Semiramide: Racconto babilonese - 02

giovane arbusto, condotto a vivere in estranio terreno, rimane alcun
tempo perplesso, ad occhi veggenti intristisce, prima che le sue radici
si facciano a bere con la usata vigorìa i succhi vitali della nuova
dimora.
E s'inoltrava frattanto, mentre d'intorno a lui il frastuono cresceva,
e liete torme di popolo sbucavano dal fondo, biancheggiavano nella
vasta ombra de' platani, si lumeggiavano alla spera dell'astro
notturno, e, a mala pena guardando la tacita cavalcata, voltavano per
certi sentieri a manca dei sopravvegnenti, sparivano e riapparivano tra
il folto d'una selva vicina, donde, insieme con le fragranze dei cedri
e dei gelsomini, veniano sprazzi di luce e buffi di festose armonie.
Bared, che, dopo l'entrata d'Imgur Bel, aveva affrettato il passo del
suo destriero e cavalcava a paro col re, per esser più pronto a' suoi
cenni, ruppe timidamente il silenzio.
— Non pare a te, mio signore, il grato suono del cembalo?
— Sì; — rispose il principe, crollando mestamente il capo; — Sandi era
valente per cavarne i suoni più dolci, e la sua voce più soave ancora,
quando egli cantava le sue belle canzoni. —
Bared, fatto peritoso, non soggiunse più motto. Ma il principe,
quasi volesse discacciare il triste ricordo, si volse al condottiero
babilonese, che gli venìa da diritta, e gli chiese nella lingua di
Sennaar:
— Amico, che suoni son questi?
— Siamo oggi al plenilunio, — rispose l'altro sollecito, — e si
festeggia Militta Zarpanit, la dea della gioventù, della bellezza
e dell'amore, la consolatrice dei cuori, anima e vita della feconda
natura.
— Lieta è Babilonia! — esclamò Ara pensoso.
— Sì, lieta; — ripigliò l'uffiziale, — e tu giungi in buon punto,
o possente signore. Il tuo volto, splendido come quello di Nergal,
l'astro della luce rossiccia, farà palpitare il cuore delle vezzose
figlie di Babilu. —
Un placido sorriso sfiorò le labbra del principe. La bellezza, virtù
del corpo, come la virtù, bellezza dell'anima, non è mai insensibile
alla lode.
— Labbro incantatore! — diss'egli.
— Ed è pubblico il rito? — entrò a chiedere Bared.
— Il sacro bosco è aperto ad ogni maniera di visitatori. Qui convengono
le genti di Sennaar e gli stranieri delle più lontane contrade. Se ti
piace, — proseguiva il babilonese, volgendo il discorso al principe, —
appena smontato alla dimora che la possente regina per questa notte ti
assegna, potrai mescerti liberamente alla folla e non conosciuto vedere
quanti più nobili giovani e più leggiadre donne Babilonia racchiude.
Ma eccoci; questo è l'alloggiamento per te, e pe' tuoi cavalieri, a cui
Nebo conservi il loro glorioso signore. —
La cavalcata diffatti era giunta dinanzi ad un vasto edifizio di
due piani, le cui mura salde e profonde si vedevano rinfiancate
da contrafforti di mattoni, fino ad una dicevole altezza, dove
incominciava un fregio di lucide squamme, corrente per lungo sotto
una fila di spaziose finestre. Il grand'arco della porta metteva
ad un ampio cortile, ne' cui fianchi si aprivano le stalle capaci,
e gli alloggi de' soldati e dei servi. Al piano di sopra erano gli
appartamenti del re e de' suoi uffiziali.
Discesi d'arcione, i seguaci del re d'Armenia si diedero con alacrità
ai loro apprestamenti di riposo, ognuno secondo l'ufficio suo; i
cavalieri a dissellare, stregghiare e rinfrescare gli affaticati
destrieri; i custodi de' cammelli, i bagaglioni e i serventi, a riporre
gli arnesi, le provvigioni e i preziosi fardelli; tutti, da ultimo,
veduto come più nulla bisognasse ai fedeli compagni del loro viaggio,
pensarono a ristorarsi di cibo, di bevanda e di sonno.
Seguìto di Bared, il giovine Ara s'avviò alle sue stanze. Due eunuchi
della reggia erano ad aspettarlo colà, per additargli la camera adorna
di sontuosi tappeti e morbide pelli di fiere, col suo letto di soffici
piume steso nel fondo, sotto un padiglione di porpora. Lo guidarono
essi allo spogliatoio, tutto fragrante di preziosi stillati, e al
tiepido bagno, dove l'acqua spicciava dalle fauci d'un leone di bronzo
nell'ampia vasca di pietra.
Ed essi, mentre il giovane signore attendeva a quelle cure, così
geniali dopo le fatiche d'un lungo viaggio, apprestavano sulla mensa
i cibi eletti, il vasellame lucente, l'acqua fresca come neve e
l'inebbriante liquor della palma.
Ara uscì poco stante dal suo spogliatoio, fiorente di bellezza e di
gioventù, raggiante al pari d'un dio. Lasciate le vesti polverose e
le fogge natali, aveva indossata la doppia tunica babilonese, bianca
di sopra con fregi d'oro sui lembi, e azzurra di sotto, siccome era
azzurra la clamide, che portava ravvolta con bel garbo sugli òmeri.
Azzurri i calzari, che gli saliano allacciati alquanto più su della
noce del piede; bianca, con fregi d'oro, la mitra sul capo.
Quelle ed altre vesti in buon dato l'ospitalità regale di Semiramide
apprestava al pronipote d'Aìco. Egli avea scelte le manco sontuose;
ma come avrebbe potuto farle parere più umili? Bellezza e gioventù
dànno luce più viva ed allegra che non gli ori e le gemme; aggiungono
leggiadria, freschezza e splendore ad ogni cosa che le circonda.
— Invero, — disse Bared a lui, come lo ebbe veduto, — il babilonese ha
ragione; chi non ti amerebbe, o signore?
— Ah! — rispose il principe con accento malinconico, rimirando le sue
vesti mutate. — Così Sandi vestiva! Povero Sandi! —
E così dicendo si lasciava cadere su di uno sgabello, di rincontro alla
mensa. Ma Bared non gli consentì questo ritorno alle tristi ricordanze.
Erano soli e le ragioni dell'amicizia ripigliavano il sopravvento su
quelle dell'ossequio.
— Suvvia, mio dolce signore, — gridò egli con voce affettuosa; — non
lasciarti soverchiare dalla mestizia dei lontani ricordi. La vita è
tale per tutti: luce e tenebre, sorrisi e lagrime, pur troppo! Schiavi
al voler degli Dei, tutti ci attende la morte; mostriamoci dunque
uomini forti davanti al destino!
— Oh, Bared, mio ottimo Bared, lo so; tutti morremo, un giorno! Ma
poss'io dimenticare l'amico della mia giovinezza? Questa città è una
tomba, dove Semiramide impera.
— Tu la vedrai domani; il babilonese te lo ha detto, nel prender
commiato da te; a domani, dunque, i molesti pensieri. Vieni, mio dolce
signore! Fino a domani ignoto in Babilonia, qual migliore occasione
per veder la città? Vieni; ci aspetta il tempio di Militta Zarpanit; ci
aspettano questi riti notturni, così famosi nel mondo. —


CAPITOLO II.
Militta Zarpanit.

Tra Nivitti Bel ed Imgur Bel, nel tratto settentrionale di quella
lunghissima zona di lieta verdura che corre tra i due baluardi, come
diadema intorno alla fronte d'una regina, è il sacro bosco e il tempio
di Militta Zarpanit, la gran madre, la provvida fecondatrice del germe,
colei che esalta la potenza dei figli di Belo.
Folte macchie di lentischi e di mortelle, di cedri e di salici,
fiancheggiano le vie tortuose e i sentieri dove luce non giunge. Tutto
intorno cespugli di gelsomini e di rose, liberali de' sottili effluvî
che inspirano l'amore, siccome all'amore dispongono i leni susurri
dell'aura vespertina e i gemiti delle colombe, libere abitatrici
del luogo, venerate messaggiere della Dea. Il sacro amòmo dal ceppo
sarmentoso si leva coi tralci, si avvinghia alle piante maggiori,
spandendo ombra di molteplici foglie e fragranza di rosei grappoli sui
misteriosi recessi. Da un lato la via maestra, o regale; dall'altro
l'Eufrate; in mezzo alla selva, murato su d'un poggio, è il tempio
della Dea, con la sua cupola gialla, lungi splendente dal colmo dei
rami intrecciati.
Militta Zarpanit! Donde il tuo culto, che le tarde generazioni vedranno
fiorente presso tutti i popoli antichi, all'alba della lor vita
affannosa? Gli Dei, che simboleggiano la forza degli elementi, ma più
assai la paura degli uomini, spariranno dagli altari; i possenti della
terra, i fondatori di città e di regni, santificati dall'ossequio
del volgo, saranno dimenticati o confusi; ma il culto della bella
natura, il culto della gran madre feconda, il tuo culto, o Militta,
non perirà. Belti, Militta, Zarpanit, Thaaut, Rea, Istar, comunque
ti piaccia esser nomata dalle genti di Sennaar; Astarte a Tiro,
Derceto in Ascalona, Afrodite fra gli Elleni, Venere tra gli ultimi
Esperii dei mondo antico, i tuoi riti saranno uguali dovunque, comechè
sformati dall'indole varia dei popoli, dalla naturale trasfigurazione
del simbolo, dal riuscir del mito in leggenda. A te sacro dovunque il
mirto, a te le colombe, a te non mai sacrifizio di vittime fumanti, ma
offerte di odorate ghirlande e incruento olocausto di cuori.
In te si venera la diva natura, che rinacque sorridente e gloriosa
dall'onde. Te, sorgente dalle spume, vide la memore sapienza
ellena; preceduta dalla colomba, lieta apportatrice del ramoscello
verdeggiante, ti celebrarono le prime istorie della figliuolanza
di Sem. L'apparir tuo fu mostra di possanza, non doma dal flutto
devastatore; il ramoscello dell'alato messaggiero recò il tuo primo
saluto ai superstiti, ricondusse la speranza nei cuori. E rinata
alla luce, investita dalle vampe maritali del fuoco interno, vigilata
dall'insaziabile sguardo dei corpi celesti, amata amante di avventurosi
mortali, fosti feconda di nuovi frutti alle genti; le quali ti
riconobbero madre, dalle tue cento mammelle succhiarono la vita, e il
tuo culto leggiadro recarono divotamente con sè, allorquando, rifatte
dai primi terrori, si sparpagliarono allegre e fidenti sulla faccia del
mondo.
Imperocchè (chi nol sa?) da mezzogiorno e da occidente vennero i primi
apportatori di civiltà alla terra di Sennaar, a mano a mano che su
per l'erta delle convalli mediterranee li sospinse la piena crescente
dell'acque, dopo che cadde inabissata nei gorghi marini la prisca terra
d'Atlante e il tremuoto spezzò le immani serraglie di Abila e di Calpe.
E dal mare ebbe Babilu i suoi fondatori, i suoi demiurghi. Ilu, il suo
primo Iddio, il suo primo terrore, è librato sulla distesa dell'acque,
o posa sulla vetta dei monti, negro come la nube che lo circonda,
pregno di nembi e di folgori. Dal suo grembo squarciato escono le tre
forze arcane, quasi le tre forme della sua medesima essenza: Anu,
il caos primordiale, Bel, la potenza ordinatrice, Hoa, lo spirito
intelligente dell'universo. L'ultimo tra questi è il dio più sensibile,
il più noto, il più dimestico ai volgari intelletti; egli è il pesce
dio, che reca i primi comandamenti all'umano consorzio. Daokina è
la sua forma femminea, venuta anch'essa dal mare, emersa dai flutti
dell'Eritreo. Lasciate che il mito si svolga; egli assumerà nuove
parvenze, altri significati, altri nomi.
Difatti, agli Dei cosmogonici succedono a breve andare gli Dei
siderali. Abbia la divinità un aspetto visibile; se il cielo è sua
dimora, il cielo donde si sprigionano i nembi, il cielo donde ci piove
la luce, vediamola nello spazio azzurro, vediamola in quelle grandi
pupille di fiamma che assidue dardeggiano il mondo. Così i prischi ed
oscuri elementi si rinnovano, ricompaiono in luce di stelle, ed alla
vecchia triade cosmica, ecco tener dietro la triade celeste, Sin,
Samas, Iva, anch'essi rinfiancati di lor forme femminine. Sin, l'astro
della notte, risponde al dio delle tenebre, al caos; Samas, l'astro del
giorno, risponde alla potenza ordinatrice del creato; Iva, lo spirito
dell'etere, l'atmosfera trasparente, risponde allo spirito penetratore
dell'universo, al pesce dio venuto dai gorghi del mare.
E adorati questi fulgentissimi numi, perchè non si adoreranno gli
astri minori? Ecco, la triade si scempia ancora in tutti quei luminosi
pianeti che scintillano la notte nel firmamento azzurro. I nuovi
regnatori delle are son questi: Ninip, o Adar, il lontano astro che si
circonda d'un candido anello, e i cui satelliti, nascondendosi tratto
tratto dietro al suo disco, lo faranno apparire divorator de' suoi
figli; Merodach, il più appariscente, il più splendido, epperò dal
popolo babilonese chiamato figlio di Bel, e adorato più tardi siccome
il vero monarca de' cieli; Nergal, il corrusco di luce rossiccia, fatto
signore dell'armi; Nebo, il sapiente, protettore della eloquenza e
della autorità regale, non ancora sformato dalle volgari leggende, che
tra gli Elleni lo diranno rapitore di mandrie; Istar, finalmente, la
stella dei soavi splendori, che la venerazione delle genti confonderà
coll'antica Beltis o Bilit, forma femminea di Bel, e con Daokina, la
compagna di Hoa. Astro in cielo, anima della natura in terra, diviene
la consolatrice dei cuori, la increata bellezza, la fonte dell'amore;
celeste, è Taauth; terrestre, è Zarpanit. Eccola adunque, sempre una in
tutte le sue svariate sembianze, nata dalle onde, splendente nei cieli,
vivente nel creato, cara ai mortali, madre, signora ed amante.
A lei sacro tutto ciò che risplende per grazia e leggiadria; a lei
sacra la lieta fecondità; a lei sacro l'amore che ingentilisce i
costumi. A lei dedicate le prime pietre che il volgo agreste ammirerà,
sporgenti, solitarie, scalzate dalle acque, lunghesso il dorso dei
monti; a lei i primi simulacri che il fantastico genio dell'India
ornerà di cento mammelle, a significarne la materna abbondanza, laddove
il genio più corretto degli Elleni la ritrarrà nelle sembianze della
donna amata, e vedrà il sommo della sua divina beltà nel complesso
di tutte le bellezze di Grecia. A lei consacrate le isole e i boschi
odorosi, dove gemono le colombe e sguardo profano non penetra i dolci
segreti. Ogni umana cosa si corrompe pur troppo, e la casta adorazione
cederà il luogo a mostruosi misteri; dei quali, al postutto, è agevole
il sentenziare, col sangue e il giudizio assottigliati da migliaia
d'anni trascorsi.
E Militta Zarpanit chiamava ai suoi amabili riti la gente di Sennaar.
Era essa la divinità più grata al popolo babilonese. Belo, insieme
con le sette sfere lucenti, aveva la sua torre dai sette piani e dai
sette colori nel borgo sacerdotale di Barsìpa. La triade antica delle
fondamenta della terra aveva la piramide di tre piani, innalzata in
quella parte occidentale della città che è più vicina all'Eufrate. Ilu,
il temuto iddio delle acque, avea la città tutta quanta e la soggetta
pianura; Nisroc, o Salman, núme dalle ali e dal rostro aquilino, Assur,
il protettore, nella cui faccia umana e nelle membra di toro alato
raffiguravasi la forza e l'intelligenza divina, custodivano, paurosi
simulacri, le cento porte di Babilu Militta, più soave e più cara,
aveva sulla riva destra del gran fiume il suo tempio, i penetrali, la
selva e i riti notturni. Non risplendeva essa, amica stella nei cieli,
la prima ad apparire dietro al sole cadente, l'ultima a dileguarsi ai
primi chiarori dell'alba?
Il suo bell'astro scintillava nell'azzurro sereno, accanto alla colma
luna, rallegrando il creato di miti splendori, allorquando il giovine
Ara, vestito delle nuove fogge babilonesi, si inoltrò, in compagnia
del suo Bared, sotto i platani che faceano confine alla selva. Quel
lieto viavai di gente sconosciuta, que' volti sfavillanti di gioia,
quelle donne a mezzo velate che si appoggiavano fidenti al braccio
degli amati, quel luccichìo di fiaccole, quell'effluvio di fragranze,
quell'onda di musicali concenti tra i rami, rapivano il suo cuore,
facendolo immemore d'ogni cosa, susurrandogli arcane parole, che
avevano un'eco nel profondo dell'anima. Giovinezza beata! come le
arride il futuro! e come i suoi dolci incantesimi possono far tacere in
lei le mestizie d'un passato, che ancora non ha avuto agio di mutarsi
in assenzio! A lui l'ignoto, con le sue lusinghe, le promesse, le
speranze dolcissime, sorrideva sotto quei rami in quella moltitudine
appariscente e festosa, immagine del mondo in cui egli era entrato
per la porta d'avorio. Ed ammirato, estatico, fuori di sè, saliva
lentamente, rasentando le belle coppie innamorate, pei meandri del
bosco.
Com'egli fu giunto al sommo del poggio (chè tale era la forma del sacro
recinto), gli si parò davanti agli occhi la maestosa mole del tempio,
torreggiante su d'una piattaforma che gli facea terrazzo in giro, e a
cui si saliva dai quattro lati, la mercè di ampie gradinate. Le mura di
sostegno si vedeano fregiate di bassorilievi e dipinti, in onore della
Dea, e di iscrizioni, scolpite nei venerati caratteri della stirpe
degli Accad, somiglianti a chiovi impressi per lungo ed in mille guise
intrecciati. A' piedi delle gradinate vegliavano leoni di granito;
certamente posti colà, sotto gli occhi della Dea, come emblemi della
forza, cui la bellezza soggioga. E il tempio difatti innalzavasi poco
più in alto, cinto da doppio giro di colonne, coronato di capricciosi
fregi e di eleganti merlature, sormontato da una svelta cupola,
rilucente nello spazio azzurro ai raggi della luna.
Il suono dell'arpe e dei cantici era da pochi istanti cessato innanzi
all'ara della gran madre Militta, e già la moltitudine devota scendeva
a torme dal limitare, spandendosi lungo i terrazzi e per le scalinate,
a guisa di fiume che rompa fuori dagli argini. Il vano della gran porta
appariva vestito dell'aurea luce, ond'era sfolgoreggiante l'interno, e
di là venian profumi d'incenso, di gálbano, di cinnamomo e di mirra.
Dopo essere rimasto un tratto immobile a contemplare da lunge quella
scena incantevole, il re d'Armenia si avviò verso la gradinata, in
mezzo alla moltitudine, che scendeva dal tempio, o saliva.
I raggi della luna rischiarando il suo volto e la leggiadra persona,
si fece a breve andare dintorno a lui quella ressa curiosa, quel
bisbiglio, quell'avvicendarsi di domande e di ammirazioni, che furono
mai sempre, e saranno, il più naturale omaggio reso alla bellezza dal
volgo dei riguardanti. Ora, presso i babilonesi, come presso tutti i
popoli antichi, più schietti adoratori della forma, quell'omaggio era
più facile a rendersi, nè solamente riservato alla donna, come accade
tra noi, non so se più austeri, o più invidi.
Turbato un tal poco da quegli atti curiosi e da quelle voci di
meraviglia, il giovine affrettò il passo fin sopra la spianata;
s'inoltrò sotto il pronao del tempio, che era sorretto da enormi
tronchi di palma foggiati a colonne, ed oltrepassò il sacro limitare,
fiancheggiato dai simbolici leoni di pietra.
Colà, un più meraviglioso spettacolo si parò davanti agli occhi del
giovine. Sulle prime, tra per la luce riflessa dalle lamine d'oro e
d'argento, che correano alternate sull'alto delle pareti, e per la nube
d'incenso che si diffondeva nell'ampio recinto, parve a lui d'essere,
anzi che tra' mortali, nella regione dei sogni, in cui si pregustano
le delizie celesti. Ma, a poco a poco, avvezzando lo sguardo a quella
vaporosa veduta, egli potè discernere partitamente ogni cosa.
La cella sacra, dov'egli avea posto piede, era un'ampia sala
quadrilunga; conterminata da un'abside, su cui si levava la cupola,
già veduta di fuori. Le mura tutto intorno apparivano ornate di
stucchi, con iscrizioni e bassorilievi colorati, fino all'altezza degli
stipiti di un gran numero di porte, le quali mettevano alle camere dei
sacerdoti. Ai lati di queste grandeggiavano leoni e tori alati, dal
volto umano, o dalla testa d'aquila, che parevano vegliare riverenti, a
custodia delle mezze figure chiuse nel circolo eterno, con lunghe ali
distese, emblemi della divinità suprema, i quali si vedeano scolpiti
più in alto. E dove finivano le sculture e i dipinti, incominciavano
i fregi di lamine d'oro, intelaiati a guisa d'arazzi nel vano di un
finto colonnato d'argento, che saliva a sostenere un sopraccielo di
legno prezioso, partito a cassettoni, con entro rosoni ed altre fogge
di fantastici fiori, messi ad argento ed oro, siccome le colonne già
dette. Nell'abside, sotto la cupola, sorgeva l'altare di Militta, masso
di diaspro riquadrato e lucente, su cui s'innalzava il bianco simulacro
della Dea, che poggia il piede sul domato leone, e reca tra mani
il fiore della vita. Ai quattro angoli dell'altare, fumavano, entro
bracieri sostenuti da tripodi di bronzo, i quattro aromi più grati
agli abitatori del cielo; e d'ogni parte pendevano, in lungo ordine
disposte, le lampade d'argento, donde i lucignoli di bisso attingevano
l'olio fragrante, per dar luce e profumi all'intorno.
E per mezzo a quella nube d'incenso che si diffondeva dall'abside, il
principe vide uno stuolo di sacerdoti, i quali posavano dalle cerimonie
e dai cantici, seduti su sgabelli d'ebano, il cui nero lucente faceva
vieppiù risaltare la candidezza delle lunghe stole (il bianco era il
color sacro a Militta) e degli ampii mantelli in cui ravvolgevano la
persona. Il gran sacerdote si discerneva, tra gli altri, per la tunica
sfoggiatamente trapunta e frangiata d'oro sui lembi, per l'aurea
cintura tempestata di gemme e per l'aurea mitria foggiata a testa di
pesce, la cui infula scendeva ad accappatoio sulle spalle, simulando
le squamme dell'animale e la coda a due punte. Militta, non lo si
dimentichi, era altresì Daokina, e la mitria del pesce dio, portata dai
sacerdoti di Babilu, doveva coprire il capo ai ministri di ben altre
divinità, posteriori nel tempo.
Una mensa di lucido argento, sorretta da figure simboliche, era
collocata davanti all'altare e sovr'essa splendevano le liberali
offerte dei più ricchi adoratori. Capaci coppe di bronzo si scorgeano
dai lati, nelle quali ogni donna che uscisse dal tempio gittava la
sua moneta, d'argento, o di rame. E tratto tratto si vedeva alcuna di
esse, muoversi dal fondo, inoltrarsi fino all'altare, e deporre il suo
tributo, levar le mani in atto di adorazione ed uscire.
Ciò ricondusse più indietro gli sguardi del giovine. Il sacro recinto
non era anche spopolato del tutto; imperocchè, sedute in lungo ordine
su panche di legno, attorniate da curiosi che le veniano squadrando
degli occhi, stavano molte donne in attesa, con funicelle ravvolte
intorno al capo, e, ognuna di esse giusta la sua condizione, nobilmente
vestite ed adorne. Quella era per fermo la celebrazione d'un rito;
nè il re d'Armenia lo ignorava, essendo allora i misteri di Militta
Zarpanit famosi per tutte le circonvicine regioni.
Così voleva il costume, che ogni donna babilonese dovesse, una volta
in sua vita, rimanersi nel tempio aspettando, fino a tanto non avesse
pagato il suo tributo alla Dea. Ciò ch'ella riceveva dall'ignoto, il
quale accostavasi a lei, rivolgendole la frase «invoco per te la dea
Militta,» dovevasi gittare in offerta nella coppa di bronzo. Nè ella,
poichè s'era così seduta in attesa, con la funicella intorno alle
tempie, potea più respinger l'omaggio dello straniero, chiunque egli
fosse. Mostruoso rito; ma non è in balìa del narratore il mutarlo.
Forse era naturale corrompimento d'un alto concetto; forse reliquia di
più rozzi costumi, non potuta cancellare del tutto, epperò saviamente
dissimulata dalla santità della cerimonia; fors'anco, nell'uso, era
temperato da acconci convegni, da gentili artifizi, che la storia non
ha tramandati alle tarde generazioni, e che il senno di questo può
argomentar verosimili. Ma di ciò pensi ognuno a sua posta.
Ben ci raccontano gli antichi, ed è anche agevole il credere, che le
più nobili e ricche sdegnassero di mescolarsi cosiffattamente alla
comune delle donne babilonesi, nella celebrazione dei sacri misteri.
Elleno per fermo non si ristavano dallo accorrere al tempio; ma in
lettighe coperte e accompagnate da uno stuolo di servi, che recavano i
loro donativi e le debite offerte all'altare.
Una di queste felici era appunto allora nel tempio, prostrata dinanzi
ai gradini dell'abside, su d'un morbido cuscino che sotto i ginocchi le
avea posto un'ancella, mentre un'altra deponeva sulla mensa il presente
della signora, aromi e polvere d'oro in vasi d'alabastro.
Quella donna, veduta appena, trattenne lo sguardo del giovine. O
fosse la singolar leggiadria delle forme, non potuta nascondere dalle
pieghe del velo che tutta le involgea la persona, o il suo rimanersi
in disparte e la compagnia delle ancelle, che la dicevano donna di
ragguardevole stato, od altra più riposta cagione (che molte ve n'ha,
sottili, inavvertite ed arcane, per disporre in varie guise la trama
degli eventi), fatto sta che quella donna velata, lontana, ignara di
lui, gli occupò la mente, lo disviò da tutta quella moltitudine di
aperte e sorridenti bellezze, che in lui figgevano i grandi occhi neri,
pieni di schietta ammirazione a di dolci lusinghe.
Tanto può l'ignoto sull'animo nostro! Così tenui sono le fila in cui ci
avvolge il destino!
Ella era inginocchiata dinanzi all'altare, in atto di preghiera, mentre
alcuni adolescenti ministri del tempio venìan raccogliendo di mano alle
ancelle i preziosi donativi della sconosciuta supplichevole.
— Militta ti vede e ti ascolta! — le avea detto il gran sacerdote; — ti
conceda ella ciò che le tue preghiere dimandano. —
Ara non poteva distogliere lo sguardo da lei. E più la rimirava, e
più si riempiva il suo cuore di dolcezza ineffabile; come se da quelle
forme mal note emanasse un tiepido effluvio che, tutto investendolo,
gli s'infiltrasse per ogni meato nel sangue. E una speranza, un
desiderio, uno struggimento gli cresceva grado grado nell'anima, di
vederla in volto, d'essere veduto, di non essere un ignoto per lei.
Donde nascono essi, questi moti repentini del cuore, soventi volte
datori d'un nuovo indirizzo alla nostra esistenza, che ci fanno di
punto in bianco, quasi per virtù d'incantesimo, consapevoli di noi,
cosicchè ci sembri, o di vivere per la prima volta, o di non aver
vissuto mai di vera vita da prima? Bagliori improvvisi nelle tenebre
dell'intelletto, voci arcane all'orecchio, tumulti nel cuore, inni
prorompenti dai penetrali dell'anima, donde traggono essi l'origine?
Dal nulla, chi guardi all'apparenza, come dal nulla hanno vita i
fantasmi dei sogno; ma il savio, che scruta i segreti della natura
e argomenta le cause non viste, si raccoglie umilmente nella sua
pochezza, e ciò che ancora è sfuggito al suo spirito indagatore, non
deride egli, per fermo, e non nega.
Così ammaliato, ignaro di sè, il giovane s'era fatto più innanzi e più
presso alla sconosciuta, quasi volesse inebbriarsi dell'arcano effluvio
ond'era soggiogato, o raffigurarsi, comechè imperfettamente, il profilo
di quella testa, sotto le pieghe del velo che l'ascondeva, o cogliere
a volo, respirare un alito di quelle preghiere che ella rivolgeva
all'altare.
— Che chiede ella a Militta? Forse il suo cuore arde, si strugge
d'un amore disperato, e prega la Dea che versi sovr'esso i balsami
dell'oblio? O le voci dell'affetto non hanno ancora parlato all'animo
suo, e implora il conforto, fors'anche lo strazio, d'un amor vero e
profondo? Ed io ti chiedo, o Militta, che quella donna mi ami. —
Fu un impeto subitaneo, irresistibile, e decisivo del pari. Ascese
incontanente il primo gradino del santuario e recò la mano alla sua
cintura tutta adorna di gemme. L'aveva egli portata seco d'Armenia, e
per vezzo giovanile, rigirata al fianco, sulla tunica babilonese pur
dianzi indossata. Un grosso e trasparente smeraldo ne fregiava il nodo,
ed egli fu pronto a strapparnelo.
— È questa la mia offerta, — diss'egli avvicinandosi alla mensa, per
deporvi la gemma, — se Militta non isdegna il presente d'uno straniero.
— Bellezza e gioventù spirano dal tuo volto, come una dolce fragranza,
— gli rispose il gran sacerdote, accompagnando le parole con un paterno
sorriso. — Il tuo aspetto è d'uom caro a Nebo, ai veggente Iddio, che
dà lo scettro ai reggitori di popoli. Qual cosa dimandi tu, che Nisroc,
il signor delle sorti, non t'abbia concesso il dì che nascevi? Pure,
è bello il non fidarsi nei doni della natura, e tutto in quella vece
aspettar dagli Dei. Essi non deludono la speranza di chi li invoca
con animo riverente. E Militta, invocata, conceda a te, o giovine
straniero, il compimento de' tuoi voti, conservi a te il regno de'
cuori.
— D'un solo, e sarò il più avventuroso tra gli uomini! — esclamò il re
d'Armenia nel ritirarsi dal santuario.
Agli atti improvvisi, alle parole del giovine, la donna velata avea
rivolto il capo da quella banda; di certo essa lo aveva veduto per
mezzo alla trama sottile del bisso che le copriva il sembiante. A lui