Sofonisba - 1

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SCRITTORI D'ITALIA

VITTORIO ALFIERI
TRAGEDIE
A CURA
DI
NICOLA BRUSCOLI
VOLUME TERZO

BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1947


SOFONISBA
Cosí _quest'alta donna_ a morte venne;
che vedendosi giunta in forza altrui,
morire innanzi, che servir, sostenne.
PETRARCA, _Trionfo d'Amore_, cap. II.


PERSONAGGI

SOFONISBA.
SIFACE.
MASSINISSA.
SCIPIONE.
Soldati Romani.
Soldati Numidi.
_Scena, il campo di Scipione in Affrica._


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

SIFACE FRA CENTURIONI ROMANI.

Finché rieda Scipione, almen lasciarmi
con me stesso potreste.--Il piè, la destra,
gravi ha di ferro; al roman campo in mezzo
Siface stassi; ogni fuggir gli è tolto:
gli sia concesso il non vedervi, almeno.

SCENA SECONDA
SIFACE.

Duro a soffrirsi il soldatesco orgoglio!
Se il lor duce in superbia anco gli avanza,
come in vero valor... Ma no; mi è noto
Scipione: in Cirta, entro mia reggia, io l'ebbi
ospite giá: molto era umano, e mite...
Stolto Siface! or, che favelli? Allora
Scipione a te, per mendicare ajuti,
venía; né allor, tuo vincitore egli era.--
Ahi, vinto re! preso in battaglia, e tratto
ferito in ceppi entro al nemico campo,
ancor tu vivi?... Oh Sofonisba! a quali
strette mi traggi? Or, che piú omai non debbo,
né viver voglio, a tal son io, che morte
dar non mi possa?... Ma il fragor di trombe
giá mi annunzia Scipione. Eccolo. Oh vista!

SCENA TERZA
SCIPIONE, SIFACE.

SCIP. Resti ogni uomo in disparte. All'infelice
re fora insulto ogni corteggio mio.--
Siface, ove pur mai duol si potesse
allevíar di vinto re, mi udresti
parole or muover di pietá: ma nota
m'è del tuo cor l'altezza, a cui novella
piaga sarebbe ogni pietoso detto.
Quind'io non altro omai farò, che trarti
con la mia mano stessa i mal portati
ferri: sgravar questa tua destra, io 'l deggio.
Memore ancor son io, che questa destra,
e d'amistade e d'alleanza in pegno,
tu mi porgevi in Cirta.--Ma, che veggo?
Sdegni il mio ufficio? e torvo immoto il ciglio
nel suolo affiggi? Ah! se in battaglia preso
Scipion ti avesse, ei d'altri lacci avvinto
non ti avria, che de' tuoi, col rimembrarti
la tua giurata fede. Or dunque, cedi
(ten priego) il ferreo pondo di te indegno;
cedilo a me; lo sconsolato viso
innalza; e in un, mira Scipione in volto.
SIFACE Scipione in volto? io 'l rimirai da presso,
con fermo viso, piú volte in battaglia:
arbitra d'ogni cosa or vuol fortuna,
ch'io piú mirar non l'osi. In questo campo
sol di Siface il morto corpo addursi
dai Romani dovea: ma, non è sempre
dato ai forti il morire; ed io quí prova
trista ne sono; ahi misero!--Dovute
quindi a me son queste catene; e quindi
son nel limo dannati ora i miei sguardi;
ch'io agli occhi mai del vincitor nemico
ergerli non potrei.
SCIP. Non è dei vinti
Scipion nemico; e benché a lui fortuna
solo finor l'aspetto lieto aprisse,
non per prosperi eventi ei va superbo,
come non mai vil per gli avversi ei fora.--
Cortese forza io far ti vo'. Disciolti
ecco i tuoi ceppi indegni: a solo a solo,
pari con pari, or con Scipion favella.
SIFACE Umano parli, e il sei. Se l'esser vinto
soffribil fosse a un re, dall'armi tue
esserlo, il fora. Ma, che posso io dirti,
che della prisca mia grandezza, e a un tempo
della presente mia miseria, degno
parer ti possa? E a te, che resta a dirmi,
ch'io giá nol sappia?
SCIP. Io? ti dirò, che grande,
che magnanimo tanto ancor ti estimo,
ch'io non dubito chiedere a te stesso
del tuo cangiarti la cagion verace.
SIFACE Fuor che a fedele esperto amico, il cuore
non suolsi aprir; ma o radi molto, o nulli,
dei tali ai re ne tocca. Indegno io forse
di amici veri, abbenché re, non era:
e, in prova, aprirti ora il mio core io voglio.
A te, nemico generoso, io 'l posso,
meglio che a finto amico. Odimi dunque.--
Roma è tua culla, ed Affricano io nasco:
tu cittadin d'alta cittade sei;
di numerosa nazíon possente
io giá fui re. Frapposto mare il tuo
dal mio terren partiva: io mai non posi
in vostra Italia il piede; a mano armata
stai nell'Affrica tu. Cartagin pria,
poscia l'Affrica intera, è in voi lusinga
di soggiogare. A me vicina, e quindi
ora a vicenda amica, ora nemica,
Cartagin era: e benché abborra anch'ella,
al par che Roma, i re; di orgoglio e possa
men soverchiante il popol suo, che il vostro,
men da me pure era abborrito. Offeso
è il cuor d'un re tacitamente sempre
da ogni libero popolo; qual ira
destar gli de' quel ch'è con lui superbo?--
Eccoti piano il tutto: odiarvi a morte,
come insolenti predator stranieri,
era il mio cor: fede, amistá giurarvi,
dopo le ispane alte vittorie vostre,
era il mio senno.
SCIP. Ma il valor dell'armi
Romane a prova conosciuto avevi;
perché tua fede non serbar tu a Roma?
SIFACE --E che dirá Scipion, se il ver gli narro?
Scipion, quel grande, il di cui core, albergo
d'amistá, di pietá, d'ogni sublime
umano affetto, al solo amore ognora
impenetrabil fu.--Lusinghe, amore,
irresistibil possa di beltade,
quí m'han condotto; a te il confesso; e in dirlo,
non io nel volto di rossor sfavillo.
Te cittadino, amor di gloria sprona
a superare i cittadin tuoi pari;
quindi all'altro sei sordo: a un re, che in trono
eguali a se non ha, tal sprone manca;
quindi alla gloria sordo il rende ogni altra
sua passíone. A un re infelice il credi;
ch'ei verace esser può. Tu, da quel grande
che sei, piú ch'odio o spregio, pietá tranne;
ch'io da Scipion soltanto non la sdegno.
SCIP. D'amor le fiamme io non provai, ma immensa
la sua possa rispetto, e temo anch'io.
Spesso il fuggii; che antiveder suoi strali
si den, cui tardo ogni rimedio è poscia.
Di Sofonisba diffidar dovevi,
pria di vederla, tu: di Asdrubal figlia
ell'era in somma, entro a Cartagin nata,
d'odio imbevuta in un col latte, e d'ira,
contro a Roma: e se a noi dall'util tuo
eri allacciato allor, ben chiaro il danno,
che tornar ten dovea nel darne il tergo,
tu preveder potevi.
SIFACE E nulla conti
quella, che l'uom sí spesso inganna e regge;
la speme? Io l'ebbi, che ad Asdrubal stretto
di tai legami, entro a Cartagin nullo
piú di me vi potria: veduta poscia
di Sofonisba la bellezza, io vinto,
io preso, io servo allor, piú che nol sono
or nel tuo campo, d'uno errar nell'altro
cadendo andai. Per Sofonisba il regno
or perdo io, sí; la fama, e di me stesso
la stima io perdo: e, il crederesti? in vita
pur non mi duol di rimaner brev'ora,
fin ch'io lei sappia in securtá. Non temo
per lei l'infamia; è d'alto core anch'ella;
né viva mai dietro al tuo carro avvinta,
piú che Siface, irne potrebbe: or odi,
non i sensi di un re, di stolto amante
odi or le smanie. Una gelosa rabbia
m'arde e consuma, e la mia morte allunga.
Nella mia reggia, in Cirta, omai giá forse
dalle armi vostre vinta Sofonisba,
in preda ell'è del mio mortal nemico,
di Massinissa. A lui promessa pria
sposa, che a me; forse pur ei ne ardea...
A un tal pensiero, inesplicabil sento
disperato furor, che in me s'indonna.
Morire io brama, e morir deggio; e mille
vie del morire, ancor che inerme, io tengo:
ma, lasso me! morir non so, né posso,
fin ch'io non odo il suo destino. In preda
a Massinissa, deh! (se a te pur cale
il mio pregar) deh! non conceder mai,
ch'ella in preda a lui cada... Oh cielo!... Avvampo
d'ira...--Ma fuor del mio regal decoro,
dove mi tragge il furor mio?--Null'altro
mi resta a dirti. Alla mia tenda intanto
soffri ch'io mi ritragga: il duolo indegno
nasconder vo'. Fuorché Scipion, non debbe
null'uom vedermi entro il romano campo
in men che regio conturbato aspetto.

SCENA QUARTA
SCIPIONE.

Misero re! Pari a pietá mi desta
maraviglia il suo dir.--Ma, forte duolmi
ciò, ch'ei mi accenna. A Massinissa in Cirta,
espugnata oramai, per certo occorsa
Sofonisba sará: s'ei pur ne' lacci
d'amor cadesse? e se in sua fe per Roma
ei vacillasse?... O guerrier prode, e caro
a me, non men che necessario a Roma,
io per te tremo.--Oh quali cure acerbe
ti sovrastan, Scipione! Oh! quanto costa
a umano cor l'usar la forza ai vinti
nemici stessi! E s'io mai deggio un giorno
contro l'amico usarla?... Ah! questo, in vero,
è il sol dover di capitan, ch'io abborra.


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA
SOFONISBA, MASSINISSA, SOLDATI NUMIDI.

MASSIN. Donna, deh! quí t'arresta: ecco del duce
il padiglione: udito, o visto appena
Scipione avrai, che dal tuo cor disgombro
ogni sospetto fia.
SOFON. Né ancor sei pago,
o Massinissa? alta, terribil prova
d'amor ti do, figlia d'Asdrubal io,
nel venir teco entro al romano campo:
ma, ch'io sostenga l'abborrito aspetto
del roman duce?... ah! troppo vuoi...
MASSIN. Ma questo
campo ove stiamo, il puoi Numida al pari
che Romano appellare. Un forte stuolo
de' miei v'ha stanza, ed io di guerra stovvi
non inutile arnese. Omai tu figlia
piú d'Asdrubal non sei, né di Siface
vedova piú, da che promessa sposa
di Massinissa sei.
SOFON. Deh! non ti acciechi
l'amistá troppa, che a Scipion ti stringe.
Qual ch'egli sia costui, Romano è sempre;
quindi ei pospone a Roma tutto; e a nullo
dei nemici di Roma esser può mite.
Non la sua rabbia contro a me fia paga
di aver vinto ed ucciso e vilipeso
Siface, no: Cirta predata ed arsa,
e i Masséssuli tutti al duro giogo
tratti, no, sazia in lui non han la sete
ambizíosa e cruda. Or, nel vedersi
quasi in sue mani Sofonisba, a dritto
da lui tenuta, qual io son, nemica
implacabil di Roma; or, nel superbo
suo cuor, non vuoi che l'oltraggiosa speme
nutra ei di trarmi al carro avvinta in Roma?
Pur, ciò non temo; ancor che donna...
MASSIN. Oh cielo!
Che pensi tu? fin che di sangue stilla
mi riman nelle vene, esser ciò puote?
Ah! no; nol credo; or l'odio tuo t'inganna;
tu Scipion non conosci.
SOFON. Odio, ed amore,
or mi acciecan del pari. Io quí venirne
mai non dovea: ma pur, securo loco
nel mondo omai non rimaneami nullo.
Piacque al mio cor di seguitarti, e al solo
mio cor credei; ma il mio dover, mio senno,
mia fama, in Cirta mi volean sepolta
fra le rovine sue.
MASSIN. Ti duol d'avermi
seguito? Oimè! dunque il mio viver duolti.
SOFON. Sol mi dorrebbe ora il morir non tua:
e a ciò mi esponi. O Massinissa, il sai,
ch'io fra le fiamme di mia reggia in Cirta,
infra le stragi del mio popol vinto,
udir da te parole osai d'amore...
Ahi lassa me!... giá da gran tempo, al grido
di tua virtú ch'Affrica tutta empiva,
io di te presa; io, dai piú teneri anni
a te dal padre destinata; a un tempo
sposa ed amante a te crescea. Nemico
aspro di Roma eri tu allor, com'io:
piacque poscia a Cartagine, ed al padre,
ch'io di Siface fossi; e a te pur piacque
farti ai Romani amico: allor disgiunti
c'ebbe il destino...
MASSIN. Ah! riuniti, il giuro,
siamo or per sempre. O avrai tu meco regno,
o morte io teco.--L'aver io dappresso
vista e provata la virtú sovrana
del gran Scipione, e il non aver mai vista
la tua beltá, fur le cagioni allora,
ch'io per Roma pugnassi. Ognor nemico
stato m'era Siface; ei del mio trono
m'avea spogliato: io di fortuna avversa
agli estremi ridotto, amico niuno,
fuor che Scipione, al mondo non trovava;
e a lui mi strinse indissolubil nodo
di gratitudin sacra. Io largamente
compri ho di Roma i beneficj poscia,
col mio sangue, pugnando in sua difesa:
ma i beneficj di Scipion, sua pura
alta amistá, coll'amistá soltanto,
e coll'omaggio a sue virtú, si ponno
pagar da me. Piú di Scipion, te sola
amo; te sola or piú di lui; ch'io t'amo
piú di me stesso assai.
SOFON. Giurami dunque,
per darmen prova che di noi sia degna,
giurami or tu, che mai d'Affrica trarre
non lascerai me viva.
MASSIN. Inutil fia.
Pur, poiché il vuoi, per questo brando io il giuro.
T'avrei condotta io quí, se quí in periglio
io ti credessi? Infra i Numídi miei
potea secura entro il mio regno trarti:
ma quí mi chiaman l'armi; io dal tuo fianco
me disveller non posso: Affrica e Roma
saper pur denno, che tu sei mia sposa:
quind'io, nemico d'ogni velo ed arte,
tale or mostrarti voglio.
SOFON. Omai secura
nel tuo giurare, e nel proposto mio,
mi acqueto... Ma, vien gente: infra i Numídi,
alle tue tende io mi ritraggo intanto.
MASSIN. Poiché a te piace, il fa. Scipion si avanza;
parlargli io vo'. Raggiungerotti in breve.

SCENA SECONDA
SCIPIONE, MASSINISSA.

MASSIN. Scipione, io mai piú lieto non ti abbraccio,
che quando io riedo vincitor: piú degno
mi pare allor d'esser di te.
SCIP. Gran parte
dell'armi nostre, o Massinissa, omai
fatto sei tu; di gloria fabro a un tempo
a me tu sei: quindi sa il ciel, s'io t'amo;
e tu lo sai.--Ma, dimmi: (al roman duce
or non favelli; al tuo Scipion favelli)
riedi tu, dimmi, vincitor davvero?
MASSIN. Cirta espugnata, e per mia man distrutta;
rotto e disperso ogni guerriero avanzo
del morto re...
SCIP. Che parli? e ignori ancora,
che respira Siface?...
MASSIN. Oh ciel! che ascolto?..
SCIP. Spento in battaglia, è ver, la fama il volle.
Ei nella pugna ferito cadea,
ma non grave era il colpo; e preso quindi
da Lelio, entro al mio campo ei prigioniero...
MASSIN. Vivo è Siface? in questo campo?...
SCIP. Il frutto
migliore egli è della vittoria nostra.--
Ma, che fia? Tu ten duoli?...
MASSIN. Oh!... che mai... sento!...
Dal mio stupor... Ma... tu, perché mi accogli
in sí freddo contegno?... Entro il tuo petto
che mai rinserri?
SCIP. Ah Massinissa! in petto
tu bensí chiudi, e al tuo fedele amico
tu, sí, nascondi un grande arcano. In volto,
piú che stupor, duolo e furore a prova
ti si pingono: or, donde in te potrebbe
ciò nascer mai, se ostacolo a tue mire
il risorto Siface omai non fosse?
Ah Massinissa!--Io tutto so; mel dice
il tacer tuo: per te null'altro al mondo
io temea. La tua gloria, e in un la mia,
oscurata esser può da colei sola,
ch'ora in campo traesti. In Cirta al fianco
io non ti stava: all'amistá lontana
quindi anteposto hai tu d'amar le fiamme.
Ma pur, di te non io mi dolgo; ah! prova
larga ben or mi dai d'amistá vera,
trar non volendo la tua preda altrove,
che nel mio campo; e nel voler deporre
in cor soltanto al tuo Scipion le fere
tempeste del tuo core.
MASSIN. --Inaspettato
mi giunge il viver di Siface.--Io sposa
Sofonisba sperai: promessa fummi,
pria che data a Siface: ei mal la seppe
difender contro all'armi nostre; e nulla
a un vinto re, preso in battaglia, resta.
Pur, benché vinto, è d'alto cor Siface;
a lungo omai, son certo, all'onta sua
ei non vuol sopravvivere.--Ma, sia
di lui che vuole, odi, o Scipion, miei sensi.--
Caldo e verace amico a lunga prova
tu conosciuto hai Massinissa: or sappi,
che al par verace e ancor piú ardente amante,
nullo ostacolo ei cura. In cor numida
non entra mai tiepida fiamma: o sposo
io sarò dell'amata Sofonisba,
o con lei spento. Entro al tuo campo io stesso
mi affrettai di condurla: era quí solo
pago appieno il mio cor; quí ad alta voce
gloria, onore, amistá, virtú mi appella;
senza tradire l'amor mio, quí spero
tutti adempir gl'incarchi miei. Dal duce,
e in un dal fido amico, udir vogl'io,
come Cartagin debellare affatto
si debba omai; come possanza e lustro
debba accrescersi a Roma, e gloria a noi;
e come, in fin, me far felice io possa.
SCIP. Piú che d'unico figlio, a me (tel giuro)
duol del tuo cieco giovenile errore,
che travíar ti fa. La gloria nostra,
la possanza di Roma, la imminente
total rovina di Cartago, e l'alta
felicitá tua vera, in noi ciò tutto
stava finora; anzi che vinto in Cirta
tu soggiacessi a femminile assalto:
ma, tutto a te tolto hai tu stesso, e a noi,
coll'amar tuo fatale.--Ma no; sordo
esser non puoi di tua virtude al grido;
esser non puoi contra Siface istesso,
ingiusto tu; né mai crudel né ingrato
al sol tuo amico esser tu puoi. La vita
di Siface or condanna, e rompe, e annulla
questo amar tuo: né mai...
MASSIN. Né mai?... Quest'oggi
sará mia sposa Sofonisba; io 'l giuro.
E se protrar col viver suo Siface
vuol la sua infamia, e il dolor mio, me debbe
ei stesso quí, di propria man, col suo
brando svenarmi; o per mia man svenato
ei cader oggi.
SCIP. È prigioniero, è inerme
fra noi Siface; e a Massinissa in core
vil pensiero non cape.--Or, tu vaneggi;
ma certo io son, che se al tuo sguardo occorre
quell'infelice re, tu, generoso,
dall'insultarlo lungi, ah! sí, tu primo
ne sentirai pietá.--Ma, posto ancora
che in modo alcun, sia qual si voglia, spento
Siface cada, e possessor tranquillo
quindi sii tu di Sofonisba; a quale
partito allor pensi appigliarti?
MASSIN. --A Roma,
e al mio Scipione eternamente avvinto,
nulla mi può...
SCIP. Ma, piú di Roma, or dimmi,
Sofonisba non ami?
MASSIN. --Io?... Ciò non voglio
saper, per ora.
SCIP. Oh sfortunato amico!
Io giá 'l so, pria di te. So, che posposto
l'util tuo vero, e la ragione, e i sacri
di gratitudin, d'amistá, di fede
severi nomi, a rio destino in preda
precipitar ti vuoi. Non puossi a lungo
al fianco aver d'Asdrubale la figlia,
e rimaner di Roma amico, e farsi
distruttor di Cartagine. Compiango
caldamente tua sorte. Ai re nemici
di Roma, il sai, qual fera sorte avvenga,
o tosto, o tardi. I detti miei non sono
minacce, no; deh! tu nol creder: tolga,
tolga il cielo, che mai del giusto sdegno
di Roma in te, ministro farmi io voglia!
Questo mio brando, che a riporti in seggio
valse, ah! no mai, col non minor tuo brando,
ch'or tante aggiunge alte vittorie a Roma,
al paragon, no, non verrá: la punta
pria volgeronne al petto mio: ma, dimmi:
son Roma io forse? un cittadin privato
io son di Roma, il sai; né manca ad essa
consiglio, ed armi, e capitani. A queste
spiagge altro duce, con ugual fortuna,
con maggior senno, e con minor pietade,
verrá in mia vece; e rammentar faratti
la mal serbata tua fede giurata.
MASSIN. Or, vuoi tu ch'uom, ch'è di Scipion l'amico,
al terror di futuro e incerto danno
doni ciò, ch'egli all'amistá pur niega?
Mal mi conosci.--Io ti domando, in somma,
se di Cirta espugnata col mio ferro,
co' miei Numidi, e col lor sangue e il mio;
se di Cirta appartiene oggi la preda
a Roma, o a me: se sposa mia promessa,
da me sol Sofonisba or quí, condotta,
s'ella è regina quí, s'ella m'è sposa,
o s'ella è pur schiava di Roma.
SCIP. --Ell'era,
e ancor (pur troppo!) di Siface è moglie.
MASSIN. T'intendo. Oh rabbia!... E speri tu?...
SCIP. La scelta,
Massinissa, a te lascio: inerme io sempre
mi aggiro quí; da' tuoi Numídi farmi
svenar tu puoi; piantarmi in cor tuo brando,
tu stesso il puoi; ma, se tu me non sveni,
ir non ti lascio a tua rovina. Ov'abbi
cor di voler tu la rovina mia,
io vi corro per te. Serba tua preda:
Roma, il senato, accusator mi udranno
di me stesso; dirò, che alla privata
amistá nostra e il ben di Roma, e il tuo,
sagrificar mi piacque: e in premio avronne
dell'amistá ch'ebbi per te non vera,
la vera infamia mia.
MASSIN. Scipion; m'è cruda
piú mille volte or l'amistá tua troppa,
che non lo foran le minacce, e l'armi...
Misero me!... mi squarci il cuor.--Ma, trarne
nulla può il dardo radicato e saldo,
che amor v'infisse. Alla insanabil piaga
dittamo e tosco il tuo parlare a un tempo
mi porge: ahi! questo è martír nuovo...--O ingrato
fammi del tutto, e qual nemico intero
trattami; o meco, qual pietoso amico,
servi al mio mal... Pianger mi vedi; e il pianto
rattener puoi?--Che dico? ahi vil! che ardisco
dire al cospetto io di Scipione?--Insano
finor mi hai visto, or non piú, no.--Fra breve
saprá Scipion, di Roma il duce, a quale
immutabil partito al fin si appiglia
il re numida Massinissa.
SCIP. Ah! m'odi...

SCENA TERZA
SCIPIONE.

Ei mi s'invola! Il seguirò: lasciarlo
a se stesso non vuolsi; a mal suo grado
salvar si debbe: è d'alto core; il merta.


ATTO TERZO

SCENA PRIMA
SOFONISBA.

Misera me! che mai sará? qual chiude
feroce arcano or Massinissa in petto?
Che mai gli disse il reo Scipione? Ah! sempre,
sempre il previdi, che fatale a entrambi
questo campo sarebbe.--Oh Massinissa!...
Or, di pianto pietoso pregni gli occhi,
me stai mirando, e favellar non m'osi...
Or, con tremanti ed interrotti accenti,
tua pur mi chiami: or, disperati e biechi
ferocemente asciutti gli occhi torci
da me sdegnoso; e su la ignuda terra
ti prostendi anelante; e sole invochi
con grida orrende le furie infernali...
Ah! nel mio petto le tue furie istesse
trasfuse hai giá.--Presagio in cor di quanto
minaccia a noi questo Scipione, io l'ebbi:
tutto antivedo; e in un, di nulla io temo.
Or ch'ei, qual debbe, aperto emmi nemico,
or io Scipion vo' udire, e far ch'egli oda
di Sofonisba i sensi... Ma, chi veggo
venir ver me? Fors'io vaneggio?... Oh cielo!
Vivo Siface?... in questo campo?... Oh vista!

SCENA SECONDA
SIFACE, SOFONISBA.

SIFACE Alto stupor pinto hai nel volto, o donna,
nel rivedermi?--Esser doveva io spento:
benigna in ciò la fama ebbi, ma avversa
la fortuna, pur troppo!
SOFON. Oh inaspettata
terribil vista! Or mi è palese appieno
l'orrendo arcano...
SIFACE Infra te stessa parli?
A me favella. Or, mirami; son quello,
quel tuo consorte io son, che, a te posposto
e regno e onor, privo d'entrambi, avvinto
infra romani lacci, ancor su l'orlo
della bramata tomba il piè rattengo,
per saper di tua sorte.
SOFON. Oh detti!... Ahi! dove,
dove mi ascondo?...
SIFACE Ah! di vergogna, e a un tratto
di morte l'orme (oh cielo) impresse io veggio
sul tuo smarrito volto? Assai mi parla
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