Semiramide: Racconto babilonese - 05

il cuore e vi soffocava per entro quella lieta speranza. Una così
meravigliosa bellezza! Mai più Semiramide avrebbe patito la vicinanza
e il paragone di così splendida amica! Eppure, non gli aveva ella
detto, a lui dolente di abbandonarla sui primi albòri del giorno, non
dubitasse, non temesse di nulla, che presto ei l'avrebbe di bel nuovo
veduta, ed ella medesima sarebbe stata la prima a farglisi incontro?
Così procedeva, tra speranza e timore; frattanto venìa rispondendo con
atti cortesi alle grida e ai saluti del popolo.
Indi a non molto, la cavalcata giunse alla svolta del ponte, miracolo
dell'arte babilonese, che collegava le due sponde dell'Eufrate e i due
palazzi regali, l'uno a riscontro dell'altro, ambedue meravigliosi
a vedersi. Il primo, che era posto sulla riva destra, girava trenta
stadii, rinfiancato di alte mura merlate, su cui si vedevano impresse
figure di combattenti, città assediate, e lunghe file di prigionieri
supplicanti. Di là dal ponte torreggiava la gran mole dell'altro, sopra
un terrapieno di sessanta stadii, a cui si giungeva per ampie salite
laterali, vigilate ad ogni ripiano da colossi di pietra. Aveva un giro
di quaranta stadii il secondo recinto, ornato di ogni specie animali,
così diligentemente condotti e coloriti, che pareano spiranti di vita.
Nel terzo recinto, che era la cittadella, si ammiravano rilievi e
dipinti di più egregio lavoro; tra essi una caccia, in cui le figure
apparivano alte di quattro cubiti e più. Quivi era effigiata Semiramide
su d'un focoso destriero, nell'atto di scagliare il giavellotto contro
una pantera. Poco lunge da lei era Nino, il suo sposo, che d'un colpo
di lancia trafiggeva un leone.
Tutto ciò era stupendo a vedersi da lunge, vera montagna di edifizi
sovrapposti, selva intricata di strane forme e di svariati colori.
Immani architravi e fregi e merlature correnti per lunghissimo ordine
su colonnati di palme; tori e leoni alati con faccia umana, qua e là
fieramente piantati a custodia degl'ingressi; lunghe aste variopinte,
dalle cui cime sventolavano stendardi e orifiamme di porpora; scale
e balaustrate di marmo; mura lucenti di smalto; varietà infinita di
cose, che confondeva lo sguardo, senza nuocere alla grandiosa unità del
complesso! E sui terrazzi più alti, l'occhio discerneva padiglioni e
velarii, tesi a riparo del sole, fra mezzo ad alberi verdeggianti, òasi
sospese tra cielo e terra da un capriccio di donna, da una fantasia di
regina.
Come fu giunto il corteo sull'altra riva del fiume, la scorta dei
babilonesi si fermò e si aperse in due ale, per cedere il passo
agli Armeni. Il giovin re attraversò la spianata e andò difilato
verso l'ingresso della reggia, che gli era addimostrato da due leoni
colossali, l'uno a riscontro dell'altro, in atteggiamento di riposo.
Colà stavano ad attenderlo, per fargli le prime accoglienze, i grandi
della corte, il gran maggiordomo, il gran coppiere, il capo degli
eunuchi, il comandante delle guardie reali, con numeroso seguito di
ufficiali minori e di servi. Tranne questi ultimi, tutti indossavano
il candi, lunga tunica di lana scarlatta, con frangia d'oro sui lembi,
la quale risaliva sul dinanzi infino alla cintura, parimente d'oro,
donde pendeva la spada, con le insegne dell'ufficio di ciascheduno. Gli
appartenenti alla milizia, in cambio di mitria, portavano in capo una
tiara foggiata ad elmo chiuso, che copriva loro le guancie ed il mento.
Il gran maggiordomo, facendosi incontro al re d'Armenia, così parlò,
levando in alto le mani:
— Ben giungi, o discendente d'Aìco, alla reggia di Semiramide, nostra
gloriosa signora, cui Belo ha concesso la vittoria della spada e
l'impero dello scettro sui potenti della terra. In quella guisa che
Sanì regna nel cielo e diffonde per ogni dove i benefizi della sua
luce, così ella regna in Babilonia e sparge i tesori della sua amicizia
sui regnatori di popoli che la circondano. —
Il re d'Armenia chinò leggiadramente il capo, ma senza risponder
parola. Gli eunuchi, fattisi innanzi a lor volta, pigliarono
ossequiosamente le redini del suo cavallo, per condurlo entro il primo
recinto e su per l'ascesa che metteva al piano superiore. Così salendo
in compagnia degli ufficiali babilonesi, il giovine Ara potè, alla
prima svolta dell'ampio viale, scorgere dietro a sè la lunga fila de'
suoi, e il popolo di Babilonia accalcato sul ponte e sulle rive del
fiume.
A quel grandioso spettacolo, un altro ne seguì, quando egli fu giunto
all'altezza del secondo ripiano, vasto piazzale, dintornato da nobili
edifizi, ov'erano gli alloggiamenti di tutti i grandi della corte. Colà
stavano in bell'ordinanza schierati i guerrieri della regina, splendidi
a vedersi nelle loro corazze di lino, coi loro tondi scudi imbracciati
e gli elmetti di rame luccicanti al sole. Alla vista del re d'Armenia
squillarono le trombe, rimbombarono i timballi percossi, e il canto
guerresco degli Accad si levò fino al cielo.
La cavalcata proseguì fino al secondo ingresso, vigilato da due enormi
tori dall'aspetto umano. Cessarono i canti ed i suoni ad un tratto
e sul limitare comparvero i sacerdoti de' sommi Iddii protettori di
Babilonia. Alle vesti d'oro si conoscevano i sacerdoti di Sam, il dio
sole, a quelle d'argento i ministri di Sin, che è il dio luna. Vestiano
di nero i sacerdoti di Ninip, di aranciato i sacerdoti di Merodac,
scarlatto i seguaci di Nergal, bianco quei di Militta, azzurro i
dedicati al culto di Nebo. Di pietre preziose apparìano tempestate le
tuniche e le tiare dei venerandi; frangie d'oro ne ornavano gli orli, e
ghiande di smeraldo pendevano dai lembi.
— Gli Dei ti proteggano, o re d'Armenia; — gli disse il gran sacerdote,
levando le mani in atto di benedirlo.
— Insegni a te la prosperità di questa reggia come soltanto dal
patrocinio degli Dei gli uomini derivino ogni loro fortuna. Soltanto
mercè l'aiuto celeste i re salgono in fama per le loro virtù, camminano
nelle vie della giustizia e si raffermano nella santità, che li fa
degni, dopo morte, degli onori divini. —
Ara chinò gravemente il capo e rispose:
— Tu parli il vero, o santissimo. Un re a cui venga meno il soccorso
celeste, vaga nelle tenebre a guisa di cieco. Gli abitatori del
firmamento azzurro, comunque nomati tra le genti vostre e le mie,
assistano sempre il popolo delle quattro favelle! —
Ciò detto, spinse il cavallo sul limitare e, seguito dal venerando
stuolo, penetrò nel terzo recinto, donde si ascendeva all'ultima
spianata della regia piramide, innanzi al palazzo della grande signora
di Babilonia.
Lassù lo aspettava una scena più meravigliosa a gran pezza. Davanti a
lui si stendeva una piattaforma, lunga cinque stadi e larga per modo
che dieci cavalli vi si potevano muover di fronte, senza occuparne
i margini di pietra, l'uno dei quali correva lunghesso il parapetto,
ornato a giuste distanze di figure simboliche, e l'altro circondava,
come una fascia di candido lino, il magnifico peristilio del palazzo,
formato da colonne di palma, che sorreggeano capitelli di granito,
stranamente foggiati a chimere, sirene, ed altre creazioni fantastiche.
La piattaforma era vuota, in attesa degli ospiti, che dovevano
schierarvisi in bella ordinanza; per contro, l'intercolonnio appariva
folto di gente, tra cui erano primi i trecento portatori di scettro,
ministri dei regali voleri, splendidi a vedersi per le lunghe vesti
di porpora e d'oro e per le ricche tiare che stringean loro le chiome
inanellate e lucenti. Infine, sul peristilio, per quanto era lungo, si
scorgeva un terrazzo, chiuso da una balaustrata di mattoni dipinti a
smalto, e sormontato nel mezzo da un padiglione, o velario, partito a
liste di varii colori, sotto il quale, circondata dalle sue ancelle,
stavasi la regina ad attender l'arrivo del suo tributario d'Armenia.
Il gran maggiordomo, che veniva innanzi, tenendo per mano le redini
del palafreno di Ara, annunziò al cavaliere la presenza della regina. E
il principe allora si fermò in mezzo alla piattaforma; alzò gli occhi
al terrazzo, mettendosi una mano sul petto; indi si tolse la benda di
perle dal capo, trasse la spada dal fodero, e depose queste insegne del
suo potere tra le mani del gran maggiordomo, il quale fu sollecito a
raccoglierle e sollevarle con palme tese verso la regina, che dall'alto
sorrise e con lo scettro accennò cortesemente di gradire l'omaggio.
A quel cenno squillarono da capo le trombe e risuonarono i timballi
percossi. Il re d'Armenia scese d'arcione, per avviarsi all'ingresso;
intanto i suoi cavalieri e le salmerie sfilavano sulla piattaforma,
sotto gli occhi della regina.
Portavano queste salmerie i donativi del re alla grande signora di
Babilonia; massi di rame naturale cavati nelle montagne di Armenia;
pezzi di lapislazzoli tratti di Atropatene, a levante del lago di Van;
tappeti di finissima lana intessuti a varii colori nelle lunghe veglie
invernali dalle donne di Peznuni; cavalli piccoli e forti, velocissimi
al corso, cresciuti nelle mandrie regali di Armavir. E in quella che il
gran tesoriere disaminava i ricchi presenti, e gli eunuchi aritmetici
veniano con canne temperate annotando ogni capo su rotoli di papiro, i
servi della reggia conducevano i seguaci del re d'Armenia alle stanze
loro assegnate per alcune ore di riposo, innanzi che facessero ritorno
ai loro alloggiamenti fuori il baluardo della città.
Guidato dal gran maggiordomo, seguito dai sacerdoti e dai portatori di
scettro, il giovine Ara entrò nei vestibolo, dove gli fu data l'acqua
ospitale alle mani, insieme con soavi profumi e ristoro di grate
bevande, che adolescenti biancovestiti versavano dalle idrie capaci.
Quindi ad un cenno recato dagli eunuchi, il re d'Armenia fu introdotto
nella sala di Nemrod, a cui si ascendeva per un'ampia gradinata, in
mezzo a due file di tori giganteschi, emblemi della possanza divina,
le cui vaste ali erano dipinte di azzurro, la tiara di rosso, le corna
e l'ugne dorate, laddove il volto, che figura l'umano, aveva il color
delle carni e gli occhi appariano di persona viva, attraverso la vitrea
scorza di smalto.
La sala, detta di Nemrod dalle imprese di quei re, che vi erano narrate
in caratteri cuneiformi ed espresse in bassirilievi lunghesso le
pareti, era di sterminata grandezza. Le mura, qua e là rinfiancate da
enormi pilastri foggiati a colonne, misuravano ottanti cubiti e più,
dallo zoccolo di marmo colorato insino al fregio dell'architrave, donde
si partiano i correnti del sopracielo, condotto in legno di odoroso
cipresso, sfarzosamente dorato e aperto nel mezzo alla luce del giorno,
che scendea temperata da un velario di porpora.
Tra le colonne messe ad oro, con scanalature dipinte di rosso, erano
vaste quadrature, ognuna delle quali divisa orizzontalmente in due
parti; la superiore rivestita di mattoni lucenti, i cui rotti disegni
concorrevano a formare in ogni intercolonnio l'imagine della divinità
suprema, ch'era un cerchio con entro una figura d'uomo alato, il quale
stringeva nella manca lo scettro e teneva la destra alzata nell'atto
dello insegnamento; l'inferiore, poi, coperta di tavole d'alabastro,
raffermate al muro da ramponi di rame, sulle quali erano scolpite scene
di guerra e di caccia.
Vedevasi in una di queste il fortissimo Nemrod, potente cacciatore
al cospetto di Ilu, correr sull'orma di un leone, piagato dalle sue
freccie. Su d'un'altra era incisa la torre delle sette sfere celesti,
lasciata a mezzo per la confusione delle lingue. Altrove il gran
re presiedeva alla fondazione di Erech; più oltre si vedeva nel suo
cocchio di guerra, con l'arco teso in pugno, nell'atto di scacciare
Assur, figlio di Sem, dalla terra di Sennaar.
Seguivano le imprese di altri re della stirpe cussita, da Bel,
figliuolo di Nemrod, infino allo sposo di Semiramide, il felicissimo
Nino, che si vedeva raffigurato in più tavole, giusta il numero delle
sue vittorie. In una di quelle sculture, il gran monarca era effigiato
sul suo trono d'argento, con la tiara ricinta dal regio diadema, la
veste bianca frangiata d'oro e due servi da tergo, l'uno de' quali in
atto di agitare il flagello, emblema del suo assoluto potere, l'altro
con le armi del re tra le mani, mentre davanti al trono passavano
lunghe file di vinti, coi polsi legati dietro le spalle. Più oltre
si vedeva l'assedio d'una città fluviatile. Gli assedianti spingevano
torri di legno, cariche d'armati, contro le mura, dall'alto delle quali
il popolo assediato si difendeva gagliardamente scagliando freccie e
bitume infuocato. Da un altro lato della città, le donne fuggivano
su carri tirati da buoi, ed uomini paurosi si gittavano a nuoto,
aggrappandosi ad otri gonfiati, giusta il costume dei luoghi.
Di contro ad uno di questi scompartimenti della sala, ergevasi il trono
di Semiramide, alta e splendida mole d'argento e d'oro, sormontata da
un padiglione di bisso e sorretta da figure di popoli vinti, alla quale
si ascendeva per parecchi gradini, coperti da un sontuoso tappeto. Il
cerchio e la immagine alata, simbolo della divinità, splendevano per
aurei riflessi e per vivezza di smalto sopra lo scanno della regina, e
intorno a questo, distribuiti sui gradini dei trono, stavano immobili
ed ossequiosi i flabelliferi, con alti ventagli di penne di pavone,
i melofori, con le armi in pugno, significanti la virtù guerriera di
Semiramide, e i portatori di scettro, interpreti e ministri de' suoi
cenni regali. Seguivano le nobili compagne della regina, sfoggiatamente
vestite: indi tutti gli altri uffiziali di corte digradanti man mano,
tanto erano essi numerosi, lungo le pareti della sala. Tutt'intorno,
poi, guerrieri sfavillanti nell'armi, suonatrici d'arpa e di cetra,
musicisti in buon dato, ancelle e schiavi, diversi di nazione e di
foggie.
Semiramide, bella come il sole nascente, sfolgorava dall'alto. La
copriva dalla radice del collo insino alle piante una tunica di bisso,
tinta in violetto di porpora marina e partita in mezzo da una larga
striscia bianca, intessuta di ricami d'oro e di gemme. Una sopravveste,
simile al peplo argivo, scendeva in molli pieghe dal colmo seno,
rattenuta da un'aurea cintura e coperta a mezzo da una gorgiera a sette
filze di pietre preziose, agate, onici, crisoliti, lapislazzoli, perle
d'ambra, ligurini e giacinti. Le bellissime braccia apparivano ignude
infino al sommo degli òmeri, e armille d'oro, e anelli gemmati, ne
facevano risaltare vieppiù la marmorea bianchezza. Nella destra teneva
lo scettro; insegna del comando; nella sinistra il fiore del loto,
emblema delle sue conquiste fin sulle rive dell'Indo.
Una gioia profonda e calma traspariva dal volto della regina, il
cui riposato atteggiarsi, lasciando i soavi contorni in tutta la
loro serena maestà, diceva l'onesto compiacimento della bellezza,
che è sicura di vincere dovunque ella si mostri. I suoi grandi occhi
neri, accortamente allungati, giusta il costume orientale, la mercè
di sottilissime linee, impresse con polvere stemperata d'antimonio,
tramandavano una luce intensa e penetrante, come di zaffiro incontro ai
raggi del sole.
Per mezzo alla gran moltitudine regnava un alto silenzio, che
dimostrava sol esso la regia potenza di Semiramide, più che non la
raffigurassero agli occhi del re d'Armenia tutte le splendidezze di
quella sala, in cui mettea piede, guidato dal gran maggiordomo.
Poco prima di introdurlo al cospetto del trono, questi avevo detto al
giovine re:
— Sai tu, mio signore, qual sia il nostro costume, nell'accostarci,
umili, o grandi, alla maestà regale?
— Io no; — aveva risposto Ara; — e qual è il vostro costume?
— Prostrarci a terra e adorare. Sì, — ripigliava il gran maggiordomo,
notando un gesto di ripugnanza del principe, — la più bella delle
nostre leggi è questa, che ci comanda di onorare i re e di onorare in
essi l'immagine degli Dei conservatori d'ogni cosa creata. A te, mio
signore, omaggio in Armavir, come a Semiramide nella sua reggia di
Babilu. —
Il re d'Armenia, bene intendendo il senso risposto di quella
distinzione del suo introduttore, non avea più fatto parola; e,
lasciandolo inconsapevole de' suoi propositi, era entrato nella sala di
Nemrod, avviandosi con passo modesto, ma sicuro, in mezzo a quelle due
ale di cortigiani, che si prolungavano, lasciando vuoto un grandissimo
spazio, dai lati del trono all'ingresso.
Lungo era il cammino, sterminatamente più lungo tra quella doppia fila
di sguardi, che egli ben sapeva tutti rivolti sul nuovo venuto. Ma
Ara non sentiva turbamento di ciò; bensì gli cuoceva di aversi a por
ginocchioni, come ogni altr'uomo, davanti alla signora di Babilonia,
e veniva appunto maturando in cuor suo il proposito di ristringere
l'ossequio ad un cortese inchino, che egli del resto avrebbe fatto
di gran cuore alla donna. Foss'ella stata la sua divina amica! Come
sarebbe caduto volontieri ai piedi di lei! Altra maestà sopra la sua
non conosceva il re d'Armenia fuor quella.
Andando così verso il trono, avea intravveduto, come in barlume, uno
stuolo di donne, e il cuore gli avea dato un sobbalzo. Ah, foss'ella
nel numero! E ciò pensando, s'era fatto in volto del color della
porpora. Intanto un mormorio di ammirazione, correndo sommessamente
tra la folla, salutava l'apparire di quel leggiadro garzone, la cui
bellezza accresceva decoro al grado, più assai che il grado non facesse
risaltar la bellezza.
Giunto egli finalmente a' piedi dei trono, si fermò, e, recatasi la
destra al petto, chinò il capo davanti alla regina, di cui non aveva
pur contemplato il sembiante.
— Gran Semiramide, vivi in perpetuo! — egli disse.
— E tu pure, nobil sangue d'Aìco; — rispose una voce melodiosa
dall'alto.
Tremò egli in udirla, e il sangue, acceso ai memori suoni, gli
scorse con impeto al cuore. Alzò gli occhi a guardare e li abbassò
prontamente, come abbacinato da una gran luce; indi gli parve di aver
male veduto e risollevò le pupille, ma per chinarle da capo. Fu un
batter d'occhio, fu un lampo; e in quel lampo si stemprò la fierezza
del giovine, che cadde allora sulle ginocchia, contro i gradini del
trono.
Semiramide gli era venuta incontro amorevole e lo aveva preso per mano.
Egli, a stento rimettendosi in piedi, ma non riavutosi del colpo, la
guardava inebriato e confuso.
— Regina.... — balbettò egli, nel rialzarsi da terra.
— Atossa! — gli susurrò la regina all'orecchio, con carezzevole accento.
E presa la benda di perle, che un donzello recava, insieme con lo
scettro, sopra un ricco cuscino, la rimetteva con le sue mani sul
biondo capo di Ara.
— Sorgi, re d'Armenia! — diss'ella con piglio maestoso. — Ecco il tuo
scettro; impugnalo per la felicità del tuo popolo, come hai impugnata
la spada, per terrore de' tuoi nemici. Figlio d'Aràmo, tu non sei
tributario di Semiramide, ma alleato ed amico. —
Indi, volgendosi ai grandi della sua corte e alla moltitudine
congregata, proseguì con voce sonora:
— Il re d'Armenia è l'ospite nostro. Amicizia eterna regni tra l'aquile
della montagna e i leoni della pianura. —


CAPITOLO VI.
Il Convito.

Il sole era già presso al tramonto, allorquando la regina, in compagnia
di Ara e dei grandi della sua corte, si mosse dalla sala di Nemrod, per
recarsi al convito, preparato in onore del suo ospite d'Armenia.
Portava la costumanza babilonese che i re siedessero a mensa in
disparte, e i loro convitati più ragguardevoli o ben voluti, a un'altra
di rincontro, ma divisa della mensa regale la mercè d'una fitta
cortina, per modo che il monarca vedesse a sua posta i convitati, ed
eglino in quella vece non potessero bearsi nelle regie sembianze. Per
altro, ne' giorni di corte bandita, la mensa era una sola e vastissima,
alla quale il re famigliarmente sedeva e facea mostra di sè, non
distinto dagli altri commensali, fuorchè per lo scanno d'oro, pel suo
vino e per la sua acqua, di cui a nessuno era concesso bere, senza suo
comando, che era grazia profumata e segno d'alta onoranza. Inoltre,
nelle grandi solennità, che ricorreano di rado, si facevano pubbliche
feste; e allora le mense regali si teneano all'aperto, sedendo il re
alla più elevata di tutte, insieme coi grandi del suo regno.
Un pasto solo si faceva, e lunghissimo, protratto fino a tarda ora,
dopo fornite le molteplici cure del giorno. Gran copia di vivande si
consumava per l'uso della corte, squartandosi fino a mille capi per dì,
tra buoi, cavalli, onagri, camelli, montoni e capretti. La selvaggina e
il pesce erano pure in buon dato; e tutto ciò s'imbandiva da prima alle
tavole dei grandi; indi passava a quelle dei minori ufficiali, tornando
i copiosi rilievi alle cucine, dove si satollavano i servi e i soldati
di palazzo.
Davasi nelle mense il vino spremuto dalla palma e dal melagrano, non
essendo a quei tempi nella terra di Sennaar coltivata a tal uso la
vite, che prosperava più presso al mare nella ragione di Canaan. Il
pane faceasi allora comunemente con la farina di dura, che è il sorgo;
quella di frumento traendosi, con grave dispendio e a mostra di regio
fasto, dalle lontane pianure di Mesraim, fecondate dal Nilo. I pubblici
banchetti erano rischiarati con luce di nafta ardente in acconci vasi,
collocati a giuste distanze su tripodi e candelabri di bronzo. A più
ristrette brigate dava luce gratissima l'olio di sesamo, di cui erano
imbevuti lucignoli di bisso, sporgenti da lampade di rame, o d'argilla
rossa, leggiadramente fregiate di nero, a meandri, ghirlande, disegni
capricciosi e figure fantastiche.
Quel giorno, essendo il convito in onore del re d'Armenia, le mense
erano poste nel cortile degli orti pensili, vastissima sala, aperta
su tre lati e sorretta da colonne addoppiate di marmo. Veli bianchi e
violetti, appesi con anelli d'argento a funi di bisso e di scarlatto,
si stendeano tra le colonne, dolcemente gonfiandosi alla brezza
leggiera e profumata, che veniva attraverso una siepe di gelsomini e di
cedri.
Tutto intorno erano disposte le tavole di legno odoroso, coperte di
candide mappe listate di porpora. In fondo alla sala vedevasi la
mensa più elevata e più adorna, con l'aureo scanno della regina a
capo, e letti d'argento in giro sopra un pavimento foggiato a disegno
con tesselli di porfido e di marmo bianco, di granito e di mischio.
Splendeva sul bianco drappo il vasellame d'oro, gloria del paese
d'Ofir, donde allora traevasi il prezioso metallo, e da alti vasi di
porcellana, smaltata a vivi colori, si levavano a mazzo, s'inchinavano
ad ombrello, i fiori più svariati e più rari: la ninfea dai bianchi
petali schiusi; il nepento, da cui si stilla il farmaco per cacciar la
tristezza; il giglio, onore delle convalli; la rosa, il gelsomino e la
mandragola, che spandono le più soavi fragranze.
Coppe d'argento, egregio lavoro dell'arte babilonese, guastade di
vetro, che mandava ai regnatori di Sennaar la pur mo' nata industria di
Tiro, stavano davanti ai convitati, insieme con piattellini d'argilla
colorata e lucente, con spatole d'avorio, dal manico di metallo,
che serviano per accostare i cibi alla bocca, e coltelli di selce,
sottilmente scheggiati, per tagliar le vivande. E mentre i coppieri
dalle idrie capaci mesceano il vino dolcissimo della palma, e l'acqua
fresca dalle anfore di creta, internamente strofinate con mandorle
amare, a fine di renderne più grato il sapore, gli eunuchi venivano
in lunga fila dalle cucine, recando su piatti di bronzo grossi quarti
di bue, di onagro e di capretto, che poscia gli scalchi faceano
destramente a spicchi, per imbandirli alla nobile comitiva.
Erano inoltre portati sul desco, fagiani piumati, pernici, ova di
struzzo, pesci, nottole di Barsìpa, conservate nel sale, olive, porri
e cipolle di Mesraim. Andavano da ultimo in giro i bossoli di cedro,
leggiadramente intagliati, che serbavano i condimenti e le salse;
grani d'amòmo, che dànno odor così vivo; di aneto, che stimola le
forze inerti o languenti; di comino etiopico, che rende più facile il
bere; di silfio cirenaico, il cui succo spremuto è la più gradevole, ma
altresì la più dispendiosa lautezza del mondo.
Ad ogni nuova imbandigione si udivano concerti di arpe, di cetre e
di flauti, che accarezzavano mollemente l'orecchio. I musicisti non
erano già nella sala del convito, bensì tra le piante dell'attiguo
giardino; donde avveniva che i suoni, più rimessi e più blandi, come
di musica lontana, non soverchiassero i lieti ragionari, che fanno
più grato il piacer della mensa. Luce, abbondanza di cibi eletti,
splendori dell'arte, fragranze ed armonie, formavano un misto di gaudii
ineffabili, una vera festa, un tripudio dei sensi.
Il re d'Armenia, attonito, quasi smemorato per maraviglia di tante
grandezze che lo attorniavano, confuso da tanta novità di casi che
lo avean sopraffatto in un giorno, più ancora inebbriato dalle acri
sensazioni d'un amore che così apertamente dimostrava la irresistibile
potenza dei fati, sedeva alla destra di Semiramide. Di rincontro a lui
il saccanàco, o gran sacerdote, vicario degli Dei di Babilonia; più
lunge il principe dei Medi, l'onniveggente Zerduste; indi, seduti in
ordine, secondo l'altezza del grado, i primarii uffiziali del regno.
Lontano era Ninia; ma il regio adolescente non era uso assidersi alla
mensa materna, nè partecipare alle solennità della corte. La maestà del
dispotismo orientale non consentiva divisioni d'impero, o di gloria:
soltanto il re, il malca divino, dovea stare al cospetto de' suoi
grandi, servitori tutti, ossequienti e paurosi, nè altrimenti sceverati
dal volgo, se non pel regio favore, mutevole a guisa di vento; nè
altri del suo sangue poteva, lui vivo e regnante, emergere dall'ombra
discreta del ginecèo, per offrirsi alla vista e all'adorazione de'
sudditi.
Oltre di che, il giovinetto non era egli felice in quell'ora, fuori le
porte di Babilonia, al fianco della sua diletta Anaiti? I due colombi
gemeano sommessamente il loro cantico de' cantici, in riva all'Eufrate,
sotto i palmeti di Gomer. Così avea consentito Zerduste, l'affettuoso
maestro.
Il principe dalla mente profonda e dallo sguardo acuto, sedeva calmo,
tranquillo, impassibile, alla mensa di Semiramide. Avea egli amata
mai la regina? Ciò, pel volgo dei riguardanti, era chiuso nel più alto
segreto. L'amava egli ancora? Non ne traspariva nulla da quell'aspetto
marmoreo. Semiramide istessa, così avvezza a scernere l'amore negli
ossequii ond'era attorniata, Semiramide istessa, se avesse potuto
in quell'ora rammentarsi d'alcuna cosa che non fosse il suo ospite,
e volgersi a scrutare quel muto sembiante, a interrogare il lume di
quegli occhi raccolti, non avrebbe potuto per fermo ravvisarvi i
segni dell'antica fiamma. Amore che non si gradisce, poco si vede
e facilmente s'obblia; inoltre il sentir di Zerduste era d'uomo
altero, misurato negli atti, geloso custode di sè; non altro poteva
egli vedersi del cuor suo, se non ciò che a lui medesimo talentasse
mostrarne.
Covava egli vendetta? O rodeva, impaziente e cruccioso, il freno
della servitù del suo popolo? Mare profondo cela nel grembo oscuro il
segreto delle sue collere e limpido azzurreggia il suo dorso, poco
prima di sollevarsi in legioni di flutti e di scagliarsi impetuoso
alla riva. Tale era Zerduste, riverito abitatore della reggia di
Babilonia, maestro di saviezza al futuro erede dello scettro di Nemrod,
ammesso ai consigli della gran vedova di Nino. E Ilu, e Nebo, e tutta
la schiera de' sommi Dei, comportavano ciò? Ahimè, forse neppure vi
ponevano mente; quelle vivide luci fiammeggianti dalla vôlta celeste,
vigili in apparenza, non si prendevano cura delle cose mortali. E i
Casdim, sapienti indagatori del corso degli astri, niente leggevano
per entro agli arcani dell'anime. Eglino, o forse non ancora ordinati
a sospettoso collegio d'ambizione sacerdotale, o forse più intenti
a temperare l'onnipotenza dei re, che non a sgominarne i nemici,
non pigliavano ombra di quel taciturno, entrato così innanzi nella
confidenza della reggia.
E sedeva egli a mensa, sorridendo e favellando dimesticamente coi
vicini, a cui il bere snodava la lingua e annebbiava l'intelletto.
Ma, così ascoso in quella confusione di allegrezze, in quel deliziarsi