Semiramide: Racconto babilonese - 14

monti. —


CAPITOLO XVI.
La regina guerriera.

Così s'apparecchiavano le genti aicàne alla prova dell'armi. E
frattanto, dal passo di Lukdi si avanzava l'esercito di Semiramide,
facilmente respingendo i drappelli armeni colà posti in vedetta, e
tacitamente distendendosi su per le circostanti alture. Buon nerbo di
cavalieri e di fanti s'erano volti ad oriente, accennando a risalire
verso le sorgenti del Tigri, siccome gli esploratori avean riferito
ad Ara; ma poco oltre una mezza giornata di cammino, i cavalieri avean
fatto sosta, e i fanti, scelti tra i più destri arcadori dell'esercito,
aveano piegato non visti a settentrione, inerpicandosi per le ripide
coste ed addentrandosi a gran fatica nelle impervie forre delle
montagne.
Bene era Semiram quella eccelsa guerriera che il re d'Armenia, nella
onesta schiettezza dell'animo suo, erasi affrettato a riconoscere. Mai
donna degli antichissimi tempi era stata più addentro di costei nelle
gravi cure e nelle aspre discipline della guerra, nè altra che potesse
ragguagliarsi a lei avevano a darne le età più recenti.
Nata d'arcane nozze in Ascalona di Siria, nutrita nel tempio di
Derceto e cara (dicevano le favole del volgo) siccome figlia alla
Dea, le grazie nascenti d'una sovrumana bellezza l'avean fatta sposa a
Mènnone, prefetto e governatore, pel re degli Accad, di tutto il paese
di Palastu, sulle rive del Mar d'occidente. Ora il re degli Accad era
Nino, figlio d'Arbel, della stirpe di Nemrod, che allora, con tutte le
forze del suo impero, si disponeva ad invadere la Bakdiana.
Chiamato era Mènnone al campo del re; nè potendo egli lungamente
rimanervi senza la donna dell'amor suo, che colla leggiadria delle
incomparabili forme e coll'avvedutezza del consiglio sì l'avea
soggiogato, mandò alcuni suoi famigliari a chiamarla, che, come più
presto poteva, si riducesse al suo fianco. E l'ebbe come desiderava,
mentre l'esercito, corso tutto il paese dei Medi, stringea Bakdi, la
capitale, vanamente d'assedio.
D'ingegno acutissimo e d'animo pronto, la donna leggiadra aveva colta
quell'occasione per far mostra di sua grande virtù. E per poter con più
sicurezza fare il viaggio, ch'era di molte giornate, aveva indossata
una stola, per la quale non potesse distinguersi se fosse uomo o donna,
chi n'era ammantato; giovandole inoltre quel vestimento, così a difesa
delle candidissime carni contro gli ardori del giorno, come a farla più
snella, in ogni occorrenza, o pericolo. E tanta fu la grazia di quel
suo modo di vestirsi d'allora, che i Medi poscia, e gli Assiri, e da
ultimo i Persi, insignoritosi dell'Asia, vollero portare la stola di
Semiramide.
Intanto, giunta ella al campo, considerando come l'assedio era
condotto, aveva visto tutta la forza del nemico rivolgersi contro
i luoghi campestri ed ovvii alle irruzioni, ma nissuno frattanto
custodire la rocca, che per natura e per arte era fortissima. Presi
pertanto uomini che sapessero inerpicarsi sulle rupi, e valicata
con essi una certa valle, ascese alle opposte eminenze ed occupò una
parte della rocca, ed ai suoi, che combattevano nel piano, sotto le
mura, diede il segnale. Fu allora che i difensori della città, colti
da terrore improvviso per la rocca presa, non avendo più speranza di
difendersi, abbandonarono le mura.
Volò il nome di Semiramide per tutte le bocche. La vide il re e, preso
da tanta bellezza, ne innamorò vivamente. — Abbi, diss'egli a Mènnone,
quanta sostanza del mio tesoro vorrai, e mi appartenga Semiram.
— Nulla sono le ricchezze del tuo regno, — rispose Mènnone al re, —
nulla sarebbero quelle dei mari lontani al paragone di lei.
— Sii secondo appo me, — ripigliò Nino infiammato; — abbiti in moglie
la mia figliuola Sosane, per cui tanti re della terra sospirano, e mi
appartenga Semiram.
— No; — disse a lui di rimando il marito. — Io ti rendo grazie, o re
dell'onor singolare, che ogni altro mi invidierebbe per fermo. Che
mi varrebbe esser secondo appo te, quando io non fossi più il primo e
l'unico nel cuor di Semiram? Vada la tua gentil Sosane ad un possente,
che sia degno di così alto parentado; nessuna figliuola di re mi
pagherebbe la perdita del vago fior d'Ascalona.
— E sia; — gridò Nino, corrugando la fronte e mettendo lampi dagli
occhi; — rinunzia alle ricchezze; rinunzia agli onori; ma io giuro per
Nisroc, che in questo mentre già libra le tue sorti, tu non vedrai
più il vago fior d'Ascalona. Con ferro rovente ti si sfonderanno le
pupille tra un'ora; chè più non ti concedo di tempo a consigliarti di
ciò. —
Preghiere, pianti e scongiuri, non valsero; bisognava obbedire.
Mènnone, pel timore delle minaccie del re, e per la gelosia che
era possente in cuor suo, montato in furore, corse alla sua tenda
e s'uccise. Per tal modo, sebbene riluttante, Semiramide era fatta
consorte di Nino.
Il fiero Cussita nulla tralasciò che giovasse a medicare l'acerba
piaga, aperta da' suoi desiderii in quel giovine cuore. Unica
sua compagna la volle; regina la pose su tutte le genti tra il
Mar d'occidente e le terre dei Medi. Ma, più che il regio fasto
e l'obbediente affetto dell'ammansato leone, valse il grand'animo
desideroso di grandi cose, a lenire la sua cura. Indi a non molto, il
suo possente signore moriva, lasciandola madre di Ninia. E fu allora
che la sua mente gagliarda si palesò tutta quanta. Spiaceva agli Accad,
perchè donna e straniera; ma la sua grandezza, superiore a quella di
tanti uomini portatori di scettro, li vinse. E non si dolsero d'essere
caduti in balìa d'una mano di donna, allorquando videro quella mano
impugnare la lancia e lentar le redini del corsiero, che volava sempre
dov'era più aspra la pugna.
Un giorno (e fu dei primi del suo regno), la rivolta era scoppiata
nelle vie di Babilonia. La regina sedeva nel suo spogliatoio, in mezzo
alle ancelle, intenta a rassettarsi le lucide chiome. Udire il molesto
annunzio e balzare in piedi fu un punto. Scese nella corte del suo
palazzo, ove stavano poche schiere adunate, e così scarmigliata come
era, accesa in volto di sdegno, montò subitamente a cavallo, corse a
furia dove più spesseggiavano i rivoltosi, entrò di lancio nel mezzo
e con fiere parole li rampognò di lor fellonia. Sbigottiti gli uni,
commossi gli altri da tanto ardimento, tutti soggiogati da una così
felice mistura di sublime bellezza e di regale corruccio, posarono le
armi, la gridaron regina e veramente figlia di Dea.
Abbellita in singolar modo la città e quasi riedificata da lei;
la Media domata, e il suo vecchio re Ossiarte costretto a tributo;
signoreggiata tutta la terra degli aromi, che si stende dal paese degli
Aribi infino al mare di mezzodì; temente ed ossequioso il popolo altero
di Mesraim; le insegne degli Accad condotte di vittoria in vittoria per
l'estremo oriente, fino alle rive dell'Indo; erano questi i diritti
di Semiramide alla obbedienza ed alla venerazione delle genti del
Sennaar. E là sull'Indo, recata la guerra contro il re d'innumerevoli
schiere, Staprobate, non aveva ella fatto prova d'altissimo ingegno,
pari a quello dei più insigni condottieri d'esercito? Assai prima di
Alessandro Macedone, non aveva ella provveduto al guado d'un largo
fiume, con migliaia di barche, in tal guisa costrutte, che si potessero
agevolmente scomporre e portare sui carri? E laggiù s'era ella mostrata
grande nella prospera, più grande nella avversa fortuna, allorquando,
fallita in sul meglio l'impresa, perchè i suoi soldati non erano
avvezzi a combattere gli elefanti, condusse il suo esercito al ponte
e lo ridusse in salvo, ultima a ritirarsi davanti al nemico e pronta a
recidere le funi che teneano le barche congiunte.
Donna invero eccelsa per grandezza d'animo e per felice accoppiamento
di virtù virili e di grazie femminee, a tutto intendeva, di tutto si
pigliava gran cura, e in pace maturava gli accorgimenti di guerra, in
guerra assicurava le arti della pace, senz'altro pensiero, fuor quello
della felicità del suo popolo. Il monte Bagistano da lei foggiato
a monumento della sua gloria, città nuove, templi, strade militari,
canali portatori di acqua ai campi infecondi, tutto recava l'impronta
del suo genio multiforme. Per lei la stirpe degli Accad fu grande
e avventurosa, come non era stata mai; lampada che dà guizzo di più
splendida luce, quando ella è presso a mancare.
E ben meritava la pace e la contentezza per sè, lei che cotanto aveva
fatto per la prosperità del suo popolo. Ma, pur troppo, egli non v'è
tregua al dolore, pei nati dalla creta. E appunto allora, quando ella
sperava rifarsi dalle molte fatiche ne' taciti gaudii del cuore, in
gloriosa quiete, confortata dal più nobile affetto, un'altra guerra le
appariva necessaria. Il delicato sentir della donna e la maestà della
regina erano stati offesi del pari. E da chi? Da un re tributario;
dall'uomo in cui aveva ella riposto sua fede, a cui s'era data in
balìa, con quel sublime abbandono, con quella piena dimenticanza di
sè che accompagnano e dimostrano le profonde passioni, le sole vere e
desiderabili della vita.
Stava ella al passo di Lukdi, siccome si è detto, e le sue schiere,
passate in rassegna, a mano a mano si avviavano ai luoghi assegnati.
Giusta il costume suo in simiglianti occasioni, la regina aveva fatta
sul piano un'alzata di terra, a guisa di poggio, su cui vedevasi eretto
il suo trono, sotto un padiglione di bisso divisato a colori. Sorgeva
a manca un'antenna, dal cui sommo sventolava una striscia di porpora,
insegna del comando che tutti potessero agevolmente vedere da lunge,
e a destra lo stendardo degli Accad, che era un leone alato, dalla
faccia umana, tutto d'oro massiccio, annestato sulla punta di un lungo
giavellotto.
A' piedi dello stendardo e distribuiti sul pendìo di quella eminenza,
trecento sceptùchi, o portatori di scettro, vegliavano, tutti
nobilmente vestiti di bianca e corta tunica, frangiata d'oro, sotto di
cui apparivano le anassìridi di cuoio colorato, che s'attagliavano alla
gamba e la facevano più salda al cammino.
Dall'altra banda, ove sorgeva l'antenna colle insegne del comando
supremo, stavano a custodia trecento portatori di lancia, terribili a
vedersi nelle corazze di rame e negli elmi criniti.
Alle falde del poggio era il carro di guerra della regina, tutto di
bronzo, con aurei fregi, che simulavano soli fiammanti. Otto poderosi
cavalli di Media erano fermi al timone, tutti bardati a squamme di
ferro e muniti d'un'ampia rotella sul petto, dal cui mezzo sporgeva un
minaccioso spuntone. Succinti valletti erano di fianco ai cavalli, per
tenerne le redini e frenarne i moti impazienti; l'auriga stava immobile
al suo posto, aspettando la regina, mentre lo scudiero disponeva in
bell'ordine, sulla proda del carro, l'arco, la faretra, i giavellotti e
lo scudo.
Semiramide intanto stavasi ritta sul trono, in nobile atteggiamento,
con una lancia nel pugno. Indossava una tunica di porpora, del color
d'amatista, e una bianca sopravveste, serrata ai fianchi da un'aurea
cintura, donde pendeva la spada, col fodero tempestato di gemme. Non
avea collana o monile; per contro, al sommo del petto appariva fuor
della tunica una gorgiera di ferro lucente, segno che tutta la persona
era catafratta del pari. Un elmo alato le cingeva le tempie, lasciando
libero il passo alla chioma nera che scendeva in larghe anella sugli
òmeri.
Così chiusa nell'armi ed altera, i Greci l'avrebbero tolta per Minerva
discesa tra gli uomini, e si sarebbero prostrati a' suoi piedi,
adorandola. Il pastore di Frigia l'avrebbe piuttosto creduta Venere,
rivestita delle spoglie di Marte, e a lei pur sempre, a lei sola,
avrebbe dato il vanto della bellezza. Severa bellezza era per altro la
sua; una torva luce, come lampo per notte buia, rischiarava il profondo
di quegli occhi stupendi; erano chiuse, irrigidite da acerbo dispetto,
quelle labbra di corallo, che agli umili riguardanti facevano sognare
la ineffabile ebbrezza d'un bacio.
Ai fianchi della regina, ma alquanto in disparte, si vedevano i primi
uffiziali dell'esercito, vecchi e sagaci consiglieri di guerra. Sui
gradini del trono stavano immoti i portatori di flagello, vivi emblemi
delle pene imminenti ai ribelli, ai trasgressori de' comandi reali.
Dietro a lei gli eunuchi, riconoscibili alle guance imberbi e alle
fattezze muliebri, ardevano soavi aromi e scuotevano flabelli di
candide penne.
Nella pianura sottostante, l'esercito si scorgeva tutto in moto, e in
ordine così lungo, che l'occhio non poteva abbracciarlo d'un tratto.
S'inoltrava quella moltitudine immensa, balenando, ondeggiando, siccome
campo di spighe. Nitrivano i cavalli scalpitanti; sonavano con alto
fragore i carri, dando frequenti sobbalzi lunghesso il sentiero;
strepitavano i timpani, gli oricalchi e gli strumenti della musica
guerriera. Gli scudi, le loriche, gli elmi e le lancie, luccicavano al
sole, confondevano lo sguardo. Pareva di scorgere Sam, nell'ora che si
mostra sull'orizzonte, e fa scintillare in mobili pagliuole d'argento
le creste del mare agitato.
Qua e là, per mezzo allo sterminato piano di elmi e di punte lucenti,
si rizzavano le lunghe cervici dei dromedari sabei, le doppie terga dei
cammelli di Bakdi, le immani teste orecchiute degli elefanti indiani,
colle lor proboscidi erette e le torri barcollanti sul dorso, e trofei,
bandiere, pennoncelli di cento colori; tutto in moto verso le falde del
poggio, innanzi al quale dovea passare ogni schiera.
Colà diffatti si scorgeva un ampio e lungo steccato, entro al quale
i guerrieri, poichè tutto l'avean colmo, si fermavano un tratto, indi
proseguivano speditamente la via. In quel modo si noveravano allora le
forze degli eserciti. Capace era lo steccato di una miriade, cioè di
diecimila uomini mandati innanzi su d'una fronte di cento; epperò, a
mano a mano che i guerrieri varcavano lo spazio misurato e una o più
schiere addensate giungevano a riempirne i limiti estremi, lo scriba
segnava un numero nel suo papiro, e così via via fino all'ultimo, per
poi cavarne la somma.
Quel dì lo scriba reale aveva a segnare settanta numeri e più,
imperocchè tante miriadi conduceva seco la regina degli Accad;
cinquecentomila fanti e dugentomila cavalli. Il primo novero già era
stato fatto nel campo di Assur, ed in altra maniera anch'essa in uso a
que' tempi. Secondo quella, ogni soldato passando gittava una freccia
entro una cesta, a tal uopo preparata. A mano a mano che le ceste si
riempivano, eran chiuse col regio suggello e si riponevano in luogo da
ciò. Finita che fosse la guerra, si rimettevano in ordine e, rotti i
suggelli, ogni soldato di là passando ripigliava una freccia. Le ultime
rimaste, come di leggieri s'argomenta, davano il numero dei perduti in
battaglia.
E passavano i guerrieri, passavano lieti e superbi dinanzi al poggio
reale, facendo suonar l'aria di lor grida discordi.
Primi erano i soldati delle contrade a mezzogiorno di Babilonia;
sessantamila di numero. Si riconoscevano gli uomini di Mahabu e di
Karbaniti, sui confini di Mesraim; gli Arìbi e i Kidri, i Nabati, i
Curassiti e i Sabei, fieri abitanti della vasta penisola che s'immerge
come ascia lucente nel mare lontano. Guidavano innumeri torme otto
principi di quelle ultime regioni che son presso alla aurifera spiaggia
di Ofir; i capi delle tribù di Caldìli, di Rapiati, di Magalani,
Cadascì, Dihtani, Ihilu, Gahpani, Guzbièh. Tutti costoro, valenti
arcadori, vestiano succinte tuniche e portavano calzari intessuti con
fibre di palma; cingevano il capo di bende a più giri ravvolte e corte
spade recavano al destro lato sospese. Nel sembiante della più parte di
loro erano impressi i segni della stirpe camitica; breve la fronte, il
naso piatto, corti i capegli e crespi, la carnagione abbronzata.
Seguivano gli uomini delle regioni d'occidente, di Martu, di Aharru
e di Hatti. Erano costoro duecento migliaia, tutti della progenie di
Sem. Numerosi tra essi i Dimaskiti, quei di Birtu, la città bianca sul
monte, di Laki, di Sinari, alle falde del Libano, di Arvada, che è sul
mare, di Bit Buruta, di Sidunnù, la trafficante di porpora. Mancavano
quei d'Izcaluna, avendo Semiramide liberati i suoi concittadini
dall'ufficio dell'armi. C'erano in quella voce i fieri abitatori di
Palastu, armati di fionda e di accette di selce. Seguivano del pari le
insegne i popoli marinari di Yatnana, che è Cipro, e delle altre isole,
di Idihal, Kitusi, Sillua, Pappa, Aprodissa, poste sul mare del sole
occidente; questi armati di scure e diligenti artefici di macchine da
espugnare città; gli altri tutti, nominati più sopra, arcieri gagliardi
e destri nel maneggiare la clava nodosa.
Veniano dopo questi i guerrieri delle regioni settentrionali di Nahiri
e di Assur, di Urusu e di Urumi, di Nazibi e di Arbel, di Tusan e di
Amida, che è sulla riva sinistra del Tigri, di Ninua, la futura rivale
di Babilu, di Tuhani e di Izama, di Kabsu, nei pressi di Nipur, le cui
abitazioni son fabbricate in alto sui greppi come nidi d'uccelli, di
Haran e di Resen, di Tadmor e di Reoboth. Tutti costoro discendenti
di Assur, Semiti, fuggiaschi dalla terra di Sennaar ai primi tempi
della dominazione cussita, ed ora assoggettati da Nino e da Semiramide
all'impero babilonese. Forti guerrieri son essi e nel combattere corpo
a corpo valenti. Portano corazze a sette doppi di lino, macerato da
prima nell'aceto, donde si fa più tenace e più saldo; imbracciano
tondi scudi, e cingono elmi di bronzo; spade, archi e mazze ferrate,
son l'armi loro. Di essi una parte è a cavallo, e gli uni e gli altri
ascendono a cento migliaia.
Quarto in ordine di cammino veniva il forte popolo d'Elam, che è di là
dai monti orientali. Si notavano per la bella presenza gli uomini di
Susan, città reale, di Rasu e di Hamanu. Seguivano i Madai, nobilissima
schiatta, i Parsua, gli Ariarvi, i cittadini di Muru e di Bakdi, tutti
della antichissima e pura stirpe di Javan, e di sangue, ma non più
di memorie e d'affetti, congiunti agli Armeni. I Parsua attiravano
più d'ogni altra gente lo sguardo, per le loro bionde capigliature
inanellate e per gli occhi bigi, che li faceano parer quasi una
famiglia al tutto separata dalle altre. Elamiti, Medi, Persi, Ariani,
Margiani e Battriani (che così, lievemente mutati, giunsero i nomi loro
alle età susseguenti) erano duecento migliaia; metà de' quali a cavallo
con archi sugli òmeri, corazze di ferro a squamme, elmetti e scudi
parimente di ferro. Destri erano costoro a trar l'arco cavalcando e a
tôr la mira fuggendo, colla fronte ed il petto rivolti all'indietro. I
fanti vestiano di cuoio; portavano come i cavalieri, le anassìridi di
pelle a difesa delle gambe; armi da offesa aveano i giavellotti, ascie
a due tagli e spade di ferro alla cintura.
A queste genti tenevano dietro gli abitatori del Sennaar, i fieri
Cussiti, gli Accad, i Sumir aspro favellanti, tutta, insomma, quella
mescolanza di popoli diversi, che furono i fondatori di Babilu.
Cinquanta migliaia erano i cavalieri, con loriche ed elmi di forbito
rame, lancie ritte sulla staffa e mazze ferrate pendenti all'arcione.
Più numerosi i fanti, tutti vestiti di cuoio; parte fiondatori, con
bisacce sull'òmero, che recavano selci, ghiande di piombo, o d'argilla
e bitume; parte arcadori, dalle cui spalle pendevano le capaci faretre.
Si avanzavano poscia le artiglierie, torri, uncini e macchine da
trarre, con cammelli carichi di munizioni, dardi intrisi di nafta,
palle di bitume e di zolfo. Seguivano quaranta elefanti, smisurati
animali condotti dalle rive dell'Indo, ognun de' quali portava il suo
custode sulla negra cervice e una torre sul dorso, con dieci uomini
armati di giavellotti e di frecce. Ultimi quattrocento carri di guerra,
con scelti guerrieri, armati d'aste poderose e accompagnati da esperti
cocchieri.
Chiudevano la marcia diecimila uomini di scelta cavalleria. Militava
in quella schiera il fiore e il nerbo della gioventù babilonese, tutti
usciti dalle prime famiglie del Sennaar. Era gran lustro lo entrarvi,
imperocchè s'avevano a comandanti dei drappelli uomini di regio sangue,
o congiunti di parentado colla discendenza di Nemrod.
Le fogge e l'armi rispondevano per lo sfarzo loro alla dignità di
quel nobilissimo corpo. Sulla lorica di ferro temprato portavano
il candi, tessuto di bisso, di latteo colore, con fregi di porpora,
cosparso di soli fiammanti in oro. Sul capo aveano la tiara, i cui
lembi si raccoglievano a soggolo, lasciando scoverta appena la metà
delle guance. Ricche cinture sostenevano le lunghe spade dalle lucenti
guaine, ed archi e faretre pendeano dagli òmeri. Bianchi erano come
neve i cavalli, cresciuti pur essi nelle regie mandre di Sippara. E
così bianchi sulle bianche cavalcature, rutilanti d'oro e di porpora,
era una vaghezza a vederli.
Diceansi i cavalieri di Belo, o, con altre parole, la sacra miriade.
Accompagnavano l'esercito, quando esso stava sotto il comando del re,
e in battaglia non erano adoperati che ne' momenti supremi. La conscia
nobiltà del sangue e l'obbligo dei forti esempi, li facevano valorosi a
gara su tutte le schiere. Andavano contro il nemico a corsa sfrenata,
lasciando le redini sul collo ai destrieri; quando si scorgeva quella
moltitudine incalzare a galoppo, coi brevi mantelli e le criniere
svolazzanti in mezzo a un nembo di polvere, egli parea di vedere una
legione di spiriti celesti, scesi a combattere le miserande pugne degli
uomini.
Passando di sotto al poggio, i cavalieri di Belo acclamarono con alte
grida la possente regina, che d'un gesto cortese ricambiò loro il
saluto; indi ella pure si mosse, per salire sul suo cocchio di guerra,
che l'attendeva nel basso.
Dietro a lei scendevano a cercare le loro cavalcature i suoi uffiziali,
gli sceptuchi e i melofori; quindi gli eunuchi, i serventi, i custodi
del tesoro. E postosi in moto il corteo, si affrettarono sull'orme i
bagaglioni colle salmerie, e una grossa compagnia di cavalieri, che
doveva proteggere le spalle dell'esercito e impedire lo sbandarsi ai
codardi.
Al passo di Lukdi non era stata quella confusione, che in tanta
moltitudine d'armati era agevole immaginare. Gli ordini della regina
erano stati avvedutamente distribuiti, e i comandanti, aiutati da guide
esperte dei luoghi, avean prese le vie a ciascuno assegnate.
I fanti s'inerpicarono per le costiere e per le viottole alpestri;
i cavalli seguirono le strade che correvano lungo le rive del fiume.
Sulla più vasta, che risaliva la sponda destra, s'avanzavano preceduti
da buon nerbo d'arcieri, i carri di guerra e la sacra miriade. Tenean
dietro a questa le macchine, gli elefanti e i bagaglioni, che ad un
certo luogo doveano far sosta, per non riuscire d'ostacolo ai movimenti
dell'esercito.
Ogni cosa per tal modo disposta, la marcia che dovea condurre
l'esercito babilonese in vista del campo d'Ajotzor, fu recata a
buon fine in quel giorno. Gli Aicàni aveano udito dalle loro scolte
l'avvicinarsi del nemico, e, come s'è detto, erano pronti a riceverlo.
L'alba del giorno seguente salutò i due campi, l'uno in presenza
dell'altro.


CAPITOLO XVII.
Ajotzor.

Videro le aquile aicàne da quanta moltitudine di combattenti fossero
minacciati i lor nidi. Le cime dei monti, le digradanti costiere, i
poggi, i declivii, erano coperti di armati. Ancora non si distinguevano
le insegne, nè poteano noverarsi i manipoli; ma si notava da lunge, e
diceva più assai allo sguardo il brulichìo delle innumeri schiere.
— Per l'anima dei padri nostri! — esclamò Sempad, guatando in giro le
aperte colline, in mezzo alle quali si dilungava scorrendo l'Eufrate. —
Qual fitta selva d'armati!
— Numero sterminato, non forza! — disse di rimando Vasdag, alzando
superbamente le spalle. — Calano dai monti e fuggiranno dal piano,
siccome è lor costume ne' sabbiosi deserti. Assai più molestia mi dànno
quegli altri, che io vedo inoltrarsi laggiù, sulla riva sinistra del
fiume. —
Così dicendo, il principe di Tarbazu additava una frotta di cavalieri,
che compariva allora alla svolta d'una rupe, in fondo alla valle. Era
l'antiguardo dell'ala destra dei Babilonesi, che doveva, per l'angustia
de' luoghi, avanzarsi da quella banda, lasciando tra sè e il centro
dell'esercito il corso dell'Eufrate.
— Dividono le forze! — notò Sempad, con aria di trionfo.
— Possono farlo; — rispose con amarezza Vasdag. — Molto maggior nerbo
di gente avranno incamminato sulla riva destra del fiume, dove sono i
lor movimenti più agevoli. Mirano a pigliarci in mezzo, e accortamente
preparano i cerchi; ma per gli Dei, innanzi che siano calate quelle
miriadi senza nome dai monti avremo fatto un profondo squarcio
nelle schiere del piano, e i tronchi del serpente dureranno fatica a
ricongiungersi.
— Ti ascolti Zervane! — disse Ara il bello, che stava poco lunge da
lui, ritto sull'arcione e il collo teso, guardando nel fondo. — Ecco
diffatti, la prima fronte si avanza, è già presso alla macchia di
Rezduni. —
Non s'ingannavano gli occhi del re. Mentre l'ala destra dei Babilonesi,
che era composta di cavalleria meda e di arcadori di Martu, s'inoltrava
dall'altra parte del fiume mollemente accennando a cercare un guado,
il centro e l'ala sinistra si facevano speditamente innanzi su quel
campo più vasto, che le alluvioni dell'Eufrate aveano formato sulla sua
sponda destra. Grossi drappelli d'arcieri cussiti precedevano, misti
a frombolieri di Palastu, che si veniano sparpagliando dinanzi alla
fronte di battaglia, colle fionde tese dietro alle spalle e pronti
a rotolarle in aria al primo apparir di nemici. Dietro a costoro si
muovevano grosse squadre di cavalieri. I carri, che venivano in terza
linea, erano celati allo sguardo da quella profonda siepe d'armati.
— Orbene, mio re, che faremo? — disse Vasdag, poi ch'ebbe osservato
a sua volta il grosso dell'esercito contrario. — Lascieremo che
s'inoltrino ancora e si dispongano in battaglia ordinati?
— No, certo! — esclamò il re. — I fiondatori di Van sono appostati a
piè della macchia di Rezduni. Eglino, che numerosi sono e valenti,
prenderanno a sfrombolare i cavalieri babilonesi, e noi compiremo
l'opera loro, facendo impeto dei nostri cavalli, entro le sgominate
ordinanze. Cotesto non dee parer dubbio, — soggiunse il re, alzando
la voce, perchè tutti intorno lo udissero — a chi per la sua patria
ha risoluto di affrontare ogni più grave pericolo. Egli è piuttosto da
stare in pensiero per quegli altri che s'avanzano laggiù e si fermano
ad ogni tratto e mandano cavalli a tentare il guado del fiume.
— Stratagemma! — notò sorridendo il vecchio principe di Tarbazu. —
Guadando il fiume laggiù, farebbero ingombro alle lor medesime schiere.
— Sì, ben dici, o savio Vasdag. Coloro vorrebbero trarci in inganno,
perchè facessimo inutil ressa più avanti, lasciando più debole il
campo nostro, dove certamente, al momento opportuno, si sforzeranno
di giungere. Io dunque penso che a questa altezza si debba aspettarli.
Vadano gli arcieri di Tarbazu e si appiattino sotto a quella triplice
fila di pioppi. Colà, non altrove, tenteranno il guado i nemici. Ad
ogni costo vuolsi impedirlo. Tu stesso, noto alla tua gente e diletto,
veglierai in quel luogo. È il nostro lato debole ed ha mestieri del
capitano più valoroso ed accorto. —
Così parlò il giovine re, di senno maturo; e Vasdag, bene intendendo
come in quel luogo, che aveva detto il re, fosse necessaria la sua
presenza, s'incamminò a quella volta, per disporre i suoi arcadori
lungo le vincaie del fiume e un buon nerbo di cavalieri e di fanti al
coperto, dietro la selva dei pioppi.
Ciò ch'egli aveva argomentato, e che il re aveva detto con lui, era
vero. I Medi, comechè lentamente, s'avanzavano pur sempre, e senza
mai risolversi al guado. Aspettavano, per ciò fare, che la pugna
fosse sull'altra riva ingaggiata, e con manifesto vantaggio pei loro
compagni.
Ora, a che i lor voti andassero vani, si affaticava il re d'Armenia
con provvedimenti solleciti. Per fermo, pensava egli, su quel po' di
pianura stesa dinanzi a lui tra le colline ed il fiume, dovea venire
la piena delle forze nemiche. Certamente era laggiù Semiramide,
coi migliori dell'esercito e coi più terribili ingegni di guerra. E