Santa Cecilia - 8
Quando fu al Castagneto, si chiuse nella sua camera, e per tutto quel
giorno, fino al mattino seguente, non vide nessuno; non volle cibo, nè
altro.
I contadini che gli stavano presso, lo udirono singhiozzare e
passeggiare concitato per la camera; verso sera si pose allo scrittoio,
ed essi, per tutta la notte, non udirono altro che lo stridere convulso
della penna sulla carta.
XVIII.
Alla dimane, sul mezzogiorno, il suo fittaiuolo Gerolamo venne a
cercarmi nel paesello, per dirmi che il signorino desiderava vedermi.
Corsi al Castagneto senza indugio, e lo trovai nella sua camera, sparuto
e pallido come un morto, con gli occhi rossi e i capelli rabbuffati, ma
tranquillo, o, per meglio dire, spossato.
Mi ringraziò della sollecitudine con la quale ero corso al suo invito,
e, fattomi sedere, mi raccontò tutto: come avesse speranza di essere
riamato dalla contessina; come la improvvisa venuta del giovine marchese
di Cardiana lo avesse posto in tali distrette, dalle quali aveva voluto
uscir nobilmente, mercè un colloquio col conte Emanuele.
Io già sapevo, come vi ho detto, dell'amor suo per la giovinetta; un
amore, del resto, che non era ignoto ad alcuno, tranne al conte, che
avrebbe pur dovuto essere il primo ad avvedersene. La catastrofe, che
egli mi narrò, mi commosse fortemente, sebbene non fosse a prevedersi
diversa.
— Qui, — mi disse il giovine Calisto, mettendo la mano su d'un libro
manoscritto, che era ancora aperto sullo scrittoio, — c'è tutto il mio
povero romanzo, che doveva finir così male! Ho notato tutto, dal mio
ritorno tra queste montagne fino al colloquio di ieri e alla
deliberazione che ho presa stanotte.
Egli pronunciò queste ultime parole con un'aria così cupa, che io tremai
tutto, e mi affrettai a prendergli la mano tra le mie, lasciando
trapelare l'ansietà dell'animo e il desiderio di rimproverarlo.
— Non temete, don Luigi, — soggiunse egli, sorridendo malinconicamente,
— non ho nessuna voglia di uccidermi. Le mie opinioni intorno al
suicidio saranno certamente alquanto disformi dalle vostre, imperocchè
io non nego all'uomo il diritto di levarsi la vita, quando questa gli
sia divenuta increscevole. Avrò il torto; ma la è una quistione cotesta
che non ho avuto ancor tempo nè agio a studiare per bene, e i miei
giudizi, comunque vi paiano, sono a quel punto che vi ho detto. Per
contro, se diverso è il pensare tra noi due, io convengo nella vostra
sentenza riguardo al fatto, e sono avverso al suicidio, perchè non
voglio far ridere gli stolti, nè muovere a pietà i buoni che vedono
sempre in quest'atto, o la rovina degli averi, o un amore sfortunato, o
finalmente un ramo di pazzia. Da queste tre argomentazioni non si esce,
a sentire la gente; il perchè, se uno si uccide, ha da rassegnarsi in
anticipazione ad una di queste varianti, appiastrate alla sua
riputazione, come una lapide infame nel luogo ove era edificata la casa
di qualche celebre disgraziato, compianto dagli uni, maledetto dagli
altri, sempre mal giudicato da tutti. No, don Luigi, non mi ucciderò, ve
lo giuro; non ho in animo di lasciare eredità di mestizia agli onesti,
argomento di ciarle assassine all'universo. —
Mi sentii raffidato da quelle parole; intanto egli proseguì:
— Ho divisato di andarmene da questo paese. A Torino troverò modo di
vendere il Castagneto, o pigliarvi su denari ad imprestito, e poscia me
ne andrò lontano lontano, che l'aria nol sappia neppur essa. In qualche
angolo della terra troverò pure il modo di proseguire onoratamente la
vita, o levarmene il tedio, senza disonore, o viltà. Ed ora, buon amico,
che avete compassione di me, eccovi il mio libro. Voi siete un uomo di
cuore; lo screzio delle opinioni che corre tra noi non mi ha punto
impedito di amarvi, e di cattivarmi la vostra amicizia. Eccovelo dunque,
il testimone eloquente dei miei affetti sconsolati; voi lo terrete come
un ricordo di me. Anche iersera, dopo averne sfogliate alcune pagine,
che m'ero fatto a leggere con amara voluttà, fui sul punto di
consegnarlo alle fiamme. Ma, dissi a me stesso, quella divina creatura,
di cui esso è la glorificazione quotidiana, non mi ha fatto nulla;
innocente cagione dei miei mali, essa ne avrà rammarico, se non così
forte come il mio, certo assai somigliante. Ho in quella vece deliberato
di finirlo, scrivendo la storia dolorosa di questi ultimi giorni, e di
consegnarlo a voi. Lo leggerete; vedrete i miei pensamenti, tutte quelle
sfumature di concetti che rispondono ai fatti più minuti della vita, e
vi servirà per dire un po' di bene di me, quando altri forse addenterà
la mia fama. —
Povero giovane! Così la storia del suo amore si fosse fermata a quel
punto! Così fosse egli morto davvero, come egli chiedeva con tanta
sincerità di desiderio.
Io accettai il manoscritto e gli promisi che non mi sarei scordato di
lui.
In mia presenza diede sesto a tutte le sue cose, e dopo aver preso un
po' di cibo con me, col cuore gonfio di amarezza, ma tranquillo negli
atti e nel portamento, partì alla volta di Torino, sulla via di Mondovì,
dopo aver detto ai suoi fittaiuoli che andava per un viaggio di pochi
giorni.
La gente a Dego ne fu molto meravigliata; se ne fecero i gran ragionari
per case e botteghe; e vi lascio immaginare quanta confusione di parole
e di lingue ci fosse, dopo che si era detto e creduto generalmente che
l'orso del Castagneto era stato addomesticato dalla schifiltosa
castellana di Villa Cervia, e che si dovevano tra breve far le denunzie
in chiesa.
Ma non istette molto a farsi strada la verità, sebbene sformata a
capriccio nei particolari; e una settimana dopo, tutti sapevano che la
contessina Cecilia andava sposa al giovane marchese Alberto di Cardiana,
quel damerino attillato che passava tutte le mattine a cavallo per la
via principale del paese, e (Dio mi perdoni) faceva l'occhiolino a tutte
le femmine che stavano al davanzale.
Ora mi è necessario narrarvi brevemente quello che avvenne al castello,
dopo la partenza di Calisto.
Il conte Emanuele, tutto pieno di mal umore per il colloquio avuto col
giovane, deliberò di andar tosto dalla figliuola e chiarirle il suo
divisamento sui due piedi. Ma non gli venne fatto, imperocchè la trovò
mezzo svenuta nelle braccia della sua dama di compagnia, buona donna che
non sapeva nulla, e non intendeva nulla, tranne il suo francese, il suo
inglese, i suoi ricami e i romanzi innocenti di Anna Radcliffe.
Costei attribuiva il male improvviso della contessina ad un colpo di
sole; e il conte, sebbene quella ridicola spiegazione lo facesse
borbottare un tal poco, non disse nulla di quello che egli ne pensava, e
si ritirò, lasciando alla figliuola il tempo di riaversi.
La contessina si sentiva tuttavia così debole, che fu necessario
metterla a letto, dove stette cinque giorni, con un po' di febbre e in
uno stato di fiacchezza che il medico battezzò non saprei più dirvi con
qual nome. Questo nome e la spiegazione trovata dalla dama di compagnia
servirono intanto, al conte Emanuele, per dare al suo ospite una ragione
dello stato di Cecilia o scusarne la breve assenza dalla loro compagnia.
Ma appena si fu alzata dal letto ed uscì dalla sua camera, il conte ebbe
con lei un lungo colloquio, in cui le disse dei suoi disegni, e in modo
da farle capire come egli fosse irremovibile nei propositi.
La povera fanciulla non intendeva come una figlia potesse ribellarsi
alla volontà di un padre. Pianse molto in segreto, ma, dopo aver pianto,
accettò la mano del giovane marchese.
Ottenuta quella vittoria sull'animo di lei, si mandò innanzi il negozio
con grande sollecitudine. Fu anzitutto deliberato che le nozze si
sarebbero fatte a Torino. Il marchesino partì, e quindici giorni dopo
giungeva il vecchio marchese di Cardiana in persona, a salutare la
futura sua nuora e accompagnarla insieme col conte Emanuele alla
capitale.
Nel paese di Dego si riseppe poco dopo che la contessina Cecilia era
divenuta marchesa di Cardiana e che era partita col marito alla volta di
Parigi, dove la felice coppia doveva passare l'inverno.
Il conte non rimase a Torino. Fatte le nozze, egli se ne era ritornato
al castello, dove visse solitario e malinconico; e il vecchio Giovanni
più malinconico, più aggrondato di lui.
Non andava più alla Villa Cervia che il parroco don Bernardo, a perdere,
secondo l'uso, la sua partita a scacchi. La messa nella cappella fu
abrogata di fatto, poichè non se ne parlò più, e il conte pigliò subito,
dopo il suo ritorno, il costume di andare egli stesso alla chiesa
parrocchiale.
Il castello era come deserto, e la povera gente dei dintorni rammemorava
più che mai i Caselli, associando tuttavia al ricordo dell'angelica
madre di Calisto, quello della bionda contessina, la quale (dicevano)
nel suo partire alla volta di Torino non ci aveva un'aria molto
contenta.
Non è da tacersi qui che, innanzi d'andarsene, ella aveva fatto molti
donativi a tutte quelle povere famiglie di contadini. Si seppe inoltre
che, accompagnata dal vecchio Giovanni, ella era andata fino al
Castagneto, dove non l'avevano mai veduta a giungere, e, dopo aver
chiesto amorevolmente a que' fittaiuoli della loro salute e del loro
stato, aveva regalato un bel gruzzolo di monete.
Il conte Emanuele cansava ogni occasione di nominare Calisto. Una sola
volta a don Bernardo, che sbadatamente ne aveva fatte le lodi e gliene
chiedeva novelle, rispose secco:
— L'ho visto a Torino. Era venuto a San Giovanni quando fu celebrato il
matrimonio. Io l'ho riconosciuto, ed egli se n'è andato subito via. —
Infatti Calisto era a Torino, da dove mi scrisse tre o quattro lettere.
Stava appunto per pigliare una somma di denaro ad imprestito, quando
giunsero gli sposi alla capitale. Egli volle assistere dal fondo d'una
navata alla cerimonia, e fu male per lui; poichè nel suo cuore riarse la
fiamma più viva che mai, e tutti i suoi proponimenti andarono in fumo.
Nell'ultima sua lettera egli mi annunziò che andava a Parigi. A che
farci, poichè sapeva del viaggio degli sposi a quella volta? A soffrire
maggiormente, non visto? A far soffrire altrui, se ravvisato nella
moltitudine?
Ma il cuore non ragiona; e d'altra parte il destino disponeva le fila.
XIX.
Da quel giorno in poi, Calisto non mi scrisse più verbo; nè di lui ebbi
nuova più oltre, salvo che egli doveva trovarsi in male acque, poichè un
anno dopo il podere del Castagneto era stato venduto.
Al castello si menava sempre la stessa vita monotona. Il conte Emanuele
usciva di rado, e non si faceva vedere che alla domenica nel paesello,
dove la sua aria grave e lo sguardo accigliato lo avrebbero fatto
sembrare uno spauracchio da bambini, se non fosse stato conosciuto da
tutti per quel degno gentiluomo che era. Il vecchio Giovanni che lo
seguiva, era anche lui duro come un piuolo, ed era inoltre diventato
severo e muto come una tomba.
Appena giunse l'estate, la marchesa di Cardiana venne col marito a
dimorare nel castello.
Era molto mutata da quella contessina Cecilia che avevamo conosciuta un
anno prima. Il volto aveva sereno, ma pallido, e una cert'aria
pensierosa e il tardo muovere degli occhi, che usava tener quasi sempre
socchiusi in atto di chi si raccoglie nelle sue interne meditazioni,
davano a credere che su quel biondo capo si fossero addensate già molte
procelle.
Io non so se sia vero del tutto; ma pare a me che le persone, le quali
hanno patito, s'abbia a conoscerle a prima giunta. Stanno bene come voi;
sono in carne come voi, sorridono come voi, nel giro di una amichevole e
gaia conversazione; ma un nonnulla sul loro viso, un certo modo di
volgere gli occhi senza guardar nulla, una grinza leggera e quasi
invisibile, vi mutano a un tratto quella figura. Avete dinanzi agli
occhi lo stesso volto, ma non è più la medesima fisonomia.
La grand'arte dei valenti pittori sta nel saperli cogliere, questi
momenti, e di lumeggiarne la testa con un semplice tocco di pennello. I
grami, i dozzinali, non badano a questi gravissimi nonnulla, e vi fanno
un ritratto nel quale ci sono tutti i lineamenti, spesso fedelmente
copiati, ma guasti da quelle smorfie ed atteggiamenti d'uso che
arieggiano la fotografia.
Questa sì davvero è l'ultima ragione dell'arte. Vi riproduce con quella
materiale fedeltà, che io direi piuttosto infedele, di un dato momento,
dopo avervi composte le membra e comandato il piglio che sembri più
acconcio. Cerca di farvi più bello e non vi fa più vero; perciò vediamo
persone gravi per natura, le quali sorridono sulla cartolina come
altrettanti babbei, stolidi che vi assumono un'aria di malinconia soave
da innamorare i sassi.
Poichè sono venuto a parlare della fotografia, lasciatemi dire una cosa,
la quale a voi, che volete darvi allo scrivere dei costumi del tempo
nostro, non tornerà forse inutile del tutto. Voi vedrete, anzi non
vedrete nulla, ma lo vedranno i nostri nepoti, che il tipo della società
civile del secolo nostro andrà sepolto insieme con noi. E mi spiego.
Qual è ai dì nostri la casa che non abbia i suoi vecchi ritratti a olio,
siano eredità di famiglia, o compere fatte dal rigattiere? Sono gravi
magistrati con la zazzera lunga e pendente in ordinati cincinni sulle
spalle; guerrieri con la corazza di acciaio, le brache di raso e gli
stivaloni di marocchino giallo; gentildonne incipriate con un fiorellino
tra le dita; professori con l'abito nero tagliato a coda di rondine, i
ciondoli al panciotto e una lettera in mano colla sua brava soprascritta
in mostra; tutta gente di cui non sapete il più delle volte neanche il
nome, ma che siete avvezzo a vedere, e che vi rappresentano il tipo di
uno o due secoli fa; riscontro utilissimo di una generazione con
l'altra.
A que' tempi ogni famiglia aveva i suoi ritratti e passavano all'erede
insieme col rispettivo gruzzolo di doppie. La moneta si spendeva, ma le
vecchie e venerande figure restavano; correvano di casa in casa,
passavano per mille vicende fortunose, ma restavano.
Oggi, che cosa c'è in ricambio? La fugace fotografia, merce da albo, che
costa poco e dura anche meno. I grand'uomini, poi, sono tutti in
litografia. Io li vorrei aspettar tutti fra cent'anni, e vedere che cosa
rimarrà, quale ricordo efficace della nostra generazione e del suo tipo
particolare. Passeremo come tante ombre; i futuri si ricorderanno dei
nostri vecchi, i quali affidavano la loro immagine alla tela, non già di
noi. E sarà forse il meglio!
La marchesa di Cardiana aveva portato alla dimora paterna il suo
ritratto, magnifica opera di un francese, certo Delaroche; il quale
doveva essere un pittore de' buoni, poichè nel suo dipinto ci si
vedevano tutte quelle cose che generalmente non intendono i dozzinali
dei quali vi ho detto. La rassomiglianza della giovane Cecilia col
ritratto della contessa Giulia s'era fatta più spiccata, dopo il suo
matrimonio, e il quadro del francese le aveva dato la stessa malinconia
dello sguardo, lo stesso atteggiamento sereno e severo che si notavano
nel vecchio dipinto dell'antenata.
Il nuovo quadro fu appeso nel salone, a riscontro col vecchio, e la
giovine e l'antica castellana di Villa Cervia parevano due sorelle;
argomento di continua ammirazione e di lunghe estasi per il vecchio
Giovanni, che amava tanto la sua nobile padroncina.
La marchesa non usciva quasi mai, e nelle sue rare passeggiate non si
dilungava mai dal castello. In paese non si lasciava vedere che le
domeniche alla messa. Il marito in quella vece era sempre attorno, e
quasi ogni giorno alla caccia, accompagnato da molti terrazzani, perchè
i dintorni non erano molto sicuri, a cagione di una banda di malandrini,
comparsa fin dall'inverno su quelle montagne.
Costoro erano renitenti alla leva e gente perduta, che dopo essere
sguisciati dalle branche della giustizia si davano alla macchia. Li
comandava allora un certo furfante detto il _Bruno_, che aveva ucciso
padre e madre, ferocissimo uomo, come potete argomentare.
I carabinieri, sebbene vi si mettessero con le mani e coi piedi, non
erano anche venuti a capo di snidarli. Erano avvisati che il Bruno
s'avesse a trovare in un casale; correvano, e vattel'a pesca, il Bruno
non c'era; alla dimane risapevano di un malefizio perpetrato quindici
miglia discosto. Oggi era un povero carrettiere spogliato delle sue
doppie; domani una casa messa a sacco; un altro giorno una donna rubata
alla sua famiglia, e giù di questo passo.
Nei pressi del nostro paesello la banda aveva fatto poche comparse; ma
il Bruno era venuto a ronzarvi, per pigliar lingua, ed aveva perfino
trincato coi tutori dell'ordine pubblico, i quali lo avevano tolto in
cambio di un rispettabile mercante di maiali che andasse alla fiera.
Il castello di Villa Cervia, sebbene un po' fuori di mano, non aveva
molto a temere dalle imprese di que' galantuomini. Alteramente
bastionato sui due lati, non aveva alle spalle che una ripida costiera
piantata di roveri, su per la quale uno poteva inerpicarsi benissimo, ma
senza trovare una finestra, un buco, intorno a cui lavorar di piccone.
La piazzetta non sarebbe stata neppur essa un luogo acconcio ai
tentativi di quei ribaldi, imperocchè il portone e l'uscio della
cappella erano rivestiti di ferro; e nel castello dimoravano sempre otto
o dieci persone.
— Vengano pure! — diceva il conte Emanuele, che si ricordava d'essere
stato colonnello di cavalleria. — Vengano pure e sentiranno che musica!
— Ma i malandrini non tennero l'invito, e dopo parecchi mesi di ciarle
sul conto loro, non se ne fece più motto.
Gli sposi tornarono nel novembre a Torino, dove stettero a passare
l'inverno; ma nella primavera una delle solite malattie del conte
Emanuele li richiamò al castello. Cecilia per affetto di figlia, il
marito per la formalità delle costumanze domestiche. Nei primi giorni di
estate il vecchio potè dirsi risanato; ma stava ancora male in gambe, e
non usciva che sulla piazzetta una volta al giorno. Il Cardiana invece
era sempre a caccia in quei dintorni, dove pareva che avesse trovato
selvaggina confacente ai suoi gusti svariati.
Di questo modo gli sposi vivevano assai poco insieme; anzi notavasi una
certa freddezza tra loro, la quale agli ignari poteva parer sussiego e
cerimoniale aristocratico, che s'inframmette perfino nelle relazioni
matrimoniali. Aveva il Cardiana saputo forse dell'amore di Calisto?
Mostrerei di non conoscere gli accorgimenti del buon narratore, se vi
dicessi fin d'ora sì, o no.
Cionondimeno, un tal poco di gelosia ci doveva essere sicuramente, di
quella gelosia senza ragione che nasce sovente nel cuore dei mariti, i
quali hanno molte scappatelle da farsi condonare, e tanto più sono
ingiusti quanto più essi medesimi hanno peccato.
Ho più tardi saputo che a Parigi il signor marchesino non era stato
molto esemplare nei suoi diportamenti. Di sovente lasciava la moglie
sola, per correre attorno con certe sconcie femmine, di cui quella città
abbonda, eleganti sirene per le quali ci vorrebbe altro che la cera
negli orecchi. La marchesa Cecilia non se ne dolse mai; si dava tutta
alla lettura, e quando aveva aspettato un pezzo, se ne andava nella sua
camera a coricarsi. E neppure ne aveva scritto al padre: chè forse in
cuor suo era contenta di ciò.
Ma torniamo alla Villa Cervia. Un bel giorno, mentre la famiglia era
raccolta nel salone, uno dei servi venne a dire al conte Emanuele che da
parecchie notti vedeva avvicinarsi al castello un uomo di apparenza
sospetta. Fattosi una notte a caso presso il balcone della sua camera
che guardava sulla costiera, aveva udito uno strepito come di sassi che
ruzzolavano per la china, e, messo fuori il capo a guardare, aveva
veduto al chiaror della luna un uomo che saliva su per l'erta,
aiutandosi con le mani. Costui, come fu giunto a piè del muro, si fermò
e stette un pezzo a guardare in alto; la qual cosa, a parere del servo
che lo spiava, significava che l'ignoto studiasse i luoghi, con qualche
perverso disegno. Egli non aveva voluto dir nulla, per non destare
inutili timori; ma la cosa si era ripetuta le notti seguenti, epperò
egli aveva risoluto di parlarne al conte, come infatti faceva in quel
punto.
All'udire il racconto del servitore, il conte Emanuele corse subito con
la mente ai malandrini che infestavano i dintorni, e comandò si tornasse
all'antica vigilanza, che si chiudesse per bene ogni porta ed ogni
finestra; al resto avrebbe provveduto egli.
Il marchese di Cardiana non disse nulla; soltanto si contentò di
chiedere a che ora della notte venisse l'ignoto, e avutone in risposta
che egli capitava sempre intorno al tocco dopo la mezzanotte, non
aggiunse più altro.
Poco dopo si diede in tavola, e in quella che il conte stava parlando
dei malandrini e del notturno visitatore col parroco don Bernardo, il
Cardiana bisbigliò alla moglie che gli era seduta accanto:
— Credete, signora, a tutta questa necessità di precauzioni ed
apparecchi di difesa?
— Io? — rispose meravigliata Cecilia. — Che ho da pensarne io? e perchè
mi chiedete cotesto?
— Perchè un uomo, — soggiunse il marito, — che viene tutte le notti
quassù, da quel lato ove guarda appunto una certa camera che so dir io,
mi ha più l'aria di un innamorato che di un ladro. —
La marchesa guardò suo marito con piglio severo, poi chinò gli occhi e
non rispose più altro.
— Ma lo scoverò ben io, questo ladro, o innamorato che sia! — aggiunse
il Cardiana, parlando sempre sommesso, e coi denti stretti. E ciò detto,
anch'egli si tacque.
Giovanni, che stava ad una rispettosa distanza, dietro la sedia della
sua venerata padroncina, udì questo breve dialogo, il quale diceva pure
tante cose, e tante altre ne spiegava, intorno alle quali il povero
servitore da lunga pezza si stillava il cervello.
Egli infatti aveva notato la freddezza del marchese rispetto alla
signora, la tranquilla noncuranza di lei quando egli era presente, la
sua mestizia consueta, e sopra tutto la pallidezza del suo viso. Nè
vuolsi dimenticare che Giovanni sapeva altre cose del passato, di quel
tempo avventuroso in cui gli era parso di trapelare una certa simpatia
della giovinetta per il bello e malinconico signorino del Castagneto.
Aiutato da quella acutezza di veduta che dà a certa gente l'affetto, il
vecchio servitore intese issofatto che c'era un guaio là sotto e che
egli doveva vegliare; che il marchese di Cardiana sarebbe uscito quella
notte medesima e che egli doveva seguirlo.
Il suo conto fu presto fatto. Alle undici del pomeriggio egli non s'era
per anche coricato, e girandolava nel cortile. Il marchese di Cardiana
non stette molto a scendere dal suo appartamento, vestito di tutto
punto, con due pistole alla cintola e il suo consueto scudiscio nel
pugno.
Parve meravigliarsi della presenza di Giovanni a piè delle scale, e gli
chiese che cosa facesse.
— Veglio, signor marchese. Il discorso di quest'oggi mi ha messo in
pensiero. Anche lei (scusi, illustrissimo) si dà questo fastidio?...
— Oh no! io debbo uscire. Aprimi il portone, poichè ti trovo qui, e
dammi la chiave. Riaprirò io stesso, ritornando. —
Il buon famiglio obbedì, senza parlare, poichè a lui pure premeva molto
di uscire. Quando il Cardiana fu partito, egli fece la mostra di
chiudere il portone e lo riaperse tosto. Dopo alcuni minuti anch'egli
era fuori, e in quella che il marchese aveva voltato a destra, egli
voltò a sinistra, rasentando il bastione, per andare sulla costiera,
alle spalle del castello.
XX.
Giovanni, tuttochè ci avesse i suoi sessanta suonati, era uomo di tempra
gagliarda e d'animo prode, come quegli che si ricordava anco lui
d'essere stato soldato, sotto il comando del conte Emanuele. Perciò
quella gita notturna incontro ad un ignoto pericolo non gli metteva
paura, sebbene egli fosse inerme. D'altra parte le mezze parole del
Cardiana alla moglie erano penetrate nell'animo del vecchio servitore
come una meteora luminosa nel buio della notte, e gli davano ben altro a
considerare che il rischio della vita.
Andò rasente al bastione, e, come fu giunto presso al torrione che era
nel fondo e formava uno degli angoli di quell'edifizio quadrato,
cominciò a salire con passo guardingo la costiera dei roveri, la quale
girava alle spalle del castello, appigliandosi ad ogni albero, ad ogni
cespuglio che gli venisse sotto le mani.
Gli alti muraglioni, interrompendo i raggi della luna, gittavano una
grand'ombra su quella boscaglia, e a lui davano agio d'inoltrarsi senza
tema di essere veduto. Ma come giunse a pari del lato posteriore
dell'edifizio, gli convenne andare più lento e curvo della persona,
perchè la costiera era tutta rischiarata e soltanto quegli alberelli lo
potevano nascondere un tratto.
Dove il rovereto cominciava a diradarsi, Giovanni si fermò addirittura e
stette ad origliare; ma senza che gli venisse fatto di udire il più
lieve rumore. Dov'era il Cardiana? Certamente egli era appostato
dall'altra banda, guardingo ed attento al pari di lui, sebbene con altri
propositi.
Giovanni non si muoveva, non fiatava nemmeno, pari ad una di quelle
sentinelle morte che stanno all'avamposto, di rincontro al nemico.
Forse mezz'ora era durato quell'aspettare, quando gli parve di sentir
muovere le frasche e quel noto strepito di rami che si piegano al
passare di un uomo, o di un animale fra mezzo a loro.
Tese allora lo sguardo e l'orecchio. Un uomo appunto saliva per la
costiera, poco lontano da lui.
L'ignoto, che teneva una via diagonale su per l'erta, non si addiede
della presenza di Giovanni, il quale per altro s'era vieppiù fatto
piccino nell'ombra di un cespuglio, e lo stava guardando, ma senza poter
conoscere i lineamenti del suo viso, che non guardava in alto, ed era
per giunta ombreggiato dalla falda di un largo cappello tra il
contadinesco e il cittadino.
Quando fu giunto a piè del muro, lo sconosciuto si fermò, e, appoggiata
la persona al tronco di un albero, stette a guardare in alto, verso il
torrione di destra, cioè dalla parte opposta a quella dov'era il vecchio
famiglio.
In quella parte del muro, sulla quale teneva fisi gli occhi lo
sconosciuto, si apriva una finestra della camera della marchesa Cecilia.
Era la camera nella quale aveva vissuto fanciulla, e che ella amava
tenere per sè; e mentre quella del marito guardava a mezzogiorno, la
sua, che veniva dopo altre due o tre stanze, era appunto sull'angolo, ed
aveva una finestra a mezzogiorno, l'altra alle spalle del castello a
ponente.
Pareva che l'ignoto sapesse benissimo queste cose, poichè era quello il
termine e lo scopo della sua faticosa passeggiata notturna. Il silenzio
era perfetto per la campagna, e non si udiva che un lieve stormir di
fronde allo spirar della brezza e il monotono canto del grillo, nascosto
fra l'eriche della collina.
Questa scena muta durò un bel tratto.
— Che fa il marchese di Cardiana? — pensava intanto il servitore. — E
come va che non esce dal suo nascondiglio? —
Ma il Cardiana non era uscito ancora per le sue buone ragioni. Egli
aspettava, per vedere se la finestra così attentamente guardata dallo
sconosciuto si aprisse. Ma la sua aspettazione non ebbe frutto, e ben se
ne avvide, al muoversi che fece quell'altro, per ritornarsene in giù.
Allora sbucò fuori da un cespuglio, per contendergli il passo.
Giovanni, dal luogo dove stava rannicchiato, vide quell'atto repentino e
tremò tutto quanto, sebbene immaginasse che quello era il Cardiana, e ne
aspettasse la comparsa. Ma egli è pur noto che i più animosi non sanno
custodirsi da un certo sgomento, allorchè sotto i loro occhi incomincia
una lotta.
— Che fate voi qui? — gridò il marchese, balzando al cospetto dello
sconosciuto, con lo scudiscio nel pugno e l'altra mano alla cintola.
L'altro si fermò, e diede addietro col capo, in atto di meraviglia;
indi, dopo una breve pausa, rispose:
— Quel che mi pare. La campagna è libera per tutti, mi sembra.
— No; — soggiunse il marchese; — voi siete in casa mia.
— Lo dite troppo presto, signor marchese Alberto di Cardiana. Aspettate
giorno, fino al mattino seguente, non vide nessuno; non volle cibo, nè
altro.
I contadini che gli stavano presso, lo udirono singhiozzare e
passeggiare concitato per la camera; verso sera si pose allo scrittoio,
ed essi, per tutta la notte, non udirono altro che lo stridere convulso
della penna sulla carta.
XVIII.
Alla dimane, sul mezzogiorno, il suo fittaiuolo Gerolamo venne a
cercarmi nel paesello, per dirmi che il signorino desiderava vedermi.
Corsi al Castagneto senza indugio, e lo trovai nella sua camera, sparuto
e pallido come un morto, con gli occhi rossi e i capelli rabbuffati, ma
tranquillo, o, per meglio dire, spossato.
Mi ringraziò della sollecitudine con la quale ero corso al suo invito,
e, fattomi sedere, mi raccontò tutto: come avesse speranza di essere
riamato dalla contessina; come la improvvisa venuta del giovine marchese
di Cardiana lo avesse posto in tali distrette, dalle quali aveva voluto
uscir nobilmente, mercè un colloquio col conte Emanuele.
Io già sapevo, come vi ho detto, dell'amor suo per la giovinetta; un
amore, del resto, che non era ignoto ad alcuno, tranne al conte, che
avrebbe pur dovuto essere il primo ad avvedersene. La catastrofe, che
egli mi narrò, mi commosse fortemente, sebbene non fosse a prevedersi
diversa.
— Qui, — mi disse il giovine Calisto, mettendo la mano su d'un libro
manoscritto, che era ancora aperto sullo scrittoio, — c'è tutto il mio
povero romanzo, che doveva finir così male! Ho notato tutto, dal mio
ritorno tra queste montagne fino al colloquio di ieri e alla
deliberazione che ho presa stanotte.
Egli pronunciò queste ultime parole con un'aria così cupa, che io tremai
tutto, e mi affrettai a prendergli la mano tra le mie, lasciando
trapelare l'ansietà dell'animo e il desiderio di rimproverarlo.
— Non temete, don Luigi, — soggiunse egli, sorridendo malinconicamente,
— non ho nessuna voglia di uccidermi. Le mie opinioni intorno al
suicidio saranno certamente alquanto disformi dalle vostre, imperocchè
io non nego all'uomo il diritto di levarsi la vita, quando questa gli
sia divenuta increscevole. Avrò il torto; ma la è una quistione cotesta
che non ho avuto ancor tempo nè agio a studiare per bene, e i miei
giudizi, comunque vi paiano, sono a quel punto che vi ho detto. Per
contro, se diverso è il pensare tra noi due, io convengo nella vostra
sentenza riguardo al fatto, e sono avverso al suicidio, perchè non
voglio far ridere gli stolti, nè muovere a pietà i buoni che vedono
sempre in quest'atto, o la rovina degli averi, o un amore sfortunato, o
finalmente un ramo di pazzia. Da queste tre argomentazioni non si esce,
a sentire la gente; il perchè, se uno si uccide, ha da rassegnarsi in
anticipazione ad una di queste varianti, appiastrate alla sua
riputazione, come una lapide infame nel luogo ove era edificata la casa
di qualche celebre disgraziato, compianto dagli uni, maledetto dagli
altri, sempre mal giudicato da tutti. No, don Luigi, non mi ucciderò, ve
lo giuro; non ho in animo di lasciare eredità di mestizia agli onesti,
argomento di ciarle assassine all'universo. —
Mi sentii raffidato da quelle parole; intanto egli proseguì:
— Ho divisato di andarmene da questo paese. A Torino troverò modo di
vendere il Castagneto, o pigliarvi su denari ad imprestito, e poscia me
ne andrò lontano lontano, che l'aria nol sappia neppur essa. In qualche
angolo della terra troverò pure il modo di proseguire onoratamente la
vita, o levarmene il tedio, senza disonore, o viltà. Ed ora, buon amico,
che avete compassione di me, eccovi il mio libro. Voi siete un uomo di
cuore; lo screzio delle opinioni che corre tra noi non mi ha punto
impedito di amarvi, e di cattivarmi la vostra amicizia. Eccovelo dunque,
il testimone eloquente dei miei affetti sconsolati; voi lo terrete come
un ricordo di me. Anche iersera, dopo averne sfogliate alcune pagine,
che m'ero fatto a leggere con amara voluttà, fui sul punto di
consegnarlo alle fiamme. Ma, dissi a me stesso, quella divina creatura,
di cui esso è la glorificazione quotidiana, non mi ha fatto nulla;
innocente cagione dei miei mali, essa ne avrà rammarico, se non così
forte come il mio, certo assai somigliante. Ho in quella vece deliberato
di finirlo, scrivendo la storia dolorosa di questi ultimi giorni, e di
consegnarlo a voi. Lo leggerete; vedrete i miei pensamenti, tutte quelle
sfumature di concetti che rispondono ai fatti più minuti della vita, e
vi servirà per dire un po' di bene di me, quando altri forse addenterà
la mia fama. —
Povero giovane! Così la storia del suo amore si fosse fermata a quel
punto! Così fosse egli morto davvero, come egli chiedeva con tanta
sincerità di desiderio.
Io accettai il manoscritto e gli promisi che non mi sarei scordato di
lui.
In mia presenza diede sesto a tutte le sue cose, e dopo aver preso un
po' di cibo con me, col cuore gonfio di amarezza, ma tranquillo negli
atti e nel portamento, partì alla volta di Torino, sulla via di Mondovì,
dopo aver detto ai suoi fittaiuoli che andava per un viaggio di pochi
giorni.
La gente a Dego ne fu molto meravigliata; se ne fecero i gran ragionari
per case e botteghe; e vi lascio immaginare quanta confusione di parole
e di lingue ci fosse, dopo che si era detto e creduto generalmente che
l'orso del Castagneto era stato addomesticato dalla schifiltosa
castellana di Villa Cervia, e che si dovevano tra breve far le denunzie
in chiesa.
Ma non istette molto a farsi strada la verità, sebbene sformata a
capriccio nei particolari; e una settimana dopo, tutti sapevano che la
contessina Cecilia andava sposa al giovane marchese Alberto di Cardiana,
quel damerino attillato che passava tutte le mattine a cavallo per la
via principale del paese, e (Dio mi perdoni) faceva l'occhiolino a tutte
le femmine che stavano al davanzale.
Ora mi è necessario narrarvi brevemente quello che avvenne al castello,
dopo la partenza di Calisto.
Il conte Emanuele, tutto pieno di mal umore per il colloquio avuto col
giovane, deliberò di andar tosto dalla figliuola e chiarirle il suo
divisamento sui due piedi. Ma non gli venne fatto, imperocchè la trovò
mezzo svenuta nelle braccia della sua dama di compagnia, buona donna che
non sapeva nulla, e non intendeva nulla, tranne il suo francese, il suo
inglese, i suoi ricami e i romanzi innocenti di Anna Radcliffe.
Costei attribuiva il male improvviso della contessina ad un colpo di
sole; e il conte, sebbene quella ridicola spiegazione lo facesse
borbottare un tal poco, non disse nulla di quello che egli ne pensava, e
si ritirò, lasciando alla figliuola il tempo di riaversi.
La contessina si sentiva tuttavia così debole, che fu necessario
metterla a letto, dove stette cinque giorni, con un po' di febbre e in
uno stato di fiacchezza che il medico battezzò non saprei più dirvi con
qual nome. Questo nome e la spiegazione trovata dalla dama di compagnia
servirono intanto, al conte Emanuele, per dare al suo ospite una ragione
dello stato di Cecilia o scusarne la breve assenza dalla loro compagnia.
Ma appena si fu alzata dal letto ed uscì dalla sua camera, il conte ebbe
con lei un lungo colloquio, in cui le disse dei suoi disegni, e in modo
da farle capire come egli fosse irremovibile nei propositi.
La povera fanciulla non intendeva come una figlia potesse ribellarsi
alla volontà di un padre. Pianse molto in segreto, ma, dopo aver pianto,
accettò la mano del giovane marchese.
Ottenuta quella vittoria sull'animo di lei, si mandò innanzi il negozio
con grande sollecitudine. Fu anzitutto deliberato che le nozze si
sarebbero fatte a Torino. Il marchesino partì, e quindici giorni dopo
giungeva il vecchio marchese di Cardiana in persona, a salutare la
futura sua nuora e accompagnarla insieme col conte Emanuele alla
capitale.
Nel paese di Dego si riseppe poco dopo che la contessina Cecilia era
divenuta marchesa di Cardiana e che era partita col marito alla volta di
Parigi, dove la felice coppia doveva passare l'inverno.
Il conte non rimase a Torino. Fatte le nozze, egli se ne era ritornato
al castello, dove visse solitario e malinconico; e il vecchio Giovanni
più malinconico, più aggrondato di lui.
Non andava più alla Villa Cervia che il parroco don Bernardo, a perdere,
secondo l'uso, la sua partita a scacchi. La messa nella cappella fu
abrogata di fatto, poichè non se ne parlò più, e il conte pigliò subito,
dopo il suo ritorno, il costume di andare egli stesso alla chiesa
parrocchiale.
Il castello era come deserto, e la povera gente dei dintorni rammemorava
più che mai i Caselli, associando tuttavia al ricordo dell'angelica
madre di Calisto, quello della bionda contessina, la quale (dicevano)
nel suo partire alla volta di Torino non ci aveva un'aria molto
contenta.
Non è da tacersi qui che, innanzi d'andarsene, ella aveva fatto molti
donativi a tutte quelle povere famiglie di contadini. Si seppe inoltre
che, accompagnata dal vecchio Giovanni, ella era andata fino al
Castagneto, dove non l'avevano mai veduta a giungere, e, dopo aver
chiesto amorevolmente a que' fittaiuoli della loro salute e del loro
stato, aveva regalato un bel gruzzolo di monete.
Il conte Emanuele cansava ogni occasione di nominare Calisto. Una sola
volta a don Bernardo, che sbadatamente ne aveva fatte le lodi e gliene
chiedeva novelle, rispose secco:
— L'ho visto a Torino. Era venuto a San Giovanni quando fu celebrato il
matrimonio. Io l'ho riconosciuto, ed egli se n'è andato subito via. —
Infatti Calisto era a Torino, da dove mi scrisse tre o quattro lettere.
Stava appunto per pigliare una somma di denaro ad imprestito, quando
giunsero gli sposi alla capitale. Egli volle assistere dal fondo d'una
navata alla cerimonia, e fu male per lui; poichè nel suo cuore riarse la
fiamma più viva che mai, e tutti i suoi proponimenti andarono in fumo.
Nell'ultima sua lettera egli mi annunziò che andava a Parigi. A che
farci, poichè sapeva del viaggio degli sposi a quella volta? A soffrire
maggiormente, non visto? A far soffrire altrui, se ravvisato nella
moltitudine?
Ma il cuore non ragiona; e d'altra parte il destino disponeva le fila.
XIX.
Da quel giorno in poi, Calisto non mi scrisse più verbo; nè di lui ebbi
nuova più oltre, salvo che egli doveva trovarsi in male acque, poichè un
anno dopo il podere del Castagneto era stato venduto.
Al castello si menava sempre la stessa vita monotona. Il conte Emanuele
usciva di rado, e non si faceva vedere che alla domenica nel paesello,
dove la sua aria grave e lo sguardo accigliato lo avrebbero fatto
sembrare uno spauracchio da bambini, se non fosse stato conosciuto da
tutti per quel degno gentiluomo che era. Il vecchio Giovanni che lo
seguiva, era anche lui duro come un piuolo, ed era inoltre diventato
severo e muto come una tomba.
Appena giunse l'estate, la marchesa di Cardiana venne col marito a
dimorare nel castello.
Era molto mutata da quella contessina Cecilia che avevamo conosciuta un
anno prima. Il volto aveva sereno, ma pallido, e una cert'aria
pensierosa e il tardo muovere degli occhi, che usava tener quasi sempre
socchiusi in atto di chi si raccoglie nelle sue interne meditazioni,
davano a credere che su quel biondo capo si fossero addensate già molte
procelle.
Io non so se sia vero del tutto; ma pare a me che le persone, le quali
hanno patito, s'abbia a conoscerle a prima giunta. Stanno bene come voi;
sono in carne come voi, sorridono come voi, nel giro di una amichevole e
gaia conversazione; ma un nonnulla sul loro viso, un certo modo di
volgere gli occhi senza guardar nulla, una grinza leggera e quasi
invisibile, vi mutano a un tratto quella figura. Avete dinanzi agli
occhi lo stesso volto, ma non è più la medesima fisonomia.
La grand'arte dei valenti pittori sta nel saperli cogliere, questi
momenti, e di lumeggiarne la testa con un semplice tocco di pennello. I
grami, i dozzinali, non badano a questi gravissimi nonnulla, e vi fanno
un ritratto nel quale ci sono tutti i lineamenti, spesso fedelmente
copiati, ma guasti da quelle smorfie ed atteggiamenti d'uso che
arieggiano la fotografia.
Questa sì davvero è l'ultima ragione dell'arte. Vi riproduce con quella
materiale fedeltà, che io direi piuttosto infedele, di un dato momento,
dopo avervi composte le membra e comandato il piglio che sembri più
acconcio. Cerca di farvi più bello e non vi fa più vero; perciò vediamo
persone gravi per natura, le quali sorridono sulla cartolina come
altrettanti babbei, stolidi che vi assumono un'aria di malinconia soave
da innamorare i sassi.
Poichè sono venuto a parlare della fotografia, lasciatemi dire una cosa,
la quale a voi, che volete darvi allo scrivere dei costumi del tempo
nostro, non tornerà forse inutile del tutto. Voi vedrete, anzi non
vedrete nulla, ma lo vedranno i nostri nepoti, che il tipo della società
civile del secolo nostro andrà sepolto insieme con noi. E mi spiego.
Qual è ai dì nostri la casa che non abbia i suoi vecchi ritratti a olio,
siano eredità di famiglia, o compere fatte dal rigattiere? Sono gravi
magistrati con la zazzera lunga e pendente in ordinati cincinni sulle
spalle; guerrieri con la corazza di acciaio, le brache di raso e gli
stivaloni di marocchino giallo; gentildonne incipriate con un fiorellino
tra le dita; professori con l'abito nero tagliato a coda di rondine, i
ciondoli al panciotto e una lettera in mano colla sua brava soprascritta
in mostra; tutta gente di cui non sapete il più delle volte neanche il
nome, ma che siete avvezzo a vedere, e che vi rappresentano il tipo di
uno o due secoli fa; riscontro utilissimo di una generazione con
l'altra.
A que' tempi ogni famiglia aveva i suoi ritratti e passavano all'erede
insieme col rispettivo gruzzolo di doppie. La moneta si spendeva, ma le
vecchie e venerande figure restavano; correvano di casa in casa,
passavano per mille vicende fortunose, ma restavano.
Oggi, che cosa c'è in ricambio? La fugace fotografia, merce da albo, che
costa poco e dura anche meno. I grand'uomini, poi, sono tutti in
litografia. Io li vorrei aspettar tutti fra cent'anni, e vedere che cosa
rimarrà, quale ricordo efficace della nostra generazione e del suo tipo
particolare. Passeremo come tante ombre; i futuri si ricorderanno dei
nostri vecchi, i quali affidavano la loro immagine alla tela, non già di
noi. E sarà forse il meglio!
La marchesa di Cardiana aveva portato alla dimora paterna il suo
ritratto, magnifica opera di un francese, certo Delaroche; il quale
doveva essere un pittore de' buoni, poichè nel suo dipinto ci si
vedevano tutte quelle cose che generalmente non intendono i dozzinali
dei quali vi ho detto. La rassomiglianza della giovane Cecilia col
ritratto della contessa Giulia s'era fatta più spiccata, dopo il suo
matrimonio, e il quadro del francese le aveva dato la stessa malinconia
dello sguardo, lo stesso atteggiamento sereno e severo che si notavano
nel vecchio dipinto dell'antenata.
Il nuovo quadro fu appeso nel salone, a riscontro col vecchio, e la
giovine e l'antica castellana di Villa Cervia parevano due sorelle;
argomento di continua ammirazione e di lunghe estasi per il vecchio
Giovanni, che amava tanto la sua nobile padroncina.
La marchesa non usciva quasi mai, e nelle sue rare passeggiate non si
dilungava mai dal castello. In paese non si lasciava vedere che le
domeniche alla messa. Il marito in quella vece era sempre attorno, e
quasi ogni giorno alla caccia, accompagnato da molti terrazzani, perchè
i dintorni non erano molto sicuri, a cagione di una banda di malandrini,
comparsa fin dall'inverno su quelle montagne.
Costoro erano renitenti alla leva e gente perduta, che dopo essere
sguisciati dalle branche della giustizia si davano alla macchia. Li
comandava allora un certo furfante detto il _Bruno_, che aveva ucciso
padre e madre, ferocissimo uomo, come potete argomentare.
I carabinieri, sebbene vi si mettessero con le mani e coi piedi, non
erano anche venuti a capo di snidarli. Erano avvisati che il Bruno
s'avesse a trovare in un casale; correvano, e vattel'a pesca, il Bruno
non c'era; alla dimane risapevano di un malefizio perpetrato quindici
miglia discosto. Oggi era un povero carrettiere spogliato delle sue
doppie; domani una casa messa a sacco; un altro giorno una donna rubata
alla sua famiglia, e giù di questo passo.
Nei pressi del nostro paesello la banda aveva fatto poche comparse; ma
il Bruno era venuto a ronzarvi, per pigliar lingua, ed aveva perfino
trincato coi tutori dell'ordine pubblico, i quali lo avevano tolto in
cambio di un rispettabile mercante di maiali che andasse alla fiera.
Il castello di Villa Cervia, sebbene un po' fuori di mano, non aveva
molto a temere dalle imprese di que' galantuomini. Alteramente
bastionato sui due lati, non aveva alle spalle che una ripida costiera
piantata di roveri, su per la quale uno poteva inerpicarsi benissimo, ma
senza trovare una finestra, un buco, intorno a cui lavorar di piccone.
La piazzetta non sarebbe stata neppur essa un luogo acconcio ai
tentativi di quei ribaldi, imperocchè il portone e l'uscio della
cappella erano rivestiti di ferro; e nel castello dimoravano sempre otto
o dieci persone.
— Vengano pure! — diceva il conte Emanuele, che si ricordava d'essere
stato colonnello di cavalleria. — Vengano pure e sentiranno che musica!
— Ma i malandrini non tennero l'invito, e dopo parecchi mesi di ciarle
sul conto loro, non se ne fece più motto.
Gli sposi tornarono nel novembre a Torino, dove stettero a passare
l'inverno; ma nella primavera una delle solite malattie del conte
Emanuele li richiamò al castello. Cecilia per affetto di figlia, il
marito per la formalità delle costumanze domestiche. Nei primi giorni di
estate il vecchio potè dirsi risanato; ma stava ancora male in gambe, e
non usciva che sulla piazzetta una volta al giorno. Il Cardiana invece
era sempre a caccia in quei dintorni, dove pareva che avesse trovato
selvaggina confacente ai suoi gusti svariati.
Di questo modo gli sposi vivevano assai poco insieme; anzi notavasi una
certa freddezza tra loro, la quale agli ignari poteva parer sussiego e
cerimoniale aristocratico, che s'inframmette perfino nelle relazioni
matrimoniali. Aveva il Cardiana saputo forse dell'amore di Calisto?
Mostrerei di non conoscere gli accorgimenti del buon narratore, se vi
dicessi fin d'ora sì, o no.
Cionondimeno, un tal poco di gelosia ci doveva essere sicuramente, di
quella gelosia senza ragione che nasce sovente nel cuore dei mariti, i
quali hanno molte scappatelle da farsi condonare, e tanto più sono
ingiusti quanto più essi medesimi hanno peccato.
Ho più tardi saputo che a Parigi il signor marchesino non era stato
molto esemplare nei suoi diportamenti. Di sovente lasciava la moglie
sola, per correre attorno con certe sconcie femmine, di cui quella città
abbonda, eleganti sirene per le quali ci vorrebbe altro che la cera
negli orecchi. La marchesa Cecilia non se ne dolse mai; si dava tutta
alla lettura, e quando aveva aspettato un pezzo, se ne andava nella sua
camera a coricarsi. E neppure ne aveva scritto al padre: chè forse in
cuor suo era contenta di ciò.
Ma torniamo alla Villa Cervia. Un bel giorno, mentre la famiglia era
raccolta nel salone, uno dei servi venne a dire al conte Emanuele che da
parecchie notti vedeva avvicinarsi al castello un uomo di apparenza
sospetta. Fattosi una notte a caso presso il balcone della sua camera
che guardava sulla costiera, aveva udito uno strepito come di sassi che
ruzzolavano per la china, e, messo fuori il capo a guardare, aveva
veduto al chiaror della luna un uomo che saliva su per l'erta,
aiutandosi con le mani. Costui, come fu giunto a piè del muro, si fermò
e stette un pezzo a guardare in alto; la qual cosa, a parere del servo
che lo spiava, significava che l'ignoto studiasse i luoghi, con qualche
perverso disegno. Egli non aveva voluto dir nulla, per non destare
inutili timori; ma la cosa si era ripetuta le notti seguenti, epperò
egli aveva risoluto di parlarne al conte, come infatti faceva in quel
punto.
All'udire il racconto del servitore, il conte Emanuele corse subito con
la mente ai malandrini che infestavano i dintorni, e comandò si tornasse
all'antica vigilanza, che si chiudesse per bene ogni porta ed ogni
finestra; al resto avrebbe provveduto egli.
Il marchese di Cardiana non disse nulla; soltanto si contentò di
chiedere a che ora della notte venisse l'ignoto, e avutone in risposta
che egli capitava sempre intorno al tocco dopo la mezzanotte, non
aggiunse più altro.
Poco dopo si diede in tavola, e in quella che il conte stava parlando
dei malandrini e del notturno visitatore col parroco don Bernardo, il
Cardiana bisbigliò alla moglie che gli era seduta accanto:
— Credete, signora, a tutta questa necessità di precauzioni ed
apparecchi di difesa?
— Io? — rispose meravigliata Cecilia. — Che ho da pensarne io? e perchè
mi chiedete cotesto?
— Perchè un uomo, — soggiunse il marito, — che viene tutte le notti
quassù, da quel lato ove guarda appunto una certa camera che so dir io,
mi ha più l'aria di un innamorato che di un ladro. —
La marchesa guardò suo marito con piglio severo, poi chinò gli occhi e
non rispose più altro.
— Ma lo scoverò ben io, questo ladro, o innamorato che sia! — aggiunse
il Cardiana, parlando sempre sommesso, e coi denti stretti. E ciò detto,
anch'egli si tacque.
Giovanni, che stava ad una rispettosa distanza, dietro la sedia della
sua venerata padroncina, udì questo breve dialogo, il quale diceva pure
tante cose, e tante altre ne spiegava, intorno alle quali il povero
servitore da lunga pezza si stillava il cervello.
Egli infatti aveva notato la freddezza del marchese rispetto alla
signora, la tranquilla noncuranza di lei quando egli era presente, la
sua mestizia consueta, e sopra tutto la pallidezza del suo viso. Nè
vuolsi dimenticare che Giovanni sapeva altre cose del passato, di quel
tempo avventuroso in cui gli era parso di trapelare una certa simpatia
della giovinetta per il bello e malinconico signorino del Castagneto.
Aiutato da quella acutezza di veduta che dà a certa gente l'affetto, il
vecchio servitore intese issofatto che c'era un guaio là sotto e che
egli doveva vegliare; che il marchese di Cardiana sarebbe uscito quella
notte medesima e che egli doveva seguirlo.
Il suo conto fu presto fatto. Alle undici del pomeriggio egli non s'era
per anche coricato, e girandolava nel cortile. Il marchese di Cardiana
non stette molto a scendere dal suo appartamento, vestito di tutto
punto, con due pistole alla cintola e il suo consueto scudiscio nel
pugno.
Parve meravigliarsi della presenza di Giovanni a piè delle scale, e gli
chiese che cosa facesse.
— Veglio, signor marchese. Il discorso di quest'oggi mi ha messo in
pensiero. Anche lei (scusi, illustrissimo) si dà questo fastidio?...
— Oh no! io debbo uscire. Aprimi il portone, poichè ti trovo qui, e
dammi la chiave. Riaprirò io stesso, ritornando. —
Il buon famiglio obbedì, senza parlare, poichè a lui pure premeva molto
di uscire. Quando il Cardiana fu partito, egli fece la mostra di
chiudere il portone e lo riaperse tosto. Dopo alcuni minuti anch'egli
era fuori, e in quella che il marchese aveva voltato a destra, egli
voltò a sinistra, rasentando il bastione, per andare sulla costiera,
alle spalle del castello.
XX.
Giovanni, tuttochè ci avesse i suoi sessanta suonati, era uomo di tempra
gagliarda e d'animo prode, come quegli che si ricordava anco lui
d'essere stato soldato, sotto il comando del conte Emanuele. Perciò
quella gita notturna incontro ad un ignoto pericolo non gli metteva
paura, sebbene egli fosse inerme. D'altra parte le mezze parole del
Cardiana alla moglie erano penetrate nell'animo del vecchio servitore
come una meteora luminosa nel buio della notte, e gli davano ben altro a
considerare che il rischio della vita.
Andò rasente al bastione, e, come fu giunto presso al torrione che era
nel fondo e formava uno degli angoli di quell'edifizio quadrato,
cominciò a salire con passo guardingo la costiera dei roveri, la quale
girava alle spalle del castello, appigliandosi ad ogni albero, ad ogni
cespuglio che gli venisse sotto le mani.
Gli alti muraglioni, interrompendo i raggi della luna, gittavano una
grand'ombra su quella boscaglia, e a lui davano agio d'inoltrarsi senza
tema di essere veduto. Ma come giunse a pari del lato posteriore
dell'edifizio, gli convenne andare più lento e curvo della persona,
perchè la costiera era tutta rischiarata e soltanto quegli alberelli lo
potevano nascondere un tratto.
Dove il rovereto cominciava a diradarsi, Giovanni si fermò addirittura e
stette ad origliare; ma senza che gli venisse fatto di udire il più
lieve rumore. Dov'era il Cardiana? Certamente egli era appostato
dall'altra banda, guardingo ed attento al pari di lui, sebbene con altri
propositi.
Giovanni non si muoveva, non fiatava nemmeno, pari ad una di quelle
sentinelle morte che stanno all'avamposto, di rincontro al nemico.
Forse mezz'ora era durato quell'aspettare, quando gli parve di sentir
muovere le frasche e quel noto strepito di rami che si piegano al
passare di un uomo, o di un animale fra mezzo a loro.
Tese allora lo sguardo e l'orecchio. Un uomo appunto saliva per la
costiera, poco lontano da lui.
L'ignoto, che teneva una via diagonale su per l'erta, non si addiede
della presenza di Giovanni, il quale per altro s'era vieppiù fatto
piccino nell'ombra di un cespuglio, e lo stava guardando, ma senza poter
conoscere i lineamenti del suo viso, che non guardava in alto, ed era
per giunta ombreggiato dalla falda di un largo cappello tra il
contadinesco e il cittadino.
Quando fu giunto a piè del muro, lo sconosciuto si fermò, e, appoggiata
la persona al tronco di un albero, stette a guardare in alto, verso il
torrione di destra, cioè dalla parte opposta a quella dov'era il vecchio
famiglio.
In quella parte del muro, sulla quale teneva fisi gli occhi lo
sconosciuto, si apriva una finestra della camera della marchesa Cecilia.
Era la camera nella quale aveva vissuto fanciulla, e che ella amava
tenere per sè; e mentre quella del marito guardava a mezzogiorno, la
sua, che veniva dopo altre due o tre stanze, era appunto sull'angolo, ed
aveva una finestra a mezzogiorno, l'altra alle spalle del castello a
ponente.
Pareva che l'ignoto sapesse benissimo queste cose, poichè era quello il
termine e lo scopo della sua faticosa passeggiata notturna. Il silenzio
era perfetto per la campagna, e non si udiva che un lieve stormir di
fronde allo spirar della brezza e il monotono canto del grillo, nascosto
fra l'eriche della collina.
Questa scena muta durò un bel tratto.
— Che fa il marchese di Cardiana? — pensava intanto il servitore. — E
come va che non esce dal suo nascondiglio? —
Ma il Cardiana non era uscito ancora per le sue buone ragioni. Egli
aspettava, per vedere se la finestra così attentamente guardata dallo
sconosciuto si aprisse. Ma la sua aspettazione non ebbe frutto, e ben se
ne avvide, al muoversi che fece quell'altro, per ritornarsene in giù.
Allora sbucò fuori da un cespuglio, per contendergli il passo.
Giovanni, dal luogo dove stava rannicchiato, vide quell'atto repentino e
tremò tutto quanto, sebbene immaginasse che quello era il Cardiana, e ne
aspettasse la comparsa. Ma egli è pur noto che i più animosi non sanno
custodirsi da un certo sgomento, allorchè sotto i loro occhi incomincia
una lotta.
— Che fate voi qui? — gridò il marchese, balzando al cospetto dello
sconosciuto, con lo scudiscio nel pugno e l'altra mano alla cintola.
L'altro si fermò, e diede addietro col capo, in atto di meraviglia;
indi, dopo una breve pausa, rispose:
— Quel che mi pare. La campagna è libera per tutti, mi sembra.
— No; — soggiunse il marchese; — voi siete in casa mia.
— Lo dite troppo presto, signor marchese Alberto di Cardiana. Aspettate