon delle cetre, dopo
aver fatto il bagno nelle stanze vicine. Questa sala fu ricostrutta
sulle rovine dell'antica, e arabescata, dorata e dipinta da artisti
spagnuoli, come l'antica doveva essere; in modo che si può considerare
come una sala dei tempi degli Arabi rimasta intatta in tutte le sue
parti. Nel mezzo è una fontana, in due pareti opposte due specie di
alcove nelle quali si adagiavan le donne, più alto le tribune dove
stavano i suonatori. Le pareti sono listate, brizzolate, screziate,
picchiettate di mille vivissimi colori, e presentan l'aspetto d'una
tappezzeria di stoffe chinesi trapunte di fili d'oro, con quegli
interminabili intrecci di figure che farebbero ammattire il più paziente
musaicista della terra.
Eppure in quella sala lavorava un pittore! Lavorava da tre mesi a copiar
quelle pareti! Era un tedesco. Il Gongora lo conosceva, e gli domandò:
"È un lavoro che ammazza, non è vero?" E quegli rispose sorridendo: "Non
mi pare," e si ricurvò sul suo quadro.
Lo guardai come avrei guardato una creatura d'un altro mondo.
Passammo negli stanzini da bagno, piccoli, fatti a vòlta, e rischiarati
dall'alto per mezzo di alcuni fori aperti nel muro, in forma di stelle e
di fiori. Le tinozze sono d'un sol pezzo di marmo, vaste, e serrate fra
le due pareti. I corridoi che conducono da uno stanzino all'altro son
bassi e stretti in modo che appena ci può passare un uomo; e vi fa un
fresco che è una delizia. Affacciandomi a uno di quegli stanzini, fui
preso tutt'a un tratto da un pensiero tristo.
"Che cos'ha che si rannuvola?" mi domandò l'amico.
"Penso," risposi, "al come viviamo noi, d'estate come d'inverno, in
quelle case che paion caserme, in quelle stanze al terzo piano o buie o
inondate da un torrente di luce, senza marmo, senz'acqua, senza fiori,
senza colonnine; penso che dovremo viver tutta la vita così, e morire
fra quelle pareti, senza aver provato una volta la voluttà di questi
palazzi fatati; penso che anche in questa misera vita terrena si può
immensamente godere, e che io non godrò nulla! Penso che potevo nascere
quattro secoli fa re di Granata, e che sono nato invece un poveromo!"
L'amico rise, e stringendomi un braccio fra l'indice e il pollice, come
per darmi un pizzicotto, mi disse:
"Non pensi a questo. Pensi a quanto di bello, di gentile e di segreto
debbono aver visto queste tinozze; ai piedini che sguazzarono nelle loro
acque odorose, alle lunghe capigliature che si sparsero sui loro orli,
ai grandi occhi languidi che guardarono il cielo a traverso i fori di
quella vòlta, mentre sotto gli archi del cortile dei Leoni risonava il
passo concitato d'un Califfo impaziente, e i cento zampilli della reggia
dicevano col loro affrettato mormorio:--Vieni, vieni, vieni!--e in una
sala profumata uno schiavo tremante di riverenza chiudeva le finestre
colle cortine color di rosa."
"Ah! mi lasci un po' l'anima in pace!" risposi scrollando le spalle.
Attraversammo il giardino del gabinetto di Lindaraja, e un cortile
d'aspetto misterioso chiamato il _patio della Reja_, e per una lunga
galleria che guarda la campagna, giungemmo sulla sommità di una delle
estreme torri dell'Alhambra, sotto un piccolo padiglione aperto
tutt'intorno, chiamato _Tocador_ (toeletta) _de la reina_, che par
sospeso sur un abisso come il nido d'un'aquila.
Lo spettacolo che si gode di lassù, lo si può dire senza paura d'essere
smentiti da alcuno, non ha l'uguale sulla faccia della terra.
S'immagini una immensa pianura verde come un prato coperto d'erba
novella, attraversata in tutti i sensi da sterminati filari di cipressi,
di pini, di quercie, di pioppi, sparsa di foltissimi boschetti
d'aranci, che a tanta lontananza non paion più che cespugli, e di grandi
orti e giardini così affollati di alberi fruttiferi che presentano quasi
l'aspetto di poggerelli vestiti di verzura; e a traverso questa immensa
pianura il fiume Genil che luccica fra i boschi e i giardini come un
gran nastro inargentato; e tutto intorno colline boscose, e di là dalle
colline, altissime roccie di fantastiche forme che rendon l'immagine di
una cinta di muri e di torri titaniche che separi quel paradiso
terrestre dal mondo; e lì proprio sotto gli occhi, la città di Granata,
parte distesa sul piano, parte sulla china d'un colle, tutta sparsa di
gruppi d'alberi, di macchie, di mucchi informi di verzura che s'alzano e
ondeggiano sopra i tetti delle case come enormi pennacchi, e par che
tendano ad espandersi, a congiungersi e a coprir la città intera; e più
sotto ancora, la valle profonda del Dauro, meglio che coperta, riempita,
colmata quasi da un cumulo prodigioso di vegetazione che si solleva come
una montagna, oltre la quale emerge ancora un bosco di pioppi
giganteschi che agitano le cime sotto le finestre della torre quasi a
portata della mano; e a destra, di là dal Dauro, sur una collina che
s'alza al cielo ardita e svelta come una cupola, il palazzo del
Generalife, coronato di giardini aerei, e quasi nascosto in mezzo a un
bosco di allori, di pioppi e di melagrani; e dalla parte opposta, uno
spettacolo meraviglioso, una cosa incredibile, una visione d'un sogno:
la Sierra Nevada, le più alte montagne d'Europa, dopo le Alpi, bianche
di neve, bianche fino a poche miglia dalle porte di Granata, bianche
fino ai colli dove giganteggiano i melagrani e le palme, e si spiega in
tutta la sua splendida pompa una vegetazione quasi tropicale. S'immagini
ora sopra questo immenso paradiso, che racchiude tutte le ridenti grazie
dell'oriente e tutte le più severe bellezze del settentrione, che sposa
l'Europa all'Affrica tributando all'imeneo tutte le più belle meraviglie
della natura, e che manda al cielo confusi in un solo tutti i profumi
della terra, s'immagini sopra questa valle beata il cielo e il sole di
Andalusia, che volgendo al tramonto, tinge d'un divino color di rosa le
cime, e di tutti i colori dell'iride e di tutti i riflessi delle più
limpide perle azzurrine i fianchi delle montagne della Sierra; e frange
i suoi raggi in mille sfumature d'oro, di porpora e cinerine, nelle
roccie che coronan la pianura; e declinando in mezzo a un incendio di
raggi, getta, come un saluto, una corona luminosa intorno alle torri
pensierose dell'Alhambra e ai pinnacoli inghirlandati del Generalife; e
si dica se si può dare al mondo qualche cosa di più solenne, di più
glorioso, di più innebriante di questa festa amorosa del cielo e della
terra, dinanzi alla quale da nove secoli trema di voluttà e palpita di
orgoglio Granata.
Il tetto del _mirador de la reina_ è sostenuto da piccole colonne
moresche fra le quali si stendono degli archi schiacciati che danno al
padiglione un aspetto stranamente capriccioso e gentile. Le pareti sono
dipinte a fresco, e vi si vedono lungo i fregi le iniziali d'Isabella e
di Filippo V intrecciate con amorini e fiori. Accanto alla porta
d'entrata, resta ancora una pietra del pavimento antico, tutta
bucherellata, sulla quale si dice si mettessero le Sultane per
avvolgersi nel nuvolo dei profumi che si bruciavan di sotto. Ogni cosa,
lassù, spira amore e letizia. Vi si respira un'aria pura come sulla cima
d'una montagna, vi si sente una fragranza confusa di mirti e di rose, e
non vi arriva altro rumore che il mormorio del Dauro che si rompe tra i
macigni del suo letto dirupato, e il canto di migliaia di uccelli
nascosti nella folta verzura della valle; è un vero nido da innamorati,
un'alcova pensile per andarvi a sognare, una loggia aerea per salirvi a
ringraziar Dio d'esser felici.
"Ah! Gongora," esclamai dopo aver contemplato per qualche momento quello
spettacolo incantevole; "io darei dieci anni di vita per poter far
comparir qui, con un colpo di bacchetta magica, tutte le persone care
che mi aspettano in Italia!"
Il Gongora mi accennava un largo spazio del muro tutto nero di date e di
nomi scritti colla matita, col carbone, e incisi colla punta dei
temperini dai visitatori dell'Alhambra.
"Che cos'è scritto qui?" mi domandò.
M'avvicinai e gittai un grido:--Chateaubriand!
"E qui?"
"Byron!"
"E qui?"
"Victor Hugo!"
Scendendo dal _mirador de la reina_ io credevo d'aver visto l'Alhambra,
e commisi l'imprudenza di dirlo al mio amico. Se avesse avuto in mano un
bastone, son certo che me l'avrebbe dato fra capo e collo; ma non
avendolo, si contentò di guardarmi coll'aria d'uno che domandasse se mi
aveva dato volta il cervello.
Ritornammo nel cortile dei mirti, e visitammo le sale poste dall'altro
lato della torre di Comares, la maggior parte mezzo rovinate, altre
trasformate, alcune affatto nude, senza pavimento, senza tetto; ma tutte
meritevoli d'esser vedute, e per i ricordi che destano, e per bene
comprendere la struttura dell'edifizio. L'antica moschea, è stata
convertita in cappella da Carlo V; una grande sala araba, in oratorio;
qua e là si vedono ancora resti di arabeschi e di soffitti di cedro
scolpiti; le gallerie, i cortili, i vestiboli, sembran di un palazzo
devastato dalle fiamme.
Visto anche questa parte dell'Alhambra, credetti davvero che non mi
rimanesse nulla a vedere, e commisi daccapo l'imprudenza di dirlo al
Gongora. Questa volta non si potè più contenere; e condottomi nell'atrio
del cortile dei mirti dinanzi a una pianta dell'edifizio affissa al
muro, mi disse:
"Guardi, e vedrà che tutte le sale e i cortili e le torri che abbiamo
visti finora, non occupano nemmeno la ventesima parte dello spazio che
abbracciano le mura dell'Alhambra; vedrà che non abbiamo ancora visitato
i resti di altre tre moschee, le rovine della casa del Cadì, la torre
dell'Acqua, la torre delle Infante, la torre della Prigioniera, la torre
del Candil, la torre dei Picos, la torre dei Pugnali, la torre dei
_Siete melos_, la torre del Capitano, la torre della Strega, la torre
delle Teste, la torre delle Armi, la torre degli Idalghi, la torre delle
Galline, la torre del Cubo, la torre dell'Omaggio, la torre della Vela,
la torre della Polvere, gli avanzi della casa di Mondejar, i quartieri
militari, la porta di ferro, i muri interni, le cisterne, i passeggi;
perchè ha da sapere che l'Alhambra non è un palazzo, ma una città; e che
ci sarebbe da passar la vita a cercar arabeschi, a leggere iscrizioni, a
scoprir ogni giorno un nuovo colpo d'occhio di colline e di montagne, e
a andare in estasi una volta regolarmente per ognuna delle
ventiquattr'ore della giornata."
Ed io credevo d'aver visto l'Alhambra!
* * * * *
Per quel giorno non ne volli saper altro, e Dio sa come avevo la testa
quando tornai all'albergo. Il giorno dopo, allo spuntar del sole, ci
ritornai; ci ritornai la sera; e continuai a andarci ogni giorno per
tutto il tempo che rimasi a Granata, col Gongora, con altri amici, coi
ciceroni, solo; e l'Alhambra mi parve sempre più vasta e sempre più
bella, e ripercorsi quei cortili e quelle sale, e vi passai ore ed ore,
seduto tra le colonne o appoggiato alle finestrine, con un piacere di
più in più vivo, scoprendo ogni volta bellezze nuove, e abbandonandomi
sempre a quelle vaghe e deliziose fantasie, fra le quali aveva errato
la mente il primo giorno. Non saprei più dire per dove gli amici mi
facevan passare per entrar nell'Alhambra; ma mi ricordo che ogni giorno,
nell'andare, vedevo mura e torri e strade deserte che non avevo viste
mai, e mi pareva che l'Alhambra avesse mutato di sito, o si fosse
trasformata, o le fosser sorti intorno, come per incanto, nuovi edifizii
che ne alterassero l'aspetto primitivo. Chi potrebbe descrivere la
bellezza di quei luoghi quando tramontava il sole! quel bosco fantastico
quando vi batteva il lume della luna! la pianura immensa e le montagne
coperte di neve, nelle notti serene! i grandiosi contorni di quelle mura
enormi, di quelle superbe torri, di quegli alberi smisurati, sul cielo
tempestato di stelle! lo stormire prolungato di quei mucchi immani di
verzura che riempiono le valli e coprono i fianchi delle colline, quando
soffiava la brezza! Era uno spettacolo dinanzi al quale, i miei
compagni, nati a Granata, ed abituati a vederlo fin dalla infanzia,
restavano senza parola, così che facevamo lunghi tratti di cammino in
silenzio, ciascuno immerso nei suoi pensieri, col cuore compreso d'una
mestizia dolcissima che a volte ci faceva inumidir gli occhi e alzar il
viso al cielo con uno slancio di gratitudine e di tenerezza.
* * * * *
Il giorno del mio arrivo a Granata, quando rientrai all'albergo, a
mezzanotte, invece del silenzio e della quiete, trovai il _patio_
illuminato come una sala da ballo, gente ai tavolini che sorbiva
granite, gente su nelle gallerie che andava e veniva, chiaccherando e
ridendo; e mi toccò aspettare un'ora prima di andare a dormire. Ma
passai quell'ora molto gradevolmente. Mentre stavo guardando una carta
di Spagna affissa alla parete, un omaccione col viso color di
barbabietola e una pancia che gli cascava sulle ginocchia, mi si
avvicinò, e toccandosi il berretto, mi domandò s'ero italiano; risposi
di sì, ed egli soggiunse sorridendo:--"Ed io pure; io sono il padrone
dell'albergo."
"Me ne rallegro, tanto più che vedo che lei ci si fa d'oro."
"Dio buono...." mi rispose con un tuono che voleva parer melanconico;
"sì.... non mi lamento; ma.... me lo creda, caro signore, per quanto gli
affari vadan bene, quando si è lontani dal proprio paese, qui (e si mise
una mano sull'enorme torace) qui si sente sempre un vuoto!"
Gli guardai la pancia.
"Un gran vuoto," ripetè l'albergatore; "la patria non si dimentica
mai... Di che provincia è lei, signore?"
"Della Liguria. E lei?"
"Del Piemonte. Liguria! Piemonte! Lombardia! Quelli son paesi!"
"Son bei paesi, non c'è dubbio; ma lei, alla fine dei conti, non si può
lamentare della Spagna. Sta in una delle più belle città del mondo, è
padrone d'uno dei più belli alberghi della città, ha una folla di
forestieri tutto l'anno, e poi vedo che gode d'una salute invidiabile."
"Ma il vuoto!"
Gli guardai di nuovo la pancia.
"Eh capisco, signor mio; ma lei s'inganna, sa, se mi giudica dalle
apparenze. Lei non può immaginare quello che provo io quando capita qui
un Italiano. Che vuole? Sarà una debolezza.... non so.... ma io lo
vorrei vedere tutto il giorno a tavola, e creda che se mia moglie non mi
trovasse a ridire, io sarei capace di mandargli per conto mio una
dozzina di piatti d'antipasto... come nulla."
"A che ora si desina domani?"
"Alle cinque. Del resto.... qui si mangia poco.... paesi caldi.... tutti
si tengon leggeri.... di qualunque _nazionalità_ sieno.... è una
regola.... Ma non ha visto l'altro italiano che è qui?"
Così dicendo guardò intorno, e un uomo che ci stava osservando da un
angolo del cortile, ci si avvicinò. L'albergatore, dette poche parole,
ci lasciò soli. Era un uomo sulla quarantina, meschinamente vestito, che
parlava co' denti stretti e stropicciando di continuo le mani con un
movimento convulsivo, come se facesse uno sforzo per trattenersi dal
picchiare dei pugni. Mi disse che era lombardo, corista, arrivato il
giorno innanzi a Granata con altri artisti di canto scritturati al
teatro dell'Opera per la _stagione d'estate_.
"Sucido paese!" esclamò senz'altro preambolo, guardandosi intorno come
se volesse pronunziare un discorso.
"Non sta volentieri in Spagna?" gli domandai.
"In Spagna? Io? Scusi: gli è lo stesso come se mi domandasse:--Sta
volontieri lei in galera?"
"Ma perchè?"
"Perchè?... Ma non vede che gente sono gli Spagnuoli: ignoranti,
superstiziosi, orgogliosi, sanguinarii, impostori, furfanti, ciarlatani,
infami?"
E restò un minuto immobile in un atto interrogativo, con le vene del
collo gonfie che pareva gli volessero scoppiare.
"Mi perdoni," risposi, "il suo giudizio non mi pare abbastanza
favorevole per poterle dire che la penso come lei. Quanto a ignoranza,
mi scusi, non tocca a noi Italiani, a noi che abbiamo ancora città in
cui si pigliano a sassate i maestri di scuola, e si stilettano i
professori che danno _zero_ agli scolari; non tocca a noi, per ora, di
riveder le buccie agli altri. Quanto a superstizione, oh poveri noi!
quando vediamo nella città d'Italia, in cui è più diffusa l'istruzione
popolare, seguir un sottosopra da non dirsi, per un'immagine miracolosa
della Madonna trovata da una donnicciuola in mezzo strada.... Quanto a
delitti, io le dichiaro francamente che se dovessi far un raffronto fra
i due paesi coi quadri statistici alla mano in presenza d'un uditorio di
Spagnuoli, senza conoscer prima i dati e le risultanze, avrei una
maledetta paura.... Non voglio dire con questo che noi, su per giù, non
ci troviamo in migliori acque che la Spagna; voglio dire che un
italiano, giudicando gli Spagnuoli, se vuol esser giusto, bisogna che
sia indulgente."
"Non mi va, scusi.... un paese senza _indirizzo politico_! un paese _in
preda all'anarchia_! un paese.... Andiamo, mi citi un grand'uomo
spagnuolo di questi tempi!"
"Non saprei.... ce n'è così pochi da per tutto!"
"Mi citi un Galileo!"
"Oh dei Galilei non ce n'hanno nemmen uno."
"Mi citi un Rattazzi!"
"Eh non ce l'hanno neppure."
"Mi citi.... ma già, non hanno niente. E poi, o che il paese le par
bello?"
"Ah! scusi; su questo punto non la cedo; l'Andalusia, per citarle una
sola provincia, è un paradiso; Siviglia, Cadice, Granata, sono stupende
città."
"Come?... E a lei piacciono le case di Siviglia e di Cadice, che a
passare rasente i muri un povero diavolo s'imbianca dalla testa ai
piedi? Le piacciono quelle strade che dopo un buon pranzo si stenta a
passarci? E trova belle le donne andaluse, con quegli occhi da
spiritate? Andiamo, lei è troppo indulgente, non è un popolo _serio_.
Hanno chiamato Don Amedeo, e ora non lo voglion più; gli è perchè sono
indegni d'esser governati da un _uomo civilizzato_!" (testuale).
"Ma non trova dunque nulla di buono in Spagna?"
"Nulla."
"Ma perchè ci sta?"
"Ci sto.... perchè ci mangio."
"È qualche cosa."
"Ma come ci mangio? Come un cane! chi non sa cos'è la cucina spagnuola!"
"Ma scusi: invece di mangiare come un cane in Spagna perchè non
va a mangiare come un uomo in Italia?"
Qui il povero artista si trovò un po' impacciato; ed io per levarlo
d'impaccio gli offersi un sigaro, che accettò ed accese senza far
parola. E non fu il solo italiano in Spagna, che mi parlasse in quei
termini del paese e degli abitanti, negando persino la serenità del
cielo e la grazia delle andaluse. Io non so che gusto ci sia a viaggiare
in quella maniera, col cuore chiuso ad ogni sentimento benevolo, e
continuamente intesi a censurare e a vilipendere, come se ogni cosa
buona e bella che si trova in un paese straniero, fosse stata rubata al
nostro, e noi non ci potessimo vantare di valer qualcosa se non colla
condizione che tutti gli altri non valgano nulla. La gente che viaggia
con siffatta disposizione d'animo, mi fa più che stizza, pietà, perchè
si priva volontariamente di molti piaceri e di molti conforti. Così mi
pare almeno a giudicar gli altri da me, poichè dovunque io vada, il
primo sentimento che m'inspiran le cose e la gente è un sentimento di
simpatia; un desiderio di non trovar nulla che mi costringa a censurare;
un bisogno di abbellire ai miei stessi occhi le cose belle, di
nascondermi le spiacevoli, di scusare i difetti, di poter dire
schiettamente a me stesso ed agli altri che sono contento di tutti e di
tutto. E per raggiunger questo fine non ho da fare alcun sforzo; ogni
cosa mi si presenta quasi spontaneamente sotto il suo aspetto più
gradevole; e la mia immaginazione colora benignamente gli altri aspetti
di un leggero color di rosa. So bene che in codesto modo non si studia
un paese, non si scrivon _Saggi critici_, nè si acquista la fama
d'uomini profondi; ma so che si viaggia coll'anima serena, e che i
viaggi fanno un pro che non si può dire.
* * * * *
Il giorno dopo andai a vedere il Generalife che era come la villa dei Re
arabi, e il cui nome va congiunto a quello dell'Alhambra, come quello
dell'Alhambra a quel di Granata; benchè oramai del Generalife antico non
rimangan che pochi archi e pochi rabeschi. È un piccolo palazzo,
semplice, bianco, con poche finestre, con una galleria ad archi,
coronato da una terrazza, e mezzo nascosto in mezzo a un bosco d'allori
e di mirti, sulla sommità d'un monte floridissimo che sorge sulla riva
destra del Dauro, di fronte alla collina dell'Alhambra. Dinanzi alla
facciata del palazzo si stende un piccolo giardino, e altri giardini
s'alzano l'uno sull'altro, quasi in forma d'una vasta gradinata, fino al
colonne scintillanti d'oro, i soffitti e le volte dipinti di mille
colori, le porte chiuse da tende di seta, le nicchie piene di fiori, e
sotto i tempietti e nelle sale correva l'acqua odorosa, e dalle nari dei
leoni schizzavano dodici zampilli che ricascavan nella vasca, e l'aria
era pregna dei più deliziosi profumi dell'Arabia!
Ci trattenemmo nel cortile più d'un'ora, che ci passò come un lampo; ed
anch'io feci quello che fanno tutti in quel luogo, spagnuoli e
stranieri, uomini e donne, poeti o non poeti che siano. Feci scorrer la
mano sui muri, toccai tutte le colonnine, le strinsi colle due mani una
per una come la vitina d'una bimba, mi ci nascosi in mezzo, le contai,
le guardai da cento parti, percorsi il cortile in cento sensi, provai se
era vero che dicendo una parola sottovoce in bocca a uno dei leoni, la
si sentiva distintamente dalla bocca di tutti gli altri; cercai sui
marmi le macchie di sangue delle leggende poetiche, mi stancai gli occhi
e la mente sugli arabeschi. Vi eran parecchie signore. Le signore, nel
cortile dei Leoni, fanno ogni sorta di fanciullaggini; mettono il viso
fra le colonne gemelle, si nascondono negli angoli oscuri, siedono in
terra, stanno per ore immobili colla testa appoggiata sulla mano,
sognando. Quelle signore facevan così. Ve n'era una vestita di bianco
che, passando dietro alle colonne lontane, quando credeva di non esser
veduta, pigliava una certa andatura molle e maestosa di sultana
melanconica, e poi rideva con una sua amica: era incantevole. Il mio
amico mi diceva: "Andiamo," e io rispondevo: "Andiamo," e non potevo
muovermi. Non provavo soltanto un sentimento dolcissimo di meraviglia;
ma fremevo di piacere, e avevo addosso una smania di toccare, di
frugare, che so io, di veder dentro quei muri e quelle colonne, come se
fossero d'una materia arcana, e si dovesse scoprire nelle loro intime
parti la causa prima del fáscino che quel luogo esercitava. In tutta la
mia vita non ho mai pensato nè detto, nè dirò mai tante care follie,
tante belle scempiaggini, tante fole, tante gentili cose senza senso,
quante ne pensai e ne dissi in quell'ora.
"Ma bisogna venir qui," mi diceva il Gongora, "al levar del sole,
bisogna venirci al tramonto, bisogna venirci di notte quando splende la
luna, per veder che meraviglie di colori, di ombre e di luce! C'è da
perderci il capo!"
Andammo a vedere le sale. Al lato di levante v'è una sala chiamata della
Giustizia, alla quale si giunge passando sotto tre grandi archi, di cui
ciascuno corrisponde a una porta che dà nel cortile. È una sala lunga e
stretta, di ricca e ardita architettura, colle pareti coperte di
intricati arabeschi e di preziosi musaici, e la vòlta tutta punte e
groppi e sgonfi di stucco che pendon dagli archi, lungo le pareti, e qua
e là s'ammucchiano, si abbassano, escon gli uni dagli altri, e gli uni
gli altri si comprimono e si sovrappongono e par che si disputino lo
spazio, come le bolle d'un'acqua in bollore, presentando ancora in molti
punti le traccie dei colori antichi, che dovevan dare a quella vòlta
l'aspetto d'un padiglione coperto di fiori e di frutta sospese. La sala
ha tre piccole alcove, in ciascuna delle quali, sulla vòlta, si vede
ancora una pittura araba, a cui il tempo e la estrema rarità dei lavori
di pennello che son rimasti degli Arabi, danno un grandissimo valore. Le
pitture son fatte sul cuoio, e il cuoio è attaccato al muro. Nello
stanzino di mezzo son rappresentati, sur un fondo dorato, dieci uomini,
che si suppone esser dieci re di Granata, vestiti di bianco, col
cappuccio in capo, con una mano sulla scimitarra, seduti su cuscini
ricamati. I dipinti delle altre due alcove rappresentano castelli, dame
e cavalieri, scene di caccia e d'amore, delle quali è difficile
afferrare il significato. Ma i volti dei dieci re rispondono
meravigliosamente all'immagine che noi ci formiamo di quella gente: è
quel colore olivastro, son quelle bocche sensuali, son quegli occhi neri
dallo sguardo intento e misterioso che par sempre di veder luccicare
negli angoli oscuri delle sale dell'Alhambra.
Al lato norte del cortile v'è un'altra sala chiamata _de las dos
Hermanas_, (delle due Sorelle) da due grandi lastre di marmo che ne
formano il pavimento. È la sala più gentile dell'Alhambra. È piccola, di
forma quadrata, coperta da una di quelle vòlte in forma di cupola, che
gli Spagnuoli chiamano mezzi aranci, sorretta da colonnine ed archi
disposti in cerchio, tutta lavorata in forma d'una grotta di
stallattiti, con una infinità di punte e d'incavi, coloriti e dorati, e
così leggera alla vista, che par sia sospesa in aria, e a toccarla debba
tremolar tutta come una tenda, o squarciarsi come una nuvola, o svanire
come se non fosse che un mucchio di bolle di sapone. Le pareti
rivestite, come in tutte le altre sale, di stucco, e coperte di
arabeschi incredibilmente fitti e delicati, sono uno dei più
meravigliosi prodotti della fantasia e della pazienza umana. Più si
guarda, e più le innumerevoli linee si stringono e s'incrociano, e da
una figura nasce un'altra, e da questa una terza, e tutte tre ne
presentano una quinta che c'era sfuggita e questa si divide tutt'a un
tratto in altre dieci che non s'erano vedute, e poi si ricompone e si
trasforma daccapo; e non si finisce più di scoprir nuove combinazioni,
perchè quando le prime si riaffacciano, di già son dimenticate, e fan
l'effetto della prima volta. E ci sarebbe da perder la vista e la
ragione a voler venir a capo di quel labirinto; ci vuole un'ora per
vedere il contorno d'una finestra, gli ornamenti d'un pilastro, gli
arabeschi d'un fregio; un'ora non basta per imprimersi nella mente il
disegno d'una delle stupende porte di cedro. Ai due lati della sala vi
sono due piccole alcove; nel mezzo, un piccolo bacino con un tubo per lo
zampillo, che è congiunto al canaletto che attraversa il cortile e va
alla fontana dei Leoni. In dirittura della porta d'entrata, dal lato
opposto, v'è un'altra porta, per la quale si entra in un'altra sala
stretta e lunga, chiamata la sala degli Aranci. Da questa sala, per una
terza porta, si entra in un piccolo gabinetto chiamato il gabinetto di
Lindaraja, straricco di ornamenti, e chiuso da una graziosissima
finestra a due archi che guarda in un giardino.
Per godere tutta la bellezza di questa magica architettura bisogna uscir
dalla sala delle due Sorelle, attraversare il cortile dei Leoni, ed
entrare nella sala chiamata degli Abencerrages che si trova dal lato di
Mezzogiorno, di fronte a quella delle Sorelle, della quale ha quasi la
stessa forma e gli stessi ornamenti. D'in fondo a questa sala lo sguardo
attraversa il cortile dei Leoni, passa per la sala delle due Sorelle,
entra nella sala degli Aranci, penetra nel gabinetto di Lindaraja e
s'infila nel giardino del quale appare la folta verzura sotto gli archi
di quel gioiello di finestra. Le due aperture di questa finestra, viste
rimpicciolite così per la lontananza, e così piene di luce in fondo a
quella fuga di sale oscure, paion due grandi occhi aperti che guardino,
e fanno immaginare che di là ci siano chi sa quali misteri di paradiso.
Visto la sala degli Abencerrages, andammo a vedere i bagni che si
trovano fra la sala delle due Sorelle e il cortile dei Mirti. Scendemmo
una scaletta, passammo per uno stretto corridoio, riuscimmo in una
splendida sala, chiamata sala _de los Divanes_, nella quale venivano a
riposare le belle dei re, sui tappeti persici, al suon delle cetre, dopo
aver fatto il bagno nelle stanze vicine. Questa sala fu ricostrutta
sulle rovine dell'antica, e arabescata, dorata e dipinta da artisti
spagnuoli, come l'antica doveva essere; in modo che si può considerare
come una sala dei tempi degli Arabi rimasta intatta in tutte le sue
parti. Nel mezzo è una fontana, in due pareti opposte due specie di
alcove nelle quali si adagiavan le donne, più alto le tribune dove
stavano i suonatori. Le pareti sono listate, brizzolate, screziate,
picchiettate di mille vivissimi colori, e presentan l'aspetto d'una
tappezzeria di stoffe chinesi trapunte di fili d'oro, con quegli
interminabili intrecci di figure che farebbero ammattire il più paziente
musaicista della terra.
Eppure in quella sala lavorava un pittore! Lavorava da tre mesi a copiar
quelle pareti! Era un tedesco. Il Gongora lo conosceva, e gli domandò:
"È un lavoro che ammazza, non è vero?" E quegli rispose sorridendo: "Non
mi pare," e si ricurvò sul suo quadro.
Lo guardai come avrei guardato una creatura d'un altro mondo.
Passammo negli stanzini da bagno, piccoli, fatti a vòlta, e rischiarati
dall'alto per mezzo di alcuni fori aperti nel muro, in forma di stelle e
di fiori. Le tinozze sono d'un sol pezzo di marmo, vaste, e serrate fra
le due pareti. I corridoi che conducono da uno stanzino all'altro son
bassi e stretti in modo che appena ci può passare un uomo; e vi fa un
fresco che è una delizia. Affacciandomi a uno di quegli stanzini, fui
preso tutt'a un tratto da un pensiero tristo.
"Che cos'ha che si rannuvola?" mi domandò l'amico.
"Penso," risposi, "al come viviamo noi, d'estate come d'inverno, in
quelle case che paion caserme, in quelle stanze al terzo piano o buie o
inondate da un torrente di luce, senza marmo, senz'acqua, senza fiori,
senza colonnine; penso che dovremo viver tutta la vita così, e morire
fra quelle pareti, senza aver provato una volta la voluttà di questi
palazzi fatati; penso che anche in questa misera vita terrena si può
immensamente godere, e che io non godrò nulla! Penso che potevo nascere
quattro secoli fa re di Granata, e che sono nato invece un poveromo!"
L'amico rise, e stringendomi un braccio fra l'indice e il pollice, come
per darmi un pizzicotto, mi disse:
"Non pensi a questo. Pensi a quanto di bello, di gentile e di segreto
debbono aver visto queste tinozze; ai piedini che sguazzarono nelle loro
acque odorose, alle lunghe capigliature che si sparsero sui loro orli,
ai grandi occhi languidi che guardarono il cielo a traverso i fori di
quella vòlta, mentre sotto gli archi del cortile dei Leoni risonava il
passo concitato d'un Califfo impaziente, e i cento zampilli della reggia
dicevano col loro affrettato mormorio:--Vieni, vieni, vieni!--e in una
sala profumata uno schiavo tremante di riverenza chiudeva le finestre
colle cortine color di rosa."
"Ah! mi lasci un po' l'anima in pace!" risposi scrollando le spalle.
Attraversammo il giardino del gabinetto di Lindaraja, e un cortile
d'aspetto misterioso chiamato il _patio della Reja_, e per una lunga
galleria che guarda la campagna, giungemmo sulla sommità di una delle
estreme torri dell'Alhambra, sotto un piccolo padiglione aperto
tutt'intorno, chiamato _Tocador_ (toeletta) _de la reina_, che par
sospeso sur un abisso come il nido d'un'aquila.
Lo spettacolo che si gode di lassù, lo si può dire senza paura d'essere
smentiti da alcuno, non ha l'uguale sulla faccia della terra.
S'immagini una immensa pianura verde come un prato coperto d'erba
novella, attraversata in tutti i sensi da sterminati filari di cipressi,
di pini, di quercie, di pioppi, sparsa di foltissimi boschetti
d'aranci, che a tanta lontananza non paion più che cespugli, e di grandi
orti e giardini così affollati di alberi fruttiferi che presentano quasi
l'aspetto di poggerelli vestiti di verzura; e a traverso questa immensa
pianura il fiume Genil che luccica fra i boschi e i giardini come un
gran nastro inargentato; e tutto intorno colline boscose, e di là dalle
colline, altissime roccie di fantastiche forme che rendon l'immagine di
una cinta di muri e di torri titaniche che separi quel paradiso
terrestre dal mondo; e lì proprio sotto gli occhi, la città di Granata,
parte distesa sul piano, parte sulla china d'un colle, tutta sparsa di
gruppi d'alberi, di macchie, di mucchi informi di verzura che s'alzano e
ondeggiano sopra i tetti delle case come enormi pennacchi, e par che
tendano ad espandersi, a congiungersi e a coprir la città intera; e più
sotto ancora, la valle profonda del Dauro, meglio che coperta, riempita,
colmata quasi da un cumulo prodigioso di vegetazione che si solleva come
una montagna, oltre la quale emerge ancora un bosco di pioppi
giganteschi che agitano le cime sotto le finestre della torre quasi a
portata della mano; e a destra, di là dal Dauro, sur una collina che
s'alza al cielo ardita e svelta come una cupola, il palazzo del
Generalife, coronato di giardini aerei, e quasi nascosto in mezzo a un
bosco di allori, di pioppi e di melagrani; e dalla parte opposta, uno
spettacolo meraviglioso, una cosa incredibile, una visione d'un sogno:
la Sierra Nevada, le più alte montagne d'Europa, dopo le Alpi, bianche
di neve, bianche fino a poche miglia dalle porte di Granata, bianche
fino ai colli dove giganteggiano i melagrani e le palme, e si spiega in
tutta la sua splendida pompa una vegetazione quasi tropicale. S'immagini
ora sopra questo immenso paradiso, che racchiude tutte le ridenti grazie
dell'oriente e tutte le più severe bellezze del settentrione, che sposa
l'Europa all'Affrica tributando all'imeneo tutte le più belle meraviglie
della natura, e che manda al cielo confusi in un solo tutti i profumi
della terra, s'immagini sopra questa valle beata il cielo e il sole di
Andalusia, che volgendo al tramonto, tinge d'un divino color di rosa le
cime, e di tutti i colori dell'iride e di tutti i riflessi delle più
limpide perle azzurrine i fianchi delle montagne della Sierra; e frange
i suoi raggi in mille sfumature d'oro, di porpora e cinerine, nelle
roccie che coronan la pianura; e declinando in mezzo a un incendio di
raggi, getta, come un saluto, una corona luminosa intorno alle torri
pensierose dell'Alhambra e ai pinnacoli inghirlandati del Generalife; e
si dica se si può dare al mondo qualche cosa di più solenne, di più
glorioso, di più innebriante di questa festa amorosa del cielo e della
terra, dinanzi alla quale da nove secoli trema di voluttà e palpita di
orgoglio Granata.
Il tetto del _mirador de la reina_ è sostenuto da piccole colonne
moresche fra le quali si stendono degli archi schiacciati che danno al
padiglione un aspetto stranamente capriccioso e gentile. Le pareti sono
dipinte a fresco, e vi si vedono lungo i fregi le iniziali d'Isabella e
di Filippo V intrecciate con amorini e fiori. Accanto alla porta
d'entrata, resta ancora una pietra del pavimento antico, tutta
bucherellata, sulla quale si dice si mettessero le Sultane per
avvolgersi nel nuvolo dei profumi che si bruciavan di sotto. Ogni cosa,
lassù, spira amore e letizia. Vi si respira un'aria pura come sulla cima
d'una montagna, vi si sente una fragranza confusa di mirti e di rose, e
non vi arriva altro rumore che il mormorio del Dauro che si rompe tra i
macigni del suo letto dirupato, e il canto di migliaia di uccelli
nascosti nella folta verzura della valle; è un vero nido da innamorati,
un'alcova pensile per andarvi a sognare, una loggia aerea per salirvi a
ringraziar Dio d'esser felici.
"Ah! Gongora," esclamai dopo aver contemplato per qualche momento quello
spettacolo incantevole; "io darei dieci anni di vita per poter far
comparir qui, con un colpo di bacchetta magica, tutte le persone care
che mi aspettano in Italia!"
Il Gongora mi accennava un largo spazio del muro tutto nero di date e di
nomi scritti colla matita, col carbone, e incisi colla punta dei
temperini dai visitatori dell'Alhambra.
"Che cos'è scritto qui?" mi domandò.
M'avvicinai e gittai un grido:--Chateaubriand!
"E qui?"
"Byron!"
"E qui?"
"Victor Hugo!"
Scendendo dal _mirador de la reina_ io credevo d'aver visto l'Alhambra,
e commisi l'imprudenza di dirlo al mio amico. Se avesse avuto in mano un
bastone, son certo che me l'avrebbe dato fra capo e collo; ma non
avendolo, si contentò di guardarmi coll'aria d'uno che domandasse se mi
aveva dato volta il cervello.
Ritornammo nel cortile dei mirti, e visitammo le sale poste dall'altro
lato della torre di Comares, la maggior parte mezzo rovinate, altre
trasformate, alcune affatto nude, senza pavimento, senza tetto; ma tutte
meritevoli d'esser vedute, e per i ricordi che destano, e per bene
comprendere la struttura dell'edifizio. L'antica moschea, è stata
convertita in cappella da Carlo V; una grande sala araba, in oratorio;
qua e là si vedono ancora resti di arabeschi e di soffitti di cedro
scolpiti; le gallerie, i cortili, i vestiboli, sembran di un palazzo
devastato dalle fiamme.
Visto anche questa parte dell'Alhambra, credetti davvero che non mi
rimanesse nulla a vedere, e commisi daccapo l'imprudenza di dirlo al
Gongora. Questa volta non si potè più contenere; e condottomi nell'atrio
del cortile dei mirti dinanzi a una pianta dell'edifizio affissa al
muro, mi disse:
"Guardi, e vedrà che tutte le sale e i cortili e le torri che abbiamo
visti finora, non occupano nemmeno la ventesima parte dello spazio che
abbracciano le mura dell'Alhambra; vedrà che non abbiamo ancora visitato
i resti di altre tre moschee, le rovine della casa del Cadì, la torre
dell'Acqua, la torre delle Infante, la torre della Prigioniera, la torre
del Candil, la torre dei Picos, la torre dei Pugnali, la torre dei
_Siete melos_, la torre del Capitano, la torre della Strega, la torre
delle Teste, la torre delle Armi, la torre degli Idalghi, la torre delle
Galline, la torre del Cubo, la torre dell'Omaggio, la torre della Vela,
la torre della Polvere, gli avanzi della casa di Mondejar, i quartieri
militari, la porta di ferro, i muri interni, le cisterne, i passeggi;
perchè ha da sapere che l'Alhambra non è un palazzo, ma una città; e che
ci sarebbe da passar la vita a cercar arabeschi, a leggere iscrizioni, a
scoprir ogni giorno un nuovo colpo d'occhio di colline e di montagne, e
a andare in estasi una volta regolarmente per ognuna delle
ventiquattr'ore della giornata."
Ed io credevo d'aver visto l'Alhambra!
* * * * *
Per quel giorno non ne volli saper altro, e Dio sa come avevo la testa
quando tornai all'albergo. Il giorno dopo, allo spuntar del sole, ci
ritornai; ci ritornai la sera; e continuai a andarci ogni giorno per
tutto il tempo che rimasi a Granata, col Gongora, con altri amici, coi
ciceroni, solo; e l'Alhambra mi parve sempre più vasta e sempre più
bella, e ripercorsi quei cortili e quelle sale, e vi passai ore ed ore,
seduto tra le colonne o appoggiato alle finestrine, con un piacere di
più in più vivo, scoprendo ogni volta bellezze nuove, e abbandonandomi
sempre a quelle vaghe e deliziose fantasie, fra le quali aveva errato
la mente il primo giorno. Non saprei più dire per dove gli amici mi
facevan passare per entrar nell'Alhambra; ma mi ricordo che ogni giorno,
nell'andare, vedevo mura e torri e strade deserte che non avevo viste
mai, e mi pareva che l'Alhambra avesse mutato di sito, o si fosse
trasformata, o le fosser sorti intorno, come per incanto, nuovi edifizii
che ne alterassero l'aspetto primitivo. Chi potrebbe descrivere la
bellezza di quei luoghi quando tramontava il sole! quel bosco fantastico
quando vi batteva il lume della luna! la pianura immensa e le montagne
coperte di neve, nelle notti serene! i grandiosi contorni di quelle mura
enormi, di quelle superbe torri, di quegli alberi smisurati, sul cielo
tempestato di stelle! lo stormire prolungato di quei mucchi immani di
verzura che riempiono le valli e coprono i fianchi delle colline, quando
soffiava la brezza! Era uno spettacolo dinanzi al quale, i miei
compagni, nati a Granata, ed abituati a vederlo fin dalla infanzia,
restavano senza parola, così che facevamo lunghi tratti di cammino in
silenzio, ciascuno immerso nei suoi pensieri, col cuore compreso d'una
mestizia dolcissima che a volte ci faceva inumidir gli occhi e alzar il
viso al cielo con uno slancio di gratitudine e di tenerezza.
* * * * *
Il giorno del mio arrivo a Granata, quando rientrai all'albergo, a
mezzanotte, invece del silenzio e della quiete, trovai il _patio_
illuminato come una sala da ballo, gente ai tavolini che sorbiva
granite, gente su nelle gallerie che andava e veniva, chiaccherando e
ridendo; e mi toccò aspettare un'ora prima di andare a dormire. Ma
passai quell'ora molto gradevolmente. Mentre stavo guardando una carta
di Spagna affissa alla parete, un omaccione col viso color di
barbabietola e una pancia che gli cascava sulle ginocchia, mi si
avvicinò, e toccandosi il berretto, mi domandò s'ero italiano; risposi
di sì, ed egli soggiunse sorridendo:--"Ed io pure; io sono il padrone
dell'albergo."
"Me ne rallegro, tanto più che vedo che lei ci si fa d'oro."
"Dio buono...." mi rispose con un tuono che voleva parer melanconico;
"sì.... non mi lamento; ma.... me lo creda, caro signore, per quanto gli
affari vadan bene, quando si è lontani dal proprio paese, qui (e si mise
una mano sull'enorme torace) qui si sente sempre un vuoto!"
Gli guardai la pancia.
"Un gran vuoto," ripetè l'albergatore; "la patria non si dimentica
mai... Di che provincia è lei, signore?"
"Della Liguria. E lei?"
"Del Piemonte. Liguria! Piemonte! Lombardia! Quelli son paesi!"
"Son bei paesi, non c'è dubbio; ma lei, alla fine dei conti, non si può
lamentare della Spagna. Sta in una delle più belle città del mondo, è
padrone d'uno dei più belli alberghi della città, ha una folla di
forestieri tutto l'anno, e poi vedo che gode d'una salute invidiabile."
"Ma il vuoto!"
Gli guardai di nuovo la pancia.
"Eh capisco, signor mio; ma lei s'inganna, sa, se mi giudica dalle
apparenze. Lei non può immaginare quello che provo io quando capita qui
un Italiano. Che vuole? Sarà una debolezza.... non so.... ma io lo
vorrei vedere tutto il giorno a tavola, e creda che se mia moglie non mi
trovasse a ridire, io sarei capace di mandargli per conto mio una
dozzina di piatti d'antipasto... come nulla."
"A che ora si desina domani?"
"Alle cinque. Del resto.... qui si mangia poco.... paesi caldi.... tutti
si tengon leggeri.... di qualunque _nazionalità_ sieno.... è una
regola.... Ma non ha visto l'altro italiano che è qui?"
Così dicendo guardò intorno, e un uomo che ci stava osservando da un
angolo del cortile, ci si avvicinò. L'albergatore, dette poche parole,
ci lasciò soli. Era un uomo sulla quarantina, meschinamente vestito, che
parlava co' denti stretti e stropicciando di continuo le mani con un
movimento convulsivo, come se facesse uno sforzo per trattenersi dal
picchiare dei pugni. Mi disse che era lombardo, corista, arrivato il
giorno innanzi a Granata con altri artisti di canto scritturati al
teatro dell'Opera per la _stagione d'estate_.
"Sucido paese!" esclamò senz'altro preambolo, guardandosi intorno come
se volesse pronunziare un discorso.
"Non sta volentieri in Spagna?" gli domandai.
"In Spagna? Io? Scusi: gli è lo stesso come se mi domandasse:--Sta
volontieri lei in galera?"
"Ma perchè?"
"Perchè?... Ma non vede che gente sono gli Spagnuoli: ignoranti,
superstiziosi, orgogliosi, sanguinarii, impostori, furfanti, ciarlatani,
infami?"
E restò un minuto immobile in un atto interrogativo, con le vene del
collo gonfie che pareva gli volessero scoppiare.
"Mi perdoni," risposi, "il suo giudizio non mi pare abbastanza
favorevole per poterle dire che la penso come lei. Quanto a ignoranza,
mi scusi, non tocca a noi Italiani, a noi che abbiamo ancora città in
cui si pigliano a sassate i maestri di scuola, e si stilettano i
professori che danno _zero_ agli scolari; non tocca a noi, per ora, di
riveder le buccie agli altri. Quanto a superstizione, oh poveri noi!
quando vediamo nella città d'Italia, in cui è più diffusa l'istruzione
popolare, seguir un sottosopra da non dirsi, per un'immagine miracolosa
della Madonna trovata da una donnicciuola in mezzo strada.... Quanto a
delitti, io le dichiaro francamente che se dovessi far un raffronto fra
i due paesi coi quadri statistici alla mano in presenza d'un uditorio di
Spagnuoli, senza conoscer prima i dati e le risultanze, avrei una
maledetta paura.... Non voglio dire con questo che noi, su per giù, non
ci troviamo in migliori acque che la Spagna; voglio dire che un
italiano, giudicando gli Spagnuoli, se vuol esser giusto, bisogna che
sia indulgente."
"Non mi va, scusi.... un paese senza _indirizzo politico_! un paese _in
preda all'anarchia_! un paese.... Andiamo, mi citi un grand'uomo
spagnuolo di questi tempi!"
"Non saprei.... ce n'è così pochi da per tutto!"
"Mi citi un Galileo!"
"Oh dei Galilei non ce n'hanno nemmen uno."
"Mi citi un Rattazzi!"
"Eh non ce l'hanno neppure."
"Mi citi.... ma già, non hanno niente. E poi, o che il paese le par
bello?"
"Ah! scusi; su questo punto non la cedo; l'Andalusia, per citarle una
sola provincia, è un paradiso; Siviglia, Cadice, Granata, sono stupende
città."
"Come?... E a lei piacciono le case di Siviglia e di Cadice, che a
passare rasente i muri un povero diavolo s'imbianca dalla testa ai
piedi? Le piacciono quelle strade che dopo un buon pranzo si stenta a
passarci? E trova belle le donne andaluse, con quegli occhi da
spiritate? Andiamo, lei è troppo indulgente, non è un popolo _serio_.
Hanno chiamato Don Amedeo, e ora non lo voglion più; gli è perchè sono
indegni d'esser governati da un _uomo civilizzato_!" (testuale).
"Ma non trova dunque nulla di buono in Spagna?"
"Nulla."
"Ma perchè ci sta?"
"Ci sto.... perchè ci mangio."
"È qualche cosa."
"Ma come ci mangio? Come un cane! chi non sa cos'è la cucina spagnuola!"
"Ma scusi: invece di mangiare come un cane in Spagna perchè non
va a mangiare come un uomo in Italia?"
Qui il povero artista si trovò un po' impacciato; ed io per levarlo
d'impaccio gli offersi un sigaro, che accettò ed accese senza far
parola. E non fu il solo italiano in Spagna, che mi parlasse in quei
termini del paese e degli abitanti, negando persino la serenità del
cielo e la grazia delle andaluse. Io non so che gusto ci sia a viaggiare
in quella maniera, col cuore chiuso ad ogni sentimento benevolo, e
continuamente intesi a censurare e a vilipendere, come se ogni cosa
buona e bella che si trova in un paese straniero, fosse stata rubata al
nostro, e noi non ci potessimo vantare di valer qualcosa se non colla
condizione che tutti gli altri non valgano nulla. La gente che viaggia
con siffatta disposizione d'animo, mi fa più che stizza, pietà, perchè
si priva volontariamente di molti piaceri e di molti conforti. Così mi
pare almeno a giudicar gli altri da me, poichè dovunque io vada, il
primo sentimento che m'inspiran le cose e la gente è un sentimento di
simpatia; un desiderio di non trovar nulla che mi costringa a censurare;
un bisogno di abbellire ai miei stessi occhi le cose belle, di
nascondermi le spiacevoli, di scusare i difetti, di poter dire
schiettamente a me stesso ed agli altri che sono contento di tutti e di
tutto. E per raggiunger questo fine non ho da fare alcun sforzo; ogni
cosa mi si presenta quasi spontaneamente sotto il suo aspetto più
gradevole; e la mia immaginazione colora benignamente gli altri aspetti
di un leggero color di rosa. So bene che in codesto modo non si studia
un paese, non si scrivon _Saggi critici_, nè si acquista la fama
d'uomini profondi; ma so che si viaggia coll'anima serena, e che i
viaggi fanno un pro che non si può dire.
* * * * *
Il giorno dopo andai a vedere il Generalife che era come la villa dei Re
arabi, e il cui nome va congiunto a quello dell'Alhambra, come quello
dell'Alhambra a quel di Granata; benchè oramai del Generalife antico non
rimangan che pochi archi e pochi rabeschi. È un piccolo palazzo,
semplice, bianco, con poche finestre, con una galleria ad archi,
coronato da una terrazza, e mezzo nascosto in mezzo a un bosco d'allori
e di mirti, sulla sommità d'un monte floridissimo che sorge sulla riva
destra del Dauro, di fronte alla collina dell'Alhambra. Dinanzi alla
facciata del palazzo si stende un piccolo giardino, e altri giardini
s'alzano l'uno sull'altro, quasi in forma d'una vasta gradinata, fino al