Semiramide: Racconto babilonese - 20
diecimila cavalieri di Belo, onore e forza della progenie di Nemrod,
mietuti dall'orrida morte; e perchè? Guerra utile era forse cotesta? O
necessaria almeno? Che non la facesti tu prima? Che non ne rimovesti i
danni con previdente consiglio? Ma inutile era, inutile e dannosa pel
popolo di Kiprat Arbat; utile soltanto a' tuoi corrucci, profittevole
alle tue regali vendette!...
— E non erano esse le vostre? — interruppe Semiramide. — Lasciamo le
perfidie che s'ascondono nelle tue parole, o Abdenago; la regina le ha
udite, e ti basti. Di tante morti mi duole; a me prima e più fortemente
è doluto che a voi. Ma la sorte delle battaglie è cotesta; nè la
vittoria fruttifica, senza che il campo sia innaffiato di sangue. Molti
guerrieri, e de' migliori, perirono, in tutte le guerre che hanno fatto
grande e poderoso l'impero; molti più ancora in disutili imprese, e non
già di donna corrucciata, ma d'uomini forti e prudenti, di re animosi e
feroci, che voi oggi a mio scorno esaltate. E nessuno si dolse allora,
nessuno impugnò l'armi della ribellione, quando il fortissimo Nemrod,
in quelle medesime strette di Ajotzor, famose, o Abdenago, famose
finchè duri memoria negli umani intelletti, lasciò la vita, la gloria
dei passati trionfi e non una parte de' suoi, ma tutta la schiera
de' valorosi Titani. E voi sventurati per me! Voi sollevati contro la
mia autorità, per alto rammarico delle vite mietute! Sii più cauto, o
Abdenago, nel far tuo pro di un lutto comune. In Ajotzor si combatteva
il sesto giorno di Tana, e voi già apertamente ribelli dal terzo,
mentre io mi disponevo a levare le tende dal campo di Assur.
— È vero; — balbettò confuso l'anziano. — Ma infine, e non era egli
agevole di prevedere quella immensa rovina? Tu stessa hai ricordato
il figlio di Misdraim. Sì, l'impresa del forte Titano contro le case
di Thogarma fallì; vita e gloria vi perdette ed esercito. E tu, non
ammaestrata dall'esempio, hai voluto ritentare la prova, far contro
all'espresso voler degli Dei. Vincesti, ma la tua vittoria fu scherzo
amarissimo di Nisroc; per la tua vittoria, per la tua contentezza,
è Babilonia, è tutta la terra di Sennaar immersa nel lutto. A che
contenderemmo di giorni? L'impero è scosso ne' suoi cardini; questo
è il danno più grave, e dimanda le cure sollecite dei savi che
consigliano i principi. Nè mancano essi a Ninia, al regio adolescente,
che il popolo volle e che i sacerdoti consacrarono re sulla gente degli
Accad. Figlio di Nino e tuo, non dee parerti un usurpatore del regno.
— Figlio di Nino e di Semiramide, aspetti dunque l'ora del suo destino!
— gridò Faleg, che già più non poteva frenarsi. — Male s'argomenta di
ottenere obbedienza dal popolo, chi primo si ribella all'autorità della
sua genitrice e regina.
— Savio parli; — rispose Abdenago, scosso da quelle ferme parole e più
ancora dai segni di assentimento che esse avevano destato tra i capi
dell'esercito e tra parecchi de' suoi medesimi compagni. — Ma Ninia
dovrà pure un giorno impugnare lo scettro de' suoi maggiori. Egli regna
oramai; a che scemargli la maestà del nome, avvilirlo al cospetto
delle genti, richiudendolo di bel nuovo nell'ombra gelosa del suo
umile stato? Ricordi Babilonia, ricordino i Casdim, ricordi l'esercito
(poichè tutti qui raunati non siamo che una famiglia, il popolo delle
quattro favelle) essere a noi necessario di premunirci contro un più
grave pericolo. Bene avrei desiderato tacerlo, ma infine....
— Parla — gridò Semiramide. — Molto hai già detto, e che altro oramai
può farti nodo alla lingua?
— Orbene, sì, parlerò! — soggiunse Abdenago, che astutamente avea
meditata la sua reticenza. — Corrono voci strane e paurose tra il
popolo. Non sono forse caduti, in un sol giorno di pugna, tutti i
nobili rampolli della progenie di Nemrod? Balsam, il capo dei bianchi
cavalieri di Belo, Balsam, il terzo nato di Arbel, che fu padre al gran
Nino, tuo sposo; Ninip, ultimo del sangue di Bab, che fu il secondo
figlio di Nemrod; e Samas Iva, del sangue di Cael, e Misdrac, Ioreb,
Dudaimo, balda giovinezza e decoro del vecchio ceppo di Cus, non sono
essi tutti, dal primo all'ultimo, rapiti per sempre all'amore e alle
speranze degli Accad? Per contro, non hai tu condotto alla reggia
l'Armeno, con ogni più sollecita cura campato da morte, prigioniero
in apparenza, ma perdonato in cuor tuo? Che dovrà pensare il popolo
di Babilonia? che argomentare da ciò? Regina, io nol negherò, chè
sarebbe vano e non degno di noi; le tue gesta furono e rimarranno
gloria imperitura di Kiprat Arbat. Gioventù, bellezza, ardimento ti
arridono, e molto ancora ti sarà dato operare. Ma il popolo, di cui t'è
necessaria l'obbedienza e l'affetto, chiede certezza del futuro, vuol
essere raffidato da te. Qual cosa vogliano i rifuggiti in Barsipa non
so; parlino i loro inviati qui raccolti con noi. In nome del popolo di
Babilonia ti parlo io, in nome di questo popolo che ha veduto perire in
un giorno la progenie dei re, e che teme non si preparino per avventura
le vie del trono ad una stirpe nuova, e quel che peggio sarebbe, di
sangue straniero. —
Le vampe del rossore e dell'ira salirono alle guance di Semiramide.
Il colpo era tratto alla donna e la feriva nel cuore. Cionondimeno,
l'accusa di Abdenago appariva così stolta, che ella riavutasi tosto,
anzichè prorompere in accento di sdegno, sorrise di compassione.
— Dimenticate che Ninia vive? — diss'ella.
— Sì, vive, — ripigliò Abdenago, crollando mestamente il capo, — ma per
prodigio dei Numi. Ier l'altro, nella sua coppa d'oro gli fu ministrato
un veleno. Zerduste lo trattenne, che egli già stava per accostarlo
alle labbra. Il coppiere, costretto a bere invece del re, cadde
fulminato a' suoi piedi.
— Ah! e che vorresti tu dire? — gridò Semiramide, che durava fatica ad
intenderlo. — Forse che io.... Orribile pensiero! Una madre!... E siete
voi cittadini di Babilu, voi che lo avete creduto? Ma andate da colui,
dal re vostro, correte, e questo ditegli in nome di sua madre, che ella
può disprezzarlo, ma ucciderlo.... ucciderlo! oh, anzi che ciò potesse
balenarle alla mente, ella avrebbe lacerato col suo ferro il maledetto
fianco che lo ha partorito.
— Infame calunnia scaturita dal negro abisso! — tuonò Faleg a sua
volta, pallido dalla rabbia troppo a lungo repressa. — E il vostro
Zerduste, l'astuto consigliero d'ogni più vil tradimento, non può egli
avervi mentito? Che è mai una nuova menzogna, un nuovo inganno per lui?
Che è mai la vita di un umil servo babilonese, per l'uomo straniero che
non ha dubitato di mandare a rovina la patria nostra e che s'argomenta
oggi di salvarla con l'aiuto dei Medi? D'ogni peggiore artifizio è
capace costui! Non lo temo io, lo sdegno dei tristi; soldato sono, e so
che dovunque è battaglia; son figlio di questa terra, e l'ho per nemico
de' miei fratelli di sangue. Badate, o cittadini; egli inganna voi,
come inganna il suo regio discepolo, e tardi vi accorgerete del danno,
quando i Medi, ora sudditi vostri, vi staranno padroni sul collo.
Badate, o Casdim; egli vi ha ravviluppati nei suoi lacci insidiosi,
abbatterà i vostri altari, purificherà le vostre rozze idolatrie,
com'egli superbamente le chiama, nel fuoco de' suoi sacrifici. —
Le concitate parole del guerriero turbarono profondamente gli astanti.
— Che dici tu? — gridò il saccanàco. — Potrebbero gli Dei esser caduti
in inganno?
— Noi — incalzò Faleg sollecito. — Eglino infatti vi parlano pel mio
umile labbro e vi consigliano a diffidare di Zerduste. Egli vi tradirà,
o venerandi, vi tradirà, come ha tradito la donna che incauta per
soverchio di generosità lo ha innalzato, lui principe di una vinta
contrada, ai primi onori del regno. La prova? mi direte voi, la prova?
e non l'avete voi, nella istessa mostruosità del delitto che egli
appone alla regina? Può forse una madre, e una madre che abbia nome
Semiramide, compresa della sua grandezza regale, sacra alla immortalità
delle opere sue, macchiarsi di parricidio? Lo credano i perversi, nel
cui negro animo gli spiriti malvagi vanno soffiando il loro alito
immondo, non io, non voi, cittadini di Babilu, memori ancora delle
nobili imprese della vostra regina, nè così dissennati da imputare a
lei gli errori del caso. E a voi forse parrebbe meno evidente ciò che
a me, non straniero a voi, ma fratel vostro di sangue e non meno di
voi sollecito della patria comune, appar manifesto, luminoso, come il
raggio di Sam? Io ne attesto gli Dei, Nergal, il corrusco signore delle
battaglie, Nebo, il veggente custode del vero, Auv, il regnatore de'
cieli; e possano le loro destre onnipossenti fulminarmi sul punto, se
io vi dico menzogna. La madre che Zerduste accusa, si ritenne dallo
assalire incontanente le mura di Barsipa, che non sono già di bronzo,
come voi pensate, o ribelli; si ritenne, dico, dallo incenerirvi nel
vostro ultimo covo, per tema di arrecar morte allo stolto adolescente,
che crede di regnare su voi, perchè ha ferito il cuor di sua madre.
Orvia, cittadini di Babilu, e voi ministri dei santissimi Numi, tornate
in voi medesimi, non perseverate nella via dell'errore, su cui vi ha
trascinato il malveggente di Bakdi. Io non aggiungerò le minaccie,
poichè la regina non n'ha profferite. Vi dirò solo che l'esercito
farà il debito suo, e, rotti finalmente gl'indugi, non darà tregua, o
quartiere.
— No, nulla! nulla! Sarà fuoco e sterminio! — gridarono i capi
dell'esercito, facendo eco terribile alle parole di Faleg. — Possente
signora, le nostre spade son tue! —
Un gesto di Semiramide ringraziò quei valorosi; un suo accento, uno
sguardo, un raggio di contentezza ineffabile, aveva già ringraziato il
buon Faleg delle sue generose parole.
Negli animi dei ribelli erasi infiltrata una grande incertezza.
Sentivano di non aver buone ragioni da opporre, e quel nobile ardore
incominciava a soggiogarli. Più di tutti già vacillavano ne' primi
propositi gli anziani della città, dalle cui risoluzioni pendevano
oramai le sorti della grande contesa. Ma il vecchio Abdenago, cui
rafforzavano i consigli di Zerduste e la stessa sua condizione di
orator dei ribelli faceva ostinato, fu pronto a ravviare i compagni.
— Intendo, — diss'egli, — e non so darvi biasimo di questo nobile
ardore. Egli è giusto che, se dal colloquio nostro non deriva alcun
frutto, la lotta ripigli più accanita che mai. Ma egli è da por mente
altresì, e tu già non ne dubiti, o clemente signora, che la vittoria
arriverà a quella tra le due parti che abbia il popolo babilonese per
sè. Io vo' concedere, — e così dicendo la voce di Abdenago s'era fatta
più umile, carezzevole quasi, — che Babilu, messa al punto di scegliere
a quale delle due parti accostarsi, non dimenticherebbe i dolci vincoli
dell'antica obbedienza e la grandezza dei tuoi benefizi. Questa città
non t'odia, checchè sia avvenuto; ma ella vuol quiete, per medicare le
sue acerbe ferite; vuol sicurezza del futuro, quella sicurezza, che
un giorno la condusse a scorgere in te, sebbene straniera, la degna
continuatrice dei fasti della casa di Nemrod; quella sicurezza che il
triste eccidio di Ajotzor e un più recente spettacolo d'ingiustizia,
hanno miseramente distrutta. Ella dunque ti tornerà fedele, onorerà i
tuoi comandi, sorreggerà il fianco della tua autorità regale, a patto
che i suoi timori siano dissipati e l'ombre de' suoi morti non siano
offese più oltre dalla incolumità di quell'uomo, che cagionò tanti
lutti alla terra di Sennaar. A noi testè il valoroso Faleg minacciò la
pena dei nostri trascorsi; nè delle minaccie gli anziani si dolgono;
essi che accetteranno umilmente, dal voler degli Dei, premio o castigo,
secondo che i celesti arridano, o si mostrino avversi, alle armi di
Ninia. Ma tu, o regina, se giusta sei col tuo popolo, se non odii la
casa di Nemrod, se onori gli Dei che noi tutti adoriamo, devi con atti
aperti e sinceri, mostrarti degna del patrocinio celeste....
— Al fine! al fine! — gridò Semiramide impaziente.
— Ci vengo: — ripigliò Abdenago. — Sia uguale la tua misura per tutti.
Cada, per tuo comando, colui che fu cagione del danno. Sconti il
malka delle montagne la pena della sua funesta ribellione. Sia dato
al patibolo dinanzi alle porte della tua reggia, cosicchè dalle due
rive dell'Eufrate il popolo delle quattro favelle lo veda espiare
il suo tradimento e le lagrime che ci costa; e lo sdegno del popolo
sarà placato allora (ma bada, allora soltanto) da un atto di solenne,
quantunque tarda, giustizia.
— E quello degli Dei sarà placato del pari! — soggiunse il saccanàco,
levando in atto di giuramento la destra.
— Si, muoia l'Armeno, e tornerai la regina degli Accad! — incalzarono i
grandi del regno. — Giustizia per tutti! Troppo sangue di Babilonia si
è sparso; ne porti la pena il primo e il più grande ribelle! —
Il nuovo accorgimento di Abdenago sconcertava i prudenti disegni
di Faleg. Nato anch'egli nel Sennaar, imbevuto di tutta la ingenita
superbia della schiatta cussita, Faleg non poteva per fermo vedere di
buon occhio l'Armeno. Ma in lui era forte la gratitudine e profondo
l'ossequio per la regina. Ora la lentezza di lei a punire il nemico,
la bieca ostinazione dei ribelli nel volerlo morto, gli dicevano
chiaramente che il leggiadro malka delle montagne era già perdonato
nel cuore di Semiramide e che ella lo avrebbe conteso con ogni sua
possa alle feroci vendette che instigava Zerduste. Tra l'avversione
dell'animo suo e il debito della gratitudine, tra le pretensioni dei
ribelli e gli indovinati impulsi del cuore di lei, non era dubbia la
scelta di Faleg. Ma come opporsi efficacemente alle bieche proposte,
che al cospetto degli astanti si ammantavano di tanta giustizia? Gli
stessi capi dell'esercito, amici e compagni suoi, che non vedevano così
addentro com'egli ne' fini riposti di Abdenago e negli struggimenti
arcani d'un cuore di donna, facevano buon viso alla domanda, e il loro
spiare ansiosi e muti la risposta di Semiramide, avrebbe chiarito ad
occhi meno accorti de' suoi, da qual parte pendessero i loro consigli.
Invero poichè tutta la resistenza dei ribelli si restringeva in quel
punto, i capi dell'esercito pensavano che ad assai lieve prezzo si
comprava la pace e non dubitavano che la regina fosse per accettare un
partito, in cui la giustizia e la dignità sua erano salvi del pari.
Avvenne da ciò che Faleg, cercando invano tra sè come venire in aiuto
alla regina, si rimanesse alquanto sospeso. E gli altri solleciti a
trar profitto dal suo silenzio, incalzando negl'insidiosi parlari.
Con quell'atto di giustizia che si chiedeva a Semiramide, era tolto
ogni appiglio ad oltraggiosi sospetti, ogni argomento a paure degli
uni, a perfidie degli altri. La pena inflitta all'Armeno era l'ostia
propiziatoria ai celesti, era il messaggio di pace, il patto della
nuova alleanza tra la regina ed il popolo delle quattro favelle. Ninia
sarebbe tornato alla prima umiltà; Zerduste, poi, lo si cacciava fuor
del reame, colla sua vita comprando l'obbedienza dei Medi sollevati.
Qual più largo trionfo per lei, se per ottenerlo non occorreva spargere
pur una goccia di sangue? La pace restituita ad un tratto; i guerrieri
d'una medesima patria non più costretti a combattersi l'un l'altro, a
incrudelire ne' padri e fratelli loro; gli orrori di una guerra civile,
gl'incendi, le stragi, i lutti, risparmiati alla città diletta, che
era costata tanti anni di amorose fatiche; la gratitudine immensa d'un
popolo salvato; nulla fu pretermesso dagli accorti avversarii, in ciò
facilmente seguiti, sostenuti, oltrepassati dallo zelo degli amici
malcauti, che facevano a gara per dar nella pania dei fallaci consigli.
Semiramide non rispose parola. Aveva impallidito all'audace dimanda; in
quella condizione di pace gittata là come la cosa più ragionevole del
mondo, tanto più ragionevole allora, che il costume di guerra non facea
sacra la vita dei prigionieri, aveva ella ravvisato il colpo maestro
del suo implacabil nemico. Ah, egli non era dunque per la esaltazione
di Ninia, che si adoperava l'astuto? Quell'ignaro fanciullo non era
che uno strumento, un'arma brandita contro di lei, un'arma che si
gittava, dopo averla adoperata a ferire! Non era più sete di regno che
contrastava il poter suo; era una vendetta che cercava il cuor della
donna, una vendetta tanto più sottilmente feroce, in quanto che nessuno
di quella moltitudine di nemici e di fautori, poteva averla per tale.
Zerduste infatti, per la proposta degli anziani, non giungeva egli
a far sacrifizio di sè? Accettava l'umiliazione e l'esiglio; si dava
inerme in preda allo sdegno di Semiramide, che bene avrebbe potuto,
appena sedata la rivolta e ristabilita la sua autorità, cercarlo
dovunque egli fosse e farlo inesorabilmente morire. Chi, ciò pensando,
avrebbe sospettato della magnanimità di Zerduste? Quella sua volontaria
caduta era il sommo della ipocrisia; quel suo consiglio di finire ogni
cosa colla morte del re d'Armenia, era la stretta fatale in cui la
regina, o la donna, dovea certamente soccombere. E si sentì perduta,
allora, e rimase più atterrita a gran pezza, che non fosse stata prima,
all'udire d'ogni altro suo danno.
Ben le restava uno scampo; la guerra disperata, la sorte dell'armi.
Ma questa che fallacissima era, non potea farla altresì micidiale
nel sangue di Ninia? E poi, a che proseguire la lotta? Ella era
tanto desiderosa di regnare, temuta, non amata più dal suo popolo,
odiata, non creduta dall'uomo, per cui aveva messa a repentaglio la
sua possanza e la fama? V'hanno istanti supremi, in cui le anime più
salde sentono il fastidio della lor medesima forza, dovuta usare in
troppo vili contese; e allora dalla inerzia, che si offre noncurante
ai colpi nemici, spira assai più sublime grandezza, che non dall'ardore
crescente, dalla terribilità della pugna.
Così smarrita, la regina volse a Faleg uno sguardo di suprema
tristezza. Lo intese il fedele guerriero, che incontanente si fece a
salire i gradini del trono e si curvò sul ginocchio, per udire i regali
comandi. Ma egli non era già più un comando quello che Faleg doveva
udire dal labbro di Semiramide.
— Tu lo vedi, o Faleg; — susurrò la regina con malinconico accento. —
Tutto è perduto oramai.
— Signora! — rispose sommesso il guerriero, e il cenno del capo
significò tutto quello che il labbro taceva.
— Or ora, — proseguì la regina, — udranno che Semiramide non accetta le
loro condizioni. Potrei forse?..
— T'intendo! — interruppe Faleg, notando il rossore subitaneo che
imporporava le guance della regina. — Ma perchè dir loro il tuo
proposito fin d'ora? Tempo ti resta a pensare.
— Ho pensato; — soggiunse ella; — perchè tacerei?
— Perchè eglino, i tuoi nemici che stanno aspettando un forse preveduto
diniego, rimangano ancora crucciosi nella loro incertezza. Pensa, o
regina, ai giubilo che sentiranno, alle ire che non si periteranno di
rinfiammare prontamente nel popolo, e consentimi di risponder loro per
te. —
La regina assentì con un gesto lievissimo, e Faleg allora, vòltosi da'
piedi del trono ai congregati, parlò:
— Cittadini di Babilu, Casdim venerati, e voi tutti seguaci delle
fortune di Ninia, che mettete condizioni al ritorno nell'antica
obbedienza per la regina degli Accad, oramai la nostra possente signora
vi ha udito. Altro vi resta da aggiungere?
— No; — risposero i grandi rifuggiti in Barsipa; — muoia l'Armeno, e
l'autorità di Semiramide non avrà più fidi sostegni di noi.
— Se gli Dei non sono placati, — soggiunsero i Casdim, — Ninia regnerà
in sua vece. Così viva egli in perpetuo!
— E noi, — gridarono gli anziani, — aspetteremo che il signor delle
sorti ci mostri a cui dovremo obbedire. Ninia è il re consacrato e i
soccorsi di Media non sono lontani.
— Sta bene; — replicò Faleg, con voce impressa di guerresca baldanza;
— li vedremo noi primi, i vostri soccorsi di Media.... se la regina
vorrà. Andate, frattanto la possente signora degli Accad, cui Belo
ha concesso l'impero dello scettro e la vittoria della spada, si
raccoglierà nella solitudine de' suoi alti pensieri, mediterà le
proposte, chiederà lume d'inspirazione a Nebo, al veggente consigliero
dei re. La tregua spira domani; prima che il raggio di Sam si specchi
nei sette colori della gran torre di Barsipa, i ministri della reggia
vi annunzieranno ciò che la regina avrà risoluto di fare. —
Il parlamento ebbe fine con queste oscure parole di Faleg. Taciturni,
dubbiosi, uscirono i congregati dalla sala di Nemrod. Invero, essi
erano inquieti a ragione. Il silenzio della regina somigliava troppo
a quella cupa tranquillità di natura, che precede lo scoppio della
tempesta.
Come furono partiti, anche Semiramide si ritrasse nelle sue stanze.
— Ah, Faleg! — diss'ella al guerriero. — È finita; io non lo ucciderò!
Egli è un fellone e un ingrato; ma se io lo odiassi, avrei forse atteso
i consigli del volgo ribelle? E adesso, io, regina degli Accad, dovrei
piegarmi per avventura ai comandi?
— Certo non lo sperano essi! — rispose Faleg. — Le armi adunque
scioglieranno la contesa e meglio per noi se ciò avvenga domani.
— No; nè domani, nè poi! — esclamò Semiramide.
Faleg la guardò trasognato; e v'ebbe un istante che egli temè non aver
bene udito, o aver la regina male inteso la sua proposta; l'ultima, a
parer suo, che recasse un costrutto.
— Nè cedere, nè combattere! — sclamò egli poscia. — Che dunque faremo?
— Nulla! — rispose la regina, levando in alto la fronte e chiudendo
gli occhi in atto di raccoglimento solenne. — Domani sarà avvenuta tal
cosa, che sciolga il nodo per sempre.
— Ah! — proruppe il guerriero impallidendo. — E vorresti....
— Non mi dir nulla! Spesso han d'uopo dell'altrui consiglio i regnanti;
ma v'hanno giorni, ore supreme, in cui non è dato pigliarne, fuorchè
dalle voci arcane dell'anima. Tu se mi ami e rammenti....
— I tuoi benefizii, o regina? Come potrei averli dimenticati, io che
ripeto da te ciò che sono, io oscuro figlio del borgo di Susqueanna, io
innalzato da te ai primi gradi della milizia del regno? E come suddito
e come servo di gratitudine, son tuo; la mia vita ti appartiene, fanne
ciò che più ti talenta.
— Grazie, buon Faleg! — ripigliò Semiramide, crollando mestamente il
capo. — Dedicare la vita dei nostri servi ed amici ad utili imprese
non è più dato oramai; nè alcuna io vorrei sacrificarne, per consolare
una stolta vanità colla pompa d'una rumorosa caduta. Tu sei libero, o
Faleg; nessun vincolo d'obbedienza ti lega più alla regina; soltanto
al fedele servitore, al costante amico, Semiramide chiede oggi un
servizio.
— Parla! — diss'egli commosso. — Ogni tuo desiderio sarà legge per me.
— Esci di Babilonia, e sia teco una scorta d'uomini, quanti reputerai
bisognevoli, ma scelti tra i più fedeli e i migliori de' tuoi. Si
tratta di campare un uomo da morte; — aggiunse ella con imperioso e
rapido accento; — la salvezza di quest'uomo è l'ultima volontà della
regina degli Accad. Vanne dunque subito a lui.... m'intendi? a lui!
Per le segrete scale che conducono al gran sotterraneo, guidalo fuori
di Imgur Bel. Se alcuno dei cittadini lo ravvisasse, potrebbe aizzare
contro lui la rabbia d'una moltitudine forsennata. Ciò devi ad ogni
costo evitare....
— E impedire, fino all'ultima stilla del nostro sangue! — soggiunse
Faleg. — Non dubitare! Sacro per te, il re d'Armenia è sacro per ogni
tuo servitore.
— Sta bene; — ripigliò Semiramide. — Travestito, o celato in quel modo
migliore che a te consiglierà la prudenza, lo condurrai per la via di
Gomer, sulla sinistra dell'Eufrate, fino alle contrade di Assur. Meglio
sarebbe che tu potessi accompagnarlo fin oltre il paese di Nahiri....
— Ed anco al passo di Lukdi! — interruppe Faleg sollecito, andando
incontro ai voti della regina. — Non mi dire di più; la vita sua sarà
salva. —
Semiramide si accostò ad uno stipo d'ebano, riccamente scolpito, e
ornato di bei fregi d'argento.
— Prendi; — ella disse; — qui son gemme d'altissimo pregio. Sia tutto
tuo, quanto potrai recare con te. Eccoti ancora; questo è il mio
suggello regale; forse, lunge dalla città che reca l'impronta de' miei
benefizi, la sua autorità sarà ancora onorata ed esso potrà in alcun
tuo bisogno giovarti. Ed ora, o Faleg, giurami che tutto farai giusta
il mio desiderio; giurami che condurrai salvo il prigioniero fuor della
terra di Sennaar, nè lascerai di custodirlo fino a tanto egli non sia
lontano da ogni pericolo.
— Pe' sommi Dei te lo giuro! Mi colga lo sdegno di Auv; mi faccia
Nergal il più codardo e il più dispregevole dei guerrieri di Babilu,
gli spirti d'abisso m'involgano nelle tenebre eterne, se a questo
nobile ufficio io non consacrerò le forze tutte dell'animo, la virtù
del braccio e la vita. Ma tu frattanto, o regina?...
— Io? Non temere, — gridò Semiramide, con aria di serena baldanza; —
io mi sottrarrò, checchè avvenga, alle insidie dei tristi. Son figlia a
Derceto; nol rammenti tu forse? Il giorno che a me non resti più luogo
sulla terra, le sacre colombe della materna Dea mi rapiranno a volo
pe' cieli. Statti di buon'animo, o Faleg; va, e pensa a ciò che m'hai
giurato di fare. —
Il forte animo di Faleg venìa meno per tenerezza e sgomento. Il
fedele servitore, condotto a quel punto supremo, non sapea darsi
pace; vedeva di non poter più rimanere, e tuttavia non gli bastava
il cuore a spiccarsi di là. Semiramide gli sporse la mano; egli
cadde in ginocchio, l'afferrò tra le sue, la baciò ripetutamente, la
inumidì colle sue lagrime, indi, tutto vergognoso della sua debolezza,
coll'anima infranta, senza pure alzar gli occhi a guardare la sua
venerata signora, a passi concitati si allontanò dalla stanza.
La regina rimase immobile a lungo, attonita, smemorata, come chi,
perduta ogni speranza, o desiderio della terra, più non abbia un
concetto in cui riposare la mente. Gli occhi suoi inconsapevoli si
erano rivolti al cielo sereno, che si scorgeva per mezzo alle colonne
di un ampio loggiato. Il sole volgeva al tramonto, e le torri, le
cupole, i terrazzi di Babilonia, si tingevano in colore di fiamma
viva ai raggi obliqui dell'astro morente. Offriva un meraviglioso
spettacolo, quell'aureola di fuoco, entro a cui s'involgeva Babilonia,
come una regina nel suo manto di porpora. Ahimè! quanti pensieri senza
fine dolorosi doveva risvegliare nell'animo della gran vedova di Nino,
quella gloria della sua città prediletta! Il possente raggio di Sam,
innanzi di sparire dietro le arene del lontano deserto, innanzi di
nascondersi per sempre allo sguardo di lei, vagheggiava le vaste mura
che ella aveva innalzate, salutava i pinnacoli dei suoi templi e delle
sue moli superbe, glorificava al cospetto dei cieli, esaltava l'opera
sua.
Ed ella intanto si spegneva nella sua solitudine, la dolente regina!
Quel maestoso splendore si sarebbe diffuso il giorno vegnente sulle
mura dilette; ma ella non le avrebbe più contemplate; e Babilonia, e
il popolo degli Accad, e il figlio, ingrati tutti ad un modo, avrebbero
dimenticato la gloriosa fondatrice, la regina, la madre!
A poco a poco le alte gradinate dei templi, i terrazzi e le casupole si
venìano ascondendo nell'ombra. Un vasto semicerchio di fuoco, simile
a vampa d'incendio lontano, radiava nell'orizzonte, faceva uno sfondo
rossastro alle negre torri di Barsipa.
— Deh! — esclamò la regina, seguendo cogli occhi quella gloria morente.
— Come tu volgi precipitoso al tramonto, astro superbo, che rallegravi
il mondo della tua luce! —
E di sè, non dell'astro, pensava ella in quel punto. Umane grandezze,
splendidi sogni, sconfinate ambizioni, gloria, potenza, amore.... ah
sì, questo d'ogni altra cosa più prezioso a gran pezza! questo era
il grande, l'irreparabile eccidio; tutto l'altro era nulla. E forse
in quel mentre, il re d'Armenia, lieto della ricuperata libertà,
non memore di lei che per l'odio, s'affrettava sulle orme di Faleg.
Ingrato! Ah, la sconoscesse il popolo, la tradissero i grandi del
suo regno, dimenticassero tutti le sue gesta, i suoi benefizi; che
poteva importarle di ciò? Ma egli! l'uomo che era caduto ebbro d'amore
ai suoi piedi, che colle infiammate parole, coi giuramenti solenni,
aveva strappato dalle sue trepide labbra una confessione, dal suo seno
mietuti dall'orrida morte; e perchè? Guerra utile era forse cotesta? O
necessaria almeno? Che non la facesti tu prima? Che non ne rimovesti i
danni con previdente consiglio? Ma inutile era, inutile e dannosa pel
popolo di Kiprat Arbat; utile soltanto a' tuoi corrucci, profittevole
alle tue regali vendette!...
— E non erano esse le vostre? — interruppe Semiramide. — Lasciamo le
perfidie che s'ascondono nelle tue parole, o Abdenago; la regina le ha
udite, e ti basti. Di tante morti mi duole; a me prima e più fortemente
è doluto che a voi. Ma la sorte delle battaglie è cotesta; nè la
vittoria fruttifica, senza che il campo sia innaffiato di sangue. Molti
guerrieri, e de' migliori, perirono, in tutte le guerre che hanno fatto
grande e poderoso l'impero; molti più ancora in disutili imprese, e non
già di donna corrucciata, ma d'uomini forti e prudenti, di re animosi e
feroci, che voi oggi a mio scorno esaltate. E nessuno si dolse allora,
nessuno impugnò l'armi della ribellione, quando il fortissimo Nemrod,
in quelle medesime strette di Ajotzor, famose, o Abdenago, famose
finchè duri memoria negli umani intelletti, lasciò la vita, la gloria
dei passati trionfi e non una parte de' suoi, ma tutta la schiera
de' valorosi Titani. E voi sventurati per me! Voi sollevati contro la
mia autorità, per alto rammarico delle vite mietute! Sii più cauto, o
Abdenago, nel far tuo pro di un lutto comune. In Ajotzor si combatteva
il sesto giorno di Tana, e voi già apertamente ribelli dal terzo,
mentre io mi disponevo a levare le tende dal campo di Assur.
— È vero; — balbettò confuso l'anziano. — Ma infine, e non era egli
agevole di prevedere quella immensa rovina? Tu stessa hai ricordato
il figlio di Misdraim. Sì, l'impresa del forte Titano contro le case
di Thogarma fallì; vita e gloria vi perdette ed esercito. E tu, non
ammaestrata dall'esempio, hai voluto ritentare la prova, far contro
all'espresso voler degli Dei. Vincesti, ma la tua vittoria fu scherzo
amarissimo di Nisroc; per la tua vittoria, per la tua contentezza,
è Babilonia, è tutta la terra di Sennaar immersa nel lutto. A che
contenderemmo di giorni? L'impero è scosso ne' suoi cardini; questo
è il danno più grave, e dimanda le cure sollecite dei savi che
consigliano i principi. Nè mancano essi a Ninia, al regio adolescente,
che il popolo volle e che i sacerdoti consacrarono re sulla gente degli
Accad. Figlio di Nino e tuo, non dee parerti un usurpatore del regno.
— Figlio di Nino e di Semiramide, aspetti dunque l'ora del suo destino!
— gridò Faleg, che già più non poteva frenarsi. — Male s'argomenta di
ottenere obbedienza dal popolo, chi primo si ribella all'autorità della
sua genitrice e regina.
— Savio parli; — rispose Abdenago, scosso da quelle ferme parole e più
ancora dai segni di assentimento che esse avevano destato tra i capi
dell'esercito e tra parecchi de' suoi medesimi compagni. — Ma Ninia
dovrà pure un giorno impugnare lo scettro de' suoi maggiori. Egli regna
oramai; a che scemargli la maestà del nome, avvilirlo al cospetto
delle genti, richiudendolo di bel nuovo nell'ombra gelosa del suo
umile stato? Ricordi Babilonia, ricordino i Casdim, ricordi l'esercito
(poichè tutti qui raunati non siamo che una famiglia, il popolo delle
quattro favelle) essere a noi necessario di premunirci contro un più
grave pericolo. Bene avrei desiderato tacerlo, ma infine....
— Parla — gridò Semiramide. — Molto hai già detto, e che altro oramai
può farti nodo alla lingua?
— Orbene, sì, parlerò! — soggiunse Abdenago, che astutamente avea
meditata la sua reticenza. — Corrono voci strane e paurose tra il
popolo. Non sono forse caduti, in un sol giorno di pugna, tutti i
nobili rampolli della progenie di Nemrod? Balsam, il capo dei bianchi
cavalieri di Belo, Balsam, il terzo nato di Arbel, che fu padre al gran
Nino, tuo sposo; Ninip, ultimo del sangue di Bab, che fu il secondo
figlio di Nemrod; e Samas Iva, del sangue di Cael, e Misdrac, Ioreb,
Dudaimo, balda giovinezza e decoro del vecchio ceppo di Cus, non sono
essi tutti, dal primo all'ultimo, rapiti per sempre all'amore e alle
speranze degli Accad? Per contro, non hai tu condotto alla reggia
l'Armeno, con ogni più sollecita cura campato da morte, prigioniero
in apparenza, ma perdonato in cuor tuo? Che dovrà pensare il popolo
di Babilonia? che argomentare da ciò? Regina, io nol negherò, chè
sarebbe vano e non degno di noi; le tue gesta furono e rimarranno
gloria imperitura di Kiprat Arbat. Gioventù, bellezza, ardimento ti
arridono, e molto ancora ti sarà dato operare. Ma il popolo, di cui t'è
necessaria l'obbedienza e l'affetto, chiede certezza del futuro, vuol
essere raffidato da te. Qual cosa vogliano i rifuggiti in Barsipa non
so; parlino i loro inviati qui raccolti con noi. In nome del popolo di
Babilonia ti parlo io, in nome di questo popolo che ha veduto perire in
un giorno la progenie dei re, e che teme non si preparino per avventura
le vie del trono ad una stirpe nuova, e quel che peggio sarebbe, di
sangue straniero. —
Le vampe del rossore e dell'ira salirono alle guance di Semiramide.
Il colpo era tratto alla donna e la feriva nel cuore. Cionondimeno,
l'accusa di Abdenago appariva così stolta, che ella riavutasi tosto,
anzichè prorompere in accento di sdegno, sorrise di compassione.
— Dimenticate che Ninia vive? — diss'ella.
— Sì, vive, — ripigliò Abdenago, crollando mestamente il capo, — ma per
prodigio dei Numi. Ier l'altro, nella sua coppa d'oro gli fu ministrato
un veleno. Zerduste lo trattenne, che egli già stava per accostarlo
alle labbra. Il coppiere, costretto a bere invece del re, cadde
fulminato a' suoi piedi.
— Ah! e che vorresti tu dire? — gridò Semiramide, che durava fatica ad
intenderlo. — Forse che io.... Orribile pensiero! Una madre!... E siete
voi cittadini di Babilu, voi che lo avete creduto? Ma andate da colui,
dal re vostro, correte, e questo ditegli in nome di sua madre, che ella
può disprezzarlo, ma ucciderlo.... ucciderlo! oh, anzi che ciò potesse
balenarle alla mente, ella avrebbe lacerato col suo ferro il maledetto
fianco che lo ha partorito.
— Infame calunnia scaturita dal negro abisso! — tuonò Faleg a sua
volta, pallido dalla rabbia troppo a lungo repressa. — E il vostro
Zerduste, l'astuto consigliero d'ogni più vil tradimento, non può egli
avervi mentito? Che è mai una nuova menzogna, un nuovo inganno per lui?
Che è mai la vita di un umil servo babilonese, per l'uomo straniero che
non ha dubitato di mandare a rovina la patria nostra e che s'argomenta
oggi di salvarla con l'aiuto dei Medi? D'ogni peggiore artifizio è
capace costui! Non lo temo io, lo sdegno dei tristi; soldato sono, e so
che dovunque è battaglia; son figlio di questa terra, e l'ho per nemico
de' miei fratelli di sangue. Badate, o cittadini; egli inganna voi,
come inganna il suo regio discepolo, e tardi vi accorgerete del danno,
quando i Medi, ora sudditi vostri, vi staranno padroni sul collo.
Badate, o Casdim; egli vi ha ravviluppati nei suoi lacci insidiosi,
abbatterà i vostri altari, purificherà le vostre rozze idolatrie,
com'egli superbamente le chiama, nel fuoco de' suoi sacrifici. —
Le concitate parole del guerriero turbarono profondamente gli astanti.
— Che dici tu? — gridò il saccanàco. — Potrebbero gli Dei esser caduti
in inganno?
— Noi — incalzò Faleg sollecito. — Eglino infatti vi parlano pel mio
umile labbro e vi consigliano a diffidare di Zerduste. Egli vi tradirà,
o venerandi, vi tradirà, come ha tradito la donna che incauta per
soverchio di generosità lo ha innalzato, lui principe di una vinta
contrada, ai primi onori del regno. La prova? mi direte voi, la prova?
e non l'avete voi, nella istessa mostruosità del delitto che egli
appone alla regina? Può forse una madre, e una madre che abbia nome
Semiramide, compresa della sua grandezza regale, sacra alla immortalità
delle opere sue, macchiarsi di parricidio? Lo credano i perversi, nel
cui negro animo gli spiriti malvagi vanno soffiando il loro alito
immondo, non io, non voi, cittadini di Babilu, memori ancora delle
nobili imprese della vostra regina, nè così dissennati da imputare a
lei gli errori del caso. E a voi forse parrebbe meno evidente ciò che
a me, non straniero a voi, ma fratel vostro di sangue e non meno di
voi sollecito della patria comune, appar manifesto, luminoso, come il
raggio di Sam? Io ne attesto gli Dei, Nergal, il corrusco signore delle
battaglie, Nebo, il veggente custode del vero, Auv, il regnatore de'
cieli; e possano le loro destre onnipossenti fulminarmi sul punto, se
io vi dico menzogna. La madre che Zerduste accusa, si ritenne dallo
assalire incontanente le mura di Barsipa, che non sono già di bronzo,
come voi pensate, o ribelli; si ritenne, dico, dallo incenerirvi nel
vostro ultimo covo, per tema di arrecar morte allo stolto adolescente,
che crede di regnare su voi, perchè ha ferito il cuor di sua madre.
Orvia, cittadini di Babilu, e voi ministri dei santissimi Numi, tornate
in voi medesimi, non perseverate nella via dell'errore, su cui vi ha
trascinato il malveggente di Bakdi. Io non aggiungerò le minaccie,
poichè la regina non n'ha profferite. Vi dirò solo che l'esercito
farà il debito suo, e, rotti finalmente gl'indugi, non darà tregua, o
quartiere.
— No, nulla! nulla! Sarà fuoco e sterminio! — gridarono i capi
dell'esercito, facendo eco terribile alle parole di Faleg. — Possente
signora, le nostre spade son tue! —
Un gesto di Semiramide ringraziò quei valorosi; un suo accento, uno
sguardo, un raggio di contentezza ineffabile, aveva già ringraziato il
buon Faleg delle sue generose parole.
Negli animi dei ribelli erasi infiltrata una grande incertezza.
Sentivano di non aver buone ragioni da opporre, e quel nobile ardore
incominciava a soggiogarli. Più di tutti già vacillavano ne' primi
propositi gli anziani della città, dalle cui risoluzioni pendevano
oramai le sorti della grande contesa. Ma il vecchio Abdenago, cui
rafforzavano i consigli di Zerduste e la stessa sua condizione di
orator dei ribelli faceva ostinato, fu pronto a ravviare i compagni.
— Intendo, — diss'egli, — e non so darvi biasimo di questo nobile
ardore. Egli è giusto che, se dal colloquio nostro non deriva alcun
frutto, la lotta ripigli più accanita che mai. Ma egli è da por mente
altresì, e tu già non ne dubiti, o clemente signora, che la vittoria
arriverà a quella tra le due parti che abbia il popolo babilonese per
sè. Io vo' concedere, — e così dicendo la voce di Abdenago s'era fatta
più umile, carezzevole quasi, — che Babilu, messa al punto di scegliere
a quale delle due parti accostarsi, non dimenticherebbe i dolci vincoli
dell'antica obbedienza e la grandezza dei tuoi benefizi. Questa città
non t'odia, checchè sia avvenuto; ma ella vuol quiete, per medicare le
sue acerbe ferite; vuol sicurezza del futuro, quella sicurezza, che
un giorno la condusse a scorgere in te, sebbene straniera, la degna
continuatrice dei fasti della casa di Nemrod; quella sicurezza che il
triste eccidio di Ajotzor e un più recente spettacolo d'ingiustizia,
hanno miseramente distrutta. Ella dunque ti tornerà fedele, onorerà i
tuoi comandi, sorreggerà il fianco della tua autorità regale, a patto
che i suoi timori siano dissipati e l'ombre de' suoi morti non siano
offese più oltre dalla incolumità di quell'uomo, che cagionò tanti
lutti alla terra di Sennaar. A noi testè il valoroso Faleg minacciò la
pena dei nostri trascorsi; nè delle minaccie gli anziani si dolgono;
essi che accetteranno umilmente, dal voler degli Dei, premio o castigo,
secondo che i celesti arridano, o si mostrino avversi, alle armi di
Ninia. Ma tu, o regina, se giusta sei col tuo popolo, se non odii la
casa di Nemrod, se onori gli Dei che noi tutti adoriamo, devi con atti
aperti e sinceri, mostrarti degna del patrocinio celeste....
— Al fine! al fine! — gridò Semiramide impaziente.
— Ci vengo: — ripigliò Abdenago. — Sia uguale la tua misura per tutti.
Cada, per tuo comando, colui che fu cagione del danno. Sconti il
malka delle montagne la pena della sua funesta ribellione. Sia dato
al patibolo dinanzi alle porte della tua reggia, cosicchè dalle due
rive dell'Eufrate il popolo delle quattro favelle lo veda espiare
il suo tradimento e le lagrime che ci costa; e lo sdegno del popolo
sarà placato allora (ma bada, allora soltanto) da un atto di solenne,
quantunque tarda, giustizia.
— E quello degli Dei sarà placato del pari! — soggiunse il saccanàco,
levando in atto di giuramento la destra.
— Si, muoia l'Armeno, e tornerai la regina degli Accad! — incalzarono i
grandi del regno. — Giustizia per tutti! Troppo sangue di Babilonia si
è sparso; ne porti la pena il primo e il più grande ribelle! —
Il nuovo accorgimento di Abdenago sconcertava i prudenti disegni
di Faleg. Nato anch'egli nel Sennaar, imbevuto di tutta la ingenita
superbia della schiatta cussita, Faleg non poteva per fermo vedere di
buon occhio l'Armeno. Ma in lui era forte la gratitudine e profondo
l'ossequio per la regina. Ora la lentezza di lei a punire il nemico,
la bieca ostinazione dei ribelli nel volerlo morto, gli dicevano
chiaramente che il leggiadro malka delle montagne era già perdonato
nel cuore di Semiramide e che ella lo avrebbe conteso con ogni sua
possa alle feroci vendette che instigava Zerduste. Tra l'avversione
dell'animo suo e il debito della gratitudine, tra le pretensioni dei
ribelli e gli indovinati impulsi del cuore di lei, non era dubbia la
scelta di Faleg. Ma come opporsi efficacemente alle bieche proposte,
che al cospetto degli astanti si ammantavano di tanta giustizia? Gli
stessi capi dell'esercito, amici e compagni suoi, che non vedevano così
addentro com'egli ne' fini riposti di Abdenago e negli struggimenti
arcani d'un cuore di donna, facevano buon viso alla domanda, e il loro
spiare ansiosi e muti la risposta di Semiramide, avrebbe chiarito ad
occhi meno accorti de' suoi, da qual parte pendessero i loro consigli.
Invero poichè tutta la resistenza dei ribelli si restringeva in quel
punto, i capi dell'esercito pensavano che ad assai lieve prezzo si
comprava la pace e non dubitavano che la regina fosse per accettare un
partito, in cui la giustizia e la dignità sua erano salvi del pari.
Avvenne da ciò che Faleg, cercando invano tra sè come venire in aiuto
alla regina, si rimanesse alquanto sospeso. E gli altri solleciti a
trar profitto dal suo silenzio, incalzando negl'insidiosi parlari.
Con quell'atto di giustizia che si chiedeva a Semiramide, era tolto
ogni appiglio ad oltraggiosi sospetti, ogni argomento a paure degli
uni, a perfidie degli altri. La pena inflitta all'Armeno era l'ostia
propiziatoria ai celesti, era il messaggio di pace, il patto della
nuova alleanza tra la regina ed il popolo delle quattro favelle. Ninia
sarebbe tornato alla prima umiltà; Zerduste, poi, lo si cacciava fuor
del reame, colla sua vita comprando l'obbedienza dei Medi sollevati.
Qual più largo trionfo per lei, se per ottenerlo non occorreva spargere
pur una goccia di sangue? La pace restituita ad un tratto; i guerrieri
d'una medesima patria non più costretti a combattersi l'un l'altro, a
incrudelire ne' padri e fratelli loro; gli orrori di una guerra civile,
gl'incendi, le stragi, i lutti, risparmiati alla città diletta, che
era costata tanti anni di amorose fatiche; la gratitudine immensa d'un
popolo salvato; nulla fu pretermesso dagli accorti avversarii, in ciò
facilmente seguiti, sostenuti, oltrepassati dallo zelo degli amici
malcauti, che facevano a gara per dar nella pania dei fallaci consigli.
Semiramide non rispose parola. Aveva impallidito all'audace dimanda; in
quella condizione di pace gittata là come la cosa più ragionevole del
mondo, tanto più ragionevole allora, che il costume di guerra non facea
sacra la vita dei prigionieri, aveva ella ravvisato il colpo maestro
del suo implacabil nemico. Ah, egli non era dunque per la esaltazione
di Ninia, che si adoperava l'astuto? Quell'ignaro fanciullo non era
che uno strumento, un'arma brandita contro di lei, un'arma che si
gittava, dopo averla adoperata a ferire! Non era più sete di regno che
contrastava il poter suo; era una vendetta che cercava il cuor della
donna, una vendetta tanto più sottilmente feroce, in quanto che nessuno
di quella moltitudine di nemici e di fautori, poteva averla per tale.
Zerduste infatti, per la proposta degli anziani, non giungeva egli
a far sacrifizio di sè? Accettava l'umiliazione e l'esiglio; si dava
inerme in preda allo sdegno di Semiramide, che bene avrebbe potuto,
appena sedata la rivolta e ristabilita la sua autorità, cercarlo
dovunque egli fosse e farlo inesorabilmente morire. Chi, ciò pensando,
avrebbe sospettato della magnanimità di Zerduste? Quella sua volontaria
caduta era il sommo della ipocrisia; quel suo consiglio di finire ogni
cosa colla morte del re d'Armenia, era la stretta fatale in cui la
regina, o la donna, dovea certamente soccombere. E si sentì perduta,
allora, e rimase più atterrita a gran pezza, che non fosse stata prima,
all'udire d'ogni altro suo danno.
Ben le restava uno scampo; la guerra disperata, la sorte dell'armi.
Ma questa che fallacissima era, non potea farla altresì micidiale
nel sangue di Ninia? E poi, a che proseguire la lotta? Ella era
tanto desiderosa di regnare, temuta, non amata più dal suo popolo,
odiata, non creduta dall'uomo, per cui aveva messa a repentaglio la
sua possanza e la fama? V'hanno istanti supremi, in cui le anime più
salde sentono il fastidio della lor medesima forza, dovuta usare in
troppo vili contese; e allora dalla inerzia, che si offre noncurante
ai colpi nemici, spira assai più sublime grandezza, che non dall'ardore
crescente, dalla terribilità della pugna.
Così smarrita, la regina volse a Faleg uno sguardo di suprema
tristezza. Lo intese il fedele guerriero, che incontanente si fece a
salire i gradini del trono e si curvò sul ginocchio, per udire i regali
comandi. Ma egli non era già più un comando quello che Faleg doveva
udire dal labbro di Semiramide.
— Tu lo vedi, o Faleg; — susurrò la regina con malinconico accento. —
Tutto è perduto oramai.
— Signora! — rispose sommesso il guerriero, e il cenno del capo
significò tutto quello che il labbro taceva.
— Or ora, — proseguì la regina, — udranno che Semiramide non accetta le
loro condizioni. Potrei forse?..
— T'intendo! — interruppe Faleg, notando il rossore subitaneo che
imporporava le guance della regina. — Ma perchè dir loro il tuo
proposito fin d'ora? Tempo ti resta a pensare.
— Ho pensato; — soggiunse ella; — perchè tacerei?
— Perchè eglino, i tuoi nemici che stanno aspettando un forse preveduto
diniego, rimangano ancora crucciosi nella loro incertezza. Pensa, o
regina, ai giubilo che sentiranno, alle ire che non si periteranno di
rinfiammare prontamente nel popolo, e consentimi di risponder loro per
te. —
La regina assentì con un gesto lievissimo, e Faleg allora, vòltosi da'
piedi del trono ai congregati, parlò:
— Cittadini di Babilu, Casdim venerati, e voi tutti seguaci delle
fortune di Ninia, che mettete condizioni al ritorno nell'antica
obbedienza per la regina degli Accad, oramai la nostra possente signora
vi ha udito. Altro vi resta da aggiungere?
— No; — risposero i grandi rifuggiti in Barsipa; — muoia l'Armeno, e
l'autorità di Semiramide non avrà più fidi sostegni di noi.
— Se gli Dei non sono placati, — soggiunsero i Casdim, — Ninia regnerà
in sua vece. Così viva egli in perpetuo!
— E noi, — gridarono gli anziani, — aspetteremo che il signor delle
sorti ci mostri a cui dovremo obbedire. Ninia è il re consacrato e i
soccorsi di Media non sono lontani.
— Sta bene; — replicò Faleg, con voce impressa di guerresca baldanza;
— li vedremo noi primi, i vostri soccorsi di Media.... se la regina
vorrà. Andate, frattanto la possente signora degli Accad, cui Belo
ha concesso l'impero dello scettro e la vittoria della spada, si
raccoglierà nella solitudine de' suoi alti pensieri, mediterà le
proposte, chiederà lume d'inspirazione a Nebo, al veggente consigliero
dei re. La tregua spira domani; prima che il raggio di Sam si specchi
nei sette colori della gran torre di Barsipa, i ministri della reggia
vi annunzieranno ciò che la regina avrà risoluto di fare. —
Il parlamento ebbe fine con queste oscure parole di Faleg. Taciturni,
dubbiosi, uscirono i congregati dalla sala di Nemrod. Invero, essi
erano inquieti a ragione. Il silenzio della regina somigliava troppo
a quella cupa tranquillità di natura, che precede lo scoppio della
tempesta.
Come furono partiti, anche Semiramide si ritrasse nelle sue stanze.
— Ah, Faleg! — diss'ella al guerriero. — È finita; io non lo ucciderò!
Egli è un fellone e un ingrato; ma se io lo odiassi, avrei forse atteso
i consigli del volgo ribelle? E adesso, io, regina degli Accad, dovrei
piegarmi per avventura ai comandi?
— Certo non lo sperano essi! — rispose Faleg. — Le armi adunque
scioglieranno la contesa e meglio per noi se ciò avvenga domani.
— No; nè domani, nè poi! — esclamò Semiramide.
Faleg la guardò trasognato; e v'ebbe un istante che egli temè non aver
bene udito, o aver la regina male inteso la sua proposta; l'ultima, a
parer suo, che recasse un costrutto.
— Nè cedere, nè combattere! — sclamò egli poscia. — Che dunque faremo?
— Nulla! — rispose la regina, levando in alto la fronte e chiudendo
gli occhi in atto di raccoglimento solenne. — Domani sarà avvenuta tal
cosa, che sciolga il nodo per sempre.
— Ah! — proruppe il guerriero impallidendo. — E vorresti....
— Non mi dir nulla! Spesso han d'uopo dell'altrui consiglio i regnanti;
ma v'hanno giorni, ore supreme, in cui non è dato pigliarne, fuorchè
dalle voci arcane dell'anima. Tu se mi ami e rammenti....
— I tuoi benefizii, o regina? Come potrei averli dimenticati, io che
ripeto da te ciò che sono, io oscuro figlio del borgo di Susqueanna, io
innalzato da te ai primi gradi della milizia del regno? E come suddito
e come servo di gratitudine, son tuo; la mia vita ti appartiene, fanne
ciò che più ti talenta.
— Grazie, buon Faleg! — ripigliò Semiramide, crollando mestamente il
capo. — Dedicare la vita dei nostri servi ed amici ad utili imprese
non è più dato oramai; nè alcuna io vorrei sacrificarne, per consolare
una stolta vanità colla pompa d'una rumorosa caduta. Tu sei libero, o
Faleg; nessun vincolo d'obbedienza ti lega più alla regina; soltanto
al fedele servitore, al costante amico, Semiramide chiede oggi un
servizio.
— Parla! — diss'egli commosso. — Ogni tuo desiderio sarà legge per me.
— Esci di Babilonia, e sia teco una scorta d'uomini, quanti reputerai
bisognevoli, ma scelti tra i più fedeli e i migliori de' tuoi. Si
tratta di campare un uomo da morte; — aggiunse ella con imperioso e
rapido accento; — la salvezza di quest'uomo è l'ultima volontà della
regina degli Accad. Vanne dunque subito a lui.... m'intendi? a lui!
Per le segrete scale che conducono al gran sotterraneo, guidalo fuori
di Imgur Bel. Se alcuno dei cittadini lo ravvisasse, potrebbe aizzare
contro lui la rabbia d'una moltitudine forsennata. Ciò devi ad ogni
costo evitare....
— E impedire, fino all'ultima stilla del nostro sangue! — soggiunse
Faleg. — Non dubitare! Sacro per te, il re d'Armenia è sacro per ogni
tuo servitore.
— Sta bene; — ripigliò Semiramide. — Travestito, o celato in quel modo
migliore che a te consiglierà la prudenza, lo condurrai per la via di
Gomer, sulla sinistra dell'Eufrate, fino alle contrade di Assur. Meglio
sarebbe che tu potessi accompagnarlo fin oltre il paese di Nahiri....
— Ed anco al passo di Lukdi! — interruppe Faleg sollecito, andando
incontro ai voti della regina. — Non mi dire di più; la vita sua sarà
salva. —
Semiramide si accostò ad uno stipo d'ebano, riccamente scolpito, e
ornato di bei fregi d'argento.
— Prendi; — ella disse; — qui son gemme d'altissimo pregio. Sia tutto
tuo, quanto potrai recare con te. Eccoti ancora; questo è il mio
suggello regale; forse, lunge dalla città che reca l'impronta de' miei
benefizi, la sua autorità sarà ancora onorata ed esso potrà in alcun
tuo bisogno giovarti. Ed ora, o Faleg, giurami che tutto farai giusta
il mio desiderio; giurami che condurrai salvo il prigioniero fuor della
terra di Sennaar, nè lascerai di custodirlo fino a tanto egli non sia
lontano da ogni pericolo.
— Pe' sommi Dei te lo giuro! Mi colga lo sdegno di Auv; mi faccia
Nergal il più codardo e il più dispregevole dei guerrieri di Babilu,
gli spirti d'abisso m'involgano nelle tenebre eterne, se a questo
nobile ufficio io non consacrerò le forze tutte dell'animo, la virtù
del braccio e la vita. Ma tu frattanto, o regina?...
— Io? Non temere, — gridò Semiramide, con aria di serena baldanza; —
io mi sottrarrò, checchè avvenga, alle insidie dei tristi. Son figlia a
Derceto; nol rammenti tu forse? Il giorno che a me non resti più luogo
sulla terra, le sacre colombe della materna Dea mi rapiranno a volo
pe' cieli. Statti di buon'animo, o Faleg; va, e pensa a ciò che m'hai
giurato di fare. —
Il forte animo di Faleg venìa meno per tenerezza e sgomento. Il
fedele servitore, condotto a quel punto supremo, non sapea darsi
pace; vedeva di non poter più rimanere, e tuttavia non gli bastava
il cuore a spiccarsi di là. Semiramide gli sporse la mano; egli
cadde in ginocchio, l'afferrò tra le sue, la baciò ripetutamente, la
inumidì colle sue lagrime, indi, tutto vergognoso della sua debolezza,
coll'anima infranta, senza pure alzar gli occhi a guardare la sua
venerata signora, a passi concitati si allontanò dalla stanza.
La regina rimase immobile a lungo, attonita, smemorata, come chi,
perduta ogni speranza, o desiderio della terra, più non abbia un
concetto in cui riposare la mente. Gli occhi suoi inconsapevoli si
erano rivolti al cielo sereno, che si scorgeva per mezzo alle colonne
di un ampio loggiato. Il sole volgeva al tramonto, e le torri, le
cupole, i terrazzi di Babilonia, si tingevano in colore di fiamma
viva ai raggi obliqui dell'astro morente. Offriva un meraviglioso
spettacolo, quell'aureola di fuoco, entro a cui s'involgeva Babilonia,
come una regina nel suo manto di porpora. Ahimè! quanti pensieri senza
fine dolorosi doveva risvegliare nell'animo della gran vedova di Nino,
quella gloria della sua città prediletta! Il possente raggio di Sam,
innanzi di sparire dietro le arene del lontano deserto, innanzi di
nascondersi per sempre allo sguardo di lei, vagheggiava le vaste mura
che ella aveva innalzate, salutava i pinnacoli dei suoi templi e delle
sue moli superbe, glorificava al cospetto dei cieli, esaltava l'opera
sua.
Ed ella intanto si spegneva nella sua solitudine, la dolente regina!
Quel maestoso splendore si sarebbe diffuso il giorno vegnente sulle
mura dilette; ma ella non le avrebbe più contemplate; e Babilonia, e
il popolo degli Accad, e il figlio, ingrati tutti ad un modo, avrebbero
dimenticato la gloriosa fondatrice, la regina, la madre!
A poco a poco le alte gradinate dei templi, i terrazzi e le casupole si
venìano ascondendo nell'ombra. Un vasto semicerchio di fuoco, simile
a vampa d'incendio lontano, radiava nell'orizzonte, faceva uno sfondo
rossastro alle negre torri di Barsipa.
— Deh! — esclamò la regina, seguendo cogli occhi quella gloria morente.
— Come tu volgi precipitoso al tramonto, astro superbo, che rallegravi
il mondo della tua luce! —
E di sè, non dell'astro, pensava ella in quel punto. Umane grandezze,
splendidi sogni, sconfinate ambizioni, gloria, potenza, amore.... ah
sì, questo d'ogni altra cosa più prezioso a gran pezza! questo era
il grande, l'irreparabile eccidio; tutto l'altro era nulla. E forse
in quel mentre, il re d'Armenia, lieto della ricuperata libertà,
non memore di lei che per l'odio, s'affrettava sulle orme di Faleg.
Ingrato! Ah, la sconoscesse il popolo, la tradissero i grandi del
suo regno, dimenticassero tutti le sue gesta, i suoi benefizi; che
poteva importarle di ciò? Ma egli! l'uomo che era caduto ebbro d'amore
ai suoi piedi, che colle infiammate parole, coi giuramenti solenni,
aveva strappato dalle sue trepide labbra una confessione, dal suo seno
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