Spagna - 13

mestizia.--Signore!--mi disse solennemente il custode, prima di uscire,
tendendo la mano verso la tomba di Carlo V:--L'imperatore è là, tal
quale come quando ce l'hanno messo, cogli occhi ancora aperti, che par
vivo e parlante! È un miracolo d'Iddio che ha il suo perchè! Chi vivrà
vedrà!--E dicendo quest'ultime parole abbassò la voce come per timore
che l'imperatore sentisse, e fatto il segno della croce, mi precedette
su per la scala.
Dopo la chiesa e la sacrestia, si va a visitare il Museo di pittura, che
contiene un gran numero di quadri d'artisti d'ogni paese, non già de'
migliori, chè questi furon portati al Museo di Madrid; ma pur tali da
meritare una visita attenta di mezza giornata. Dal Museo di pittura si
va alla Biblioteca, passando per la grande scala sulla quale s'incurva
una smisurata vòlta tutta dipinta a fresco da Luca Giordano. La
Biblioteca è composta d'una vastissima sala ornata di grandi pitture
allegoriche, che contiene più di cinquantamila volumi preziosissimi,
quattromila dei quali regalati da Filippo II, e d'un'altra sala dove è
una ricchissima raccolta di manoscritti. Dalla Biblioteca si va al
Convento.
Qui l'immaginazione umana si perde. Se qualcuno dei lettori ha letto
l'_Estudiante de Salamanca_ dell'Espronceda, si rammenti di
quell'instancabile giovane, quando, tenendo dietro alla signora
misteriosa che incontrò di notte ai piedi d'un tabernacolo, trascorre di
strada in strada, di piazza in piazza, di vicolo in vicolo, e svoltando,
e girando e rigirando arriva fino a un punto dove non ravvisa più le
case di Salamanca, e si trova in una città sconosciuta; e continua a
svoltare cantonate, a traversar piazze, a percorrer strade; e via via
che va oltre gli par che la città s'allarghi, e le strade si allunghino,
e i vicoli s'incrocino più fitto; e va ancora, e va sempre, e va senza
posa, e non sa se sogna, o se è desto, o ubriaco, o impazzito; e nel suo
cuore di ferro comincia a penetrare il terrore, e i più strani
fantasimi gli si affollano nella mente smarrita; così lo straniero nel
convento dell'Escuriale. Infilate un lungo corridoio sotterraneo stretto
da toccarne le pareti coi gomiti, basso da urtar quasi la testa nella
vòlta, e umido come una grotta sottomarina; arrivate in fondo, svoltate,
siete in un altro corridoio. Andate oltre, incontrate delle porte,
guardate: altri corridoi si allungano a perdita d'occhio. In fondo a
qualcuno vedete un barlume di luce, in fondo ad altri una porta aperta
che lascia intravedere una fuga di stanze. Di tratto in tratto sentite
il rumor d'un passo, v'arrestate, non lo sentite più; poi lo risentite;
non sapete se è sopra il vostro capo, o a destra, o a sinistra, o
dietro, o davanti. V'affacciate a una porta, e retrocedete impaurito: in
fondo allo sterminato corridoio in cui avete lanciato lo sguardo, avete
visto un uomo immobile, come uno spettro, che vi guardava. Tirate
innanzi, riescite in un cortile angusto, cinto di mura altissime,
erboso, sonoro, illuminato di una luce scialba, che par che scenda da un
sole ignoto, simile ai cortili delle streghe che ci descrivevano da
ragazzi. Uscite dal cortile, salite su per una scala, riuscite sopra una
galleria, guardate giù: è un altro cortile silenzioso e deserto.
Infilate un altro corridoio, scendete un'altra scala, vi trovate in un
terzo cortile; poi daccapo corridoi e scale e fughe di sale vuote e
cortili angusti, e per tutto granito, erba, luce scialba, silenzio di
tomba. Per un po' di tempo vi pare che riuscirete a tornare sui vostri
passi; poi la memoria vi si turba, e non ricordate più nulla; vi pare
d'aver fatto dieci miglia, di essere in quel laberinto da un mese, di
non poterne più uscire. Vi affacciate sur un cortile e dite:--l'ho già
visto!--No, v'ingannate, è un altro. Credete di essere da quella tal
parte dell'edifizio, siete dalla parto opposta. Domandate al custode
dov'è il claustro, vi risponde:--È qui;--e camminate ancora per
mezz'ora. Vi par di sognare: vedete di sfuggita lunghi muri dipinti a
fresco, ornati di quadri, di croci, d'iscrizioni; vedete e dimenticate;
chiedete a voi stessi: dove sono? Vedete una luce d'un altro mondo; non
avevate idea d'una siffatta luce; è l'effetto del riflesso del granito?
è il lume della luna? No, è giorno; ma è una luce più trista delle
tenebre; è una luce falsa, sinistra, fantastica. E avanti, di corridoio
in corridoio, di cortile in cortile; vi guardate innanzi con sospetto;
aspettate di veder all'improvviso, allo svoltar d'un canto, una fila di
frati scheletriti, col cappuccio sugli occhi e le braccia in croce;
pensate a Filippo II; vi par di sentire il suo passo lento allontanarsi
per gli anditi oscuri; vi ricordate tutto quello che avete letto di lui,
dei suoi terrori, dell'Inquisizione, e ogni cosa vi s'illumina agli
occhi della mente d'una subita luce; capite ogni cosa per la prima
volta; l'Escuriale è Filippo II, lo vedete a ogni passo, sentite il suo
respiro, egli è ancora là, vivo e spaventevole, e con lui l'immagine del
suo Dio tremendo. Allora voi vorreste ribellarvi, sollevare il pensiero
al Dio del vostro cuore e delle vostre speranze, e vincere il terrore
misterioso che il luogo v'ispira; ma non potete; l'Escuriale vi
circonda, vi possiede, vi schiaccia; il freddo delle sue pietre vi
penetra nelle ossa; la tristezza dei suoi laberinti sepolcrali v'invade
l'anima; se siete con un amico, gli dite:--Usciamo;--se foste colla
vostra amante la stringereste al cuore con un senso di trepidazione; se
foste solo, pigliereste la corsa; infine salite una scala, entrate in
una stanza, v'affacciate a una finestra, e salutate con uno slancio di
gratitudine i monti, il sole, la libertà, il Dio grande e benefico che
ama e che perdona.
Che respirone si tira a quella finestra!
Di là si vedono i giardini, che occupano uno spazio ristretto, e son
semplicissimi; ma quanto si può dire eleganti e belli, e in perfetta
armonia coll'edifizio. Vi si vedon dodici leggiadre fontane, ciascuna
circondata da quattro quadrati di mortella che rappresentano scudi
reali, disegnati con un gusto sì squisito e arrotondati con una tal
finitezza, che a guardarli sulle finestre, paion tessuti di felpa e di
velluto, e formano nella bianca arena dei sentierini un graziosissimo
spicco. Non alberi, non fiori, non capanni: in tutto il giardino non si
vedono che fontane, quadrati di mortella, e due soli colori, il verde e
il bianco; ed è tale la bellezza di quella nobile semplicità, che non se
ne può staccare lo sguardo, e quando lo si è staccato, il pensiero vi
ritorna, e ci si arresta con un diletto dolcissimo temperato di una
sorta di mestizia gentile. In una stanza vicina a quella che guarda in
sul giardino, mi si fece vedere una serie di reliquie, che considerai in
silenzio senza lasciar trapelare al custode il mio intimo sentimento di
dubbio: una scheggia della santa croce regalata dal Papa a Isabella II,
un pezzo di legno bagnato del sangue, ancora visibile, di san Lorenzo,
un calamaio di santa Teresa, ed altri oggetti, fra i quali un altarino
portatile di Carlo V, e una corona di spine e un par di tanaglie da
tortura, trovate non so più dove. Di là mi condussero sulla cupola della
chiesa di dove si gode un colpo d'occhio immenso. Da un lato lo sguardo
si stende per tutta la campagna montuosa che corre fra l'Escuriale e
Madrid; dall'altro si vedono le montagne nevose del Guadarrama; sotto,
si abbraccia con un'occhiata tutto lo smisurato edifizio, i lunghi tetti
di piombo, le torri; si vede nell'interno dei cortili, dei claustri, dei
portici, delle gallerie; si possono ricorrere col pensiero i mille
andirivieni dei corridoi e delle scale, e dire:--Un'ora fa ero
laggiù--qui--lassù--là sotto--laggiù lontano,--e maravigliarsi d'aver
fatto tanto cammino, e rallegrarsi d'essere uscito da quel labirinto, da
quelle tombe, da quelle tenebre, e di poter tornare in città e rivedere
gli amici.
Un viaggiatore illustre disse che dopo aver passato una giornata nel
convento dell'Escurial, ci si deve sentir felici per tutta la vita, solo
pensando che si potrebbe essere ancora fra quelle mura e che non ci s'è
più. È quasi vero. Ancora adesso, dopo tanto tempo, nei giorni piovosi,
quando sono tristo, penso all'Escurial, poi guardo le pareti della mia
stanza, e mi rallegro; nelle notti insonni, vedo i cortili
dell'Escurial; quando sto male e dormo un sonno torbido e penoso, sogno
di girare per quei corridoi, solo, al buio, inseguito dal fantasma d'un
vecchio frate, gridando e picchiando a tutte le porte, senza trovare
l'uscita, finchè vo a dar del capo nel Panteon e la porta mi si chiude
fragorosamente alle spalle e resto sepolto tra le tombe. Con che piacere
rividi i mille lumi della _Puerta del Sol_, i caffè affollati, e la
grande e rumorosa strada d'Alcalà! Rientrando in casa feci un tale
strepito che la serva, ch'era una buona e semplice galiziana, corse
tutta affannata dalla padrona e le disse:--_Me parece que el italiano se
ha vuelto loco!_--(Mi pare che l'italiano sia diventato matto.)
* * * * *
Più dei galli e più dei tori, mi divertirono i deputati delle Cortes.
M'era riuscito di ottenere un posticino nella tribuna dei giornalisti, e
mi ci andavo a piantare ogni giorno, e ci stavo fino alla fine con un
piacere infinito. Il Parlamento spagnuolo ha un aspetto più giovanile
del nostro; non perchè i deputati sian più giovani; ma perchè son più
attillati e più lindi. Là non si vedono quelle chiome scarmigliate,
quelle barbe incolte, e quelle casacche di nessun colore che si vedon
sui banchi della nostra Camera: là barbe e capelli ravviati e lucidi,
gran camicie ricamate, soprabiti neri, calzoncini chiari, guanti
ranciati, mazzine col pomo d'argento e fiori all'occhiello. Il
Parlamento spagnuolo s'attiene al figurino della moda. E quale il
vestire, tale il parlare: vivo, gaio, fiorito, scintillante. Noi
lamentiamo già che i nostri deputati siano solleciti della forma più che
non convenga ad oratori politici; ma i deputati spagnuoli la curano
assai più studiosamente e, convien dirlo, con assai miglior garbo. Non
solo parlano con facilità meravigliosa, così che è rarissimo il sentire
un deputato che s'interrompa a mezzo il periodo per cercare la frase; ma
non c'è chi non si sforzi di parlar corretto, e di dare alla sua parola
un po' di lustro poetico, un po' di sapor classico, un po' d'impronta di
grande stile oratorio. I ministri più gravi, i deputati più timidi, i
finanzieri più rigorosi, quand'anche parlino di argomenti lontanissimi
da quanto può dare appiglio alla rettorica, infiorano i loro discorsi di
bei modi da Antologia, d'aneddoti ameni, di versi famosi, d'apostrofi
alla civiltà, alla libertà, alla patria; e tiran via a precipizio come
se recitassero cose imparate a mente, con un'intonazione sempre misurata
ed armonica, e una varietà di atteggiamenti e di gesti che non lascia
luogo un istante alla noia. E i giornali, giudicando i loro discorsi,
lodano l'elevatezza dello stile, la purità della lingua, _los rasgos
sublimes_, i tratti sublimi, che vi si ammirarono, se si tratta dei loro
amici, si sottintende; oppure dicono con disprezzo che lo stile è
sesquipedale, la lingua corrotta, la forma, in una parola, questa
benedetta forma! incolta, ignobile, indegna delle splendide tradizioni
dell'arte oratoria spagnuola. Questo culto della forma, questa grande
facilità di parola degenera in vanità ampollosa; e certo che non s'hanno
a cercare nel Parlamento di Madrid i modelli della vera eloquenza
politica; ma non è men vero quello che universalmente si dice: che
codesto Parlamento è fra tutti gli europei il più ricco di facondi
oratori nel senso generale della parola. Bisogna sentire una discussione
sur un argomento di alta politica, che muova le passioni! È una vera
battaglia! Non son più discorsi, son diluvii di parole, da fare
ammattire gli stenografi e confonder la testa agli uditori delle
tribune! Sono voci, gesti, impeti, rapimenti d'ispirazione che fan
pensare all'Assemblea francese nei giorni turbolenti della rivoluzione!
Vi si sente un Rios Rosas, oratore violentissimo, che domina i tumulti
col ruggito; un Martos, oratore dalla forma eletta, che uccide col
ridicolo; un Pi y Margall, vecchio venerabile, che atterrisce coi
sinistri pronostici; un Collantes, parlatore infaticabile, che schiaccia
la Camera sotto una valanga di parole; un Rodriguez, che con
meravigliosa flessuosità di ragionamenti e di giri, incalza, avviluppa e
soffoca gli avversari; e in mezzo ad altri cento, un Castelar che vince
e trascina amici e nemici con un torrente di poesia e di armonia. E
questo Castelar, noto in tutta Europa, è veramente la più completa
espressione dell'eloquenza spagnuola. Egli spinge il culto della forma
fino all'idolatria; la sua eloquenza è musica; il suo ragionamento è
schiavo del suo orecchio; ei dice o non dice una cosa, o la dice in un
senso meglio che in un altro, secondo che torna o non torna al periodo;
ha un'armonia nella mente, la segue, la obbedisce, le sacrifica tutto
quello che la può offendere; il suo periodo è una strofa; bisogna
sentirlo per credere che la parola umana, senza misura poetica e senza
canto, si possa avvicinar così all'armonia del canto e della poesia. È
più artista che uomo politico, ha d'artista, non solo l'ingegno, ma il
cuore; un cuore di fanciullo, incapace di odio o d'inimicizia. In tutti
i suoi discorsi non si trova un'ingiuria; nelle Cortes non ha mai
provocato una seria quistione personale; non ricorre mai alla satira,
non adopera mai l'ironia; nelle sue più violente filippiche non versa
una dramma di fiele; e questa n'è una prova che, repubblicano,
avversario di tutti i ministeri, giornalista battagliero, accusatore
perpetuo di chi esercita un potere, e di chi non è fanatico per la
libertà, non s'è fatto odiare da nessuno. E però i suoi discorsi si
godono e non si temono; la sua parola è troppo bella per esser
terribile; il suo carattere troppo ingenuo perchè egli possa esercitare
una influenza politica; egli non sa armeggiare, tramare e barcamenarsi;
egli non è buono che a piacere ed a splendere; la sua eloquenza, quando
è più grande, è tenera; i suoi più bei discorsi fan piangere. Per lui la
Camera è un teatro. Come i poeti improvvisatori, per aver l'ispirazione
piena e serena, egli ha bisogno di parlare a quella data ora, in quel
determinato punto e con quel certo tempo libero dinanzi a sè. Perciò,
il giorno che deve parlare, prende le sue misure col Presidente della
Camera; il Presidente dispone in modo che gli tocchi la parola quando le
tribune sono affollate e tutti i deputati al loro posto; i suoi giornali
annunziano la sera innanzi il suo discorso affinchè le signore possano
procurarsi il biglietto; egli ha bisogno d'aspettazione. Prima di
parlare è inquieto, non può posare un istante, entra nella Camera, esce,
rientra, torna ad uscire, gira pei corridoi, va nella biblioteca a
sfogliare un libro, scappa nel caffè a bere un bicchier d'acqua, par
preso dalla febbre, gli sembra che non saprà accozzar due parole, che
farà ridere, che si farà fischiare; del suo discorso non gli rimane una
sola idea lucida nella mente, ha confuso tutto, ha dimenticato
tutto.--Come va il polso?--gli domandano sorridendo gli amici. Giunto il
momento solenne, sale al suo banco col capo basso, tremante, pallido,
come un condannato che va a morire, rassegnato a perdere in un sol
giorno la gloria conquistata in tanti anni e con tante fatiche. In quel
momento i suoi stessi nemici senton pietà del suo stato. Egli si alza,
volge uno sguardo intorno, e dice:--_Señores!_--È salvo; il suo coraggio
si rinfranca, la sua mente si rischiara, il suo discorso gli si
ricompone nella testa come un'arietta dimenticata; il Presidente, le
Cortes, le tribune spariscono; egli non vede più che il suo gesto, non
ode più che la sua voce, non sente più che la fiamma irresistibile che
lo accende e la forza misteriosa che lo solleva. È bello sentir dire da
lui queste cose: «Io non vedo più le pareti della sala,» dice, «vedo
genti e paesi lontani che non ho mai visti.»--E parla per ore e per ore,
e non un deputato esce dall'aula, non una persona si muove nelle
tribune, non una voce lo interrompe, non un gesto lo distrae; neanche
quando fa una scappatella in barba del Regolamento, il Presidente non ha
il coraggio d'interromperlo; egli fa balenare a suo bell'agio l'immagine
della sua repubblica vestita di bianco e coronata di rose, e i
monarchici non s'arrischiano a protestare, perchè, così vestita, la
trovan bella anch'essi; il Castelar è signore dell'Assemblea: tuona,
sfolgora, canta, strepita e scintilla come un fuoco d'artifizio, fa
sorridere, strappa grida di entusiasmo, finisce in mezzo a un immenso
fragore d'applausi, e se ne va colla testa in visibilio. Tale è questo
famoso Castelar, professore di storia all'Università, fecondissimo
scrittore di politica, d'arte, di religione; pubblicista che razzola
cinquantamila lire all'anno nei giornali d'America, accademico eletto ad
unanimità dall'_Academia española_, segnato a dito per le vie,
festeggiato dal popolo, amato dai nemici, giovane, gentile, vanerello,
generoso, beato.
* * * * *
E poichè siamo all'eloquenza politica diamo uno sguardo alla
letteratura. Raffiguriamoci una sala di Accademia piena di confusione e
di strepito. Una folla di poeti, di romanzieri e di scrittori d'ogni
natura, aventi quasi tutti qualcosa di francese nel volto e nei modi,
benchè studiosissimi tutti di non lasciarlo parere; leggono e declamano
le opere loro, facendo gli uni a soverchiar la voce degli altri, a fine
di farsi sentire dal popolo accalcato nelle tribune; il quale, dal canto
suo, bada a legger le gazzette e a disputar di politica. A quando a
quando una voce vibrata e armoniosa vince il tumulto; e allora cento
voci, prorompono insieme in un canto della sala, gridando:--È un
carlista!--e una salva di fischi tien dietro alle grida; oppure:--È un
repubblicano!--e un'altra salva di fischi, da un'altra parte, soffoca la
voce vibrata e armoniosa. Gli accademici si tirano dei giornali
rappallottolati, si urlan l'un l'altro nell'orecchio:--Ateo!--
Gesuita!-- Demagogo!-- Neo-cattolico!-- Banderuola!-- Traditore!--A
tender ben l'orecchio verso quei che leggono, si colgono strofe
armoniose, periodi ben torniti, frasi potenti; il primo effetto è
gradevole; son davvero poesie e prose piene di calore, di vita, di
sprazzi di luce, di felici comparazioni tolte da tutto quello che
splende e che suona nel cielo e sul mare e sulla terra; e ogni cosa
vagamente lumeggiato di colori orientali e riccamente vestito di armonie
italiane. Ma ahimè! non è che letteratura per gli occhi e per gli
orecchi; non è che musica e pittura; raramente la musa, in mezzo a un
nembo di fiori, lascia cadere la gemma d'un pensiero; e di codesta
pioggia luminosa non rimane che un leggiero profumo nell'aria, e l'eco
d'un lieve mormorio nell'orecchio. Intanto, s'odon nella strada grida
di popolo, colpi di fucili e suon di tamburi; a ogni tratto, qualche
artista diserta l'arringo, e va a sventolare una bandiera tra la folla;
spariscono a due, a tre, a frotte, e vanno a ingrossare il drappello dei
gazzettieri; lo strepito e la vicenda continua degli avvenimenti,
distolgono i più tenaci dalle opere di lunga lena; invano qualche
solitario nella folla grida:--In nome del Cervantes, fermate!--Alcune
voci potenti si sollevano al di sopra di quel gridìo; ma son voci
d'uomini raggruppati in disparte, molti dei quali in procinto di partire
per un viaggio senza ritorno. È la voce dell'Hatzembuch, il principe del
dramma; è la voce del Breton de los Herreros, il principe della
commedia; è la voce dello Zorrilla, il principe della poesia; è un
orientalista che si chiama Gayango, un archeologo che si chiama Guerra,
un commediografo che si chiama Tamayo, un novelliere che si chiama
Fernand Caballero, un critico che si chiama Amador de Los Rios, un
romanziere che si chiama Fernandez y Gonzalez, e una schiera d'altri
ingegni arditi e fecondi; in mezzo ai quali è ancora viva la memoria del
gran poeta della rivoluzione, Quintana; del Byron della Spagna,
Espronceda; d'un Nicasio Gallego, d'un Martinez della Rosa, d'un duca di
Rivas. Ma il tumulto, il disordine e la discordia invadono ed avvolgono,
come un torrente, ogni cosa. E per uscir di allegoria, la letteratura
spagnuola si trova in quasi eguali condizioni della nostra: una schiera
di illustri che declinano; ma che ebbero due grandi ispirazioni: o la
religione o la patria, o entrambe; e che però lasciarono un'orma propria
e durevole nel campo dell'arte; e una schiera di giovani che vengono
innanzi a tentoni, domandando che cosa hanno da fare, piuttosto che
facendo davvero; ondeggianti tra la fede e il dubbio, o aventi la fede
senza il coraggio, o non avendola, indotti dall'uso a simularla;
malsicuri anch' essi della propria lingua, e titubanti fra le Accademie
che gridano:--Purezza!--e il popolo che grida:--Verità!; incerti tra la
legge della tradizione e il bisogno del momento; lasciáti, in un canto
dai mille che danno la fama o vituperati dai pochi che la suggellano;
costretti a pensare in un modo e a scrivere in un altro, a non
esprimersi interi, a lasciarsi sfuggire il presente per non si staccare
dal passato, a barcamenarsi alla meglio fra opposte difficoltà. Gran
ventura poter far surnuotare, per qualche anno, il proprio nome al
torrente di libri francesi onde il paese è allagato! Dal che nasce lo
sconforto prima nelle proprie forze e poi nel genio nazionale; e di qui
o l'imitazione che mantiene nella mediocrità, o l'abbandono della
letteratura dai larghi studi e dalle larghe speranze, per il facile e
proficuo scribacchiar nei giornali. Unico, fra le tante rovine, riman
ritto il teatro. La nuova letteratura drammatica non ha più dell'antica
nè l'invenzione meravigliosa, nè la forma splendida, nè quell'impronta
originale di nobiltà e di grandezza, che era propria d'un popolo
dominatore dell'Europa e del Nuovo Mondo; e meno ancora la fecondità
incredibile e la varietà senza fine; ma per compenso una più sana
dottrina, un'osservazione più profonda, una delicatezza più squisita, e
una maggiore conformità allo scopo vero del teatro, che è di correggere
i costumi e di nobilitare i cuori e le menti. In tutte le opere
letterarie poi, come nel teatro, nei romanzi, nei canti popolari, nei
poemi, nelle storie, sempre vivo e dominante il sentimento che informa
più profondamente, forse, che ogni altra letteratura europea, la
letteratura spagnuola, dai primi tentativi lirici del Berceo ai vigorosi
inni guerrieri del Quintana:--l'orgoglio nazionale.
E qui accade di parlare del carattere degli Spagnuoli. Il loro orgoglio
nazionale è tale oggi ancora, dopo tante e sventure e una sì bassa
caduta, da far dubitare allo straniero che vive in mezzo a loro, s'essi
sian spagnuoli di tre secoli fa, o spagnuoli del secolo decimonono. Ma è
un orgoglio che non offende, un orgoglio innocentemente rettorico. Non
deprimon già le altre nazioni per parer alla volta loro più alti; no; le
rispettano, le lodano, le ammirano, ma lasciando però trasparire il
sentimento di una superiorità che, nel concetto loro, ritrae appunto da
quell'ammirazione, una luminosa evidenza. Sono, per le altre nazioni,
benevoli di quella benevolenza che il Leopardi dice giustamente essere
propria degli uomini pieni del concetto di se medesimi; i quali,
credendosi ammirati da tutti, amano i loro creduti ammiratori, anche
perchè giudicano ciò conveniente a quella _maggioranza_ onde stimano
che la sorte gli abbia favoriti. Non può esservi stato al mondo un
popolo più fiero della sua storia che il popolo spagnuolo. È una cosa
incredibile. Il ragazzo che vi lustra gli stivali, il facchino che vi
porta la valigia, il mendicante che vi chiede l'elemosina, alzan la
testa e mandan lampi dagli occhi al nome di Carlo V, di Filippo II, di
Ferdinando Cortes, di Don Giovanni d'Austria, come se fossero eroi del
loro tempo, e li avesser veduti il giorno prima entrare trionfalmente
nella città. Si pronuncia il nome di _España_ coll'accento col quale
dovevan pronunciar _Roma_ i Romani a' tempi più gloriosi della
repubblica. Quando si parla della Spagna, è bandita anche la modestia,
dagli uomini naturalmente più modesti, senza che sul loro viso appaia il
menomo indizio di quell'esaltamento a cui si condona l'intemperanza del
linguaggio. Si inneggia a freddo, per uso, senza accorgersene. Nei
discorsi al Parlamento, negli articoli delle gazzette, nelle scritture
delle accademie, si chiama il popolo spagnuolo, senza perifrasi, _un
pueblo de héroes_, la grande nazione, la meraviglia del mondo, la gloria
dei secoli. È raro il sentir dire o leggere cento parole da chi si sia e
a qual si voglia uditorio, senza che o prima o poi non suoni il
ritornello obbligato di Lepanto, di scoperta d'America, di guerra
d'indipendenza, a cui tien dietro sempre uno scoppio d'applausi.
E appunto la tradizione della guerra d'indipendenza costituisce nel
popolo spagnuolo una forza intima immensa. Chi non sia vissuto o poco o
molto in Spagna non può credere che una guerra, per quanto fortunata e
gloriosa, possa lasciare in un popolo una così profonda fede nel valor
nazionale. Baylen, Victoria, San Marcial sono tradizioni per la Spagna
assai più efficaci che non siano per la Francia Marengo, Jena,
Austerlitz. La stessa gloria guerriera degli eserciti di Napoleone,
veduta a traverso la guerra d'indipendenza che vi stese su il primo
velo, appare agli occhi della Spagna assai meno splendida che a ogni
altro popolo d'Europa. L'idea di una invasione straniera desta negli
Spagnuoli un sorriso di sdegnoso disprezzo; non credono alla possibilità
d'esser vinti nel loro paese; bisognava sentire con che tòno parlavan
della Germania quando correva voce che l'imperatore Guglielmo fosse
risoluto a sostenere colle armi il trono del duca d'Aosta. E non c'è
dubbio che, se avessero a combattere una nuova guerra d'indipendenza,
forse combatterebbero, con meno fortunato successo, ma con prodezza e
costanza pari a quella maravigliosa che spiegarono allora. Il 1808 è il
93 della Spagna; è una data che ogni spagnuolo ha dinanzi agli occhi
scritta in carattere di fuoco; se ne gloriano le donne, i ragazzi, i
bambini che cominciano a scioglier la lingua; è il grido di guerra della
nazione.
E quella stessa alterezza l'hanno dei loro scrittori e dei loro artisti.
L'accattone invece di dir _España_, vi dice qualche volta _la patria de
Cervantes_. Nessun scrittore al mondo ebbe mai nel suo popolo la
popolarità che ha in Spagna l'autore del _Don Chisciotte_. Io credo che
non vi sia un contadino, un pastore, dai Pirenei alla Sierra Nevada,
dalla costa di Valenza ai colli d'Estremadura, che interrogato di chi
sia il Cervantes, non risponda con un sorriso di compiacenza:--_El
imortal autor del Quijote._--La Spagna è forse il paese dove si
celebrano più anniversarii di grandi scrittori: da Juan de Mena
all'Espronceda, ognuno ha il suo giorno solenne, nel quale si offre alla
sua tomba un tributo di canti e di fiori. Nelle piazze, nei caffè, nei
carrozzoni della strada ferrata, per tutto occorre di sentir citar versi
di poeti illustri, da ogni sorta di gente; chi non ha letto, ha sentito
leggere; chi non ha sentito leggere, ripete la citazione come un
proverbio, per averla udita da un altro; e quando uno dice un verso,
tutti drizzan gli orecchi. Chi conosca per poco la letteratura
spagnuola, può fare un viaggio in quel paese colla sicurezza di aver
sempre di che discorrere e di come ispirar simpatia, dovunque capiti, in
chiunque s'abbatta. La letteratura nazionale è là veramente nazionale.
Il difetto degli Spagnuoli che colpisce fin dalle prime lo straniero, è
questo: che nell'estimare le cose, gli uomini e gli avvenimenti del loro
tempo e del loro paese, sbagliano, se così può dirsi, la misura;
ingigantiscon tutto; vedono ogni cosa come a traverso una lente che ne
dilata spropositatamente i contorni. Non avendo avuto da lungo tempo una
partecipazione immediata nella vita comune d'Europa, mancò loro
l'occasione di paragonarsi cogli altri Stati, e di giudicar sè stessi
dal paragone. Perciò le loro guerre civili, le guerre d'America,
d'Affrica, di Cuba, sono per loro quello che son per noi, non la piccola