Spagna - 02
io! Guarda!--Ad ogni crocicchio sorgono statue, tempietti, obelischi,
con iscrizioni in onore dei cittadini di Barcellona che fecero opere di
carità durante l'infierire della febbre gialla nel 1821 e nel 1870.
Questa parte del Cimitero, fabbricata, se così può dirsi, a città,
appartiene alla classe media della popolazione; e confina con due vasti
recinti, uno destinato ai poveri, nudo, piantato di grandi croci nere;
l'altro destinato ai ricchi, più vasto anche del primo, coltivato a
giardino, circondato di cappelle, vario, ricco, stupendo. In mezzo a
una foresta di salici e di cipressi, s'innalzano da ogni parte colonne,
cippi, tombe enormi, cappelle marmoree sopraccariche di sculture,
sormontate da ardite figure d'arcangelo che levan le braccia al cielo;
piramidi, gruppi di statue, monumenti vasti come case che sovrastano
agli alberi più alti; e fra monumento e monumento, cespugli, cancellate,
aiuole fiorite; e nell'entrata, tra questo e l'altro campo santo, una
stupenda chiesuola di marmo, cinta di colonne, mezzo nascosta dagli
alberi, che prepara nobilmente l'animo al magnifico spettacolo del di
dentro. All'uscire da questo giardino, si riattraversano le strade
deserte della necropoli, che paiono anche più silenziose e più triste
che al primo entrare. Varcata la soglia, si risaluta con piacere le case
variopinte dei sobborghi di Barcellona sparse per la campagna, come
avantiguardie messe là ad annunziare che la popolosa città si dilata e
si avanza.
* * * * *
Dal Camposanto al caffè, è un bel salto; ma viaggiando se ne fanno anche
di più lunghi. I caffè di Barcellona, come quasi tutti i caffè della
Spagna, sono un solo vastissimo salone ornato di grandi specchi, con
tanti tavolini quanti ce ne posson capire; dei quali è raro che rimanga
libero un solo, neanco per una mezz'ora, in tutta la giornata. La sera
son tutti pieni, affollati, da dover molte volte aspettare un bel pezzo
per avere un posticino accanto alla porta; intorno a ogni tavolino, v'è
un crocchio di cinque o sei _caballeros_, colla _capa_ sulle spalle (un
mantello di panno oscuro, munito d'un'ampia pellegrina, che si porta in
vece del nostro pastrano); e in ogni crocchio si giuoca al domino. È il
giuoco più in voga presso gli Spagnuoli. Nei caffè, dall'imbrunire sino
a mezzanotte, si sente un rumore fitto, continuo, assordante, come il
rumor della grandine, di migliaia di tessere volte e rivolte da
centinaia di mani, che quasi bisogna alzare la voce per farsi sentire da
chi vi è accanto. La bevanda più usuale è il cioccolatte, squisitissimo
in Spagna, portato per lo più in piccole chicchere, denso come conserva
di ginepro e caldo da scorticare la gola. Una di queste tazzine, con una
goccia di latte, e una pasta particolare, che si chiama _bollo_
(boglio), morbidissima, è una colezione da Lucullo. Fra un _bollo_ e
l'altro, feci i miei studii sul carattere catalano, discorrendo con
tutti i _Don Fulanos_ (nome sacramentato in Ispagna come il Tizio fra
noi) che ebbero la bontà di non pigliarmi per una spia mandata da Madrid
a fiutar l'aria della Catalogna.
* * * * *
Gli animi, in quei giorni, erano molto eccitati dalla politica. A me
occorse parecchie volte, parlando innocentissimamente d'un giornale,
d'un personaggio, d'un fatto qualsiasi col _caballero_ che
m'accompagnava, o nel caffè, o in una bottega, o al teatro; mi occorse,
dico, di sentirmi toccare la punta del piede e mormorare
nell'orecchio:--Badi, questo signore alla sua destra è un
Carlista.--Zitto, quello lì è un repubblicano.--Quell'altro là è un
sagastino.--Questo accanto è un radicale.--Quello laggiù è un
cimbrio.--Tutti parlavano di politica. Trovai un carlista arrabbiato in
un barbiere, il quale, accortosi dalla mia pronunzia ch'ero un
_conciudadano del Rey_, tentò, così alla larga, di tirarmi nel discorso.
Io non dissi parola, perchè mi stava radendo, e un risentimento del mio
orgoglio nazionale ferito avrebbe potuto far correre il primo sangue
della guerra civile; ma il barbiere insistè, e non sapendo per qual
altra via venire all'argomento, uscì a dire con accento gentile: "_Sabe
Usted, caballero, si hubiera la guerra entre Italia y España, España no
tuviera miedo_ (non avrebbe paura)."--"Ne sono persuasissimo," risposi,
badando al rasoio. Poi mi assicurò che la Francia avrebbe dichiarato la
guerra all'Italia non appena avesse pagato la Germania; _no hay
escapatoria_. Non risposi. Allora egli stette un po' sopra pensiero, e
poi disse maliziosamente: "_Cosas grandes van à acontecer_ (accadere)
_dentro de poco!_" Piacque però ai Barcellonesi che il Re si fosse
presentato a loro in atto confidente e tranquillo, e la gente del popolo
ricorda la sua entrata in città con ammirazione. Trovai simpatia per il
Re anche in alcuni che mormoravano a denti stretti:--_no es español,_--o
come mi domandò un tale: "Pare a lei che starebbe bene a Roma o a Parigi
_un rey castellano_?"--domanda a cui si risponde:--"_No entiendo de
politica,_"--ed è discorso finito.
Ma i veramente implacabili sono i Carlisti. Dicon della nostra
rivoluzione roba da cani in buonissima fede, essendo la maggior parte
convinti, che il vero re d'Italia sia il Papa, che l'Italia lo voglia, e
che abbia chinato il capo sotto la spada di Vittorio Emanuele, perchè
non c'era modo di far altrimenti; ma che aspetti l'occasione propizia
per liberarsene, come ha fatto dei Borboni e degli altri. E può giovare
a provarlo il seguente aneddoto che io riferisco, come l'ho sentito
narrare, senza neanco un'ombra d'intenzione di ferire la persona che n'è
attore principale. Una volta un giovane italiano, che io conosco
intimamente, fu presentato a una delle più ragguardevoli signore della
città, e ricevuto con una squisita cortesia. Erano presenti alla
conversazione parecchi italiani. La signora parlò con molta simpatia
dell'Italia, ringraziò il giovane dell'entusiasmo che mostrava d'avere
per la Spagna, mantenne, in una parola, una viva e gioviale
conversazione coll'ospite riconoscente per quasi tutta la serata. A un
tratto gli domandò: "E tornando in Italia, in che città s'andrà a
stabilire?"
"A Roma," rispose il giovane.
"Per difendere il Papa?" domandò la signora con la più schietta
franchezza.
Il giovane la guardò, e rispose sorridendo ingenuamente: "No, davvero."
Quel _no_ scatenò una tempesta. La signora scordò che il giovane era
italiano, e suo ospite, e proruppe in una tale sfuriata d'invettive
contro il Re Vittorio, il governo piemontese, l'Italia, risalendo
dall'entrata dell'esercito in Roma fino alla guerra delle Marche e
dell'Umbria, che il mal capitato straniero diventò bianco come un cencio
di bucato. Ma fatto forza a sè stesso, non rispose parola, e lasciò agli
altri italiani, ch'erano amici di vecchia data, la cura di sostener
l'onore del loro paese. La discussione durò un pezzo, e fu accanita; la
signora s'accorse poi d'essersi lasciata andare tropp'oltre, e fece
capire che n'era dolente; ma una cosa apparve chiarissima dalle sue
parole, ed è ch'ella era convinta, e con lei chi sa quante! che
l'unificazione d'Italia si fosse fatta contro la volontà del popolo
italiano, dal Piemonte, dal Re, per avidità di dominio, per odio alla
religione ec.
Il basso popolo, però, repubblicaneggia, e come ha la reputazione di
essere più pronto ai fatti di quello che non sia largo a parole, è
temuto. Quando in Spagna si vuol sparger la voce d'una prossima
rivoluzione, si comincia sempre dal dire che scoppierà a Barcellona, o
che sta per scoppiarvi, o che v'è scoppiata.
* * * * *
I catalani non vogliono esser messi a mazzo cogli Spagnuoli delle altre
provincie; siamo Spagnuoli, dicono, ma, intendiamoci, di Catalogna;
gente, vale a dire, che lavora e che pensa, e all'orecchio della quale è
più gradito il rumore degl'ingegni meccanici che il suono delle
chitarre. Noi non invidiamo all'Andalusia la fama romanzesca, le lodi
dei poeti, e le illustrazioni dei pittori; noi ci contentiamo di essere
il popolo più serio e più operoso della Spagna. Parlano in fatti dei
loro fratelli del mezzogiorno, come i piemontesi parlavano una volta,
ora meno, dei napoletani e dei toscani: «sì, hanno ingegno,
immaginazione, parlan bene, divertono; ma noi abbiamo per contrapposto
maggior vigore di volontà, maggiore attitudine agli studi scientifici,
maggior istruzione popolare.... e poi.... il carattere....» Intesi un
catalano, un uomo chiaro per ingegno e dottrina, lamentare che la guerra
d'indipendenza avesse troppo affratellato le diverse provincie di
Spagna, ond'era seguìto che i catalani contraessero una parte dei
difetti dei meridionali, senza che questi acquistassero nessuna delle
buone qualità dei catalani. Siamo diventati, diceva, _mas ligeros de
casco_, più leggeri di testa, e non se ne sapeva dar pace. Un bottegaio
al quale domandai che pensasse del carattere dei castigliani, mi rispose
bruscamente che, a suo avviso, sarebbe una gran fortuna per la
Catalogna, che non ci fosse strada ferrata tra Barcellona e Madrid,
perchè il commercio con quella gente _corrompe_ il carattere e i costumi
del popolo catalano. Quando parlano d'un deputato parolaio, dicono:--Eh!
già... è un andaluso.--Poi mettono in ridicolo il loro linguaggio
poetico, la pronunzia sdolcinata, la gaiezza infantile, la vanità,
l'effeminatezza. Quelli, per contro, parlano dei catalani come una
signorina capricciosa, letterata e pittrice, parlerebbe d'una di quelle
ragazze massaie, che leggono di preferenza la _Cuciniera genovese_ che i
romanzi di George Sand. Son gente dura, dicono, tutta d'un pezzo, che
non ha il capo ad altro che all'aritmetica e alla meccanica; barbari,
che farebbero d'una statua del Montanes un frantoio e d'una tela del
Murillo un incerato; veri Beoti della Spagna, insopportabili con quel
loro gergaccio, con quella musoneria, con quella gravità di pedanti.
* * * * *
La Catalogna, infatti, è forse la provincia di Spagna, che conta meno
nella storia delle belle arti. Il solo poeta, non grande, ma celebre,
che sia nato in Barcellona, è Giovanni Boscan, che fiorì sul principio
del secolo decimosesto, e introdusse pel primo nella letteratura
spagnuola il verso endecasillabo, la canzone, il sonetto, e tutte le
forme della poesia lirica italiana di cui era ammiratore appassionato.
Da che dipende una grande trasformazione, come fu questa, di tutta la
letteratura d'un popolo! Dall'esser andato a stare il Boscan a Granata,
quando v'era la Corte di Carlo V, e aver conosciuto là un ambasciatore
della repubblica di Venezia, Andrea Navagero, che sapeva a memoria i
versi del Petrarca, e glieli recitava, e gli diceva:--Mi pare che
potreste scriver così anche voialtri; provate!--Il Boscan provò; tutti i
letterati di Spagna gli gridaron la croce addosso. E che il verso
italiano non sonava, e che la poesia di Petrarca era una sdolcinatura da
femminette, e che la Spagna non aveva bisogno di strascicar l'estro
sulla falsariga di nessuno. Ma il Boscan tenne duro: Garcilaso della
Vega, il valoroso cavaliere, amico suo, che ricevette poi il glorioso
titolo di Malherbe della Spagna, lo seguì; il drappello dei riformatori
s'ingrossò a poco a poco, divenne esercito, vinse e dominò l'intera
letteratura. Il vero consumatore della riforma fu il Garcilaso; ma il
Boscan ebbe il merito della prima idea, onde a Barcellona l'onore d'aver
dato alla Spagna chi fece mutar il viso alla sua letteratura.
* * * * *
Nei pochi giorni che rimasi a Barcellona, solevo passar la sera con
alcuni giovani catalani, passeggiando sulla riva del mare, al lume della
luna, fino a notte avanzata. Sapevan tutti un po' d'italiano, ed erano
amantissimi della nostra poesia; così che per ore e per ore non si
faceva che declamar versi, essi dello Zorilla, dell'Espronceda, del
Lopez de Vega, io del Foscolo, del Berchet, del Manzoni; intercalati,
con una sorta di gara, a chi ne diceva di più belli. È un sentimento
nuovo quello che si prova dicendo versi dei nostri poeti in un paese
straniero. Quando vedevo i miei amici spagnuoli tutti intenti al
racconto della battaglia di Maclodio, a poco a poco scotersi,
infiammarsi e poi afferrarmi pel braccio ed esclamare con un accento
castigliano che mi rendeva più care le loro parole:--Bello!
sublime!;--mi sentivo rimescolare il sangue, tremavo; se fosse stato
giorno, credo che m'avrebbero visto diventar bianco come la carta. Mi
recitarono dei versi in lingua catalana. E dico lingua, perchè ha una
storia e una letteratura propria e non fu relegata allo stato di
dialetto che dal predominio politico assunto dalla Castiglia che impose
l'idioma suo come idioma generale dello Stato. E benchè sia una lingua
aspra, tutta parole tronche, ingrata, sulle prime, a chi abbia nulla
nulla l'orecchio delicato, ha nondimeno dei pregi notevolissimi, dei
quali i poeti popolari si valsero con ammirabile maestria, prestandosi
essa particolarmente all'armonia imitativa. Una poesia, che mi
recitarono, di cui le prime strofe imitano il rumore cadenzato d'un
treno di strada ferrata, mi strappò un grido di meraviglia. Ma senza
spiegazioni, anche per chi conosca la lingua spagnuola, il Catalano non
è intelligibile. Parlan presto, coi denti stretti, senza aiutar la voce
col gesto, così ch'è difficile cogliere il senso d'un periodo anche
semplicissimo, ed è un gran chè se s'intende qualche parola di volo.
Anche la gente del popolo, però, parla, quando occorre, il castigliano,
stentatamente e senza grazia; ma sempre assai meglio che non si parli
l'italiano dal basso popolo delle Provincie settentrionali d'Italia.
Neanco le persone colte, in Catalogna, parlano perfettamente la lingua
nazionale; il castigliano riconosce il catalano alla prima, oltre che
alla pronunzia, alla voce, e sopratutto alla _illegittima frase scarsa_.
Per questo uno straniero che vada in Spagna coll'illusione di saper
parlare la lingua con garbo, può, fin che sta in Catalogna, serbar la
sua illusione; ma quando penetri nelle Castiglie, e senta per la prima
volta quello scoppiettío di frizzi, quella profusione di proverbi, di
modi, d'idiotismi arguti ed efficacissimi, che lo fan rimanere a bocca
aperta, come l'Alfieri dinanzi a Monna Vocaboliera quando gli discorreva
di calzette, addio illusioni!
* * * * *
L'ultima sera andai al Teatro del Liceo, che ha fama di essere uno dei
più belli d'Europa, e forse il più vasto. Era pieno zeppo di gente dalla
platea alla piccionaia, che non ci sarebbe più capito un centinaio di
persone. Dal palco in cui ero io, si vedevan le signore della parte
opposta piccine come bimbe; e a socchiuder gli occhi, non apparivan più
che tante strisce bianche, una ad ogni ordine di palchi, tremolanti e
luccicanti come immense ghirlande di camelie imperlate di rugiada e
agitate dal zeffiro. I palchi, vastissimi, sono divisi da un assito che
s'abbassa dal muro verso il parapetto, lasciando scoperto tutto il busto
delle persone sedute sulle prime seggiole; in modo che, all'occhio, il
teatro par fatto tutto a gallerie, e n'acquista un'aria di leggerezza
che fa un bellissimo vedere. Tutto sporge, tutto è scoperto, la luce
batte in ogni parte, ogni spettatore vede tutti gli spettatori, le
corsie son spaziose, si va, si viene, si gira a tutt'agio da ogni lato,
si può contemplare ogni signora da mille punti, passare dalle gallerie
ai palchi, dai palchi alle gallerie, passeggiare, far crocchio,
bighellonare tutta la sera di qua e di là, senza urtar nel gomito anima
viva. Le altre parti dell'edifizio sono proporzionate alla principale:
corridoi, scale, pianerottoli, vestiboli da gran palazzo. Vi son sale da
ballo ampie e splendide, nelle quali si potrebbe piantare un altro
teatro. Eppure, anche qui dove i buoni Barcellonesi non dovrebbero
pensare ad altro che a ricrearsi dalle fatiche della giornata nella
contemplazione delle loro belle e superbe donne, anche qui i buoni
Barcellonesi comprano, vendono, giocano, trafficano, come anime dannate.
Nei corridoi è un andirivieni continuo di agenti di banca, di commessi
d'uffizio, di portatori di dispacci, e un continuo vocìo da mercato.
Barbari! Quanti bei visi, quanti begli occhi, quante stupende
capigliature brune in quella folla di signore! Anticamente i giovani
Catalani innamorati, per cattivarsi il cuore delle loro belle, si
inscrivevano nelle confraternite dei flagellanti, e andavano sotto le
loro finestre con una sferza metallica a farsi spicciare il sangue dalle
carni, e le belle gl'incoraggiavano, accennando: "Batti, batti ancora,
così, ora t'amo e son tua!" Quante volte avrei esclamato quella sera:
"Signori, per carità, datemi una sferza metallica!"
* * * * *
L'indomani mattina, prima del levar del sole, partii per Saragozza, e
dico il vero, non senza un sentimento quasi di tristezza di lasciar
Barcellona, benchè ci fossi stato sì pochi giorni. Questa città, benchè
sia tutt'altro che _la flor de las bellas ciudades del mundo_, come la
chiamò il Cervantes, questa città trafficante e magazziniera, disdegnata
dai poeti e dai pittori, mi piacque e il suo popolo affaccendato
m'ispirò rispetto. E poi è sempre tristo il partire da una città,
comunque straniera, colla certezza di non averla a rivedere mai più!
Gli è come dare un addio per sempre a un compagno di viaggio col quale
abbiate passato lietamente ventiquattr'ore: non è un amico, e vi par
d'amarlo come un amico, e ve ne ricorderete forse per tutta la vita, con
un sentimento di desiderio più vivo che per molti di coloro a cui date
il nome d'amici. Voltandomi a guardare ancora una volta la città dal
finestrino del carrozzone del treno, mi vennero sulle labbra le parole
di don Alvaro Tarfe nel _Don Chisciotte_:--_Adios, Barcelona, archivo de
la cortesia, albergue de los extrangeros, patria de los valientes,
adios!_--E soggiunsi mestamente:--Ecco lacerata la prima pagina dal
roseo libro del viaggio! Così tutto passa... Ancora un'altra città, poi
un'altra, poi un'altra... e poi... tornerò, e il viaggio sarà stato come
un sogno, e mi parrà di non essermi neanco mosso da casa... e poi?... un
altro viaggio... e di nuovo città, e di nuovo addii melanconici, e di
nuovo un ricordo vago come d'un sogno... e poi? Guai se in viaggio vi
lasciate cogliere da questi pensieri! Guardate il cielo e la campagna, e
recitate dei versi, e fumate.
_Adios Barcelona, archivo de la cortesia!_
II.
SARAGOZZA.
A poche miglia da Barcellona, si cominciano a vedere le rocce dentellate
del famoso Montserrat, uno strano monte che, a prima vista, fa balenare
il sospetto d'un'illusione ottica, tanto è difficile a credere che la
natura possa aver avuto un sì stravagante capriccio. Immaginate una
serie di sottili triangoli che si toccano, come quei che fanno i bambini
per rappresentare una catena di montagne; o una corona a becchetti
distesa pel lungo come la lama d'una sega; o tanti pani di zucchero
disposti in fila, e avrete un'idea della forma che presenta da lontano
il Montserrat. È un insieme di coni immensi che s'alzano I' uno accanto
all'altro, e l'un sull'altro, o meglio un solo gran monte formato di
cento monti, spaccato di su in giù fin quasi al terzo della sua altezza,
in modo che presenta due grandi cime, intorno alle quali si aggruppano
le minori; nelle parti alte, arido e inaccessibile; nelle basse,
popolato di pini, di quercie, di corbezzoli, di ginepri; rotto qua e là
da grotte smisurate e da spaventevoli burroni, e sparso di romitaggi
biancheggianti sulle bricche aeree e nelle gole profonde. Nella
spaccatura del monte, fra le due cime principali, sorge l'antico
convento dei Benedettini, dove Ignazio di Lojola meditò nella sua
giovinezza. Cinquantamila tra pellegrini e curiosi si recano anno per
anno a visitare il convento e le grotte, e il giorno otto di settembre,
vi si celebra una festa a cui concorre una moltitudine innumerevole di
gente da ogni parte della Catalogna.
Poco prima di arrivare alla stazione dove si scende per salire al monte,
irruppe nel mio carrozzone una frotta di ragazzi, accompagnati da un
prete, alunni d'un collegio di non so che villaggio, che andavano a fare
una scampagnata al convento del Montserrat. Eran tutti catalani, bei
visetti bianchi e rosei, con grandi occhi. Ognuno aveva un canestrino
con dentro pane e frutta; qualcuno un album, altri un canocchiale:
parlavano e ridevano tutti insieme, e si avvoltolavano sulle panche, e
facevano un casa del diavolo infinito. Per quanto tenessi l'orecchio
teso, e mi stillassi il cervello, non riuscii a capire una parola del
maledetto linguaggio che cinguettavano. Intavolai conversazione col
prete. "_Mire Usted_" mi disse dopo le prime parole, accennandomi uno
dei ragazzi; "_aquel niño sabe de memoria toda la Poética de
Oracio_;.... quell'altro là risolve dei problemi d'aritmetica da far
stordire; questo qui è nato per la filosofia;" e via via, mi segnalò le
doti di ciascuno. A un tratto s'interruppe, e gridò: "_Beretina!_"
Tutti i ragazzi cavaron di tasca la berrettina rossa catalana e gettando
alte grida d'allegrezza, se la misero in testa, chi tutta indietro che
gli cascava sulla nuca, chi tutta avanti, che gli copriva la punta del
naso; e il prete a far degli atti di disapprovazione; e allora quei che
l'avevan sulla nuca a tirarsela sul naso, e quei che l'avevan sul naso a
tirarsela sulla nuca; e lì risa, esclamazioni, e battìo di mani. Mi
avvicinai a uno dei più monelli, e così per celia, certo che sarebbe
stato come dire ai muri, gli domandai in italiano: "È la prima volta che
vai a fare una passeggiata al Montserrat?" Il ragazzo stette un po'
pensando, e poi rispose adagio adagio: "Ci so-no già sta-to altre
volte."--"Ah! caro bimbo!" gli gridai con una contentezza difficile a
immaginarsi; "e dove hai imparato l'italiano?" Qui il prete prese la
parola per dirmi che il padre di quel ragazzo aveva vissuto parecchi
anni a _Napoles_. Mentre io mi volto verso il mio piccolo catalano per
attaccar discorso, un maledettissimo fischio, e poi un maledettissimo
grido di:--_Olesa,_--che è il villaggio dal quale si va al monte, mi
taglia la parola in bocca. Il prete mi saluta, i ragazzi si precipitano
fuori, il treno riparte. Io misi la testa fuor del finestrino per
salutare il mio piccolo amico: "Buona passeggiata!" gli gridai, e lui
spiccicando le sillabe: "A-di-o!" Qualcuno ride a sentir rammentare
queste bazzecole: eppure sono i più vivi piaceri che si provin nei
viaggi!
Le città e i villaggi che si vedono nell'attraversar la Catalogna alla
vólta dell'Aragona, son quasi tutti popolati e floridi, e circondati di
case industriali, di opifici, di edifizi in costruzione, onde in ogni
parte si vedono sorgere di là dagli alberi dense colonne di fumo, e ad
ogni stazione è un via vai di contadini e di negozianti. La campagna è
una successione alternata di colte pianure, di amene colline, di
vallette pittoresche, coperte di boschi e dominate da vecchi castelli,
fino al villaggio di Cervera. Qui si cominciano a vedere ampie distese
di terreno arido, con poche case sparpagliate, che annunziano la
vicinanza dell'Aragona. Ma poi, all'improvviso, si entra in una ridente
vallata, coperta d'oliveti, di vigneti, di gelsi, di alberi fruttiferi,
sparsa di villaggi e di ville; si vedon da un lato le alte cime dei
Pirenei, dall'altro le montagne aragonesi; Lerida, la gloriosa città dai
dieci assedii, schierata lungo la sponda della Segra, sul pendio d'una
bella collina; e tutt'intorno una pompa di vegetazione, una varietà di
prospetti, un colpo d'occhio stupendo. È l'ultima veduta della campagna
catalana; dopo pochi minuti s'entra in Aragona.
* * * * *
Aragona! Quante vaghe istorie di guerre, di banditi, di regine, di
poeti, d'eroi, d'amori famosi ridesta nella memoria questo sonoro nome!
E qual profondo senso di simpatia e di rispetto! La vecchia, nobile ed
altera Aragona, sulla cui fronte brilla il più splendido raggio della
gloria di Spagna! Sul suo stemma secolare sta scritto a caratteri di
sangue:--Libertà e valore.--Quando il mondo si curvava sotto il giogo
della tirannide, il popolo aragonese diceva ai suoi re per bocca del suo
Gran Giustiziere:--Noi che siamo quanto voi, e più possenti di voi, vi
abbiamo eletto nostro signore e re, col patto che conserviate i nostri
diritti e la nostra libertà; e se no, no.--E i suoi re s'inginocchiavano
dinanzi alla maestà del Magistrato del popolo, e prestavan giuramento
sulla formola sacra. In mezzo alla barbarie del Medio Evo, la fiera
gente aragonese non conosceva la tortura, il giudizio segreto era
bandito dai suoi codici, tutte le sue istituzioni proteggevano la
libertà del cittadino, e la legge aveva impero assoluto. Discesero, mal
paghi alla ristretta patria delle montagne, da Sobrarbe a Huesca, da
Huesca a Saragozza, ed entrarono vincitori nel Mediterraneo. Congiunti
alla forte Catalogna, redensero dall'araba signoria le Baleari e
Valenza; combatterono a Muret per il diritto oltraggiato e la coscienza
violata; domarono gli avventurieri della casa d'Angiò, spodestandoli
delle terre italiane; ruppero le catene del porto di Marsiglia, che
pendono ancora dalle pareti dei loro tempi; signoreggiarono il mare dal
golfo di Taranto alle foci del Guadalaviar, colle navi di Ruggero di
Lauria; soggiogarono il Bosforo, colle navi di Ruggero di Flor; da Rosas
a Catania corsero il Mediterraneo sulle ali della vittoria; e come se
fosse angusto l'Occidente alla loro grandezza, andarono ad incidere
sulla cima dell'Olimpo, sulle pietre del Pireo, sui monti superbi che
son quasi le porte dell'Asia, il nome immortale della patria.
* * * * *
Questi pensieri,--benchè non proprio colle stesse parole, perchè non
avevo sotto gli occhi un certo libricciuolo di Emilio Castelar,--io
volgeva in mente entrando in Aragona. E per prima cosa mi si offerse
agli occhi, sulla riva della Cinca, il piccolo villaggio di Monzon, noto
per famose assemblee delle Cortes, e per alternati assalti e difese di
Spagnuoli e Francesi: sorte che fu comune, durante la guerra
d'indipendenza, a quasi tutti i villaggi di quelle provincie. Monzon è
prostrato ai piedi d'un formidabile monte, sul quale s'innalza un
castello nero, sinistro, enorme, quale avrebbe potuto immaginarlo il più
fosco dei feudatarii per condannare a una vita di terrore il più odiato
dei villaggi. La stessa _Guida_ si arresta davanti a codesto mostruoso
edifizio, e prorompe in un'esclamazione di timida meraviglia. Non v'è,
io credo, in tutta la Spagna, un altro villaggio, un altro monte, un
altro castello, che rappresentino meglio la paurosa sommessione d'un
popolo oppresso, e la minaccia perpetua d'un signore feroce. Un gigante
che prema il ginocchio sul petto d'un fanciullo steso a terra, è una
meschina similitudine per dare un'immagine della cosa; e tale fu
l'impressione che mi fece, che, pur non sapendo tenere in mano la
matita, m'ingegnai di abbozzare alla meglio il paesaggio, perchè non mi
uscisse dalla memoria; e mentre scarabocchiavo, mi venne fatto il primo
verso d'una ballata lugubre.
Dopo Monzon, la campagna aragonese non è che vaste pianure, chiuse in
lontananza da lunghe catene di colline rossastre, con pochi miseri
villaggi, e qualche colle solitario su cui nereggiano le rovine d'un
castello antico. L'Aragona, già sì fiorente sotto i suoi Re, è ora una
delle provincie più povere della Spagna. Solamente sulla sponda
dell'Ebro, e lungo il canale famoso che si stende da Tudela, per
diciotto leghe, fin presso Saragozza, e serve insieme all'irrigazione
dei campi e al trasporto delle derrate, ha un po' di vita il commercio;
nelle altre parti langue, od è morto. Le stazioni della strada ferrata
sono deserte: quando il treno si ferma, non si sente altra voce che
quella di qualche vecchio _trovatore_, che strimpella la chitarra,
canterellando una canzone monotona, che si riode poi in tutte le altre
stazioni, e in seguito nelle città aragonesi, variate le parole,
eternamente uguale il motivo. Non essendoci che vedere fuori del
finestrino, mi rivolsi ai compagni di viaggio.
Il carrozzone era pieno di gente; e siccome i carrozzoni di seconda
con iscrizioni in onore dei cittadini di Barcellona che fecero opere di
carità durante l'infierire della febbre gialla nel 1821 e nel 1870.
Questa parte del Cimitero, fabbricata, se così può dirsi, a città,
appartiene alla classe media della popolazione; e confina con due vasti
recinti, uno destinato ai poveri, nudo, piantato di grandi croci nere;
l'altro destinato ai ricchi, più vasto anche del primo, coltivato a
giardino, circondato di cappelle, vario, ricco, stupendo. In mezzo a
una foresta di salici e di cipressi, s'innalzano da ogni parte colonne,
cippi, tombe enormi, cappelle marmoree sopraccariche di sculture,
sormontate da ardite figure d'arcangelo che levan le braccia al cielo;
piramidi, gruppi di statue, monumenti vasti come case che sovrastano
agli alberi più alti; e fra monumento e monumento, cespugli, cancellate,
aiuole fiorite; e nell'entrata, tra questo e l'altro campo santo, una
stupenda chiesuola di marmo, cinta di colonne, mezzo nascosta dagli
alberi, che prepara nobilmente l'animo al magnifico spettacolo del di
dentro. All'uscire da questo giardino, si riattraversano le strade
deserte della necropoli, che paiono anche più silenziose e più triste
che al primo entrare. Varcata la soglia, si risaluta con piacere le case
variopinte dei sobborghi di Barcellona sparse per la campagna, come
avantiguardie messe là ad annunziare che la popolosa città si dilata e
si avanza.
* * * * *
Dal Camposanto al caffè, è un bel salto; ma viaggiando se ne fanno anche
di più lunghi. I caffè di Barcellona, come quasi tutti i caffè della
Spagna, sono un solo vastissimo salone ornato di grandi specchi, con
tanti tavolini quanti ce ne posson capire; dei quali è raro che rimanga
libero un solo, neanco per una mezz'ora, in tutta la giornata. La sera
son tutti pieni, affollati, da dover molte volte aspettare un bel pezzo
per avere un posticino accanto alla porta; intorno a ogni tavolino, v'è
un crocchio di cinque o sei _caballeros_, colla _capa_ sulle spalle (un
mantello di panno oscuro, munito d'un'ampia pellegrina, che si porta in
vece del nostro pastrano); e in ogni crocchio si giuoca al domino. È il
giuoco più in voga presso gli Spagnuoli. Nei caffè, dall'imbrunire sino
a mezzanotte, si sente un rumore fitto, continuo, assordante, come il
rumor della grandine, di migliaia di tessere volte e rivolte da
centinaia di mani, che quasi bisogna alzare la voce per farsi sentire da
chi vi è accanto. La bevanda più usuale è il cioccolatte, squisitissimo
in Spagna, portato per lo più in piccole chicchere, denso come conserva
di ginepro e caldo da scorticare la gola. Una di queste tazzine, con una
goccia di latte, e una pasta particolare, che si chiama _bollo_
(boglio), morbidissima, è una colezione da Lucullo. Fra un _bollo_ e
l'altro, feci i miei studii sul carattere catalano, discorrendo con
tutti i _Don Fulanos_ (nome sacramentato in Ispagna come il Tizio fra
noi) che ebbero la bontà di non pigliarmi per una spia mandata da Madrid
a fiutar l'aria della Catalogna.
* * * * *
Gli animi, in quei giorni, erano molto eccitati dalla politica. A me
occorse parecchie volte, parlando innocentissimamente d'un giornale,
d'un personaggio, d'un fatto qualsiasi col _caballero_ che
m'accompagnava, o nel caffè, o in una bottega, o al teatro; mi occorse,
dico, di sentirmi toccare la punta del piede e mormorare
nell'orecchio:--Badi, questo signore alla sua destra è un
Carlista.--Zitto, quello lì è un repubblicano.--Quell'altro là è un
sagastino.--Questo accanto è un radicale.--Quello laggiù è un
cimbrio.--Tutti parlavano di politica. Trovai un carlista arrabbiato in
un barbiere, il quale, accortosi dalla mia pronunzia ch'ero un
_conciudadano del Rey_, tentò, così alla larga, di tirarmi nel discorso.
Io non dissi parola, perchè mi stava radendo, e un risentimento del mio
orgoglio nazionale ferito avrebbe potuto far correre il primo sangue
della guerra civile; ma il barbiere insistè, e non sapendo per qual
altra via venire all'argomento, uscì a dire con accento gentile: "_Sabe
Usted, caballero, si hubiera la guerra entre Italia y España, España no
tuviera miedo_ (non avrebbe paura)."--"Ne sono persuasissimo," risposi,
badando al rasoio. Poi mi assicurò che la Francia avrebbe dichiarato la
guerra all'Italia non appena avesse pagato la Germania; _no hay
escapatoria_. Non risposi. Allora egli stette un po' sopra pensiero, e
poi disse maliziosamente: "_Cosas grandes van à acontecer_ (accadere)
_dentro de poco!_" Piacque però ai Barcellonesi che il Re si fosse
presentato a loro in atto confidente e tranquillo, e la gente del popolo
ricorda la sua entrata in città con ammirazione. Trovai simpatia per il
Re anche in alcuni che mormoravano a denti stretti:--_no es español,_--o
come mi domandò un tale: "Pare a lei che starebbe bene a Roma o a Parigi
_un rey castellano_?"--domanda a cui si risponde:--"_No entiendo de
politica,_"--ed è discorso finito.
Ma i veramente implacabili sono i Carlisti. Dicon della nostra
rivoluzione roba da cani in buonissima fede, essendo la maggior parte
convinti, che il vero re d'Italia sia il Papa, che l'Italia lo voglia, e
che abbia chinato il capo sotto la spada di Vittorio Emanuele, perchè
non c'era modo di far altrimenti; ma che aspetti l'occasione propizia
per liberarsene, come ha fatto dei Borboni e degli altri. E può giovare
a provarlo il seguente aneddoto che io riferisco, come l'ho sentito
narrare, senza neanco un'ombra d'intenzione di ferire la persona che n'è
attore principale. Una volta un giovane italiano, che io conosco
intimamente, fu presentato a una delle più ragguardevoli signore della
città, e ricevuto con una squisita cortesia. Erano presenti alla
conversazione parecchi italiani. La signora parlò con molta simpatia
dell'Italia, ringraziò il giovane dell'entusiasmo che mostrava d'avere
per la Spagna, mantenne, in una parola, una viva e gioviale
conversazione coll'ospite riconoscente per quasi tutta la serata. A un
tratto gli domandò: "E tornando in Italia, in che città s'andrà a
stabilire?"
"A Roma," rispose il giovane.
"Per difendere il Papa?" domandò la signora con la più schietta
franchezza.
Il giovane la guardò, e rispose sorridendo ingenuamente: "No, davvero."
Quel _no_ scatenò una tempesta. La signora scordò che il giovane era
italiano, e suo ospite, e proruppe in una tale sfuriata d'invettive
contro il Re Vittorio, il governo piemontese, l'Italia, risalendo
dall'entrata dell'esercito in Roma fino alla guerra delle Marche e
dell'Umbria, che il mal capitato straniero diventò bianco come un cencio
di bucato. Ma fatto forza a sè stesso, non rispose parola, e lasciò agli
altri italiani, ch'erano amici di vecchia data, la cura di sostener
l'onore del loro paese. La discussione durò un pezzo, e fu accanita; la
signora s'accorse poi d'essersi lasciata andare tropp'oltre, e fece
capire che n'era dolente; ma una cosa apparve chiarissima dalle sue
parole, ed è ch'ella era convinta, e con lei chi sa quante! che
l'unificazione d'Italia si fosse fatta contro la volontà del popolo
italiano, dal Piemonte, dal Re, per avidità di dominio, per odio alla
religione ec.
Il basso popolo, però, repubblicaneggia, e come ha la reputazione di
essere più pronto ai fatti di quello che non sia largo a parole, è
temuto. Quando in Spagna si vuol sparger la voce d'una prossima
rivoluzione, si comincia sempre dal dire che scoppierà a Barcellona, o
che sta per scoppiarvi, o che v'è scoppiata.
* * * * *
I catalani non vogliono esser messi a mazzo cogli Spagnuoli delle altre
provincie; siamo Spagnuoli, dicono, ma, intendiamoci, di Catalogna;
gente, vale a dire, che lavora e che pensa, e all'orecchio della quale è
più gradito il rumore degl'ingegni meccanici che il suono delle
chitarre. Noi non invidiamo all'Andalusia la fama romanzesca, le lodi
dei poeti, e le illustrazioni dei pittori; noi ci contentiamo di essere
il popolo più serio e più operoso della Spagna. Parlano in fatti dei
loro fratelli del mezzogiorno, come i piemontesi parlavano una volta,
ora meno, dei napoletani e dei toscani: «sì, hanno ingegno,
immaginazione, parlan bene, divertono; ma noi abbiamo per contrapposto
maggior vigore di volontà, maggiore attitudine agli studi scientifici,
maggior istruzione popolare.... e poi.... il carattere....» Intesi un
catalano, un uomo chiaro per ingegno e dottrina, lamentare che la guerra
d'indipendenza avesse troppo affratellato le diverse provincie di
Spagna, ond'era seguìto che i catalani contraessero una parte dei
difetti dei meridionali, senza che questi acquistassero nessuna delle
buone qualità dei catalani. Siamo diventati, diceva, _mas ligeros de
casco_, più leggeri di testa, e non se ne sapeva dar pace. Un bottegaio
al quale domandai che pensasse del carattere dei castigliani, mi rispose
bruscamente che, a suo avviso, sarebbe una gran fortuna per la
Catalogna, che non ci fosse strada ferrata tra Barcellona e Madrid,
perchè il commercio con quella gente _corrompe_ il carattere e i costumi
del popolo catalano. Quando parlano d'un deputato parolaio, dicono:--Eh!
già... è un andaluso.--Poi mettono in ridicolo il loro linguaggio
poetico, la pronunzia sdolcinata, la gaiezza infantile, la vanità,
l'effeminatezza. Quelli, per contro, parlano dei catalani come una
signorina capricciosa, letterata e pittrice, parlerebbe d'una di quelle
ragazze massaie, che leggono di preferenza la _Cuciniera genovese_ che i
romanzi di George Sand. Son gente dura, dicono, tutta d'un pezzo, che
non ha il capo ad altro che all'aritmetica e alla meccanica; barbari,
che farebbero d'una statua del Montanes un frantoio e d'una tela del
Murillo un incerato; veri Beoti della Spagna, insopportabili con quel
loro gergaccio, con quella musoneria, con quella gravità di pedanti.
* * * * *
La Catalogna, infatti, è forse la provincia di Spagna, che conta meno
nella storia delle belle arti. Il solo poeta, non grande, ma celebre,
che sia nato in Barcellona, è Giovanni Boscan, che fiorì sul principio
del secolo decimosesto, e introdusse pel primo nella letteratura
spagnuola il verso endecasillabo, la canzone, il sonetto, e tutte le
forme della poesia lirica italiana di cui era ammiratore appassionato.
Da che dipende una grande trasformazione, come fu questa, di tutta la
letteratura d'un popolo! Dall'esser andato a stare il Boscan a Granata,
quando v'era la Corte di Carlo V, e aver conosciuto là un ambasciatore
della repubblica di Venezia, Andrea Navagero, che sapeva a memoria i
versi del Petrarca, e glieli recitava, e gli diceva:--Mi pare che
potreste scriver così anche voialtri; provate!--Il Boscan provò; tutti i
letterati di Spagna gli gridaron la croce addosso. E che il verso
italiano non sonava, e che la poesia di Petrarca era una sdolcinatura da
femminette, e che la Spagna non aveva bisogno di strascicar l'estro
sulla falsariga di nessuno. Ma il Boscan tenne duro: Garcilaso della
Vega, il valoroso cavaliere, amico suo, che ricevette poi il glorioso
titolo di Malherbe della Spagna, lo seguì; il drappello dei riformatori
s'ingrossò a poco a poco, divenne esercito, vinse e dominò l'intera
letteratura. Il vero consumatore della riforma fu il Garcilaso; ma il
Boscan ebbe il merito della prima idea, onde a Barcellona l'onore d'aver
dato alla Spagna chi fece mutar il viso alla sua letteratura.
* * * * *
Nei pochi giorni che rimasi a Barcellona, solevo passar la sera con
alcuni giovani catalani, passeggiando sulla riva del mare, al lume della
luna, fino a notte avanzata. Sapevan tutti un po' d'italiano, ed erano
amantissimi della nostra poesia; così che per ore e per ore non si
faceva che declamar versi, essi dello Zorilla, dell'Espronceda, del
Lopez de Vega, io del Foscolo, del Berchet, del Manzoni; intercalati,
con una sorta di gara, a chi ne diceva di più belli. È un sentimento
nuovo quello che si prova dicendo versi dei nostri poeti in un paese
straniero. Quando vedevo i miei amici spagnuoli tutti intenti al
racconto della battaglia di Maclodio, a poco a poco scotersi,
infiammarsi e poi afferrarmi pel braccio ed esclamare con un accento
castigliano che mi rendeva più care le loro parole:--Bello!
sublime!;--mi sentivo rimescolare il sangue, tremavo; se fosse stato
giorno, credo che m'avrebbero visto diventar bianco come la carta. Mi
recitarono dei versi in lingua catalana. E dico lingua, perchè ha una
storia e una letteratura propria e non fu relegata allo stato di
dialetto che dal predominio politico assunto dalla Castiglia che impose
l'idioma suo come idioma generale dello Stato. E benchè sia una lingua
aspra, tutta parole tronche, ingrata, sulle prime, a chi abbia nulla
nulla l'orecchio delicato, ha nondimeno dei pregi notevolissimi, dei
quali i poeti popolari si valsero con ammirabile maestria, prestandosi
essa particolarmente all'armonia imitativa. Una poesia, che mi
recitarono, di cui le prime strofe imitano il rumore cadenzato d'un
treno di strada ferrata, mi strappò un grido di meraviglia. Ma senza
spiegazioni, anche per chi conosca la lingua spagnuola, il Catalano non
è intelligibile. Parlan presto, coi denti stretti, senza aiutar la voce
col gesto, così ch'è difficile cogliere il senso d'un periodo anche
semplicissimo, ed è un gran chè se s'intende qualche parola di volo.
Anche la gente del popolo, però, parla, quando occorre, il castigliano,
stentatamente e senza grazia; ma sempre assai meglio che non si parli
l'italiano dal basso popolo delle Provincie settentrionali d'Italia.
Neanco le persone colte, in Catalogna, parlano perfettamente la lingua
nazionale; il castigliano riconosce il catalano alla prima, oltre che
alla pronunzia, alla voce, e sopratutto alla _illegittima frase scarsa_.
Per questo uno straniero che vada in Spagna coll'illusione di saper
parlare la lingua con garbo, può, fin che sta in Catalogna, serbar la
sua illusione; ma quando penetri nelle Castiglie, e senta per la prima
volta quello scoppiettío di frizzi, quella profusione di proverbi, di
modi, d'idiotismi arguti ed efficacissimi, che lo fan rimanere a bocca
aperta, come l'Alfieri dinanzi a Monna Vocaboliera quando gli discorreva
di calzette, addio illusioni!
* * * * *
L'ultima sera andai al Teatro del Liceo, che ha fama di essere uno dei
più belli d'Europa, e forse il più vasto. Era pieno zeppo di gente dalla
platea alla piccionaia, che non ci sarebbe più capito un centinaio di
persone. Dal palco in cui ero io, si vedevan le signore della parte
opposta piccine come bimbe; e a socchiuder gli occhi, non apparivan più
che tante strisce bianche, una ad ogni ordine di palchi, tremolanti e
luccicanti come immense ghirlande di camelie imperlate di rugiada e
agitate dal zeffiro. I palchi, vastissimi, sono divisi da un assito che
s'abbassa dal muro verso il parapetto, lasciando scoperto tutto il busto
delle persone sedute sulle prime seggiole; in modo che, all'occhio, il
teatro par fatto tutto a gallerie, e n'acquista un'aria di leggerezza
che fa un bellissimo vedere. Tutto sporge, tutto è scoperto, la luce
batte in ogni parte, ogni spettatore vede tutti gli spettatori, le
corsie son spaziose, si va, si viene, si gira a tutt'agio da ogni lato,
si può contemplare ogni signora da mille punti, passare dalle gallerie
ai palchi, dai palchi alle gallerie, passeggiare, far crocchio,
bighellonare tutta la sera di qua e di là, senza urtar nel gomito anima
viva. Le altre parti dell'edifizio sono proporzionate alla principale:
corridoi, scale, pianerottoli, vestiboli da gran palazzo. Vi son sale da
ballo ampie e splendide, nelle quali si potrebbe piantare un altro
teatro. Eppure, anche qui dove i buoni Barcellonesi non dovrebbero
pensare ad altro che a ricrearsi dalle fatiche della giornata nella
contemplazione delle loro belle e superbe donne, anche qui i buoni
Barcellonesi comprano, vendono, giocano, trafficano, come anime dannate.
Nei corridoi è un andirivieni continuo di agenti di banca, di commessi
d'uffizio, di portatori di dispacci, e un continuo vocìo da mercato.
Barbari! Quanti bei visi, quanti begli occhi, quante stupende
capigliature brune in quella folla di signore! Anticamente i giovani
Catalani innamorati, per cattivarsi il cuore delle loro belle, si
inscrivevano nelle confraternite dei flagellanti, e andavano sotto le
loro finestre con una sferza metallica a farsi spicciare il sangue dalle
carni, e le belle gl'incoraggiavano, accennando: "Batti, batti ancora,
così, ora t'amo e son tua!" Quante volte avrei esclamato quella sera:
"Signori, per carità, datemi una sferza metallica!"
* * * * *
L'indomani mattina, prima del levar del sole, partii per Saragozza, e
dico il vero, non senza un sentimento quasi di tristezza di lasciar
Barcellona, benchè ci fossi stato sì pochi giorni. Questa città, benchè
sia tutt'altro che _la flor de las bellas ciudades del mundo_, come la
chiamò il Cervantes, questa città trafficante e magazziniera, disdegnata
dai poeti e dai pittori, mi piacque e il suo popolo affaccendato
m'ispirò rispetto. E poi è sempre tristo il partire da una città,
comunque straniera, colla certezza di non averla a rivedere mai più!
Gli è come dare un addio per sempre a un compagno di viaggio col quale
abbiate passato lietamente ventiquattr'ore: non è un amico, e vi par
d'amarlo come un amico, e ve ne ricorderete forse per tutta la vita, con
un sentimento di desiderio più vivo che per molti di coloro a cui date
il nome d'amici. Voltandomi a guardare ancora una volta la città dal
finestrino del carrozzone del treno, mi vennero sulle labbra le parole
di don Alvaro Tarfe nel _Don Chisciotte_:--_Adios, Barcelona, archivo de
la cortesia, albergue de los extrangeros, patria de los valientes,
adios!_--E soggiunsi mestamente:--Ecco lacerata la prima pagina dal
roseo libro del viaggio! Così tutto passa... Ancora un'altra città, poi
un'altra, poi un'altra... e poi... tornerò, e il viaggio sarà stato come
un sogno, e mi parrà di non essermi neanco mosso da casa... e poi?... un
altro viaggio... e di nuovo città, e di nuovo addii melanconici, e di
nuovo un ricordo vago come d'un sogno... e poi? Guai se in viaggio vi
lasciate cogliere da questi pensieri! Guardate il cielo e la campagna, e
recitate dei versi, e fumate.
_Adios Barcelona, archivo de la cortesia!_
II.
SARAGOZZA.
A poche miglia da Barcellona, si cominciano a vedere le rocce dentellate
del famoso Montserrat, uno strano monte che, a prima vista, fa balenare
il sospetto d'un'illusione ottica, tanto è difficile a credere che la
natura possa aver avuto un sì stravagante capriccio. Immaginate una
serie di sottili triangoli che si toccano, come quei che fanno i bambini
per rappresentare una catena di montagne; o una corona a becchetti
distesa pel lungo come la lama d'una sega; o tanti pani di zucchero
disposti in fila, e avrete un'idea della forma che presenta da lontano
il Montserrat. È un insieme di coni immensi che s'alzano I' uno accanto
all'altro, e l'un sull'altro, o meglio un solo gran monte formato di
cento monti, spaccato di su in giù fin quasi al terzo della sua altezza,
in modo che presenta due grandi cime, intorno alle quali si aggruppano
le minori; nelle parti alte, arido e inaccessibile; nelle basse,
popolato di pini, di quercie, di corbezzoli, di ginepri; rotto qua e là
da grotte smisurate e da spaventevoli burroni, e sparso di romitaggi
biancheggianti sulle bricche aeree e nelle gole profonde. Nella
spaccatura del monte, fra le due cime principali, sorge l'antico
convento dei Benedettini, dove Ignazio di Lojola meditò nella sua
giovinezza. Cinquantamila tra pellegrini e curiosi si recano anno per
anno a visitare il convento e le grotte, e il giorno otto di settembre,
vi si celebra una festa a cui concorre una moltitudine innumerevole di
gente da ogni parte della Catalogna.
Poco prima di arrivare alla stazione dove si scende per salire al monte,
irruppe nel mio carrozzone una frotta di ragazzi, accompagnati da un
prete, alunni d'un collegio di non so che villaggio, che andavano a fare
una scampagnata al convento del Montserrat. Eran tutti catalani, bei
visetti bianchi e rosei, con grandi occhi. Ognuno aveva un canestrino
con dentro pane e frutta; qualcuno un album, altri un canocchiale:
parlavano e ridevano tutti insieme, e si avvoltolavano sulle panche, e
facevano un casa del diavolo infinito. Per quanto tenessi l'orecchio
teso, e mi stillassi il cervello, non riuscii a capire una parola del
maledetto linguaggio che cinguettavano. Intavolai conversazione col
prete. "_Mire Usted_" mi disse dopo le prime parole, accennandomi uno
dei ragazzi; "_aquel niño sabe de memoria toda la Poética de
Oracio_;.... quell'altro là risolve dei problemi d'aritmetica da far
stordire; questo qui è nato per la filosofia;" e via via, mi segnalò le
doti di ciascuno. A un tratto s'interruppe, e gridò: "_Beretina!_"
Tutti i ragazzi cavaron di tasca la berrettina rossa catalana e gettando
alte grida d'allegrezza, se la misero in testa, chi tutta indietro che
gli cascava sulla nuca, chi tutta avanti, che gli copriva la punta del
naso; e il prete a far degli atti di disapprovazione; e allora quei che
l'avevan sulla nuca a tirarsela sul naso, e quei che l'avevan sul naso a
tirarsela sulla nuca; e lì risa, esclamazioni, e battìo di mani. Mi
avvicinai a uno dei più monelli, e così per celia, certo che sarebbe
stato come dire ai muri, gli domandai in italiano: "È la prima volta che
vai a fare una passeggiata al Montserrat?" Il ragazzo stette un po'
pensando, e poi rispose adagio adagio: "Ci so-no già sta-to altre
volte."--"Ah! caro bimbo!" gli gridai con una contentezza difficile a
immaginarsi; "e dove hai imparato l'italiano?" Qui il prete prese la
parola per dirmi che il padre di quel ragazzo aveva vissuto parecchi
anni a _Napoles_. Mentre io mi volto verso il mio piccolo catalano per
attaccar discorso, un maledettissimo fischio, e poi un maledettissimo
grido di:--_Olesa,_--che è il villaggio dal quale si va al monte, mi
taglia la parola in bocca. Il prete mi saluta, i ragazzi si precipitano
fuori, il treno riparte. Io misi la testa fuor del finestrino per
salutare il mio piccolo amico: "Buona passeggiata!" gli gridai, e lui
spiccicando le sillabe: "A-di-o!" Qualcuno ride a sentir rammentare
queste bazzecole: eppure sono i più vivi piaceri che si provin nei
viaggi!
Le città e i villaggi che si vedono nell'attraversar la Catalogna alla
vólta dell'Aragona, son quasi tutti popolati e floridi, e circondati di
case industriali, di opifici, di edifizi in costruzione, onde in ogni
parte si vedono sorgere di là dagli alberi dense colonne di fumo, e ad
ogni stazione è un via vai di contadini e di negozianti. La campagna è
una successione alternata di colte pianure, di amene colline, di
vallette pittoresche, coperte di boschi e dominate da vecchi castelli,
fino al villaggio di Cervera. Qui si cominciano a vedere ampie distese
di terreno arido, con poche case sparpagliate, che annunziano la
vicinanza dell'Aragona. Ma poi, all'improvviso, si entra in una ridente
vallata, coperta d'oliveti, di vigneti, di gelsi, di alberi fruttiferi,
sparsa di villaggi e di ville; si vedon da un lato le alte cime dei
Pirenei, dall'altro le montagne aragonesi; Lerida, la gloriosa città dai
dieci assedii, schierata lungo la sponda della Segra, sul pendio d'una
bella collina; e tutt'intorno una pompa di vegetazione, una varietà di
prospetti, un colpo d'occhio stupendo. È l'ultima veduta della campagna
catalana; dopo pochi minuti s'entra in Aragona.
* * * * *
Aragona! Quante vaghe istorie di guerre, di banditi, di regine, di
poeti, d'eroi, d'amori famosi ridesta nella memoria questo sonoro nome!
E qual profondo senso di simpatia e di rispetto! La vecchia, nobile ed
altera Aragona, sulla cui fronte brilla il più splendido raggio della
gloria di Spagna! Sul suo stemma secolare sta scritto a caratteri di
sangue:--Libertà e valore.--Quando il mondo si curvava sotto il giogo
della tirannide, il popolo aragonese diceva ai suoi re per bocca del suo
Gran Giustiziere:--Noi che siamo quanto voi, e più possenti di voi, vi
abbiamo eletto nostro signore e re, col patto che conserviate i nostri
diritti e la nostra libertà; e se no, no.--E i suoi re s'inginocchiavano
dinanzi alla maestà del Magistrato del popolo, e prestavan giuramento
sulla formola sacra. In mezzo alla barbarie del Medio Evo, la fiera
gente aragonese non conosceva la tortura, il giudizio segreto era
bandito dai suoi codici, tutte le sue istituzioni proteggevano la
libertà del cittadino, e la legge aveva impero assoluto. Discesero, mal
paghi alla ristretta patria delle montagne, da Sobrarbe a Huesca, da
Huesca a Saragozza, ed entrarono vincitori nel Mediterraneo. Congiunti
alla forte Catalogna, redensero dall'araba signoria le Baleari e
Valenza; combatterono a Muret per il diritto oltraggiato e la coscienza
violata; domarono gli avventurieri della casa d'Angiò, spodestandoli
delle terre italiane; ruppero le catene del porto di Marsiglia, che
pendono ancora dalle pareti dei loro tempi; signoreggiarono il mare dal
golfo di Taranto alle foci del Guadalaviar, colle navi di Ruggero di
Lauria; soggiogarono il Bosforo, colle navi di Ruggero di Flor; da Rosas
a Catania corsero il Mediterraneo sulle ali della vittoria; e come se
fosse angusto l'Occidente alla loro grandezza, andarono ad incidere
sulla cima dell'Olimpo, sulle pietre del Pireo, sui monti superbi che
son quasi le porte dell'Asia, il nome immortale della patria.
* * * * *
Questi pensieri,--benchè non proprio colle stesse parole, perchè non
avevo sotto gli occhi un certo libricciuolo di Emilio Castelar,--io
volgeva in mente entrando in Aragona. E per prima cosa mi si offerse
agli occhi, sulla riva della Cinca, il piccolo villaggio di Monzon, noto
per famose assemblee delle Cortes, e per alternati assalti e difese di
Spagnuoli e Francesi: sorte che fu comune, durante la guerra
d'indipendenza, a quasi tutti i villaggi di quelle provincie. Monzon è
prostrato ai piedi d'un formidabile monte, sul quale s'innalza un
castello nero, sinistro, enorme, quale avrebbe potuto immaginarlo il più
fosco dei feudatarii per condannare a una vita di terrore il più odiato
dei villaggi. La stessa _Guida_ si arresta davanti a codesto mostruoso
edifizio, e prorompe in un'esclamazione di timida meraviglia. Non v'è,
io credo, in tutta la Spagna, un altro villaggio, un altro monte, un
altro castello, che rappresentino meglio la paurosa sommessione d'un
popolo oppresso, e la minaccia perpetua d'un signore feroce. Un gigante
che prema il ginocchio sul petto d'un fanciullo steso a terra, è una
meschina similitudine per dare un'immagine della cosa; e tale fu
l'impressione che mi fece, che, pur non sapendo tenere in mano la
matita, m'ingegnai di abbozzare alla meglio il paesaggio, perchè non mi
uscisse dalla memoria; e mentre scarabocchiavo, mi venne fatto il primo
verso d'una ballata lugubre.
Dopo Monzon, la campagna aragonese non è che vaste pianure, chiuse in
lontananza da lunghe catene di colline rossastre, con pochi miseri
villaggi, e qualche colle solitario su cui nereggiano le rovine d'un
castello antico. L'Aragona, già sì fiorente sotto i suoi Re, è ora una
delle provincie più povere della Spagna. Solamente sulla sponda
dell'Ebro, e lungo il canale famoso che si stende da Tudela, per
diciotto leghe, fin presso Saragozza, e serve insieme all'irrigazione
dei campi e al trasporto delle derrate, ha un po' di vita il commercio;
nelle altre parti langue, od è morto. Le stazioni della strada ferrata
sono deserte: quando il treno si ferma, non si sente altra voce che
quella di qualche vecchio _trovatore_, che strimpella la chitarra,
canterellando una canzone monotona, che si riode poi in tutte le altre
stazioni, e in seguito nelle città aragonesi, variate le parole,
eternamente uguale il motivo. Non essendoci che vedere fuori del
finestrino, mi rivolsi ai compagni di viaggio.
Il carrozzone era pieno di gente; e siccome i carrozzoni di seconda