Spagna - 16

per andar a stare a Madrid; gli uomini d'ingegno han seguìto i ricchi;
non v'è commercio; la fabbricazione delle lame, unica industria che vi
fiorisca, provvede alla vita di qualche centinaio di famiglie, ma non
basta alla città; l'istruzione popolare è trasandata; il popolo è inerte
e miserabile. Ma non ha perduto il bel carattere antico. Come tutti i
popoli delle gran città decadute, è fiero e cavalleresco; abborre dalle
basse azioni; fa giustizia di propria mano, quando può, degli assassini
e dei ladri; e benchè il poeta Zorilla, in una sua ballata, l'abbia
chiamato senza metafora un popolo imbecille, non è tale; è sveglio e
ardito. Partecipa della serietà degli Spagnuoli del settentrione e
della vivacità degli Spagnuoli del mezzodì; tiene il luogo di mezzo tra
il Castigliano e l'Andaluso; parla lo spagnuolo con garbo, con più
varietà d'accenti che il popolo di Madrid, con meno rilassatezza che il
popolo di Cordova e di Siviglia; ama la poesia e la musica; è altero di
annoverare tra i suoi maggiori il soave Garcilaso della Vega,
riformatore della poesia spagnuola, e l'arguto Francisco de Rojas,
l'autore del _Garcia del Castañar_; ed è orgoglioso di veder accorrere
fra le sue mura artisti e dotti di tutti i paesi del mondo, a studiarvi
la storia di tre genti, e i monumenti di tre civiltà. Ma qual che sia il
popolo, Toledo è morta; la città di Wamba, di Alfonso il Bravo e di
Padilla, non è più che una tomba. Dacchè Filippo II le tolse la corona
di capitale, ella è andata sempre declinando, e declina ancora, e si
consuma a poco a poco, sola sulla sommità della sua trista montagna,
come uno scheletro abbandonato sur una rupe in mezzo alle onde del mare.
Tornai all'albergo poco prima della mezzanotte e siccome splendeva la
luna, e le notti di luna, benchè in quelle straduccie non penetri la
luce dell'astro d'argento, Toledo non è illuminata, così dovetti
camminare poco meno che a tastone come il ladro nella casa del delitto.
Colla testa piena, come avevo, di ballate fantastiche, nelle quali son
descritte le strade di Toledo, corse, la notte, da cavalieri imbacuccati
nelle cappe, che cantano sotto le finestre delle belle, si battono, si
ammazzano, dan la scalata ai palazzi e rapiscono le fanciulle; così
m'immaginavo di aver a sentir suoni di chitarre e rumor di spade e grida
di moribondi. Nulla di tutto questo: le strade eran deserte e
silenziose, e le finestre buie; e appena si udiva di tratto in tratto,
alle cantonate e sui crocicchi, qualche leggiero fruscío o qualche
bisbiglio fuggitivo, che non si sarebbe nemmen potuto dire da che parte
venisse. Giunsi all'albergo senz'aver rapito nessuna toledana, ciò che
poteva avere qualcosa di spiacevole; ma anche senz'essermi fatto fare
nessun occhiello nel ventre, ciò che senza dubbio aveva qualcosa di
consolante.
* * * * *
La mattina del giorno dopo visitai il bell'edificio dell'ospedale di
Santa Croce, la chiesa di _Nuestra señora del Transito_, antica
sinagoga; i resti di un anfiteatro e d'una naumachia dei tempi dei
Romani, e la famosa fabbrica d'armi, nella quale comperai un bel
pugnaletto col manico inargentato e la lama coperta di rabeschi, che ho
in questo momento sul tavolino, e che, a serrar gli occhi ed a
stringerlo, mi fa parer d'esser ancora là, nel cortile dell'opificio, a
un miglio di distanza in Toledo, sotto il sole di mezzogiorno, in mezzo
a un crocchio di soldati e a un nuvolo di fumo di _cigarritos_. Mi
ricordo che tornando a Toledo alla bella pedona, mentre attraversavo un
tratto di campagna solitario come un deserto e muto come una catacomba,
una voce formidabile gridò:--_Fuera el extranjero!_
La voce veniva dalla città, mi fermai, lo straniero ero io, quel grido
era diretto a me, mi si rimescolò il sangue: la solitudine ed il
silenzio del luogo accrescevano la mia paura. Tirai innanzi, e la voce
di nuovo:
--_Fuera el extranjero!_--
--Ma è un sogno--esclamai arrestandomi di nuovo,--o son desto? Chi è che
grida? dove? perchè?--
Ripresi a andare, e la voce una terza volta:--_Fuera el extranjero!_--
Mi fermo una terza volta, e mentre tutto turbato giro gli occhi intorno,
vedo un ragazzo seduto in terra, che mi guarda ridendo, e mi dice:--_Es
un loco_ (un pazzo) _que cree vivir en el tiempo de la guerra de
independencia; mire Vsted; allí està la casa de locos._ E mi accennò
l'Ospedale dei Pazzi, sull'altura, le estreme case di Toledo. Misi un
respirone, che avrebbe smorzato una torcia a vento.
La sera partii da Toledo, col rammarico di non aver avuto tempo per
vedere e rivedere tutto quello che v'è di antico e di mirabile; mitigato
però questo rammarico, dal desiderio ardentissimo dell'Andalusia, che
non mi lasciava un momento di pace. Ma per quanto tempo ebbi dinanzi
agli occhi Toledo! Per quanto tempo vidi e sognai quelle roccie
scoscese, quei muri enormi, quelle tetre strade, quel fantastico aspetto
di città medioevale! Ed oggi ancora me ne ravvivo spesso l'immagine con
una sorta di tristo piacere e di austera malinconia, e quell'immagine mi
divaga la mente in mille strani pensieri di tempi remoti e di casi
meravigliosi.


VIII.
CORDOVA.

Arrivato a Castillejo dovetti aspettare fino a mezzanotte il treno
dell'Andalusia; desinai a uova sode e ad aranci, con un po' d'innaffio
di Val de Peñas, brontolai una poesia dell'Espronceda, chiaccherai un
po' con un doganiere (il quale, tra parentesi, mi fece la sua
professione di fede politica: Amedeo, libertà, accrescimento di paga ai
doganieri, ec.); finchè s'udì il sospirato fischio, ed entrai in un
carrozzone pieno stipato di donne, di ragazzi, di guardie civili, di
scatole, di cuscini, d'involti; e via, con una rapidità insolita sulle
strade ferrate di Spagna. La notte era bellissima; i miei compagni di
viaggio parlavano di tori e di Carlisti; una bella ragazza, che più
d'uno divorava cogli occhi, fingeva di dormire, per scaldare le fantasie
con un saggio dei suoi atteggiamenti notturni; chi faceva _cigarritos_,
chi sbucciava aranci, chi canterellava ariette di _Zarzuela_. Nullameno,
dopo pochi minuti, m'addormentai. Credo che avevo già sognato la Moschea
di Cordova e l'Alcazar di Siviglia, quando fui svegliato da un rauco
grido:
--_Puñales?_
--Pugnali? Caspita! Per chi? Prima ch'io vedessi chi avea gridato, mi
balenò davanti agli occhi una lama lunga ed acuta, e lo sconosciuto
ridomandò:
--_Le gusta?_
Bisogna convenire che vi sono dei modi assai più piacevoli di essere
svegliati. Io guardai in viso i miei compagni di viaggio con
un'espressione di stupore che li fece prorompere tutti insieme in uno
scoppio di risa. Allora mi fu detto che ad ogni stazione della strada
ferrata c'eran dei venditori di coltelli e di pugnali, che offrivano ai
viaggiatori la loro merce come da noi si offrono i giornali e i
rinfreschi. Rassicurato della vita, comprai il mio spauracchio: cinque
lire, un bel pugnale da tiranno di tragedia, con manico fregiato,
iscrizione sulla lama e fodero di velluto ricamato; e lo misi in tasca,
pensando che mi avrebbe fatto comodo in Italia per sciogliere questioni
cogli Editori. Il venditore n'avrà avuti una cinquantina in una gran
fascia rossa che gli stringeva la vita. Altri viaggiatori ne comprarono;
le guardie civili complimentarono uno dei miei vicini per la buona
scelta fatta; i ragazzi gridarono:--Uno anche a me!--le mamme
risposero:--Ve ne compreremo uno più lungo un'altra volta.--Oh beata la
Spagna! io esclamai, e pensai con raccapriccio alle nostre barbare leggi
che ci vietano l'innocente trastullo d'un po' di lama affilata.
Attraversammo la Mancia, la celebrata Mancia, teatro immortale delle
avventure di Don Chisciotte. È tal quale io me l'immaginava: ampie
pianure nude, lunghi tratti di terreno sabbioso, qualche mulino a vento,
pochi villaggi meschini, viottole solitarie, casuccie abbandonate.
Vedendo quei luoghi, provai quel vago senso di malinconia che desta
sempre in me la lettura del libro del Cervantes, e ridissi a me stesso
quello che, leggendo, mi dico sempre: Costui non può far ridere, o sotto
il sorriso fa spuntare la lacrima. Don Chisciotte è una figura mesta e
solenne; la sua pazzia è un lamento; la sua vita è la storia dei sogni,
delle illusioni, dei disinganni, delle aberrazioni di tutti; la lotta
della ragione coll'immaginazione, del vero col falso, dell'ideale col
reale; tutti noi abbiamo del Don Chisciotte, tutti noi prendiamo dei
mulini a vento per giganti, tutti noi siamo a volta a volta spinti in su
da un impeto d'entusiasmo, e ricacciati giù da una risata di scherno;
tutti siamo un misto di sublime e di follia; tutti sentiamo con amarezza
profonda il contrasto perpetuo tra la grandezza delle nostre aspirazioni
e la debolezza delle nostre facoltà. Bei sogni della fanciullezza e
dell'adolescenza, propositi generosi di consacrar la vita alla difesa
della virtù e della giustizia, care immaginazioni di affrontati
pericoli, di lotte venturose, di gesta magnanime e di eccelsi amori, ad
una ad una cadute, come foglie di fiori, sull'angusto e uniforme
sentiero della vita, come ce le ravvivi nell'anima, e quanti vaghi
pensieri e profondi insegnamenti ne derivi, o generoso e sventurato
cavaliere dalla triste figura!
Si toccò Argasamilla di Alba, dove Don Chisciotte nacque e morì, e dove
il povero Cervantes, esattore del gran priorato di San Giovanni, in nome
del magistrato speciale di Consuegra, fu arrestato dagli irascibili
debitori, e tenuto prigione in una casa che, a quanto si dice, esiste
tuttora, e nella quale è fama egli concepisse il disegno del suo
romanzo. Passammo accanto al villaggio di Val de Peñas, che dà il nome a
uno dei più squisiti vini di Spagna, nero, frizzantino, esilarante, il
solo, forse, che permetta allo straniero del Norte le copiose libazioni
dei suoi banchetti; e giungemmo infine a Santa Cruz de Tudela, villaggio
famoso per le sue fabbriche di _navajas_, (coltelli, rasoi) presso il
quale la via comincia a sollevarsi dolcemente verso la montagna.
S'era levato il sole, eran discese donne e bambini dalla carrozza, eran
saliti contadini, ufficiali e _toreros_, che andavano a Siviglia. Si
vedeva, in quel ristretto spazio, una varietà di vestimenti che non si
vede da noi in un mercato: cappelli a punta di contadini della Sierra
Morena, calzoni rossi di soldati, grandi _sombreros_ di _picadores_,
scialli di gitane, _mantas_ di catalani, lame di Toledo appese alle
pareti, cappe, ciarpe, fronzoli di tutti i colori d'Arlecchino.
* * * * *
Il treno s'innoltrò tra le roccie della Sierra Morena, che separa la
Valle della Guadiana da quella del Guadalquivir, famosa per canti di
poeti e gesta di briganti. La strada corre tratto tratto fra due pareti
di sasso tagliate a picco, alte tanto, che per vederne la sommità
convien mettere tutta la testa fuor del finestrino, e torcere il viso in
su, come per guardare il tetto del carrozzone. Altrove le roccie son più
distanti, e sorgono le une sulle altre, le prime in forma di macigni
enormi franati, le ultime ritte, sottili, simili a torri ardite,
innalzate su smisurati bastioni; in mezzo, un ammonticchiamento di
massi, tagliati a denti, a scalini, a creste, a gobbe, dove quasi
sospesi in aria, dove separati da caverne profonde e da precipizi
spaventevoli, che presentano una confusione di forme capricciose, di
abbozzi fantastici d'edifizi, di figure gigantesche, di rovine, e
offrono a ogni passo mille profili ed aspetti inattesi; e su quella
infinita varietà di forme un'infinita varietà di colori, di ombre, di
guizzi, di sbattimenti di luce. Per lungo tratto, a destra, a sinistra,
in alto, non si vede che pietra, senza una casa, senza un sentiero,
senza un palmo di terra dove si possa posare il piede d'un uomo; e man
mano che si va oltre, roccie, burroni, precipizii, ogni cosa s'allarga,
s'approfonda, s'innalza, fino al punto culminante della Sierra, dove la
sovrana maestà dello spettacolo strappa un grido di meraviglia.
Là il treno si arrestò per qualche minuto, e tutti i viaggiatori misero
la testa fuor del finestrino.
"_Aquí,_" disse un tale ad alta voce, "_iba saltando de risco en risco
el Roto de la mala figura para cumplir su penitencia._"
(Cardenio, uno dei più notevoli personaggi del _Don Chisciotte_, che
saltava in camicia, su per le roccie della Sierra, per far penitenza dei
suoi peccati).
"_Yo,_" continuò il viaggiatore, "_quisiera que obligáran à hacer lo
mismo à Sagasta._"
Tutti risero, e cominciarono a cercare, ciascuno per conto suo, un uomo
politico inviso, al quale infliggere, coll'immaginazione, quel castigo;
e chi propose il Serrano, e chi il Topete, e chi altri; di modo che, in
pochi minuti, se i desiderii fossero stati soddisfatti, si sarebbe visto
tutta la Sierra popolata di ministri, di generali e di deputati in
camicia, ruzzolanti di bricca in bricca, come il masso famoso di
Alessandro Manzoni.
* * * * *
Il treno ripartì, le roccie sparirono, e la deliziosa valle del
Guadalquivir, il giardino della Spagna, l'Eden degli Arabi, il paradiso
dei pittori e dei poeti, la beata Andalusia si dischiuse ai miei occhi.
Risento ancora il fremito di gioia fanciullesca col quale mi slanciai al
finestrino, dicendo a me stesso:--Godiamo!
Per un lungo spazio la campagna non offre alcun nuovo aspetto
all'ardente curiosità del viaggiatore. A Vilches si stende una vasta
pianura, e al di là la rasa campagna di Tolosa, dove Alfonso VIII, re di
Castiglia, riportò sull'esercito mussulmano la celebrata vittoria _de
las Navas_. Il cielo era limpidissimo, si vedevano in lontananza i
monti della Sierra di Segura. A un tratto, mi vien fatto uno di quei
rapidi movimenti, che par che rispondano a un grido interno di stupore:
i primi aloè, dalle ampie foglie carnose, inaspettati annunziatori della
vegetazione del Tropico, sorgono ai lati della via. Al di là cominciano
ad apparire i campi tempestati di fiori. I primi tempestati, quei che
seguono quasi coperti, poi vaste distese di terreno vestite interamente
di rosolacci, di margherite, di fioralisi, di pratoline, di primavere,
di ranuncoli, in modo che la campagna si presenta come una successione
d'immensi tappeti di porpora, d'oro, di neve; e lontano, in mezzo agli
alberi, innumerevoli striscie azzurre, bianche, gialle, a perdita
d'occhio; e vicino, sulle sponde dei fossi, sui rialzi, fin sulla
scarpa, fin sulla proda della via, fiori a strati, a cespi, a ciuffi,
gli uni sugli altri, aggruppati a guisa di grandi mazzi, tremolanti
sugli alti steli, che quasi si toccano colla mano. Poi campi
biondeggianti di grano dalle grossissime spighe, fiancheggiati da lunghi
roseti; poi boschetti d'aranci, vasti oliveti, collinette variate di
cento sfumature di verde, sormontate d'antiche torri moresche, sparse di
casine variopinte, e tra l'una e l'altra, ponti bianchi e snelli che
accavalciano rigagnoli nascosti dagli alberi. All'orizzonte appaiono le
cime nevose della Sierra Nevada; sotto quella striscia bianca, altre
strisce azzurre, ondulate, dei monti più vicini; la campagna di più in
più variata e florida; Arjonilla, in mezzo a un bosco d'olivi, di cui
non si scorgono i confini; Pedro Abad, in mezzo a una pianura coperta
di vigneti e d'alberi fruttiferi; Ventas di Alcolea, su gli ultimi colli
della Sierra Morena, popolati di ville e di giardini. Ci s'avvicina a
Cordova, il treno vola, si vedono le piccole stazioni mezzo nascoste
dagli alberi e dai fiori, il vento porta le foglie delle rose dentro
alle carrozze, grandi farfalle trasvolano rasente le finestre, un
profumo delizioso si spande nell'aria, i viaggiatori cantano, si
trascorre per un giardino incantevole, spesseggiano gli aloé, gli
aranci, le palme, le ville; s'ode un grido:--Ecco Cordova!
* * * * *
Quante belle immagini e grandi ricordi si destan nella mente al suono di
questo nome!
Cordova, l'antica perla d'occidente, come la chiamano i poeti arabi, la
città delle città, Cordova dai trenta borghi e dalle tremila moschee,
che chiudeva tra le sue mura il più grande tempio dell'Islam! La sua
fama si spandeva per l'Oriente, ed oscurava la gloria dell'antica
Damasco. Dalle più remote regioni dell'Asia traevano i fedeli alle rive
del Guadalquivir, per prostrarsi nel Mhirab meraviglioso della sua
Moschea, al chiarore delle mille lampade di bronzo, fuse colle campane
delle Cattedrali di Spagna. Accorrevano gli artisti, i dotti, i poeti,
da ogni parte del mondo maomettano, alle sue fiorenti scuole, alle sue
biblioteche immense, alle corti magnifiche dei suoi Califfi. Affluivano
i ricchi e le belle, tratte dalla fama della sua splendidezza. E di qui
si spandevano, avidi di sapere, lungo le coste dell'Affrica, per le
scuole di Tunisi, di Cairo, di Bagdad, di Cufa, e fino all'India e alla
China, a raccoglier libri, ispirazioni e memorie; e le poesie cantate
alle falde della Sierra Morena, volavano, di cetra in cetra, fino alle
vallate del Caucaso, ad eccitare l'ardore dei pellegrinaggi. La bella,
la poderosa, la sapiente Cordova, coronata di tremila villaggi,
ostentava alteramente i suoi bianchi minareti in mezzo ai boschetti
d'aranci, e spandeva intorno per la valle divina un'aura voluttuosa di
letizia e di gloria!
* * * * *
Scendo dal treno, attraverso un giardino, mi guardo intorno, son solo; i
viaggiatori che scesero con me sparirono chi di qua chi di là; sento
ancora il rumore d'una carrozza che s'allontana; poi tutto tace. È
mezzogiorno, il cielo purissimo, l'aria accesa. Vedo due casine bianche:
è l'imboccatura d'una strada, entro, vado oltre. La strada è stretta, le
case piccine come le villette che s'innalzano sui poggi artificiali dei
giardini, quasi tutte d'un sol piano, colle finestre a pochi palmi da
terra, i tetti che quasi si toccan col bastone, i muri bianchissimi. La
strada svolta, guardo, non vedo nessuno, non sento un passo, non una
voce. Dico: sarà una strada abbandonata. Piglio un'altra strada: casette
bianche, finestre chiuse, solitudine, silenzio. O dove sono? mi domando.
Vado innanzi: la strada, stretta da non potervi passare una carrozza,
serpeggia; a destra e a sinistra si vedono altre strade deserte, altre
case bianche, altre finestre chiuse; il mio passo risuona come in un
corridoio; il bianco dei muri è tanto vivo che persino il riflesso
m'offende, e son costretto a camminare a occhi socchiusi; mi par di
andare in mezzo alla neve. Giungo a una piazzetta: tutto chiuso e
nessuno. Allora mi comincia a entrar nel cuore un senso di vaga
malinconia, non mai provata pel passato; un misto di piacere e di
tristezza, simile a quello che provano i fanciulli, quando, dopo una
lunga corsa, giungono in un bel sito campestre, e se ne rallegrano, ma
col tremito d'essersi troppo dilungati da casa. Al di sopra di molti
tetti s'alzano le palme degl'interni giardini. Oh fantastiche leggende
di Odalische e di Califfi! Oltre, di strada in strada, di piazza in
piazza; comincio ad incontrare qualcuno, ma tutti passano e spariscono
come fantasmi. Tutte le strade si somigliano, le case non hanno più di
due o quattro finestre; e non una macchia, non uno sgorbio, non una
screpolatura nei muri, che son lisci e bianchi come un foglio di carta.
Tratto tratto sento un bisbiglio dietro una persiana, e vedo quasi nello
stesso momento spuntare e sparire una testa bruna con un fiore tra le
treccie. M'affaccio a una porta.....
Un _patio_! Come descrivere un _patio_? Non è un cortile, non è un
giardino, non è una sala: è queste tre cose insieme. Tra il _patio_ e la
strada v'è un vestibolo. Ai quattro lati del _patio_ s'alzano colonne
sottili che sostengono all'altezza del primo piano una specie di
galleria chiusa da ampie vetrate; sopra la galleria si stende una tela
che ombreggia il cortile. Il vestibolo è lastricato di marmo, la porta
fiancheggiata da colonne, sormontata da bassorilievi, chiusa da un
sottile cancello di ferro di vaghissimo disegno. In fondo al _patio_, in
dirittura della porta, sorge una statua; in mezzo, una fontana; intorno,
seggiole, tavolini da lavoro, quadri, vasi di fiori. Corro a un'altra
porta: un altro _patio_, colle pareti coperte dall'edera, e una corona
di nicchie, con entro statuine, busti, urne. M'affaccio a una terza
porta: un _patio_ colle pareti lavorate di musaico, una palma nel mezzo,
e intorno un mucchio di fiori. A una quarta porta: dopo il _patio_, un
altro vestibolo, dopo questo un secondo _patio_, nel quale si vedono
altre statue, altre colonne, altre fontane. E tutte queste sale e questi
giardini son puliti e nitidi da poter passare la mano sui muri e per
terra senza che ci resti la traccia; e freschi, odorosi, rischiarati da
una luce incerta che ne accresce la bellezza e il mistero.
Avanti ancora, di strada in strada, alla ventura. Via via che cammino,
mi s'accresce la curiosità, e affretto il passo. Mi pare impossibile che
la città debba esser tutta così; temo d'imbattermi in una casa o di
riuscire in una strada che mi richiami alla mente le altre città e rompa
il mio bel sogno. Ma no, il sogno dura: tutto è piccino, gentile,
misterioso. Ogni cento passi, una piazzetta deserta, nella quale mi
arresto trattenendo il respiro; di tratto in tratto un crocicchio, e non
un'anima viva;--e sempre bianco e tutto bianco,--e finestre chiuse,--e
silenzio. Ed a ogni porta un nuovo spettacolo: archi, colonne, fiori,
zampilli, palme; una meravigliosa varietà di disegni, di tinte, di luce,
di profumi; qui di rose, là di aranci, più là di viole; e col profumo un
soffio d'aria fresca, e coll'aria un suono sommesso di voci di donne, e
stormir di foglie, e canto d'uccelli; un'armonia varia e soave, che
senza turbare il silenzio della strada, molce l'orecchio come l'eco
d'una musica lontana. Ah! non è un sogno! Madrid, l'Italia, l'Europa,
sono certo a una grande distanza di qui! Qui si vive un'altra vita, qui
spira l'aria d'un altro mondo, io sono in Oriente!
* * * * *
Mi ricordo che a un certo punto mi arrestai in mezzo alla strada e, non
so come, mi accorsi improvvisamente ch'ero tristo e inquieto, e che nel
mio cuore v'era un vuoto che la meraviglia e il piacere non bastavano a
colmare. Io sentivo un bisogno irresistibile di penetrare in quelle case
e in quei giardini, di squarciare, per dir così, il velo di mistero, che
avvolgeva la vita della gente sconosciuta che vi era dentro; di
partecipar di quella vita; di afferrare una mano, e di fissare i miei
occhi in due occhi pietosi, e di dire:--Sono uno straniero, son solo,
voglio esser felice anch'io, lasciatemi stare in mezzo ai vostri fiori,
lasciatemi godere di tutti i segreti del vostro paradiso, ditemi chi
siete, come vivete, sorridetemi, quetatemi, la mia testa brucia!--E
questa tristezza giunse sino a tal segno, che dissi a me stesso:--Io
non posso stare in questa città, io ci soffro, io parto!--
E sarei partito in fatti, se in buon punto non mi fossi ricordato che
avevo in tasca una lettera di raccomandazione per due giovani di
Cordova, fratelli d'un amico mio di Firenze. Smisi il proposito di
partire e corsi subito a cercarli.
Quanto risero, quando io dissi loro l'impressione che Cordova mi faceva!
Mi proposero d'andar subito a vedere la Cattedrale, infilammo una
stradina bianca, e via.
La moschea di Cordova, che venne ridotta a Cattedrale dopo la cacciata
degli Arabi; ma che è pur sempre moschea, fu costrutta sulle rovine
della cattedrale primitiva, poco lontano dalla sponda del Guadalquivir.
Abdurrahman ne cominciò la costruzione l'anno 785 o 786.--Inalziamo una
moschea,--egli disse,--che vinca quella di Bagdad, quella di Damasco e
quella di Gerusalemme; che sia il più grande tempio dell'Islam, che
diventi la Mecca d'Occidente.--Si pose mano all'opera con grande ardore,
gli schiavi cristiani portavano alle fondamenta le pietre delle chiese
distrutte, Abdurrahman lavorava egli stesso un'ora ogni giorno, la
moschea, nello spazio di non molti anni, fu fatta, i Califfi successori
di Abdurrahman l'abbellirono, dopo un secolo di quasi continui lavori fu
compiuta.
--Eccoci,--mi disse uno dei due ospiti, arrestandosi tutt'a un tratto
davanti a un vasto edifizio.
Io credetti che fosse una fortezza. Era il muro che cinge la moschea,
un vecchio muro merlato, nel quale s'aprivano una volta venti grandi
porte di bronzo, contornate di bellissimi rabeschi, e di finestrine
arcate, rette da sottili colonne: coperto ora da un triplice strato di
calce. Un giro intorno a quel muro di cinta è una passeggiatina da farsi
dopo desinare: si giudichi della vastità dell'edifizio.
La porta principale della cinta è a tramontana nel punto dove sorgeva il
minareto di Abdurrahman, sulla cima del quale sventolava lo stendardo
maomettano. Entrammo; io credevo di veder subito l'interno della
Moschea, e mi trovai in un giardino pieno di aranci, di cipressi e di
palme, cinto da tre lati da un porticato leggerissimo, e chiuso al
quarto lato dalla facciata della moschea. Nel mezzo di questo giardino
era al tempo degli Arabi la fonte per le abluzioni, e all'ombra di
questi alberi si raccoglievano i fedeli prima d'entrare nel tempio.
Stetti qualche momento guardando intorno, e aspirando l'aria fresca e
odorosa con un senso vivissimo di piacere; e mi batteva il cuore al
pensare che la famosa moschea era lì accanto, e mi sentivo ad un tempo
spinto verso la porta da una immensa curiosità, e trattenuto da non so
quale trepidazione fanciullesca.--Entriamo,--mi dicevano i
compagni.--Ancora un momento,--rispondevo; lasciatemi assaporare bene la
dolcezza dell'aspettazione.--Finalmente mi mossi, e senza neanco
guardare la meravigliosa porta che i compagni m'accennarono, entrai.
Che cosa feci o dissi appena entrato, non so; ma certo qualche strana
voce mi deve esser sfuggita o debbo aver fatto qualche gesto assai
strano, perchè alcune persone che in quel punto venivano verso di me, si
misero a ridere, e si voltarono di nuovo a guardare intorno, come per
rendersi conto della profonda sensazione ch'io avevo manifestata.
Immaginate una foresta, e supponete di trovarvi nel più fitto, e di non
veder altro che tronchi d'alberi. Così, nella moschea, da qualunque
parte uno si volga, lo sguardo si perde tra le colonne. È una foresta di
marmo della quale non si scorge la fine. Si seguono collo sguardo ad una
ad una le lunghissime file delle colonne che s'incrociano ad ogni passo
con altre innumerevoli file, e s'arriva a un fondo semi-oscuro, nel
quale par di vedere biancheggiare ancora altre colonne. Son diciannove
navate che s'allungano nella direzione dei passi di chi entra,
attraversate da altre trentatre, sostenute, fra tutte, da più di
novecento colonne di porfido, di diaspro, di breccia, di marmi d'ogni
colore. Ogni colonna sorregge un pilastrino, e tra l'una e l'altra
s'incurva un arco, e un secondo tra pilastrino e pilastrino, questo
sovrapposto al primo, e tutti e due della forma d'un ferro di cavallo;
in guisa che, immaginando essere le colonne tanti tronchi d'albero, gli
archi rappresentano i rami, e la similitudine della moschea a una
foresta è completa. La navata del mezzo, assai più larga che le altre,
riesce innanzi alla Maksura, che è la parte più sacra del tempio, dove
si adorava il Corano. Qui, dalle finestre del soffitto, scende un
pallido raggio di luce che rischiara una fila di colonne; là v'è un
tratto oscuro; più oltre scende un altro raggio che rischiara un'altra
navata. È impossibile esprimere il sentimento di mistica meraviglia che
vi si desta nell'animo a quello spettacolo. È come la rivelazione
improvvisa d'una religione, d'una natura e d'una vita ignota, che vi
rapisce la fantasia tra le delizie di quel paradiso pieno d'amore e di
voluttà, dove i beati, seduti all'ombra dei platani frondosi e dei
roseti senza spine, libano nei vasi di cristallo i vini scintillanti
come perle, mesciuti da fanciulli immortali, e riposano nell'amplesso
delle amabili vergini dai grandi occhi neri! Tutte le immagini
dell'eterno piacere che il Corano promette ai fedeli, vi si presentano
in folla alla mente, alla prima vista della moschea, vive, ardenti,
scintillanti, e vi danno una momentanea ebbrezza dolcissima, che vi