Semiramide: Racconto babilonese - 15

diffatti, da un poggio alla sua destra, su cui si era prontamente
condotto, egli aveva potuto scorgere i carri, nascosti dietro le
profonde ordinanze della cavalleria babilonese.
E si avvicinava frattanto l'antiguardo nemico. Ad un tratto il suo
balenare irresoluto, il cader di parecchi, e un nuvolo, come di negra
polve per l'aria, mostrò al re d'Armenia che i nemici erano giunti
nelle vicinanze della macchia di Reznuni, e che i fiondatori di Van
mettevano ai loro passi impedimento gagliardo.
Un tal po' di sgomento erasi sparso nelle file degli arcieri cussiti,
a quell'improvviso assalto di fianco. Tosto aveano poggiato dalla parte
del fiume, e, postisi al coperto degli alberi, scagliavano frecce agli
appostati nemici; ma con pochissimo frutto, essendo questi in parte
nascosti agli occhi loro da una fila di massi scoscesi, che faceano
orlo alla macchia.
Veduto il frangente, furono pronti i Babilonesi al riparo. Una mano
dei loro, con scudi imbracciati, giavellotto in pugno e corte spade al
fianco, si gittarono di lancio alla costa del monte, per inerpicarsi
lassù e sloggiarne i fiondatori molesti.
Ara, ciò vedendo, non ne fu punto turbato. Egli ricordava che
al comando dei fiondatori era preposto Dicranu, forte e risoluto
guerriero, e non dubitava che i Babilonesi non avessero a pagar tosto
il fio della loro temerità. Diffatti, le pietre seguitavano a piovere,
e gli alberi sotto cui si riparavano gli arcieri, ne erano sfrondati,
come per rovescio di grandine. E i soldati che avevano pur dianzi
tentato l'assalto, se ne tornavano in grande scompiglio sul piano,
dov'erano fatti segno a quella rovina di sassi, non potuta rintuzzare
dalle valide risposte dei frombolieri di Palastu e degli arcieri
cussiti. Trasvolando in aria, fitte a guisa di nuvole, le frecce, le
pietre, i globi d'argilla e di piombo, fischiavano, rompeano le spade
in pugno ai guerrieri, sfondavano le corazze, rimbalzavano sugli scudi,
facevano schizzar gli occhi dall'orbite, le cervella dalle infrante
cervici.
Grida di giubilo per tutto il campo aicàno salutavano questa vittoria
dei fiondatori di Van. Ma che avviene egli mai? Fumanti globi si
levano da tergo alle squadre babilonesi, fendono l'aria, piombano sulla
macchia di Reznuni.
Semiramide, scorgendo che i Medi non hanno ancora guadato il fiume,
nè possono perchè il nemico ha deluso il loro accorgimento e veglia
certamente al passo pericoloso; pensando inoltre che la sua cavalleria
e i suoi carri di guerra non potrebbero impunemente passare sotto
quella rovina di sassi, ha fatto incontanente sul fianco sinistro
avanzar le sue macchine. L'assalto dei guerrieri alla macchia non
era che un infingimento per guadagnar tempo e sviar l'attenzione
degli Armeni. Ed ecco, le sue macchine, in acconcio luogo collocate,
scagliano dardi intrisi di nafta e palle di bitume acceso sulla
costiera. S'appicca il fuoco alla selva; cigolano le piante investite
dalla fiamma; vortici di denso fumo s'innalzano, ingombrano l'aere,
acciecano i combattenti, di cui di mano in mano si rallentano i colpi.
Vide Ara il pericolo che da quella impotenza dei fondatori di Van
sarebbe derivato all'esercito, e si affrettò a scendere dal poggio.
— Suvvia, cavalieri di Armavir! — gridò egli con voce tonante, — il
momento è venuto di dar dentro alle ordinanze nemiche. —
Alte grida rispondono al comando del re. I prodi d'Armavir, lentate
le redini sul collo, strette le ginocchia nei fianchi ai poderosi
corsieri, appuntate le frecce sulla corda degli archi, galoppano. Quel
tratto di strada che li divide dallo incalzante nemico, è superato
in brev'ora. Si traggono in disparte, fuggono, si rovesciano gli uni
sugli altri i fanti babilonesi, non potendo resistere a tanta rovina.
Conoscono le amiche insegne i fiondatori di Van, e calano solleciti al
piano; dietro a loro s'avanzano i montanari d'Urarti, che portano punte
di ferro annestate al sommo di lunghi bastoni.
Semiramide, dall'alto del suo cocchio di guerra, ha veduto il nembo
di polvere che sollevano i cavalieri d'Armavir. Tosto comanda che la
sua cavalleria si divida in due ale e lasci aperta la via. Avanti i
carri! Pesanti come sono, muniti di ferrea cuspide al sommo del timone,
riusciranno più saldo ostacolo all'impeto dei cavalieri aicàni.
E si muovono i carri, con alto fragore vanno a dar di cozzo in quella
mobil muraglia di petti anelanti. Ma gli Armeni hanno scorto da lunge
il mutamento; sviano i cavalli e piombano sui lati, si ristringono
addosso ai cavalieri di Babilonia. Dietro a loro, apron le file i
fondatori di Van, si stringono a densi manipoli i montanari d'Urarti;
e quelli fan piovere una grandine di sassi sui carri che passano,
questi fan selva di picche nei fianchi ai cavalli. D'ogni parte è aspra
la zuffa; si confondono gli ordini, e, trattenuti i carri nel corso,
incomincia la strage. I cavalli feriti s'impennano; questi infrangono
il giogo; quelli rovesciano i carri; gli uni, acciecati, vanno a
rompersi la cervice contro le ruote dei cocchi vicini; gli altri,
sbuffanti, con erette criniere, trascinano morto l'auriga.
Così ridotti a mal partito i carri babilonesi (chè pochi poterono
aprirsi la via nelle schiere avverse, nè uno tornò più indietro
a raccontare il suo trionfo), si volsero i montanari di Urarti in
aiuto dei cavalieri di Armavir. Destramente rigirandosi in mezzo
ai combattenti, sforacchiavano il ventre delle cavalcature nemiche,
tagliavano le cinghie, recidevano i garretti; come tigri si scagliavano
in groppa, si avvinghiavano ai fianchi dell'avversario, lo trascinavano
a terra, sotto le zampe dei cavalli, entro laghi di sangue. Rotti,
sbaragliati da quell'impeto non preveduto, impossenti contro i feroci
assalti di quelle belve rabbiose, tentano i Babilonesi divincolarsi
dalle strette, e come possono, e quando possono, si danno alla fuga.
Grida, urla selvaggio, sono il cantico di vittoria della gente aicàna.
Cuoceva frattanto ai buon principe Vasdag di rimanersene là inoperoso,
all'ombra dei pioppi. E i suoi soldati, udendo le grida dei compagni,
che sempre più si allontanavano per la valle, incominciarono a dolersi
altamente.
— I nostri incalzano il nemico, gli danno la caccia colle spade nel
tergo, e noi resteremo qui senza gloria!...
— Ad udire le voci di trionfo che salgono ai cielo!...
— A contemplare quei cavalieri sull'altra riva del fiume!...
— Que' simulacri di pietra, che non si muoveranno mai più!...
— Pazienza, miei prodi! che farci? — diceva amorevole, ma non meno
scontento, il principe Tarbazu. — Queste sono le sorti della guerra.
Se noi volassimo laggiù, dove il re nostro combatte, gli porteremmo
inutile aiuto; e frattanto quelle squadre di cavalieri, che mi hanno
l'aria di farsi sempre più numerose, guaderebbero impunemente il fiume
e piglierebbero i nostri valorosi alle spalle. —
Laggiù frattanto, dove i soldati di Vasdag si dolevano di non essere,
continuava, non più la pugna, il macello. Ara infuriava nel mezzo,
pari al Dio delle stragi. Ma finalmente, vedendo sgomberarsi il campo
davanti a lui, da capitano prudente, fe' suonare a raccolta. Temeva
egli infatti non si sbandassero i suoi nel tripudio del sangue e non
si perdesse in tal guisa il frutto di quella vittoria, che, a dir vero,
non gli pareva anche sicura.
E ben gliene incolse. Difatti, un nembo di polvere si solleva da
lunge. Sono i bianchi cavalieri di Belo, che giungono alla riscossa.
Trema la terra allo scalpito dei cavalli accorrenti; la nuvola cresce,
s'approssima, par l'uragano che rovinoso s'avanzi.
Ara comanda a' suoi di ritrarsi. Una macchia di arbusti, dalla
parte del fiume, nasconderà in parte i cavalieri d'Armavir. I carri
rovesciati dei Babilonesi faranno serraglia in mezzo alla strada;
dietro essi staranno a riparo gli arcieri di Zikartu, i fiondatori di
Van, i montanari di Urarti.
Grida sinistre accolgono gli assalitori, e una tempesta di freccie,
di pietre e globi di piombo, si disserra sovr'essi. La prima fronte
della sacra miriade è disfatta; sottentra la seconda ed egual sorte
l'attende. Nuovo ostacolo fanno i cavalli caduti: altri s'impigliano
tra le ruote dei carri, inciampano nelle redini sparse, stramazzano
al suolo. La lotta a corpo a corpo ripiglia più acre, più furibonda
che mai, si calpestano i feriti, e su monti di lacere membra i
sopravvissuti combattono. È pugna di Titani, non d'uomini della
comune misura. Guaiscono i caduti, bestemmiano i moribondi, urlano gli
incolumi, e si van provocando mutuamente a battaglia. Con voce pari a
mugghio di tuono. Balsam, il capo dei bianchi cavalieri, va chiamando
Ara dovunque, lo dimanda avversario, giura di tracannare il suo sangue.
E l'ode il re d'Armenia e tenta col cavallo di farsi strada alla volta
del fiero Cussita. Ma in quel mezzo, Dicranu ha fatto rotar la sua
fionda, il sasso ha colto l'orgoglioso provocatore nel petto e lo ha
trabalzato d'arcione. Svelto come un leopardo, si cala Dicranu da un
monte di cadaveri e per mezzo ai cavalli nemici corre ad impadronirsi
delle spoglie di Balsam, seguendolo nell'audacissima impresa i
fiondatori di Van. Gli si attraversano i seguaci del caduto; la mischia
non è più per vincere da una parte o dall'altra, bensì per contendersi
la nobile preda. Per lungo tratto non si discerne più nulla in quel
brulichìo, in quella confusione, in quell'agitarsi disordinato di
membra. Ma ecco, finalmente, appare Dicranu sulla groppa d'un cavallo;
egli stringe, acciuffata nei capegli, la testa recisa di Balsam; la
mostra ridendo ai compagni, che gli si serrano intorno; cade a sua
volta; un dardo ha fischiato nell'aria, gli s'è ficcato nella strozza,
troncandogli ad un punto i superbi dispregi e la vita.
Ara intanto, poichè l'impeto della sacra miriade si è franto, comanda
ai cavalieri d'Armavir di uscir dalla macchia. Accorrono essi e
colgono le profonde coorti di fianco, vi fanno per entro uno scempio.
Rotte così le ordinanze, i montanari d'Urarti, cui il sangue ha reso
sitibondi, si gittano alla carnificina, come stuolo di corvi rapaci.
Orribile! orribile!
Belli ed alteri nelle candide spoglie, erano venuti i generosi
all'assalto. Niente resisteva al loro urto giammai; nelle convalli di
Elam, sui campi di Bakdi, sulle rive dell'Indo, que' fulmini di guerra
avean sempre sgominate e disperse le più valide schiere. Ed ecco, qui,
in una stretta d'Armenia, impacciati, confusi, dovevano essi venir meno
alle loro gran fama, alle più grandi impromesse! Già non erano più una
falange ordinata; sibbene una torma cieca, ondeggiante, lacera e pesta,
per entro a cui s'aggiravano belve con faccia umana, mostri usciti dai
regni tenebrosi, che sventravano le cavalcature e riversi li faceano
cadere colle inutili armi, per trucidarli nella mischia, diromperli
sotto le zampe ferrate, affogarli nel sangue.
Guatava dinanzi a sè la regina, dall'alto del suo cocchio di guerra. E
diceva intanto in cuor suo: o come non vanno più innanzi i cavalieri di
Belo? come non hanno ancora sgomberata la via?
Bene ella sapeva forti guerrieri gli Armeni, ad essi propizio il luogo
e ministro d'armi nuove il furore; tuttavia non s'aspettava una così
gagliarda resistenza.
— Per fermo, — ella disse, — il re loro combatte laggiù.
— Sì certamente; — notò Faleg, uno de' suoi uffiziali, — non si
pugnerebbe con tanto accanimento, dove egli non fosse a capo de'
suoi. Ah! la sua testa è poco, a rifar Babilonia di tante vite
mietute. —
Semiramide non rispose parola a quella acerba considerazione di Faleg.
— E i miei cavalieri, — gridò ella invece, — morranno così, senza che
io sia con loro e corra gli stessi pericoli?
— Possente regina, — entrò a dire un altro dei suoi, — lo sguardo
tranquillo ed onniveggente del duce è necessario alla comune salvezza.
— Ah! così pure avranno parlato a lui le timide lingue de' suoi
consiglieri. Cionondimeno, egli è nella mischia, come l'ultimo de' suoi
combattenti. Orvia, Faleg; sian pronti gli elefanti ad ogni occorrenza;
noi ora andiamo, corriamo, dove si pugna per noi. —
Si mosse il cocchio regale, rapidamente trascinato da otto generosi
corsieri, verso il luogo del combattimento. Ma l'esito non rispose
ai voleri della regina. La sacra miriade era respinta e i fuggenti
travolsero il cocchio nella ritirata, invano chiamati, invano ripresi
dalla voce di Semiramide. Tutto intorno a lei era un indescrivibil
tumulto; cavalli senza cavaliere, anelanti fuggivano, con le viscere
penzoloni fuori dal ventre squarciato; altri, imbizzarriti, si traevano
dietro il morente signore, co' piedi impacciati nella staffa; molti,
compresi d'alto spavento, volgevano al fiume, quasi temendo di non
essere più in tempo ad evitar l'urto dell'incalzante nemico.
La regina guatò un istante con torvi occhi quello stuolo di femmine
imbelli; indi, comandò che gli elefanti uscissero a lor volta, protetti
da quanti uomini rispondessero in quel punto all'appello.
— Avanti, orsù! — gridava la fortissima donna, che, già discesa dal
cocchio, era balzata a cavallo, brandendo il suo giavellotto. — Avanti,
generosa prole degli Accad! Ricordate che tributari vostri furono
sempre questi montanari orgogliosi, e che voi siete i vincitori del
mondo! Era difficile il passo; ecco perchè i nostri cavalieri hanno
dovuto piegare davanti ad un pugno di mandriani armati di fionda.
Animo, via; non fate che ridano di voi le donne di Armavir, torcendo il
fuso nelle veglie invernali! Vedete! Già calano le nostre migliaia dai
monti; appariscono dal sommo dei poggi; scenderanno tra breve a ruina.
Ancora uno sforzo, valorosi Cussiti, e la vittoria è per noi! —
La battaglia è al suo momento supremo. I prodi Armeni s'inoltravano,
irrompevano sui piano, come gonfio torrente che abbia rotti i
suoi argini. Ma ad un tratto i cavalli si arrestano, nitriscono,
s'impennano, sbuffano, non sentono più lo sprone dei cavalieri. Che
è ciò? Negre moli si affacciano sulla strada. Son gli elefanti; nuovi
arnesi di guerra, che Semiramide ha condotti seco dalle rive dell'Indo.
I montanari d'Aiasdan non hanno mai combattuto contr'essi.
Accorrono sulla prima fronte e scagliano dardi gli arcieri di Zikartu;
ma, contro a quei colossi coperti di ferro, fanno mala prova gli
strali. S'inoltrano minacciose le negre moli, e il valore aicàno è di
bel nuovo arrestato a mezzo il suo corso.
Il re d'Armenia volge lo sguardo all'altra riva del fiume. I Medi,
accalcati colà, non dànno segno di volersi muovere ancora. Tosto egli
manda messaggi a Vasdag, che tolga dalle sue file quanti più uomini
può, senza suo nocumento, e li avvii lunghesso la sponda destra del
fiume, per cogliere gli elefanti di fianco. Egli intanto fa testa
co' suoi; ma invano. Gli smisurati animali, incitati dagli spiedi de'
guardiani che siedono loro sul collo, galoppano contro le sue schiere
mal ferme, scuotono gli orecchi, larghi come ali di enormi vipistrelli;
cogli acuti barriti sgomentano i cuori più saldi.
Qualche freccia più fortunata si ficca tra le giunture dei pettorali di
ferro ed essi colle curve proboscidi strappano le canne innocenti, le
gittano sul volto ai nemici. Stizziti dalle punture, si scagliano entro
le file, mentre dall'alto delle torri che recano in groppa, guerrieri
babilonesi scaraventavano sabbia e bitume infuocato. I larghi petti,
muniti di sprone, già sono addosso ai cavalli; come prore di navi
fendono il mare, così essi la calca; e intanto le proboscidi guizzano
in aria, scendono nella mischia, afferrano, strizzano, lanciano in alto
le vittime. Pallidi, esterrefatti, i soldati armeni dànno le spallo,
s'incalzan fuggendo davanti ai negri colossi.
Infiammato di sdegno, coi primi che gli giungono in aiuto dalle schiere
di Vasdag, il re d'Armenia fa impeto nel fianco dei mostri. I più
audaci de' suoi si cacciano sotto, tentano di strappare le cinghie
che tengono ritte le torri, di tagliare i garretti e di squarciare il
ventre alle belve. Un elefante cade, ma schiaccia nella caduta i suoi
uccisori. Avanti! avanti sempre! Un altro, per mano del re, ha recisa
la proboscide ed agita urlando il moncherino sanguinolento; infuria coi
denti d'avorio e trafigge chi non è pronto a cansarsi, indi si volta
indietro, mette a scompiglio le file. Sollecito il guardiano, perchè
non abbia a recar danno maggiore tra' suoi si toglie da fianco un lungo
scalpello e, appuntatolo sulla giuntura della cervice, tanto vi picchia
su col maglio ferrato, che spezza il cranio e fa stramazzar l'elefante.
Ma, caduti quei due, altri molti ne restano e menano strage
all'intorno. Per colmo di sventura, mentre gli arcieri di Tarbazu
cercano di farsi più innanzi, si abbattono nelle macchine, che la
regina ha fatto avanzar prontamente di costa agli elefanti, e sono
sfolgorati da una pioggia di fuoco.
Ora, mentre il grosso delle forze aicàne è arrestato da quei baluardi
animati e da quelle macchine che scagliano fuoco, Semiramide è salita
sopra un'eminenza, per abbracciar d'uno sguardo l'intiero campo di
battaglia. Dalla tenda di Ara infino al luogo ove s'infrange l'inutil
valore del re, la pianura è seminata di strage, ma libera, vuota di
combattenti; soltanto le schiere di Vasdag sono visibili là in fondo,
dalla parte del fiume, imboscate all'ombra dei pioppi. Poche migliaia
d'uomini stanno ancor dietro le tende, alla guardia del campo aicàno.
Il momento le sembra opportuno per mandare ai Medi, ai Persi, agli
Ariarvi, il segnale stabilito. Un dardo acceso fischia nell'aria e va
a cadere nel mezzo del fiume. Tosto quel fitto stuolo di cavalieri si
muove, affretta al guado, sotto gli occhi di Vasdag.
Un nembo di frecce accoglie il movimento dei Medi. Il principe di
Tarbazu non ha voluto perder tempo, e i primi che si sono perigliati
nell'acqua, vi trovano tosto la morte. Si allegrano nel profondo dei
cuore i destri arcadori, e raddoppiano i colpi. Ma, pur troppo, essi
non basteranno a impedire il passaggio. Vasdag, al cui vigile occhio
nulla sfugge di ciò che si tenta sulla riva sinistra, ha veduto che
i Persi e gli Ariarvi si dispongono a guadare in altri due punti
l'Eufrate. Non si smarrisce d'animo, tuttavia, e manda incontanente per
le riserve, raccolte dietro alle tende; le guida egli stesso, appena
giunte, le colloca ne' luoghi più acconci, lungo la destra del fiume.
— Guerrieri d'Aiasdan! — egli grida. — Qui bisogna far l'ultimo sforzo
e con quanto vigore ci è dato. Noi non avremo più patria, se non
ributtiamo gli assalitori nell'onde. —
Aspro è il combattimento: i soldati di Vasdag fanno prodigi di valore.
Ben sette volte i cavalieri nemici afferrano la sponda, e sette volte
son respinti nel fiume. L'Eufrate è sparso di cadaveri. Nei luoghi ove
il letto è meno profondo e più facile il guado, si ammonticchiano gli
uni sugli altri i caduti, fanno argine alla corrente, che intorno ad
essi ribolle, s'innalza fiottando e straripa.
Da due ore il sole avea varcato il meriggio, nè cessava ancora lo
strepito dell'armi, il clamore dei combattenti. Per quanto era lunga
la valle, dai poggi di Ajotzor alla collina di Kerezmanc, la quale
signoreggiava il luogo dello azzuffamento tra il re d'Armenia e le
macchine babilonesi, non era più un breve spazio di suolo che non fosse
coperto di cadaveri, o d'armi infrante, o di lacere membra; e un odor
crasso di sangue, un leppo arsiccio, misti ad una nube di polvere,
saliano alle nari.
Un messo del re giunge galoppando e chiede nuovi aiuti a Vasdag.
— Che avviene egli laggiù? — dimanda il vecchio soldato.
— Che intorno agli elefanti, — risponde il messo, — abbiamo perduto
il meglio dei nostri; che la via sulla riva del fiume è sbarrata dalle
macchine, vomitanti fuoco; che non possiamo romper la diga nemica, se
non abbiamo sussidio di gente fresca e animosa.
— Non è ferito il re? — chiese Vasdag.
— No, grazie sien rese agli Dei.
— Sta bene. Va alle tende di Ajotzor; ancora due migliaia d'uomini
rimangono a noi. Pensavo di chiamarli io, a custodia del fiume; —
soggiunse sospirando il vecchio guerriero; — ma che farci? Li abbia il
re, che forse ne ha maggior bisogno di noi.
— Che debbo io dirgli di te? — chiese il messo, già in atto di partire.
— Che il vecchio è alla meta del suo viaggio sulla terra; — rispose
Vasdag, — che, qualunque cosa avvenga, nessun Medo potrà vantarsi, me
vivo, d'avermi vedute le spalle. —
Ciò detto, il buon cavaliere si allontanò verso la riva, per respingere
un nuovo assalto dei Medi. Ma ormai l'impresa era superiore alle forze
de' suoi. Durò a lungo lo scontro, sulla riva contrastata; finalmente,
perduto gran numero dei loro, i nemici giunsero a piantarsi saldamente
sul greto e fu libero il guado.
Vasdag non sopravvisse alla rotta. Slanciatosi col cavallo nelle
schiere dei Medi, ebbe morte degna di sè, combattendo da forte,
coll'ultimo colpo della sua spada fendendo l'elmo ed il cranio dei
capitano nemico.
Accesi di sdegno, furibondi, si gettarono i suoi nella mischia, per
difenderne il corpo e vendicarne la morte. Fu lotta disperata; bisognò
ucciderli tutti, ad uno ad uno, e l'impresa fu lunga e difficile, costò
ai vincitori gran sangue.
Così mantenne la sua fede Vasdag, il vecchio principe di Tarbazu, che
è sulle rive dell'Eusino. Esperto condottiero d'eserciti, era stato
compagno ad Aràmo, nelle sue guerre fortunate contro i Medi e i Turani,
d'onde aveva meritato d'esser secondo nel reame, e incoronatore del
re d'Armenia. Epperò a lui era concesso portare la corona fregiata di
giacinti, due orecchini, il calzare rosso ad un piede, e il diritto
altresì di bere in coppa d'oro. Biondo in giovinezza i capegli,
colorito il viso, gli occhi grigi, robusto le membra, largo le spalle,
il piè bello e saldo alle fatiche, fu sobrio sempre nel bere e nel
mangiare, nei piaceri temperato. Per lungo ordine di secoli, i memori
bardi, a suon di cembali lo cantaron prudente, moderato nei desideri,
pieno di senno, eloquente, utile in tutti gli umani negozi. Sempre
giusto nelle sentenze, pesava con bilancia a tutti eguale, senza studio
di parti, gli atti d'ognuno. Non invidiava ai grandi, nè i piccoli
sprezzava; non altro voleva che stendere su tutti il manto delle
sollecitudini sue.
Ignaro della fine di Vasdag, ma udendo le grida di vittoria e notando
l'affrettarsi dell'ala destra dei Babilonesi nel passaggio del fiume,
Ara meditò un ultimo colpo; sforzare il passo, non più dove infuriavano
le macchine, ma dall'altro lato, dove sorgean le colline. Scelti a tal
uopo i più animosi dei suoi, si condusse a volo verso le alture. Lo
seguirono primi, al sommo di un poggio, Bared, lo scudiero, Sumàti ed
Abgàro; Abgàro che pel lungo combattere vedevasi lordo la bianca tunica
di sangue e di polvere.
— È questo il colle, — disse con accento d'amarezza il cantore, —
d'onde il fortissimo Aìco saettò l'orgoglioso Titano. Vedi, o re;
quello che ci sta dinanzi è il poggio di Kerezmanc. Colà noi dobbiamo
giungere, calarci di là, piombare alle spalle di quei luridi cani!
Ma che vedo? O m'inganno, o il duce dei Babilonesi è lassù. Destro
arciere, suvvia, chè non adatti uno strale alla corda e non gli mandi
il saluto della morte? —
Trascinato dalle aspre parole di Abgàro, il re impugnò l'arco e si
fece a togliere la mira. Dal poggio di Kerezmanc il suo aspetto fu
conosciuto e l'atteggiamento notato.
— Ah! — gridò Semiramide. — Lui! —
E spronato il cavallo, si avanzò imperterrita sul ciglione, ad
attendere il colpo.
Faleg e gli altri che l'accompagnavano, veduto il pericolo a cui ella
si esponeva, furono solleciti a correre, per farle scudo colla loro
persona. Ma la fortissima donna li rattenne con un gesto imperioso.
— Non ardirà! non ardirà! — soggiunse ella poscia, con un altero
sorriso.
E stette immobile, guatando il suo avversario; ben lieta e largamente
vendicata di lui, se avesse potuto scorgere il tremito che gli invadeva
tutte le fibre in quel punto.
Rimase egli incerto un tal poco, quasi volesse aggiustar la mira, e
sperimentare la tensione della corda. Ma questa per fermo non doveva
essere la cagione dell'indugio, poichè tosto, con atto disperato, gittò
l'arco e lo strale lungi da sè.
— Non posso! — gridò egli. — Non posso!
— Ma potrò io! — disse Abgàro.
E raccolse l'arco da terra. Il re lo rattenne, che già stava per
poggiare la cocca sul nervo disteso.
— No, no, mio vecchio Abgàro! A qual pro? —
Abgàro lo guardò trasognato; indi, come parlando a sè stesso,
acerbamente rispose:
— Ah! invero nessuno saprebbe più tender l'arco di Aìco. Ma nessuno
ama più la sua patria come il figliuol di Thogarma. Gli occhi d'una
maliarda hanno virtù perniciosa su noi, come quelli del serpe. Oh,
dimmi ciò che vorrai, re d'Armenia; — soggiunse il vecchio cantore,
notando il corruccio che balenava dagli occhi del giovine; — uccidimi,
se t'aggrada, e togli un altro soldato alla misera terra dei padri.
— No; — rispose gravemente Ara; — io nol farò. Risponderò invece al
tuo cieco amore di patria che questo inutil colpo contro una donna
potrebbe aggravare la sorte del popolo nostro, che non avrà più noi per
difenderlo. —
Nulla rispose il vecchio; ma un amaro sorriso d'incredulità gli sfiorò
le labbra; e fu risposta peggiore. Trasse indi la spada; gittò la
guaina al basso, dove in quel punto si vedeano apparire i nemici, e giù
di lancio, come se avesse al piede le ali della giovinezza, si scagliò
incontro alla morte.
— Tu solo? — gridò il re, con accento disperato. — Vecchio Abgàro, non
disprezzare i giovani, perchè essi hanno un cuore e non amano combatter
le donne. —
E impugnata la sua larga spada a due tagli, si avanzò per seguire il
vecchio sdegnoso.
Ma in quel mezzo, Abgàro cadeva. Una torma di arcieri sbucava da un
colmo di arbusti, sulla destra degli Armeni. Erano i primi che calavano
dai monti. Non che la fronte dell'esercito aicàno, già più non eran
sicure le spalle. E il medesimo accadeva dall'altra banda del fiume.
Quella parte dell'esercito babilonese che davanti al passo di Lukdi
avea piegato a destra, verso le sorgenti del Tigri, per inaccessi e
mal guardati sentieri, riuscita era alle spalle di Ajotzor, tagliando
la via di ritirata verso Armavir, e piombando sulle tende del campo di
Ara, innanzi che i Medi, i Persi egli Ariarvi avessero distrutto gli
ultimi avanzi delle schiere di Vasdag.
Il re d'Armenia non vide la morte di Abgàro. Egli era appena a mezzo
del declivio, che una freccia lo colse, penetrando là dove la corazza
si allacciava alla gorgiera. Sul punto non s'era avveduto di nulla,
attribuendo la caduta all'aver posto il piede in fallo. Senonchè,
tentando di rialzarsi, sentì una trafittura, come un bruciore al sommo
del petto. Recò istintivamente la mano colà e trovò la canna infissa
nella giuntura; la strappò con violenza e un umor caldo gli spicciò
sulla mano. Era sangue, e appariva copioso.
— Ah, grazie! — esclamò, alzando al cielo le pupille smarrite.
E ricadde, ma non più sul terreno, bensì tra le braccia di uno de'
suoi. Riaperse gli occhi a guardarlo e riconobbe Sumàti.
— Santo vecchio, — diss'egli con voce spenta, — che avviene di noi?
— Mio dolce signore! — rispose amorevole e triste l'Indiano. — Scendono
innumeri schiere dai monti; già ci romoreggiano da tergo.
— E il fiume?
— Guadato!
— Ah! È dunque morto Vasdag. Povero amico! Povera terra d'Aiasdan!
Uccidimi, te ne prego, Sumàti! Toglimi ai miei rimorsi, al mio
disonore, finiscimi! —
Sospirò profondamente il vecchio Sumàti e chiuse gli occhi come per
raccogliersi nei suoi dolorosi pensieri. Anch'egli sentiva il rimorso,
che gli lacerava il profondo dell'anima.
In quel mentre s'avvicinavano a passi concitati, e feroci nell'aspetto,
i nemici.
— Rattenete le armi! — gridò Sumàti, poichè li ebbe veduti salir
minacciosi per l'erta. — È il re d'Armenia ferito. Oscuri soldati,
ardirete dar morte ad un re?
— Ah! — sciamarono giubilanti i guerrieri. — Il re d'Armenia! il re
prigioniero?
— Non si uccida, pel dio Nergal! non si uccida! — gridò il capitano,
accorrendo tra i primi, colla spada sguainata. — Arrendetevi, figli