Semiramide: Racconto babilonese - 19

era tornato in sè medesimo, e la ingenita vitalità aveva trionfato
di tutto, perfino della negra mestizia che gl'ingombrava lo spirito.
Il cammino da' suoi monti natali alla pianura del Sennaar non gli era
tornato a disagio, dappoichè la sua scorta viaggiava sempre nelle ore
notturne, ed egli posava su morbide piume, procedendo leggero e senza
scosse, o sobbalzi, al dolcissimo passo dei cammelli battriani. La
tacita compagnia giungeva in Babilonia tre giorni dopo il vittorioso
ingresso di Semiramide, e la frescura dei pensili orti, l'abbondanza di
tutti gli agi del vivere, aveano rinfrancate le membra affralite del
giovine, facendo il resto la gioventù, questa medicina incomparabile,
che tutti, ahimè! non sempre portiamo dentro di noi. Sbiancato mostrava
il volto, già tinto di rosa e ammorbidito da riflessi dorati; una
nube di tristezza offuscava il placido lume degli occhi; pure la sua
bellezza non avea nulla perduto della prima virtù; simile al fiore che
il soffio della bufera ha alidito, ma che un tiepido raggio di sole
ravviva.
Semiramide lo aveva veduto. Nel suo breve colloquio con lei, il
prigione erasi mostrato ossequioso, ma freddo. Posto di bel nuovo al
cospetto di quella sovrumana bellezza che lo aveva rapito, memore di
tante angoscie, più ancora di tante dolcezze, combattuto da contrarii
pensieri e da immagini di lutto recente, si adirava con sè medesimo, si
struggeva di non odiarla quanto avrebbe dovuto.
— Son vinto e tuo prigioniero; — le disse. — Fammi morire; altro io non
aspetto oramai. Donna di grande animo ti dice la fama e le imprese tue
ti dimostrano. Fanne un'ultima prova per me, affrettando il mio fine,
ed io benedirò l'odio tuo.
— Nemico di un giorno, e pensi ch'io t'odii? — replicò nobilmente la
regina. — Ho vendicato un oltraggio, ho punito un atto di ribellione;
tutto l'altro io non ricordo, non vedo. Son regina per te come per
tutti; ciò soltanto soffri da Semiramide. Ella è soddisfatta; nè pensa
ai dolori patiti, o alle profonde allegrezze che si riprometteva dalla
sincerità del suo cuore, se non per lagnarsi della sorte, a lei così
larga dispensatrice di potenza, e così avara di giustizia nel mondo.
Credi tu che di questa potenza m'importi? Credi tu che mi prema del
regio fasto, dell'impero accresciuto e di questa Babilonia, che un mio
cenno ha creata? Io sono più superba a gran pezza; mi paragono alla
stella che trascorre veloce lo spazio e non cura il solco di luce che
lascia dietro di sè. Mi spegnerò come ho vissuto, splendendo; ma non
vo' che nulla offuschi a' tuoi occhi il mio raggio; non l'amor tuo, la
tua stima domando. So quali ragioni t'abbiano mosso alla fuga; Sumàti,
innanzi di cercare spontaneo la morte nelle acque salse di Van, mi ha
confessato ogni cosa. Tu fosti vittima di un'empia macchinazione, che
l'abisso non poteva immaginar la più nera. Per darle a' tuoi occhi
colore di verità, un tuo fedele ti ha venduto ai nostri comuni nemici.
— Un mio fedele! — sclamò Ara turbato. — Altri non meritò più questo
nome, che Bared. Impossibile! Bared pugnava al mio fianco. Non
tradiscono i valorosi. Fatto prigione con me, perchè non lo vedo io al
mio fianco? —
Tosto, ad un cenno di Semiramide, fu cercato per ogni dove l'infido
scudiero del re. Ma invano. Bared, nel muoversi dei prigioni da
Armavir, profittando della confusione in cui era l'esercito, avea preso
la fuga, nè più s'era avuta nuova di lui.
— Tu lo vedi, o regina? — disse Ara, con piglio severo. — Anche Bared,
l'ultimo testimone, ti manca. Egli pure, come Sumàti....
— Basta! — tuonò la regina, il cui sangue si rimescolò tutto e riarse,
come le fosse penetrato un dardo rovente nel cuore.
E furono le ultime parole di lei. Composta negli atti, grave
nell'aspetto, ma fieramente combattuta nell'animo, vacillante, smarrita
di sensi, uscì la misera donna. Ella non era più Semiramide; non era
più la regina. Sì, ben lo sentiva in quel punto; la sua fortuna era
fuggita per sempre; la dura mano di Nisroc si aggravava su lei.
A che più combattere? Per quali speranze? A qual pro? È dei giovani il
travagliarsi, durare aspre fatiche animosi; dei giovani, che hanno il
futuro davanti a sè, per chiamarli colle arcane sue voci, stimolarli
colle sue confuse promesse. Ma il vecchio, deserto d'ogni promessa
e d'ogni speranza, a che tenderebbe i nervi e l'ingegno, conscio pur
troppo che pochi passi più oltre una fossa lo aspetta? Così Semiramide,
a cui la gioventù splendeva ancora sul volto, ma più non esultava
nel cuore. Vivere, vincere, regnare, perchè? Non è grata fatica, dove
manchi la speranza del premio. È vanità rialzare un trono, su cui non
abbia a sedere che un'ombra. Cedono allora, cedono le anime grandi ai
più profondi sconforti. Gittar l'opera di tante braccia obbedienti,
spargere inutilmente il sangue proprio e l'altrui, peggio che errore
non è forse un delitto? E varrà egli per avventura, contro queste voci
della coscienza, il dire che giusta è la causa per cui si combatte?
Sarà scusa bastevole al cospetto del mondo, o conforto per sè, l'aver
combattuto per seguire sua generosa natura?
Chiusa nel silenzio delle sue stanze, la regina pensava. Che aveva ella
fatto di così reo, da meritarle un tal scempio? Vedova di Nino, aveva,
più ancora che colle sue vittorie, colla temuta altezza del nome,
formato il più vasto impero che fosse mai; aveva recato un sorriso di
grazia nella forza, un raggio di serena maestà nella ferocia di que'
prepotenti Cussiti. Luce e bellezza è la donna nel mondo; solo quando
ella vi apparve, credettero gl'immortali che Dio avesse compiuto
l'opera sua. Tale era stata Semiramide sul trono degli Accad, luce
e bellezza all'impero. Ma forse l'alba dei leggiadri costumi non era
anche spuntata, ed ella, precoce apparizione, dovea rimanere come un
gentile esempio ai venturi, meteora luminosa in quelle tenebre lunghe.
Cionondimeno, era egli forse un delitto lo aver tentato di raggentilire
i culti disumani e rozzi, lo avere raunati tanti sparsi popoli in un
grande consorzio, lo aver recati i benefizi d'una civiltà nascente
su tanta parte della terra? E di che, se Giustizia celeste presiede
all'opere umane, di che era ella punita? D'esser donna e pietosa,
d'aver confidato negli uomini, d'averli reputati magnanimi e schietti
al pari di sè, di non aver creduto alle tenebre perchè essa era la
luce, al livore perchè essa era la bontà, all'ingratitudine, alla
viltà, al tradimento, perchè essa era la generosità, la grandezza e
la fede. Sì, quella era colpa sua, nè doveva per ciò muover lagno agli
Dei. Ah, come avrebbe voluto mutarsi allora, farsi tutt'altra da quella
di prima, esser barbara, incrudelire, operare il male, come tanti nel
mondo, per la sola voluttà del male! Ah, se quel tristo adolescente,
quel mostro di perfidia precoce, non fosse uscito dal suo grembo, come
le sarebbe bastato l'animo di entrare in Barsipa col ferro e col fuoco,
e là, al sommo della torre, costringerlo a bere il sangue del suo
Zerduste e del gran sacerdote di Belo, confitti a lungo martirio sugli
altari bugiardi!
Ma ella era madre; era magnanima e pia; i feroci pensieri trascorreano
veloci nella sua mente, a guisa di nuvole rotte in un cielo sereno. La
nobile creatura non poteva mentire all'indole sua; doveva struggersi
nel suo dolore impossente e cadere, se così voleva il destino.
Gli eventi incalzavano. Medi, Persi, Elamiti, si erano ribellati ai
governatori delle provincie. Le torme loro muoveano minacciose dai
monti, alla volta del Sennaar; cotesto recavano i frettolosi messaggi,
come nel profetico sogno della rocca di Van. Fortuna estrema per lei,
che i popoli sollevati non si fossero posti prima in cammino, come,
nella veemenza de' suoi desiderii, aveva sperato Zerduste! Frattanto
egli bisognava spedire un buon nerbo di valorosi ad affrontarli; ella
stessa avrebbe dovuto correr laggiù, coglierli alla sprovveduta e
sconfiggerli. Ma come uscire di Babilonia, come sfornire la città di
soldati, mentre i ribelli erano così numerosi in Barsipa e dall'alto
delle mura certo spiavano l'occasione di rifarsi alle offese?
Inoltre, Babilonia non era sicura, vacillava nell'obbedienza. I grandi,
forza e decoro della città, si erano allontanati con Ninia; il popolo
rimaneva ma inquieto, cruccioso, sbigottito tra i mali presenti e
l'incertezza del futuro. Cessate le feste, rovinati i commerci, rotte
le consuetudini d'una vita facile e piana, a cui era necessaria la
prosperità di tutto l'impero, ben si scorgeva che il ritorno della
pristina pace non era più possibile oramai senza varcare un'altra
sequela di durissime prove. E d'ogni cosa (siccome avviene in mezzo
alle pubbliche calamità, che fanno gli animi ingiusti) si accagionava
l'autorità più vicina, quella a cui sarebbe bisognato dar forza per
uscire con essa d'angustie; s'accagionava Semiramide, la regina vera,
l'autrice di tanta prosperità passata; non Ninia, il ribelle, delle
cui grandi opere, delle cui felici impromesse, null'altro per anche era
noto, fuorchè il suo tradimento.
Gran colpa agli occhi del volgo, un'ora di mutata fortuna! A Semiramide
niente giovava aver tante cose operato per la felicità di quel popolo.
Che era per costoro il passato! Un generoso liquore bevuto a rapidi
sorsi, un'ebbrezza, un sogno felice, di cui non si serba gratitudine, e
molto è se la memoria rimane. Del presente la si accusava, del triste
presente, di ciò che la regina non avea fatto per soggettarsi il
destino, di ciò che Ninia, Zerduste, complice il popolo di Babilonia,
avevano perpetrato contro di lei.
Intanto lutto, squallore e tumulto per ogni dove. In mezzo
all'abbondanza, si pativa difetto d'ogni cosa. Col pretesto della
pugna imminente, si smetteva il lavoro; si domandava pane, e avutolo si
chiedeva che fossero aperti i granai. Nè di minore ansietà era cagione
l'esercito. Tutte quelle migliaia di guerrieri d'ogni nazione, forti
e compatte schiere all'aperto, riuscivano colà branchi disordinati
e turbolenti, facili a scorarsi, più facili a secondare, che non a
contenere ne' suoi vaneggiamenti, la plebe.
Emissarii di Zerduste, fautori di ribellione, correvano di continuo tra
le file. Erano popolo, nè poteva sospettarsi di loro.
— Contro chi combattete? — dicevano. — E per chi? Doloroso è morire,
quando a nulla giova la morte. Sapete a cui siano propizi gli Dei?
Non certo a Semiramide! La sua stella è tramontata, dopo ch'ella ha
voluto sacrificare agl'idoli stranieri. Ninia ha da essere un giorno
il re nostro; a che combatterlo oggi? Egli è oramai al suo sedicesimo
anno, e l'ha educato al regno la savia tutela di Zerduste. Egli è
ragionevole che, cresciuto negli anni e nella saviezza il discendente
di Nemrod, lo scettro continui ad esser impugnato da una fragil mano
di donna? Compagna la fortuna ed auspice la gran memoria di Nino,
costei ha potuto condurre innanzi malagevoli imprese, altre lasciarne a
mezzo, senza troppo suo scorno. Oggi, abbandonata dal favore dei cieli,
esce in mostruose follie. Il miglior sangue di Babilonia s'è sparso
inutilmente nelle gole d'Armenia. Il vostro si spargerà inutilmente
del pari sotto le inespugnabili mura di Barsipa, con alto rammarico dei
vostri cari, che v'aspettano tremanti alle case natali. Ninia vi darà
pace; egli vi rimanderà liberi e ricchi alle vostre contrade. Che può
darvi oramai Semiramide, se non certezza di forsennati assalti e di
morte ingloriosa? tra breve incalzeranno alle porte i popoli sollevati
dalle regioni orientali. Avremo guerra dentro e fuori, carestia,
desolazione, esterminio. Che farete voi, uomini di Elam, voi Medi,
Persi, Ariarvi, cavalieri animosi; su cui Semiramide fa assegnamento
per distruggere il popolo delle quattro favelle? Uscirete voi in campo
aperto, spingerete i baldi corsieri contro i vostri fratelli di sangue,
scesi dai monti in aiuto del legittimo re? —
Con arti siffatte era tentata e scossa la fedeltà dell'esercito.
Nè più molto occorreva; forse una lieve occasione dovea bastare a
discioglierlo.
— Viva Ninia, in perpetuo! — già avevano incominciato a gridare i
nativi del Sennaar.
— E Anaìti, con lui, la vezzosa regina! — soggiungevano i popolani.
— Quella è nostra, nata del nostro sangue più schietto. Felice chi la
vedrà, come noi l'abbiam veduta, passare per queste vie, bella come il
sole nascente, e dall'alto del suo cocchio d'argento e d'oro sparger
sorrisi e saluti, come sparge fragranze il fiore della mandragora. È
dessa, Anaìti, la vera rosa del Sennaar; la venturiera d'Ascalona più
non usurpi quel nome. —
E scorreva, tra i dissennati, scorreva, versato largamente nei calici,
il liquor della palma. Cittadini e soldati, dopo aver maledetto alle
regali follie, pianto sui mali presenti e sui temuti danni futuri,
gozzovigliavano, infingardivano, tumultuavano insieme.
I capitani delle squadre, giustamente inquieti, andavano a consiglio
presso la regina.
— I soldati, sparsi tra il popolo, avranno perduto ogni ritegno ben
presto; la licenza e la ribellione son penetrate nel campo. Bada, o
regina; se i rivoltosi di Media giungeranno alle porte, con quali forze
andremo noi a combatterli? —
Semiramide, oppressa da tanta rovina, perduta nel suo ascoso dolore,
non sapeva a qual partito appigliarsi. Dar tosto l'assalto a Barsipa?
Sì certo era quello il più saggio consiglio; e là, o vincere, o morire!
Ma il suo cuore materno tremava. Infatti, come mai, senza mandare in
fiamme il covo dei ribelli, avrebbe ella potuto metter piede colà?
Faleg, sempre costante nella sua fede e ammonito dalla necessità di
uscir presto da quella incertezza, propose un suo divisamento alla
regina.
— Se tu tentassi di bandire una tregua, e di chiamare a parlamento
gli anziani di Babilonia, insieme coi grandi rifuggiti in Barsipa?
Tu udresti ciò ch'essi dimandano; essi le tue proposte, o signora.
Imperocchè, tu lo vedi, questa inerzia è fatale. O assalire i baluardi,
o calare agli accordi, ma subito!
— E sia, come tu saviamente proponi! — rispose la regina. — Vengano a
parlamento e dicano l'animo loro qual è. —
Indettatosi d'ogni cosa con lei, Faleg esce sollecito dalla reggia e
manda gli araldi per la città. Egli stesso sale arditamente in arcione
e s'avvia, con pochi uomini di scorta, a Barsipa. Giunto a' piè delle
mura e fatte squillare le trombe, così parla ai ribelli:
— In nome della possente signora degli Accad, cui Nebo ha concesso
l'impero dello scettro e la vittoria della spada, a voi cittadini e
difensori di Barsipa, tregua è proposta da questo momento fino all'alba
di doman l'altro, che sarà il trentesimo giorno di Tana. I soccorsi,
che voi attendete dalle terre del sole oriente, non giungeranno prima
di sei giorni in vicinanza di Babilu. Così recano i nostri esploratori;
vedete voi medesimi se vi confortino più felici notizie. In questo
termine, io ve lo annunzio, Barsipa sarà espugnata col ferro e col
fuoco. Or dunque, accettate la tregua, e quale di voi l'abbia grato,
purchè sia dei maggiorenti di Kiprat Arbat (o principe tra i suoi, se
straniero alla terra del Sennaar), venga a parlamento nella reggia,
insieme cogli anziani di Babilu. Udrà la regina le proposte de' suoi
avversarii e che cosa essi chiedono da lei per far posare la guerra;
ella dirà ciò che da loro s'aspetta, o che può loro concedere. Liberi
e sacri gli inviati di Barsipa; maledetto dai sommi Dei chiunque,
durante la tregua, tenterà cosa alcuna a danno del suo più odiato
nemico. —


CAPITOLO XXII.
Il bivio.

Dispiacque la proposta in Barsipa. Che vuole costei? dimandavano i
ribelli, radunati a consiglio. Qual nuovo inganno si cela in questa
tregua, che ella ci profferisce? Tarderanno ancora parecchi giorni i
soccorsi di Media; che importa? Le nostre mura sono salde e ingegni
di guerra non mancano a noi, per respingere i minacciati assalti della
regina. Alla perfine, di quali speranze si nutre, col popolo avverso e
l'esercito mal fido? E non è forse da credere che ella tema più di noi
l'esito di quest'ultimo scontro? Di certo, le è giunto all'orecchio che
domani, dal sommo della gran torre, i Casdim chiameranno solennemente
sovr'essa la maledizione degli Dei, e questa sua profferta è intesa a
scongiurare il pericolo. Ella ben sa che il popolo di Kiprat Arbat,
servo riverente dei Numi, si solleverà contro di lei, dichiarata
sacrilega, e l'esercito, in cui è tanta parte dei figli del Sennaar,
piglierà ansa a sostenere le ragioni del popolo. No, si risponda a
Faleg, non tregua, nè accordi!
Vinceva per tal guisa il partito di respingere la proposta. Ma
Zerduste, che fino a quel punto aveva serbato il silenzio, si oppose.
— Due notti in Babilonia, — egli disse, — sono gran ventura per noi,
quale non ci era dato sperare dalla benevolenza del cielo. Ponete
mente, o savi consiglieri del re: ciò che a noi tornò così malagevole
di ottenere, la mercè di destri emissarii, tenteremo liberamente
noi stessi per le vie della città, nelle lunghe ore che ci consente
la tregua. Nè così audace è il popolo, nè ancora così pronto ad
ammutinarsi l'esercito. D'una propizia occasione è mestieri, e questa
occasione è la tregua.
— Ma sarà ella osservata, la tregua? — notarono gli altri, con accento
di dubbio. — Non è per avventura da temersi una insidia?
— Semiramide non è donna da tendere insidie! — rispose brevemente
Zerduste. — Ciò ch'ella promette fedelmente atterrà. State di buon
animo, ed eleggete quali di voi dovranno recarsi alla reggia. Io
medesimo, che più d'ogni altro avrei cagion di temere, scenderò
in Babilonia cogli inviati del re e col venerato collegio dei
Casdim. —
Ora, Zerduste era l'anima della rivolta e a lui tutti facevano capo,
come al vero monarca. I Casdim medesimi, ai quali l'astuto prometteva
tanta possanza nell'impero, erano a lui vincolati. La proposta fu
dunque accettata.
Tosto, recatosi alle porte della città, il principe di Bakdi venne a
parlamento con Faleg.
— La regina ascolterà dunque i voti dei Casdim e dei grandi rifuggiti
in Barsipa?
— E degli anziani di Babilu; — aggiunse Faleg. — Il popolo rimasto in
città è sempre il maggior numero; nè il suo voto, qualunque esso sia,
va lasciato in disparte.
— Sta bene; — disse Zerduste. — E che intendi tu per altri dei ribelli,
purchè siano principi delle loro nazioni? Son io dunque del numero?
— Tu primo, — rispose l'inviato di Semiramide, — e le mie parole
indicavano te. Non fosti tu il consigliero della ribellione? Non
comandi tu, non fai ogni cosa a tuo talento appo il re? Vieni
dunque, se ti aggrada; la tua persona, come quella d'ogni altro, ci è
sacra. —
Così minutamente convenuti di tutto fu giurata quel medesimo giorno
la tregua nel tempio di Nebo. Giurò Zerduste per Ninia e pei ribelli;
Faleg per la regina e per l'esercito suo; Abdenago, il primo degli
anziani, pel popolo delle quattro favelle.
Babilonia si rasserenò come per incanto, dopo che gli araldi ebbero
bandita quella sospensione d'arme, altrettanto gradita, quanto era
inattesa. Gli animi, riaperti alla speranza, intravvidero la pace
imminente. A che si sarebbe fatta la tregua, se non fosse parso ai
combattenti di poter giungere ad utili accordi? Del resto, l'esser
chiamati in mezzo gli anziani della città, quasi arbitri dei litigio,
affidava il popolo che in un modo o nell'altro, per la madre o pel
figlio, gli sarebbe restituita la calma.
In sull'ora del tramonto, schiuse le porte di Barsipa, scesero i grandi
e i sacerdoti in Babilonia. Sulle orme loro si affrettarono molti
altri, che pure non dovevano andare alla reggia, guerrieri e cittadini,
a cui premeva di vedere i congiunti o gli amici. Nè Faleg si oppose a
questo lor desiderio. Così, largheggiando di generosità e di clemenza,
volea Semiramide. Non erano che un solo i due popoli; soltanto le sorti
della guerra intestina li avean separati; tornassero quelli di prima,
finchè durava la tregua.
La mattina del giorno seguente, che fu il ventesimonono di Tana, gli
anziani di Babilu, condotti da Abdenago, i capi della rivolta, e i
maggiori tra i Casdim, guidati dal saccanàco, ascendevano alla reggia,
ed erano introdotti nella sala di Nemrod, al cospetto della regina.
Semiramide era seduta sul trono, pallida in volto, ma tranquilla, in
atteggiamento regale. Immobili ai suoi fianchi stavano i flabelliferi,
con alti ventagli di penne, i melofori coll'armi in pugno e i portatori
di scettro, interpreti e ministri de' suoi alti comandi. Faleg e i capi
dell'esercito erano in attesa, raccolti ai piedi del trono.
Zerduste non era tra i nuovi venuti. O fosse riguardo per sè, o atto di
meditata cortesia verso la regina, egli non avea posto piede là dentro;
ma bene erasi aperto cogli altri, ed essi indettati con lui, d'ogni
cosa che avessero a dire. Il saccanàco, per giusto riserbo della sua
dignità, non voleva dal canto suo esser primo ad ossequiar Semiramide.
Però l'ufficio di parlare in nome di tutti era commesso al capo degli
anziani, che difatti fu il primo ad inoltrarsi a' piedi del trono.
— Potente signora, — disse Abdenago inchinandosi a mezzo, — vivi in
perpetuo!
— E a te ed a chi viene con te, — rispose la regina, — dian lume di
savio consiglio i celesti. Io vo' che posi la guerra, e, perdonati i
ribelli, allontanati gli estrani, sia riverita la mia autorità dal
popolo delle quattro favelle. Ora, che pensate voi dell'offerta? I
disegni della mia clemenza son questi. Amo meglio vengano essi incontro
a voi, in sembianza di doni amorevoli, anzi che paiano concessioni
lungamente patteggiate, e quasi strappate alla resistenza d'un animo
acerbo. Madre io mi tengo del popolo, come lo sono di Ninia. La mia
fede vi è nota. Schietto ed aperto ditemi dunque l'animo vostro. —
Abdenago si fece innanzi d'un passo, e postasi la manca sul petto e
stesa la destra in alto, come per aggiungere solennità al suo discorso,
parlò:
— Regina, non ti dispiaccia il mio dire. Pel mio labbro ti parlano
gli ordini tutti della città, i rifuggiti in Barsipa, il venerato
collegio dei Casdim. Il popolo delle quattro favelle è per cagion tua
sventurato. Sempre, dacchè lo raccolse in questa pianura e gli diè
legge il fortissimo Nemrod, questo popolo fu governato da re, scesi
tutti da una medesima stirpe. Per la prima volta l'ebbe in sua balìa
una donna, e quella tu fosti. La tenera età di Ninia, la tua gloria, la
tua fortuna, persuasero di lasciarti lo scettro, che soltanto a destre
virili era concesso impugnare....
— Io lo tenni per virtù mia, non l'ebbi in grazia a voi! — interruppe
la regina.
— E sia; — disse di rimando Abdenago; — noi dunque a forza obbedienti,
non già condiscendenti alla tua autorità per nostra elezione. Regnasti
sola e felice undici anni; la fortuna arrise alle tue armi, fino a quel
giorno che, condotto il tuo esercito sulle rive dell'Indo lontano, il
Signor delle sorti volse la sua faccia da te, e tu non campasti che
colla fuga da una certissima morte. —
Un amaro sorriso sfiorò le labbra di Semiramide.
— Trasvolate assai presto undici anni di gloria! — diss'ella con piglio
sarcastico. — Vi giova altresì dimenticare che questa felicità, questa
grandezza, di cui rimpiangete la perdita, voi, prima e vera cagione
del vostro medesimo danno, sono opere mie. Chi ha fatto l'impero? Chi
ha esaltato i sommi Dei di Babilu al cospetto delle vinte nazioni?
Prima che io fossi, io, avventuriera d'Ascalona, siccome taluno di voi
oltraggiosamente mi chiama, nessuno degli Accad aveva ancora veduto
un tratto di mare. Io quattro ne vidi, e sulle rive trionfate posi i
confini della mia, della vostra possanza. Chi ha soggettato al nome dei
figli di Cus tutto il paese di Martu, dalle arene di Mesraim fino alle
spiaggie di Rifat, con entro città popolose e fiorenti di traffichi,
e Chittim, e Caftor e tutte l'altre isole belle che si specchiano nel
mare del sole occidente? Bene le terre dei Medi attrassero il cupido
sguardo dei vostri re, da Nemrod a Nino; ma chi venne a capo della
resistenza di Bakdi, della città che sovrasta con l'alta bandiera
su tutta la contrada del sole oriente, dal Caspio, in cui l'Oxo si
versa, infino all'Eritreo, dove l'Indo mette le numerose sue foci? Chi
stese il regno alla terra degli aromi e dell'oro, che siede felice
in mezzo a tre mari? e le prede di tante guerre, i tributi di tanti
popoli soggiogati, chiusi io forse per me, o gittai nelle feste? Non
mutai, dov'era bisogno, il corso de' fiumi? Non murai cittadelle?
Non apersi vie spaziose, ov'erano dapprima boscaglie, dirupi e libere
orme di fiere? Io strinsi d'argini poderosi l'Eufrate ed il Tigri; io
riedificai la città, cingendola di saldissime mura e di fosso profondo;
io innalzai questa reggia, splendor della terra; io que' templi, grata
dimora ai celesti. Quale dei vostri barbari re, sia egli pure Nemrod,
il terribile cacciatore di popoli, o Nino, mio sposo, giunse a tanto di
gloria? E a me si ardisce dar cagione delle sventure di Babilu? Dinanzi
a me si ardisce rimpiangere la mano d'un re? —
Un mormorio d'approvazione era corso per le file dei cortigiani e dei
capi dell'esercito, molti de' quali aveano partecipato ai pericoli
e alla gloria di tante nobilissime imprese. Gli stessi cittadini di
Babilonia, e parecchi dei grandi rifuggiti in Barsipa, avevano sentito
come un'aura della passata grandezza aleggiare sulle loro cervici e
curvarle ad atto di riverenza e d'ossequio. Ma Abdenago, nella cui
mente aveva stillato le sue sapienti perfidie il principe di Bakdi, non
si era dato per vinto:
— E sia ancora; — ripigliò il capo degli anziani, — sia sempre come
tu dici, o regina. Tante mirabili cose hai operato, o, per dire più
veramente, hanno operato per tua mano gli Dei protettori di Babilu. Ma
perchè, a mezzo il corso de' tuoi benefizi, hai tu voluto arrestarti
e distruggerne i frutti? Perchè tu, fondatrice dell'impero, facendo
contro a te stessa, ti sei consigliata di mandarlo a rovina? Questa
recente guerra contro la maledetta Armenia, per qual ragione fu
impresa? —
E Abdenago, uscendo in questa dimanda, si piantò arditamente dinanzi al
trono, guardando la regina con aria di sfida. Parlavano pel suo labbro
i lutti numerosi che quella guerra aveva arrecati a Babilonia, e gli
cresceano l'audacia. Fremettero i convenuti nella sala di Nemrod, quali
di memore sdegno, quali di corruccio per la temeraria domanda; ma gli
uni e gli altri, ben sapendo che là era il nodo di quell'aspra contesa,
stettero muti ed intenti ad aspettare la risposta di Semiramide. Essa
fu breve.
— Non vi ho mai detto perchè imprendessi le altre; — disse alteramente
la regina; — non vi dirò dunque le cagioni di questa. Ben voglio
sia ricordato da voi che l'Armenia era soggetta a tributo e che,
d'improvviso, scossa la nostra autorità, offeso dai figli d'Aìco la
maestà del trono degli Accad, occorreva domarne con pronta guerra
l'orgoglio. Un grande impero siccome il nostro non può viver sicuro,
con audaci e turbolenti nemici alle spalle.
— Così non dice la fama! — replicò prontamente l'anziano.
— La fama! — esclamò Semiramide. — La fama! — ripetè con ironico
accento. — E che si fa dire a questa compiacente ministra dell'invidia,
del maltalento e della stoltezza del volgo?
— Che fu un capriccio di donna; — rispose Abdenago, senza fermarsi
a raddrizzare la frase. — Condonami, o regina, le ruvide ma schiette
parole. Siam qui per farti udire la voce del vero, non piaggerie di
servi ossequenti e paurosi. Questa guerra è costata tesori. Per essa,
settanta miriadi d'armati furono raccolte in Assur; tutte le più valide
braccia tolte alle case loro e all'operosa pace dei campi. Ma che
dico dei tesori profusi, quando è il sangue sparso che grida vendetta?
Duecento migliaia di combattenti lasciarono la vita ne' preziosi monti
d'Armenia, nelle infami strette di Ajotzor! Tu vincevi, o regina;
trionfavi del riluttante Armeno e godevi in cuor tuo; ma tu non eri già
nella desolata terra del Sennaar, confusa tra le orbate famiglie di
Babilu, per lunghe e terribili ore immobile sulla riva dell'Eufrate,
a contemplare i cadaveri tratti nell'onde vorticose del fiume natìo!
Il fiore e il nerbo della nostra schiatta miseramente perduto; i