Spagna - 20

soffitti, i muri, le porte sono scolpiti, ricamati, fioriti, istoriati
con una delicatezza da miniatura. In una vecchia cappella di stile misto
di gotico e d'arabo, di forma elegantissima, si conserva una piccola
colonna alta poco più di tre piedi, donata da Pio V a un discendente del
fondatore del palazzo, allora vicerè di Napoli; alla qual colonna, narra
la tradizione che sia stato avvinto Gesù Cristo per essere flagellato;
il che, se pur fosse vero, proverebbe che Pio V non aveva nemmeno un
pelo che ci credesse, chè altrimenti non avrebbe commesso, così alla
leggiera, l'inqualificabile sproposito di privarsene per fare un regalo
al primo venuto. Tutto il palazzo è sparso di sacre memorie. Al primo
piano, il custode vi accenna una finestra che corrisponde a quella
presso cui era seduto san Pietro quando rinnegò Gesù, e il finestrino
dal quale la fante lo riconobbe. Dalla strada si vede un'altra finestra
con un terrazzino di pietra, che occupa precisamente il posto di quella
dove Gesù fu mostrato al popolo colla corona di spine. Il giardino è
pieno di frammenti di statue antiche portate dall'Italia da quello
stesso Don Pedro Afan de Ribera, vicerè di Napoli. Fra le altre fiabe
che si raccontano intorno a quel misterioso giardino, si dice che Don
Pedro Afan de Ribera vi aveva posto l'urna, recata dall'Italia, che
conteneva le ceneri dell'Imperatore Traiano, e che un curioso senza
garbo, avendola rovesciata con un urto, le ceneri dell'Imperatore
s'erano sparse fra l'erba, e nessuno era più riuscito a raccoglierle.
Così l'augusto monarca, nato a Italica, per uno stranissimo caso era
tornato vicino alla sua città nativa, non assai bene in arnese, a dir
vero, per poter recarsi a meditare sulle sue rovine; ma pur vicino in
ogni modo.
* * * * *
Dopo quello che ho accennato, si può dire, non d'aver visto, ma d'aver
cominciato a vedere Siviglia. Io però mi arresto qui, perchè tutto deve
aver una fine. Lascio da un lato i passeggi, le piazze, le porte, le
biblioteche, i palazzi pubblici, le case dei grandi, i giardini, le
chiese; ristringendomi a dire che, dopo aver girato per parecchi giorni
dal levar del sole al tramonto, dovetti partire da Siviglia col peso di
molti rimorsi sulla coscienza. Non sapevo più dove battere il capo. Ero
giunto a tal segno di stanchezza che l'annunzio d'una nuova cosa da
vedere mi faceva più spavento che piacere. Il buon signor Gonzalo mi
ispirava coraggio, mi confortava, mi accorciava il cammino colla sua
piacevolissima compagnia; ma tant'è, di quello che vidi gli ultimi
giorni non serbo che una memoria molto confusa.
* * * * *
Siviglia, benchè non meriti più il titolo glorioso di Atene spagnuola,
come ai tempi di Carlo V e di Filippo II, quando madre ed ospite d'una
folta ed eletta schiera di poeti e di pittori, era la sede della civiltà
e delle arti del vasto impero dei suoi monarchi; è pur sempre fra le
città di Spagna, eccettuata Madrid, quella in cui la vita artistica si
mantiene più rigogliosa, e per la copia degli ingegni, e per l'opera dei
mecenati, e per la natura del popolo amantissimo delle belle arti. V'è
una fiorente Accademia letteraria, una Società protettrice delle arti,
un'Università di bella fama, e una famiglia di dotti e di scultori, che
godono d'una onorevole reputazione in Ispagna. Ma la prima gloria
letteraria di Siviglia è una signora, Caterina Bohl, autrice delle
novelle che portano il nome di Fernan Caballero, diffusissime in Spagna,
e in America, tradotte in quasi tutte le lingue d'Europa, e note anche
in Italia, dove alcune vennero non è molto pubblicate, a ogni persona
che s'occupi nulla nulla di letteratura straniera. Son quadri ammirabili
di costumi andalusi, pieni di verità, d'affetto, di grazia, e sopra
tutto d'un così possente vigore di fede, d'un entusiasmo religioso così
intrepido, d'una carità cristiana così ardente, che il più scettico uomo
del mondo ne sarebbe scosso e turbato. Caterina Bohl è una donna che
affronterebbe il martirio con la fermezza e la serenità di sant'Ignazio.
E la coscienza della sua forza si rivela ad ogni sua pagina: non si
ristringe a difendere la religione e a predicarla, assale, minaccia,
fulmina i nemici; e non solo i nemici della religione, ma ogni uomo ed
ogni cosa che accolga, per dirla con una frase fatta, lo spirito del
secolo, poich'ella non perdona a nulla di quanto s'è fatto al mondo dai
tempi dell'Inquisizione in poi, ed è più inesorabile del Sillabo. Ed è
questo forse il suo più gran difetto di scrittrice, perchè i suoi
predicozzi religiosi, e le sue invettive sono soverchio fitte, e quando
non rivoltano, ristuccano, e nuocciono, più che non giovino alle sue
stesse mire. Ma non c'è ombra di fiele nell'anima sua, e quale è nei
libri, tale nella vita: gentile, buona, caritatevole; in Siviglia è
venerata come una santa. Nacque nella città, si maritò giovanissima, ed
ora è vedova per la terza volta. Il suo ultimo marito, che fu
ambasciatore di Spagna a Londra, si uccise, ed ella da quel giorno non
ha più deposto il lutto. Ha ora poco meno di settant'anni, fu
bellissima, ed il suo aspetto nobile e sereno serba l'impronta della
bellezza. Suo padre, ch'era uomo fornito di acuto ingegno e di vasta
cultura, le fece apprendere in tenera età varie lingue: conosce
profondamente il latino, e parla con facilità mirabile l'italiano, il
tedesco, il francese. Oramai, benchè giornali ed editori d'Europa e
d'America la stimolino con larghissime offerte a scrivere, non scrive
più; ma non vive per questo inoperosa. Legge dalla mattina alla sera
ogni sorta di libri, e leggendo o fa la calza o ricama, poichè ha
fermissimamente deciso che i suoi studi di letteratura non debbano
togliere neanche un minuto alle sue faccende da donna. Non ha figliuoli,
vive in una casa solitaria, della quale ha ceduto il miglior quartiere a
una famiglia povera, e spende una buona parte dell'aver suo in
elemosine. Un tratto curioso del suo carattere è l'affetto vivissimo che
porta alle bestie: ha la casa piena d'uccelli, di gatti e di cani; e la
sua sensitività, a questo riguardo, è così delicata, ch'ella non ha mai
voluto metter piede in una carrozza, dal timore di veder dare una
frustata al cavallo per cagion sua. Tutti i dolori l'affliggono come
suoi proprii dolori: la vista d'un cieco, d'un malato, d'una sventura
quale essa sia, la turba per una giornata intera; non può chiuder gli
occhi al sonno, se non ha prima asciugato una lacrima; darebbe
lietamente tutta la sua gloria per risparmiare una trafittura di cuore
ad uno sconosciuto. Prima della rivoluzione viveva meno solitaria: la
famiglia Montpensier la riceveva con grandi onoranze, le più illustri
famiglie di Siviglia facevano a gara per averla in casa; ora non vive
che coi suoi libri e con poche amiche.
* * * * *
Ai tempi degli Arabi, Cordova aveva il primato nella letteratura,
Siviglia nella musica; Averroes diceva:--Quando a Siviglia muore un
dotto e si voglion vendere i suoi libri, si mandano a Cordova; ma se a
Cordova muore un musico, i suoi strumenti si mandano a vendere a
Siviglia.--Ora Cordova ha perduto anche il primato letterario, e
Siviglia li ha tutti e due. Non son più i tempi, certo, in cui un poeta,
cantando le bellezze d'una fanciulla, faceva accorrere intorno a lei, da
tutte le parti del regno, una folla d'innamorati; e un principe
invidiava un altro principe, solo perchè era stato fatto in sua lode un
verso più bello di quanti ne fossero mai stati ispirati da lui; e un
Califfo premiava l'autore d'un bell'inno con un regalo di cento
cammelli, d'uno stuolo di schiavi e d'un vaso d'oro; e una ingegnosa
strofa improvvisata a tempo scioglieva dalle catene uno schiavo o
salvava la vita a un condannato a morte; e i musici passeggiavan per le
strade di Siviglia con un corteggio da monarchi, e il favore dei poeti
era cercato come quello dei re, e la lira era temuta come la spada. Ma
il popolo sivigliano è pur sempre il popolo più poeta della Spagna. Il
frizzo, la parola amorosa, l'espressione della gioia e dell'entusiasmo
sgorgano dalle sue labbra con una spontaneità e una grazia che seduce.
Il popolano di Siviglia improvvisa versi, parla che par che canti,
gestisce che par che declami, ride e folleggia come i fanciulli. A
Siviglia non s'invecchia. È una città in cui si sfuma la vita in un
sorriso continuo, senz'altro pensiero che di godersi il bel cielo, le
belle casine, i giardinetti voluttuosi. È la città più quieta di Spagna;
è la sola, che dalla rivoluzione in poi, non sia stata agitata da alcuni
di quei tristi commovimenti politici che sconvolsero le altre; la
politica non passa la prima pelle; si bada a fare all'amore; tutte le
altre cose si pigliano in ridere; _todo lo toman de broma_, dicono dei
sivigliani gli altri spagnuoli; e in vero, con quell'aria profumata, con
quelle stradine da città orientale, con quelle donnine piene di fuoco,
confondersi! A Madrid si parla male di loro; si dice che son vani,
falsi, mutevoli, pettegoli. È gelosia! Invidiano la loro indole felice,
la simpatia che ispirano agli stranieri, le loro ragazze, i loro poeti,
i loro pittori, i loro oratori, la loro Giralda, il loro Alcazar, il
loro Guadalquivir, la loro vita, la loro storia! Così dicono i
sivigliani battendosi una mano sul petto e cacciando in aria un nuvolo
di fumo dal loro inseparabile _cigarrito_; e le loro belle donnine si
vendicano delle madrilene e di tutte le donne del mondo, parlando con
maligna pietà dei lunghi piedi, delle larghe vite e degli occhi morti
che in Andalusia non riceverebbero l'onore d'uno sguardo e l'omaggio
d'un sospiro. Bello ed amabile popolo in verità, al quale, ahimè!
bisogna pur vedere il rovescio della medaglia, soverchia la
superstizione e mancan le scuole, come a quasi tutta la Spagna
meridionale, in parte non per sua colpa, ma in parte sì; e questa,
forse, non è la parte minore.
* * * * *
Il giorno fissato per la partenza mi arrivò addosso inaspettato. È
strano: io non ricordo quasi nulla dei particolari della mia vita a
Siviglia; è un gran che se so dire a me stesso dove desinai, di che cosa
parlai col Console, come passai le serate, perchè stabilii di partire
quel dato giorno; ero assente da me stesso; vivevo, se posso così
esprimermi, fuori di me; fui per tutto il tempo che rimasi in quella
città, un po' intontito. Fuor che nel Museo e nel _patio_, il mio amico
Segovia deve aver trovato che sapevo di poco; e ora, non so perchè,
penso a quei giorni come a un sogno. Di nessun'altra città m'è rimasta
una ricordanza così vaga come di Siviglia. Oggi ancora, mentre son ben
sicuro di essere stato a Saragozza, a Madrid, a Toledo, qualche volta,
pensando a Siviglia, mi piglia un dubbio. Mi pare che sia una città
molto più lontana degli ultimi confini della Spagna, che per tornarci
dovrei viaggiare mesi e mesi, e attraversare terre sconosciute e grandi
mari e popoli in tutto diversi da noi. Penso alle strade di Siviglia, a
certe piazzette, a certe case, come penserei alle macchie della luna. A
volte, l'immagine di quella città mi passa dinanzi agli occhi, come una
forma bianca, e dispare, quasi senza che io possa afferrarla colla
mente; la vedo odorando un arancio cogli occhi chiusi; fiutando I' aria,
in certe ore della giornata, sulla porta d'un giardino; canterellando
una canzoncina che sentii cantare da un ragazzo su per le scale della
Giralda. Non so spiegare a me stesso questo secreto; ci penso, come a
una città che avessi ancora da vedere, e godo nel guardare stampe e
nello sfogliar libri comprati là, perchè son cose che attestano a me
stesso che ci sono stato. Un mese fa ricevetti una lettera del Segovia
che mi diceva:--Ritornate fra noi;--e n'ebbi un piacere matto, e nello
stesso tempo risi come se m'avessero detto:--Fate una corsa a Pekino.--E
appunto per questo Siviglia mi è cara su tutte le altre città della
Spagna; l'amo come una bella donna sconosciuta, che attraversando un
bosco misterioso, m'avesse gettato uno sguardo ed un fiore. Quante
volte, quando un amico mi scuote dicendomi:--A che pensi?--o nella
platea d'un teatro o nella sala d'un caffè, io, per tornare a lui, debbo
uscire dallo stanzino di Maria Padilla, o da una barca che scivola
all'ombra dei platani della _Cristina_, o dalla bottega di Figaro, o dal
vestibolo di un _patio_ pieno di fiori, di zampilli e di lumi!
* * * * *
M'imbarcai sur un bastimento della Compagnia Segovia, presso la Torre
dell'Oro, in un'ora che Siviglia era tutta immersa in un profondo sonno,
e un sole ardentissimo la copriva d'un mare di luce. Mi ricordo che
pochi momenti prima della partenza, un giovinetto venne a bordo a
cercarmi, e mi rimise una lettera di Gonzalo Segovia, la quale
racchiudeva un sonetto che serbo tuttora, come uno dei più preziosi
ricordi di Siviglia. Sul bastimento era una compagnia di cantanti
spagnuoli, una famiglia inglese, degli operai, dei bambini. Il capitano,
da buon andaluso, aveva una parola cortese per tutti. Appiccai subito
discorso con lui. Il mio amico Gonzalo è figliuolo del proprietario del
bastimento; parlammo della famiglia Segovia, di Siviglia, del mare, di
mille cose allegre. Ah! il pover uomo era ben lontano dal pensare che,
pochi giorni dopo, quel malaugurato bastimento si sarebbe sfasciato in
mezzo al mare, ed egli avrebbe fatto così un'orrenda fine! Era il
_Guadaira_ del quale scoppiò la caldaia a breve distanza da Marsiglia,
il giorno 16 giugno del 1872.
* * * * *
A tre ore il bastimento partì alla volta di Cadice.


X.
CADICE

Quella fu la serata più deliziosa di tutto il mio viaggio.
Poco dopo che il bastimento s'era mosso cominciò ad alitare una di
quelle aurette gentili che scherzano come la manina d'un bimbo col
fiocco della cravatta e coi capelli delle tempie; e da prora a poppa si
levò un vocío di donne e di ragazzi, come segue in una brigata d'amici
al primo chiocco di frusta che annunzia la partenza per una scampagnata
festiva. Tutti i passeggieri si radunarono a poppa, all'ombra d'un'ampia
tenda variopinta come un padiglione chinese, e chi sedette sui cordami,
chi si sdraiò sulle panche, chi si appoggiò al parapetto, ognuno rivolto
dalla parte della torre dell'Oro, per godere lo spettacolo famoso e
incantevole di Siviglia che s'allontana e dispare. Qualche donnina aveva
ancora il viso bagnato delle lagrime dell'addio, qualche bambino era
ancora un po' stordito dallo strepito della macchina a vapore, qualche
signore non aveva ancora finito di bisticciarsi coi facchini che gli
avevan un po' strapazzato i bauli; ma di lì a pochi minuti tutti si
rasserenarono, si cominciò a mondare aranci, ad accender sigari, a far
girare fiaschettine di liquori, ad appiccar conversazione cogli
sconosciuti, a canterellare, a ridere; in un quarto d'ora fummo tutti
amici. Il bastimento scivolava colla soavità d'una gondola sulle acque
chete e limpide, che riflettevano come uno specchio le vesti bianche
delle signore; e l'aria portava un gratissimo odore d'aranci dai boschi
delle sponde popolate di ville. Siviglia s'era nascosta dietro la sua
cinta di giardini; e noi non vedevamo più che un mucchio immenso
d'alberi verdissimi, e di sopra la nera mole della cattedrale, e la
Giralda color di rosa, sormontata dalla sua statua fiammeggiante come
una lingua di fuoco. Via via che ci allontanavamo la cattedrale appariva
più grande e più maestosa come se tenesse dietro alla nave e guadagnasse
terreno; ora pareva che, pure inseguendoci, si allontanasse dalla
sponda; ora che si fosse posta a cavallo del fiume; un momento sembrava
che fosse tutt'a un tratto ritornata al suo posto; un momento dopo
appariva tanto vicina da far sospettare che il bastimento tornasse
indietro. Il Guadalquivir serpeggia a brevi curve; secondo che il
bastimento andava di qua o di là, Siviglia appariva e spariva. Ora
faceva capolino da una parte, come se si fosse allungata fuor della sua
cinta; ora balzava tutt'a un tratto al di sopra dei boschi,
biancheggiando come un altopiano coperto di neve; ora lasciava veder
qua e là in mezzo al verde alcune striscie bianche, e si nascondeva
daccapo, e faceva ogni sorta di vezzi e di civetteríe da donnina
capricciosa. Poi disparve, e non la rivedemmo più; e non rimase che la
cattedrale. Allora tutti si voltarono a guardare le sponde. Pareva di
navigare in un lago d'un giardino. Qui una collina vestita di cipressi,
là un poggio tutto fiorito, più oltre un villaggio schierato lungo la
sponda; e sotto i pergolati dei giardini e sulle terrazze delle ville,
signore che ci guardavan col canocchiale; e qua e là famiglie di
contadini vestiti di vivi colori, e barchette a vela, e ragazzi nudi che
si tuffavan nell'acqua e facean tomboli e guizzi, strillando e agitando
le mani verso le signore del bastimento che si coprivano il viso col
ventaglio. A qualche miglio da Siviglia, incontrammo tre bastimenti a
vapore a breve distanza l'un dall'altro. Il primo ci venne addosso
all'improvviso, in una giravolta del fiume, così che io, non esperto di
quella maniera di navigazione, temetti un momento che non si fosse più
in tempo ad evitare lo scontro. I due bastimenti si passaron vicini
quasi da toccarsi, e i passeggieri dell'uno e dell'altro si salutarono e
si gettaron sigari e aranci, incaricandosi a vicenda di portare un
saluto a Cadice e a Siviglia.
I miei compagni di viaggio eran quasi tutti Andalusi; così che dopo
un'ora di conversazione, io li conosceva dal primo all'ultimo, nè più nè
meno che se fossero stati tutti miei amici d'infanzia. Ognuno disse
subito a chi lo voleva e a chi non lo voleva sapere, chi egli era,
quant'anni aveva, che cosa faceva, dove andava, e qualcuno anche quante
amanti aveva avute e quante _pecetas_ portava nella borsa. Io fui preso
per un cantante, e non è strano per chi pensi che in Spagna il popolo
crede che tre quarti degl'Italiani campino cantando o ballando o
recitando. Un signore, vedendo che avevo un libro italiano tra le mani,
mi domandò di punto in bianco:
"Dove ha lasciato la compagnia?"
"Qual compagnia?" domandai io.
"O che lei non cantava colla Fricci al teatro della Zarzuela?"
"Mi spiace; ma io non ho mai messo piede sul teatro."
"To'; allora bisogna dire che il secondo tenore e lei si rassomigliano
come due goccie d'acqua."
"Bisogna dir così."
"Scusi, sa."
"Non c'è di che."
"Ma lei è italiano?"
"Italiano."
"Canta?"
"Me ne rincresce: non canto."
"È curiosa! A giudicar dalla struttura del suo collo e del suo petto
avrei detto che lei doveva avere una stupenda voce di tenore."
Io mi toccai il petto e il collo e risposi:
"Può darsi, proverò, non si sa mai: due delle condizioni volute le ho:
sono italiano e ho un collo da tenore: la voce deve venire."--A questo
punto, la prima donna della compagnia che aveva sentito il dialogo,
entrò nella conversazione, e dopo di lei tutta la compagnia:
"Il signore è italiano?"
"Per servirla."
"Glielo domando appunto perchè ho bisogno d'un piacere. Che cosa voglion
dire quei versi del _Trovatore_ che dicono:
«Non può nemmeno un Dio
Donna rapirti a me.»
"È maritata la signora?"
Tutti si misero a ridere.
"Sì," rispose la prima donna; "ma perchè mi fa questa domanda?"
"Perchè.... non può nemmeno un Dio rapirla a me, vuol dire quello che
suo marito, se ha due bravi occhi nella testa, dovrebbe dire di lei ogni
mattina quando si leva e ogni sera quando va a letto: _Ni Dios mismo
podria arrancármela_."
Gli altri risero; ma alla prima donna parve così stravagante quella
supposta arroganza di suo marito, di affermarsi sicuro anche da un Dio,
mentre forse ella sapeva che non aveva avuto sempre l'accortezza di
guardarsi dagli uomini; che appena degnò il mio complimento d'un sorriso
per far vedere che l'aveva capito. E mi domandò subito la spiegazione
d'un altro verso, e dopo di lei il baritono, e dopo il baritono il
tenore, e dopo il tenore la seconda donna, e via via, per un pezzo non
feci che tradur cattivi versi italiani in pessima prosa spagnuola, con
gran soddisfazione di quella buona gente che per la prima volta poteva
dire di capire un poco quello che aveva tante volte cantato coll'aria di
capire moltissimo. Quando ognuno ne seppe quanto voleva, la
conversazione si ruppe; io stetti un po' col baritono che mi canterellò
un'aria di zarzuela; poi mi attaccai a un corista, il quale mi disse che
il tenore faceva all'amore colla prima donna; poi tirai in disparte il
tenore che mi scoperse gli altarini della moglie del baritono; poi
discorsi colla prima donna che disse roba da chiodi dell'intera
compagnia; ma erano tutti amiconi, e incontrandosi in quell'andare e
venire sulla coperta, gli uomini si azzeccavan dei pizzicotti, le donne
si mandavan dei baci, gli uni e le altre si scambiavano sguardi e
sorrisi che rivelavano intelligenze secrete; e chi solfeggiava di qui, e
chi canterellava di là, e chi faceva un trillo in un canto, e chi in un
altro tentava un _do_ di petto che finiva in un rantolo; e intanto
discorrevan tutti insieme di mille corbellerie. Suonò finalmente la
campanella e ci gettammo a tavola coll'impeto di tanti invitati
ufficiali a un pranzo di gala per una festa d'inaugurazione d'un
monumento. A quel desinare, in mezzo alle grida e ai canti di tutta
quella gente, bevvi per la prima volta un bicchiere schietto di quel
formidabile vino di Jerez, del quale si cantan le meraviglie ai quattro
angoli della terra. Appena l'avevo tracannato, che mi parve di sentire
una scintilla scorrere per tutte le mie vene, e la testa infiammarmisi
come se l'avessi piena di zolfo. Bevvero tutti gli altri, e a tutti
pigliò un'allegria sfrenata e una parlantina irresistibile; la prima
donna si mise a discorrere in italiano; il tenore in francese; il
baritono in portoghese, gli altri in dialetto; io in tutte le lingue e
lì brindisi e canzoncine ed evviva ed occhiate e strette di mano sopra
la tavola e giuochi di pedina di sotto e dichiarazioni di simpatia che
s'incrociavano in tutti i sensi come le impertinenze in un Parlamento
quando destra e sinistra s'accapigliano. Finito il desinare, si salì
tutti in coperta, rossi, tronfi, sbuffanti, avvolti in una nuvola di
fumo di _cigarritos_; e là, al lume della luna, che inargentava l'ampio
fiume, e copriva di una luce limpidissima i boschi e le colline
ricominciarono più clamorose le conversazioni, e dopo le conversazioni i
canti, non più di ariette di zarzuela, ma d'operoni coi fiocchi,
duetti, terzetti, cori, con accompagnamento di gesti e di passi da palco
scenico, intercalati di declamazioni di versi, di racconti, d'aneddoti,
di risa sgangherate, di applausi fragorosi; finchè sfiatati e rifiniti,
tutti tacquero, qualcuno s'addormentò col viso in aria, qualche altro
s'andò ad accucciolare sotto coperta, la prima donna sedette in
un canto a guardar la luna. Il tenore russava; io approfittai della
buona occasione per andare a farmi ripetere a bassa voce un'arietta
della zarzuela: _El sargento Federico_. La cortese andalusa non
si fece pregare, cantò; ma tutt'a un tratto tacque e chinò il viso.
La guardai: piangeva. Le domandai che cos'avesse. Mi rispose
malinconicamente:--Penso a uno spergiuro.--Poi diede in uno scoppio di
risa e ricominciò a cantare. Aveva una voce armoniosa e snella, e
cantava con un sentimento come di tristezza amorosa; il cielo era tutto
tempestato di stelle, e il bastimento scorreva così placidamente sul
fiume che pareva appena che si muovesse; e io pensavo ai giardini di
Siviglia, all'Affrica vicina, e a una persona cara che m'aspettava in
Italia, e mi pigliava il piantoriso, e quando la donna cessava di
cantare, le dicevo:--Canti ancora--e
«Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno...»
Allo spuntar dell'alba il bastimento stava per entrare nell'Oceano; il
fiume era immenso; la riva destra appariva appena, in lontananza, come
una lingua di terra di là dalla quale luccicavan le acque del mare.
Alcuni istanti dopo il sole s'affacciò all'orizzonte, e il bastimento
uscì dal fiume. Allora ci si spiegò dinanzi agli occhi un tale
spettacolo, che se si potessero confondere in una sola arte
rappresentativa la poesia, la pittura e la musica, io per me credo che
Dante colle sue più grandi immagini, il Tiziano coi suoi più fulgidi
colori e il Rossini colle sue più potenti armonie, non sarebbero
riusciti, tutti e tre insieme, a significarne la magnificenza e
l'incanto. Il cielo era una meraviglia di color zaffiro senza la macchia
d'una nube, e il mare così bello che pareva un immenso tappeto di raso
serico; e luccicava al sommo delle lievi increspature che vi faceva
l'aura leggerissima, come se fosse tutto coperto di gemme azzurre, e
formava specchi e striscie luminose, e in lontananza mandava
lampeggiamenti di luce d'argento, e mostrava qua e là alte e
bianchissime vele, simili ad ali sornotanti di giganteschi angeli
caduti. Non ho mai visto tanta vivezza di colori, tanta pompa di luce,
tanta freschezza, tanta trasparenza, tanta limpidità d'acque e di cielo.
Pareva una di quelle aurore della creazione che la fantasia dei poeti ci
dipinse così pure e così sfolgoranti da non esser più le nostre, al
paragone, che un pallido riflesso; ed era più che lo svegliarsi della
natura e il ridestarsi della vita; era come una festa, un trionfo, un
ringiovanimento del creato, che sentisse espandersi nell'infinito un
secondo soffio di Dio.
Scesi sotto coperta per pigliare il canocchiale; quando salii vidi
Cadice.
La prima impressione che mi fece fu di mettermi in dubbio se fosse o non
fosse una città; poi risi; poi mi voltai verso i miei compagni di
viaggio coll'aria di chi domanda che lo rassicurino che non s'è
ingannato. Cadice sembra un'isola di gesso. È una gran macchia bianca in
mezzo al mare senza una sfumatura oscura, senza un punto nero, senza
un'ombra; una macchia bianca tersa e purissima come una collina coperta
di neve intatta che spicchi sur un cielo color di berillo e di turchina
in mezzo a una vasta pianura allagata. Una lunga e sottilissima
striscia di terra l'unisce al continente; da tutte le altre parti è
bagnata dal mare, come un bastimento sul punto di far vela, non
trattenuto più alla riva che da una catena. A poco a poco si distinsero
i contorni dei campanili, i profili delle case, le imboccature delle
strade; e ogni cosa pareva più bianco via via che ci avvicinavamo, e per
quanto guardassi col canocchiale, non mi veniva fatto di trovare in
quella bianchezza il più piccolo neo, neanco sopra gli edifizi, neanco
intorno al porto, neanco negli estremi sobborghi. Si arrivò nel porto
dove non erano che pochi bastimenti a grande distanza gli uni dagli
altri, scesi in una barca senza neppur portare con me la valigia perchè
dovevo ripartir la stessa sera per Malaga, e così vivo era il mio
desiderio di veder la città, che quando la barca giunse alla riva,
spiccai innanzi tempo il salto e caddi in terra come _corpo morto_, che
risenta ancora, ahimè! i dolori d'un corpo vivo.
Cadice è la città più bianca del mondo; e non gioverebbe oppormi che non
vidi tutte le città, perchè ho per me la buona ragione, che una città
più bianca d'una che è superlativamente e completamente bianca non ci
può essere. Cordova e Siviglia non han nulla che fare con Cadice; quelle
son bianche come la carta, Cadice è bianca come il latte. Per darne una
idea, non ci sarebbe di meglio che scrivere mille volte di seguito la
parola «bianca» con una matita bianca su carta azzurra e notare in
margine:--Impressioni di Cadice--Cadice è uno dei più stravaganti e
graziosi capricci umani. Non son bianchi soltanto i muri esterni delle
case: son bianche le scale, bianchi i cortili, bianche le pareti delle
botteghe, bianchi i muricciuoli, bianchi i pilastri, bianchi gli angoli
più riposti e più oscuri delle case più povere, delle strade più
appartate; bianco ogni cosa dai tetti alle cantine, per tutto dove può
entrare la punta di un pennello, persino i fori, persino le
screpolature, persino i nidi degli uccelli. In ogni casa è un deposito
di calce e di bianco, e ogni volta che l'occhio scrutatore degli