Semiramide: Racconto babilonese - 01
ANTON GIULIO BARRILI
SEMIRAMIDE
RACCONTO BABILONESE
QUARTA EDIZIONE
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1883.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
Tip. Fratelli Treves.
A GEROLAMO BOCCARDO
_Non perchè vai meritamente famoso tra i migliori ingegni d'Italia,
non perchè egli c'è conforto di vanità a mostrarsi in dimestichezza coi
sommi, ma perchè nella tua grandezza sei buono, ma perchè io t'amo come
un fratello, intitolo a te questo frutto delle mie più liete fatiche._
_Uomini giunti in alto, che sappiano e vogliano esser liberali d'aiuto
ai minori, ce n'ha pochi, pur troppo. Io, per me, non ne conosco che
uno, il quale, già illustre per virtù sua e per consenso universale,
s'è pigliato un giorno spontaneamente la molestia di volgersi indietro,
farsi patrono, anzi guida amorevole, ad un suo giovane concittadino, e
bandirne il nome fuor della cerchia ristretta, quantunque cara, della
sua terra natale._
_A te son debitore di tanto. Quel po' di benevolenza che il mio
nome ha raccolto, mi deriva dal tuo patrocinio. Auguro a più degni
di me, valentuomini che seguano il tuo nobile esempio. E a costoro,
gratitudine pari a quella che nutre per il tuo_
Di Genova, 1.º settembre 1873.
ANTON GIULIO BARRILI.
AVVERTIMENTO
In cambio di note, le quali, inutili ai dotti e insufficienti agli
studiosi, potrebbero tornar moleste alla comune dei lettori, si citano
qui brevemente le fonti a cui ha dovuto attingere l'Autore nella
composizione di questo racconto.
Per la storia: MOSÈ DI CORESE, ERODOTO, DIODORO SICULO, BEROSO, tra gli
antichi; VOLNEY, _Recherches nouvelles sur l'Histoire ancienne_; SMITH,
_Storia antica dell'Oriente_; RAWLINSON, _Five great Monarchies_;
OPPERT, _Histoire de Chaldée et d'Assyrie_, tra i moderni.
Per l'archeologia: LAYARD, _Nineveh and its remains, Nineveh and
Babylon_; OPPERT, _Interpretazioni delle iscrizioni cuneiformi_
(sul _Journal Asiatique_ dal 1850 al 1870); RAWLINSON, scritti varii
sull'_Asiatic Journal_; FINZI, _Ricerche per lo studio dell'Antichità
Assira_.
Per le foggie, usi e costumi: LAYARD, _Op. cit._; CAVANIOL,
_Nidintabel, ou la Perse ancienne_; ENGEL, _The Music of the most
ancient nations_. Tra gli antichi, e segnatamente per le cose militari:
SENOFONTE, QUINTO CURZIO, AMMIANO MARCELLINO, ecc. ecc.
Per le tradizioni religiose: ANTICO TESTAMENTO, _Genesi, Ester,
Daniele_; PAUTHIER, _Les livres sacrés de l'Orient_; ANQUETIL DUPERRON,
_Zend-Avesta_; JACOLLIOT, _La Bible dans l'Inde_; CREUZIER, _Réligions
de l'antiquité_.
Per la geografia, corografia, storia naturale, ecc.: MENKE, _Atlante
del mondo antico_; FINZI, _Op. cit._; MOYNET, _Viaggio al litorale
del Caspio_; VAMBÉRY, _Viaggio di un falso Dervis nell'Asia centrale_;
FLANDIN, _Viaggio in Mesopotamia_; LEJEAN, _Idem_, ecc. ecc.
SEMIRAMIDE
CAPITOLO I.
Alle porte di Babilu.
Sulle rive dell'Eufrate si stende un'ampia, lieta e ubertosa contrada,
il cui nome è Sennaar tra i figli di Cus, pingue d'armenti, di biade
e d'ogni maniera dovizie, versate a piene mani sovr'essa dal possente
Iddio delle acque, poi ch'ebbe mutate in doni di fecondità le sue ire
devastatrici.
Quivi, a mezzo il corso del gran fiume, sorge una città, la più
vasta che il mondo abbia veduta mai, edificata da Nemrod, figlio di
Cus, potente cacciatore al cospetto di Nebo, insieme con le genti
scampate dall'acque, prima che, a guisa di rena travolta dal turbine,
si sperdessero sulla faccia della terra. Però il nome suo fu Babilu,
che significa la porta di Ilu, il dio del diluvio, e la sacra città
si ristrinse da principio sulla sponda destra del fiume, intorno a
Barsìpa, la gran torre delle lingue, che gli edificatori suoi aveano
lasciata a mezzo, confusamente favellando, sbigottiti dal tremuoto e
dalla folgore. Così Nebo, il Dio che genera sè stesso, il dominatore
che comanda alle legioni del cielo e della terra, avea custodita
l'azzurra sua sede contro le audaci imprese dei figli dell'uomo[1].
Quindici età sono di poco trascorse sotto la grand'ala di Nisroc, e già
l'ampliata Babilonia, tempio e dimora de' sommi Dei, si estende sui due
lati del fiume, cui sembra ella stringere tra le braccia amorose, come
giovine donna lo sposo che la ricolma d'ebbrezza. A lei non ardisce
paragonarsi Ninive pur dianzi edificata da Assur, la quale attenderà
lungamente ancora il suo Tiglat Pileser, il fortunato monarca che la
porrà a capo del grande impero d'Assiria. Sippara, l'antidiluviana, Ur
de' Caldei, Larsa, Calneh ed Erech, dense di popolo, felici di arti e
di traffichi, non risplendono intorno a lei che come i pianeti intorno
al sommo datore di vita e di luce, il cui tempio e il simulacro ella
accoglie nel suo venerato recinto.
E qui, sotto lo scettro poderoso dei discendenti di Nemrod, si
raccolgono quattro schiatte, i Sumir aspro favellanti, gli Accad gelosi
custodi della scienza arcana de' cieli, i Turani discesi al piano per
mezzo alle tribù fraterne dei Medi, gli avanzi della stirpe di Sem,
cacciata più su, dal conquistatore cussita, a metter dimora sulla terra
di Nahraim. Nè solo la vasta pianura obbedisce al glorioso popolo di
Kiprat Arbat, o delle quattro favelle; anche sulle alture, e per le
chine di là dai monti, il valore di Nino estese l'imperio di Babilu;
e pur dianzi, la fortuna di Semiramide spaziò dal lido di Tiro alle
convalli della Bakdiana, dalla terra degli aromi cui bagna l'Eritreo,
fin oltre alle sorgenti dell'Eufrate e del Tigri. Curvarono il capo le
vinte nazioni; i principi lontani furono astretti a tributo.
I più tra costoro lo pagavano di buon grado. Scendevano essi riverenti
e stupiti a Babilonia, come alla città sacra, domatrice del mondo.
Era così maestosa la dimora de' sommi Dei! Ed era così splendida la
reggia della gran vedova di Nino! Omaggio prestato a donna non umilia
i nati di donna, e Semiramide, per la sovrumana venustà delle forme,
piuttosto accresciuta che scemata dal corso degli anni, appariva cosa
di cielo, anzi che frutto di mortale connubio. E invero, non tanto per
cingere d'una poetica nube un oscuro natale, quanto per aggiunger luce
ad una bellezza che facilmente si potea creder divina, i sacerdoti di
Barsìpa avean letto negli astri esser costei la figliuola di Derceto,
della gran dea d'Ascalona, fin da quel giorno che Nino, perdutamente
invaghito di lei, la tolse al primo marito, per farla regina del suo
cuore, arbitra e donna del più gran trono della terra.
Ed ella oramai, estinto il consorte, regnava sola, temuta e felice. A'
suoi cenni la città s'era ampliata, cinta di mura, ornata di sontuosi
edifizi. Due milioni d'uomini avevano lavorato per lei; gli uni a
scavare il suolo, gli altri a foggiare in mattoni l'argilla smossa,
altri ancora a trarre il bitume dalla vicina terra di Is. Anzitutto
s'innalzan le mura, ampie, valide alla difesa e maravigliose alla
vista. Nivitti Bel, il recinto interno, è lungo trecento sessanta
stadii, alto cinquanta cubiti, largo diciotto; Imgur Bel, il baluardo
esterno, gira quattrocento ottanta stadii, si leva novanta cubiti
sull'ampia fossa che lo circonda, e, sullo spalto di cinquanta che lo
incorona, sorge una doppia fila di torri, per mezzo alle quali è libera
la via ad una quadriga scorrente. Queste mura, ne' cui fianchi si
aprono cento porte di bronzo, son di mattoni, una parte acconciamente
disseccati, l'altra cotti in fornace; e ad ogni trenta strati di
mattoni s'alterna uno spesso graticciato di canne, intrise nei bitume,
sporgenti oltre la superficie del muro, di guisa che la rossiccia mole
appare da lunge vagamente listata di nero.
Il biondo Eufrate scorre nel mezzo; epperò le mura, giunte al confine
dell'acque, si volgono ad angolo, si rimpiccioliscono e s'assottigliano
in forma di parapetti, lunghesso i margini bastionati del fiume, su cui
vengono a mettere, per altrettanti sbocchi, le vie della città, ampie
e diritte, tutte a riscontro delle cento porte di bronzo. Sui lati
di queste vie, frequenti di popolo, si alzano le case a tre o quattro
piani, spaziose, non contigue tra loro, ma frammezzate da giardini e
da piazze. Sulla riva destra è la città sacerdotale, col suo tempio
di Belo, alta piramide di sette piani, dipinti dei sacri colori delle
sette luci della terra, dalla cui cima Belo, il gran dio di Babilonia,
contempla la sua diletta città. Sulla riva sinistra è la reggia,
chiusa da un muro ornato di stupende pitture, sormontata da terrazzi e
pensili giardini. Congiunge le due rive un ponte, lungo cinque stadii,
sorretto da pile profondamente piantate nell'alveo dell'Eufrate. Son
esse di pietre strettamente congiunte da ramponi di ferro, saldati col
piombo, e le facce esposte alla correntìa del fiume appaiono stagliate
ad angolo acuto. Il ponte, venti cubiti largo, è un tavolato di cedri e
cipressi, sostenuti da enormi tronchi di palma.
Tanto ha potuto far Semiramide, ed altro ancora, chè braccia di
manovali non poteano mancare alla conquistatrice della Fenicia e della
Bakdiana, donde eran venute dietro al suo cocchio di guerra così lunghe
file d'incatenati prigioni. In quella guisa che le mura della città, i
templi, i giardini, narrano la sua magnificenza ai venturi, l'Eufrate,
rattenuto da argini poderosi pel corso di molte giornate, a giuste
distanze sviato in ampii canali navigabili, partito in migliaia di rivi
a benefizio dei campi, addimostra le cure sapienti della regina per la
felicità del suo popolo. Epperò ella potrà, senza menzogna, scrivere
lungo le mura della sua reggia questi nobili vanti:
«La natura mi diè forme di donna, ma le mie geste m'hanno agguagliata
al più forte tra gli uomini. Io tenni sotto la mia legge l'impero di
Nino, il quale non è conterminato ad oriente che dal fiume Indo, a
mezzogiorno dalle regioni dell'incenso e della mirra, a settentrione
dai Sogdiani e dai Saci. Prima che io fossi, niuno dei Babilonesi avea
visto il mare; io quattro ne vidi, e così lontani, che il giungervi
non era dato ad alcuno. Costrinsi i fiumi a correre dov'io volli, nè il
volli, se non dove tornasse utile alle mie genti. Fecondai le sterili
pianure; murai cittadelle inespugnabili; tra roccie impraticabili,
apersi sentieri col ferro; ampie strade si schiusero ovunque io passai,
e i miei carri sonanti trascorsero dove pur dianzi duravan fatica le
fiere. E tra queste opere, rinvenni ancora il tempo da consacrare ai
sollazzi, agli amici.»
Così posava la regina dalle aspre fatiche di guerra, tra le
splendidezze della sua città e le dovizie che versavano ogni giorno
a' suoi piedi la natura e l'industria delle soggette nazioni. Per lei
l'Arabia felice stillava gli aromi; per lei Tiro intesseva i candidi
lini e li tingeva nei più vividi colori della porpora; per lei la Media
educava i cavalli veloci come il vento, e l'India i poderosi elefanti.
Era il secol d'oro per la stirpe degli Accad, innanzi che scendessero
alle prime vendette i figli di Javan, prodi in armi e numerosi nei
troppo ristretti confini, che per poco ancora dovean mordere il freno
della servitù, mentre il loro Zerduste, il principe dalla mente
profonda e dallo sguardo acuto, ospite tributario della fortunata
regina, indarno tentava di piacere alla donna.
Ma la nube precorritrice delle tempeste non era anche apparsa sul
limpido cielo di Babilonia; vigilavano ancora a sua custodia i sommi
Dei; Ilu, il gran nume senza tempio, nè altari, poichè la città stessa
era l'altare, e tempio tutta la grande pianura fecondata da lui;
Nebo, il signore della vôlta azzurra; Belo, il dator della luce; Ao,
il pesce dio, che recò la prima civiltà dai flutti del mare; Sin,
il rischiaratore delle notti; Militta, o Derceto, o Rea, secondo i
luoghi, la Venere genitrice, la gran madre dalle cento mammelle, il cui
sacro bosco e i riti notturni chiamavano a Babilonia adoratori in gran
numero.
E la terra di Sennaar tutti liberalmente nutriva, non meno ferace di
quella che il gran Nilo inonda delle sue piene; imperocchè vi cresceano
spontanei la palma, il melagrano, l'orzo ed il sesamo; il grano rendeva
duecento volte la semente, talfiata anche trecento, e la messe ogni
anno era doppia, come sulla terra di Mesraim. Lunghesso l'Eufrate
vorticoso, i cui margini erano continuamente solcati da carri pesanti,
spaziava una pianura così vasta, che l'occhio non potea misurarne i
confini, tutta biondeggiante di biade alla vampa del sole. Di tratto
in tratto, come isole sorgenti dall'aureo mare delle mobili spiche,
s'innalzavano con agili tronchi le palme, si piegavano ad ombrello su
popolosi villaggi, composti di case tonde, dalle pareti di legno, dai
tetti conici e dalle porte alte, intonacate di bitume. Erano esse le
dimore dei coloni e dei manovali. Quelle dei capi loro, i pubblici
edifizi, i templi degli Dei, si ravvisavano agevolmente alla forma
quadrangolare, alla costruzione in mattoni, ora soltanto disseccati,
ora cotti al fuoco e smaglianti per una densa vernice d'un verde
carico. Le città, disseminate sul piano, si scorgevano in lontananza,
coi loro alti terrazzi biancheggianti e le loro torri massiccie a vasti
ripiani. Il verde vivo dei colti e dei pascoli appariva rotto qua e
là da innumerevoli linee biancastre, argini dei cento canali derivati
dall'Eufrate e condotti a metter foce nel Tigri; liquidi sentieri su
cui viaggiavano, rapide siccome la corrente voleva, portando carichi
di grano e di frutte, quelle barche a foggia di scudo, intessute di
vimini, coperte di cuoio e spalmate di asfalto, che poi, giunte alla
meta, erano disfatte, e, venduta l'armatura di legno, il nocchiero
se ne tornava pedestre, con le sue pelli sul capo, o sulla groppa
d'un somiero, portato seco nella barca, fino al villaggio lontano.
I viandanti, ond'erano popolate le strade e i villaggi lunghesso il
fiume, indossavano una lunga tunica di tela, su cui una più corta
di lana colorata e un bianco mantello svolazzante dagli omeri.
Una corta mitra, ravvolta di bianca fascia, ratteneva le lunghe
capigliature intrecciate; i piedi avean chiusi in sandali di cuoio, e
tra mani portavano lunghi bastoni ornati di leggiadre sculture, quali
raffiguranti un giglio, o una rosa, quali un leone, un'aquila, od altra
foggia d'animali. Dappertutto l'abbondanza, la ricchezza e la vita;
dappertutto le liete sembianze della fortuna d'un popolo, le cui mura,
i baluardi, le piramidi e le torri, grandeggiavano sull'orizzonte,
tinte di porpora e d'oro dai raggi d'un sole maestoso, che avea varcato
di parecchie ore il meriggio.
Questa scena mirabile venia contemplando, con occhio tra curioso e
triste, un giovine cavaliero, che scendeva lentamente, seguìto da
numerosa schiera e da salmerie ragguardevoli, lungo la riva destra del
fiume. Già il convoglio aveva oltrepassato Is, il villaggio posto alla
foce della fiumana d'asfalto; già aveva lasciato sulla sua sinistra
le antiche torri di Sippara e la vasta apertura del Nahr Malka, canal
regio, da poco tempo scavato tra l'Eufrate ed il Tigri; e Babilonia,
mostrandosi in tutta la sua pompa colossale al forastiero (chè tale
lo chiarivano i biondi capegli e le azzurre pupille, più assai che
la strana foggia del vestimento e dell'armi), gli chiamava sul volto
quell'aria di ammirazione ad un tempo e di tristezza, che abbiamo
notata pur dianzi.
Fin dai primi albori del giorno, la gran città gli era apparsa alla
vista, sull'estremo confine dell'orizzonte. E da quell'ora una strana
impazienza signoreggiava l'animo del giovane condottiero; però la
cavalcata volgea più spedita, e più brevi erano state le soste,
quantunque già gli ardori del sole si facessero sentire più molesti,
consigliando le carovane a batter le polverose strade di nottetempo,
pe' silenzi dell'amica luna, che giungeva allora al suo colmo. Egli
era in sul finire del mese di Sirvan, che è il terzo dell'anno dei
Babilonesi, computandone essi il principio dal giunger di primavera,
allorquando lo sciogliersi delle nevi sui monti di Armenia fa crescere
a dismisura l'Eufrate. Ora nel mese di Sirvan s'è già scemata la piena,
e la vampa del sole, che matura le spiche sui gambi frondosi, consente
di foggiare a mattoni l'argilla per la costruzione delle case; donde
esso è chiamato eziandio il mese del mattone dalle genti di Sennaar.
Era egli così desideroso di giungere in Babilonia, il giovane
cavaliero? E gli sguardi, or curiosi, or mesti, ch'egli volgeva
d'intorno, che significavano essi? Una strana mistura di contrarie
sensazioni gli traspariva dal volto. Talfiata, sviando gli occhi dalla
meta del suo viaggio, si faceva a contemplare l'Eufrate, seguendo con
fanciullesca curiosità le zattere galleggianti, coperte d'un bianco
tendale, cariche di anfore, in cui si chiudeva l'inebbriante liquor
della palma, lentamente condotte da uomini armati di lunghe pertiche,
le quali scendevano con metro alterno a pigliare la spinta dal letto
del fiume. Più oltre erano viaggiatori di povero stato, i quali, per
cansare la fatica pedestre e il polverìo delle strade battute, con la
lor tunica e il cappello piegato a mo' di turbante sul capo, scendevano
la corrente, aggrappando le braccia intorno a un otre gonfiato. Altrove
erano donne, facilmente riconoscibili al bianco drappo che copria loro
la testa e il collo, agili e destre nuotatrici, che con una mano si
reggeano a fior d'acqua, e sull'altra, obliquamente protesa in alto, e
sulla eretta cervice, recavano canestri di frutte, o scodelle di latte,
a refrigerio dei viandanti.
Lieto spettacolo, che pure non rallegrava a lungo l'aspetto del
giovine. Ad ogni tanto gli si offuscavano gli occhi, sotto l'arco
delle sopracciglia aggrondate, come se un doloroso ricordo venisse
improvvisamente a trafiggerlo. E lo assaliva un brivido, come fosse il
terrore delle cose ignote; le sue labbra mormoravano un nome amico, e
il cavallo nitriva, s'impennava, fremeva, sotto le repentine scosse del
suo mutevol signore.
Teneva a lui dietro il corteo, grave, misurato, e, a dimostrazione
d'ossequio, non ricambiando che sommesse parole. Perfino Bared, il
suo fidato Bared, che di pochi passi precedea l'ordinanza, cavalcando
quasi a paro di lui, da lunga pezza non aveva aperto bocca, per tema
d'interrompere il corso de' suoi arcani pensieri.
Alla svolta d'una macchia di lentischi, che copriva largo tratto di
terreno sopra una delle frequenti insenature del fiume, si parò dinanzi
ai loro occhi un colmo di case, tutte di più cittadinesca apparenza,
con mura merlate e siepi fiorite di giardini, che fiancheggiavano la
strada maestra.
Era quello uno dei sobborghi di Babilu, braccia poderose che la città
regina stendeva all'intorno, rivi capaci in cui traboccava il soverchio
della sua vita gagliarda. Sulla vasta piazza, donde aveva principio
il sobborgo, sostava una grossa mano di cavalieri babilonesi, belli a
vedersi per le loriche e gli schinieri di cuoio, su cui svolazzavano i
lembi dei candidi mantelli; colle lancie ritte sulla staffa, gli elmi a
cono aguzzo rilucenti sul capo, le mazze ferrate pendenti all'arcione.
Intorno ad essi, uomini e donne della terra, con idrie e guastade
tra mani, mescevano agli assetati i succhi del melagrano stemperati
nell'acqua, in ciotole di argilla.
Il giovine capo si fermò nel mezzo della via; a rispettosa distanza
i seguaci; le salmerie del pari, in lungo ordine dietro a costoro. I
cavalli delle due schiere si salutarono con sbuffi e nitriti.
Alla vista dei sopravvegnenti, i babilonesi si erano tosto rimessi in
ordinanza. Uno di costoro, il comandante, notevole al balteo frangiato
d'oro, si fece innanzi a galoppo. Bared, pigliati i comandi del suo
signore, s'inoltrò alla sua volta.
— Chi è lo straniero, — dimandò il babilonese a Bared, — che cavalca
innanzi alla vostra schiera, come principe a capo delle sue genti?
— Non conosci tu il re d'Armenia, — disse Bared a lui di rimando, —
Ara, il figlio di Aràmo, della stirpe d'Aìco?
A queste parole il babilonese inchinò la fronte sulla criniera del
suo cavallo, nell'atto che volgeva a terra la punta della sua spada
ricurva.
— Bene dovevo io argomentarlo, — rispose egli, — poichè il suo volto
è pari a quello d'un Dio, e nelle sue pupille Nebo ha diffuso, come a
prediletto figliuolo, il sacro colore della vôlta celeste. —
E sceso prontamente d'arcione, si fece incontro al cavallo del re, per
tenerne, in segno di onoranza, le redini; indi soggiunse:
— Ben venga Ara il bello, il figliuolo di Aram, nel mese fortunato,
nel giorno avventuroso, alle porte di Babilu. La gran Semiramide, cui
Belo ha concessa la vittoria della spada e l'impero dello scettro sui
potenti della terra, attendeva impaziente il grazioso principe ed il
suo nobil tributo.
— Non tributo, ma dono; — rispose prontamente il re d'Armenia,
aggrottando le ciglia. — Babilonia è possente, ma la stirpe d'Aìco, più
che dalla amicizia di Nino, dalle opere sue ripete il diritto di portar
la benda di perle. Nemici da prima, e più e più volte alle prese,
furono i padri nostri coi re della vasta pianura; amici ossequenti noi,
non vassalli.
— E sia; — soggiunse l'altro arrendevole; — meglio amici ossequenti,
che sudditi impazienti di freno. Ora ti piaccia, generoso signore,
di venire alla stanza che la regina ti ha assegnata, a ristoro dalle
fatiche del viaggio, innanzi di accoglierti in Babilonia, colla pompa
che ad amico re si conviene. —
Il re d'Armenia non proferì verbo, in risposta all'ossequioso invito;
ma con un lieve cenno del capo e con un gesto cortese, diè libertà al
babilonese di risalire in arcione. Egli quindi già stava per toccare
di sprone e ripigliare il cammino; ma non gliel consentivano le
dimostrazioni cortesi degli abitanti del borgo, che s'erano accalcati
sul suo passaggio, profferendo il vin della staffa ai nuovi venuti.
Fatta audace dalle esortazioni dei più vicini, ma accesa di rossore
e tremante, una fanciulla s'era inoltrata al cospetto del giovane,
per offrirgli la tazza ospitale. Ed egli volonteroso la raccolse
dalle sue mani, vi intinse il labbro, indi la restituì, accompagnando
l'atto d'un leggiadro sorriso, mentre ella era rimasta come estatica a
contemplarlo, e la moltitudine intorno a lei andava ripetendo: Ara il
bello! invero, egli è simile a un Dio.
Per fermo, nessun nome era più meritato di quello che al giovane
re d'Armenia avea dato il suo popolo e che la fama viatrice aveva
consacrato, per tutta la gran valle dell'Eufrate e del Tigri. Giusto di
membra, agile insieme e gagliardo, appariva egli nel suo modesto arnese
di viaggiatore, sotto le pieghe del suo breve mantello svolazzante,
chiuso il petto in una tunica grigia, listata di rosso, cinto i lombi
di una fascia di lana, sotto cui si annodavano i sostegni della spada,
fedele amica al suo fianco. Biondi e riccioluti capegli uscivano in
ciocche abbondanti dagli orli di una mitra di pelliccia nera, ornata al
sommo d'una borchia di gemme e da un mobil ciuffo di penne, bellamente
incoronando un viso bianco di neve, specchio vero dell'anima, tanto,
ad ogni interno sussulto, rapidamente si tingea di vermiglio. Ampio
e prominente l'arco delle sopracciglia, dava risalto al limpido lume
degli occhi azzurri; le guancie ignude, il mento e il collo di contorni
soavi, delicati, quasi femminei, il naso profilato e diritto ad una con
la scesa del fronte, il labbro superiore adombrato di lunghe, sottili e
morbide basette, formavano su quel nobile sembiante un misto indicibile
di dolcezza e di forza.
In lui si diceva che rivivessero le meravigliose sembianze d'Aìco, il
fortissimo progenitore della sua stirpe. E le ballate degli armeni
rapsòdi, lui già celebravano destro arciero, valoroso domatore di
cavalli, guerriero animoso ed invitto, siccome il suo grande antenato.
Che più? Lui seguivano gli sguardi del popolo obbediente, lui le
acclamazioni delle pugnaci tribù, lui i sospiri delle vezzose donne
d'Armavir e delle sponde di Van. Ara il bello, Ara il prode, Ara il
prediletto, dicean le canzoni.
Dato il tempo necessario, non già all'ammirazione del popolo suburbano,
bensì alle cortesie del beveraggio, il re d'Armenia si mosse, e dopo
lui la numerosa sua cavalcata, con alto strepito di bardature, fragor
di spade nelle terse guaine, tintinnìo di frecce nei capaci turcassi,
pendenti dall'omero, insieme coi grand'archi aicàni. I cavalieri
babilonesi precedevano, in segno di onoranza, il corteo.
Già il sole era da lunga pezza calato dietro i confini del deserto
lontano, allorquando la schiera giunse finalmente alla vista d'Imgur
Bel, il vasto cerchio di mura, la cui cresta di torri nereggiava nello
spazio, poc'anzi rossastro ancora degli ultimi riflessi del giorno,
ed ora tinto in azzurro, al tacito lume degli astri. Era una veduta
fantastica, meravigliosa, solenne. Là in fondo, all'occaso, Barsìpa,
la città sacerdotale, santuario dell'arcana scienza degli Accad,
levava al cielo le smisurate sue moli. La torre delle sette luci, i
cui alti ripiani colorati avevano riflesso alla vampa del sole il nero
smagliante, il bianco, il ranciato, l'azzurro, lo scarlatto, l'argento
e l'oro, sacri alle sette sfere luminose, non offriva più allo sguardo
che un bruno ammasso foggiato a scaglioni, vera scala murata da un
popolo di giganti per dare l'assalto al cielo.
Più verso il mezzo, torreggiava la piramide a tre piani, consacrata
alle fondamenta della terra; e a' suoi piedi si stendeva la immane
città, partita in due dall'Eufrate, il cui vano trapelava da un lungo
strato di vapori diffusi. Più oltre, a manca dei riguardanti, una
maggior distesa di moltiformi edifizii, di terrazzi sovrapposti e di
torri, su cui grandeggiava un'altra gran mole, la reggia di Semiramide,
cittadella ampiamente bastionata sulla riva sinistra del fiume,
incoronata di templi, loggiati e giardini, dal cui sommo una lieta
famiglia di piante, tributo di stranie contrade, protendevano in alto
le larghe braccia frondose. La luna, apparsa in quel punto, vestiva
d'una vaporosa luce quella magica scena, che si venia lentamente
ascondendo alla vista dei cavalieri, dietro la fosca merlatura di Imgur
Bel, a mano a mano che questi s'avvicinavano al fosso.
Giunsero alla perfine in capo del ponte e videro la porta di bronzo,
spalancata per dar adito ai nuovi ospiti di Babilonia. Squillarono le
trombe di rame; scalpitarono le zampe ferrate dei cavalli sull'ampio
tavolato di cipresso; rimbombò il profondo androne, custodito da denso
stuolo d'arcieri, e il re d'Armenia entrò sotto la maestosa vôlta, al
fumoso chiarore delle faci intrise di nafta, in mezzo ai tori alati dal
sembiante umano, colossali chimere, che pareano guardarlo sospettose e
superbe, attraverso le loro pupille di smalto.
Oltrepassato l'androne, e con esso la prima cinta di mura, si offerse
alla vista dei cavalieri una larga spianata, chiusa intorno da colti
e da pascoli; indi una strada, corrente tra due filari di piante, qua
e là tagliata da vie minori, fiancheggiata da rigagnoli, acconci ad
inaffiarle nelle arsure del giorno. Folta l'alberatura ne'dintorni;
rade per contro le case; quasi tutti edifizii pubblici e alloggiamenti
di soldati, naturalmente posti tra la cinta esterna e Nivitti Bel, che
è il secondo e più ristretto baluardo della città. Di qui, per altro,
s'incominciavano a udire i soffi della poderosa vita babilonese, suoni
e rumori confusi come il ronzìo d'un immenso alveare.
Al giovine principe accadeva ciò che a tutti suole in mezzo al
frastuono d'una città non mai veduta, nel brulichìo d'una gente ignota,
che va, viene, attende a tutte le cure, a tutti i sollazzi della
vita, senza badar punto a noi, granellini di sabbia travolti dal caso
nel turbinoso suo giro. Ei si sentiva come a disagio, sopraffatto,
confuso, pieno di quella mestizia che non muove da vere cagioni, ma
che è piuttosto il frutto del turbamento e dell'incertezza. Così il
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