Santa Cecilia - 3

uno scompiglio da non potersi descrivere.
I miei occhi, guidati dallo spirito della vendetta, trovarono subito
Valeriano. Egli si era rizzato in piedi a stava in mezzo a otto o dieci
che, più animosi degli altri, avevano posto mano ai ferri.
Mi feci innanzi, mentre i miei si precipitavano sulla moltitudine
spaventata, e gridai:
— A me, Valeriano! a me! —
Egli snudò la spada, ma io gli fui sopra, innanzi che potesse mettersi
in guardia, tempestandolo di colpi. Valeriano disputò tuttavia, ed
aspramente, la sua vita; ma parecchi dei miei, che avevano ottenuto
facile vittoria sui pochi compagni del mio nemico, gli furono a' fianchi
e lo rovesciarono. Egli allora gittò lungi da sè la spada e morì sotto
il mio ferro, più nobilmente che io non avessi voluto, dicendomi:
«ferisci, carnefice, e che Iddio ti perdoni!»
Questa bisogna fu spedita in breve ora. I miei soldati non erano stati
neppur essi con le mani alla cintola; molti dei cristiani erano caduti
nel loro sangue sul pavimento, altri legati e spinti, a furia di mani e
di piedi, contro i pilastri della sala. Parecchi si erano dati alla
fuga; ma, perdutisi nel buio, non erano venuti a capo di trovare un
altro andito per cui avrebbero potuto mettersi in salvo; e le loro
grida, il rumore delle frequenti cadute, gli urli feroci dei miei,
mostravano qual fine si avessero i loro tentativi. E intanto le donne,
atterrite, trepidanti, si erano andate a raccogliere, come un timido
gregge, intorno al vecchio dalla tonaca bianca, il quale, solo
imperterrito, stava con le mani alzate verso il cielo e pregava.
Tutte queste cose io vidi a mala pena, in quella che, col ginocchio sul
petto a Valeriano, raddoppiavo furente i miei colpi. E appunto allora,
una donna, che non era fuggita insieme con le altre, mi pose ambe le
mani sul braccio, tentando di rattenermi, e gridò:
— Codardo! tu infellonisci contro un cadavere! —
A quella voce, che mi parve di riconoscere, tremai tutto quanto; alzai
gli occhi a guardarla, ed essa allora diede in un forte grido e cadde
come corpo morto nelle mie braccia. Il velo le era caduto dal volto: era
Cecilia.
Qual fui allora? Quale mi apparve la vita? Cecilia! Cecilia in quel
luogo, in mezzo a quella strage! Voi già immaginate quanti pensieri mi
assalsero improvvisi in quel punto. La mia vendetta era sazia; il furore
sbollito; ed io vedevo tutto ad un tratto l'orrore di quella scena di
sangue, e l'angoscioso stato di quella donna divina.
Andando colà, io non avevo badato che ad uccidere Valeriano; il pensiero
che Cecilia si fosse potuta trovare con lui non mi era neppur balenato
alla mente. Ma era troppo tardi.... E come salvarla? Anelante, agitato
da mille confusi timori, e quasi fuori di me, in quella che avrei pure
avuto mestieri di tutto il mio senno, io restai là, chino sul petto
dell'amata donna, non curando le strida delle femmine trepidanti, nè il
rantolo dei moribondi, nè il gavazzar dei compagni.
Il primo consiglio che mi sovvenne fu quello di chiamar soccorso. Alzai
la testa; ma lo spettacolo che si parò dinanzi ai miei occhi mi gelò le
parole sulle labbra. Una povera donna tentava invano di svincolarsi
dalle strette di un soldato, che, mezzo ginocchioni, col volto acceso,
col mento appoggiato sul petto della meschina, mentre con le mani la
teneva avvinghiata, lei riluttante buttava al suolo. Scene simiglianti
io avevo vedute di spesso, con occhi non curanti, nella mia vita di
soldato, in ogni borgata di Germania da noi messa a ferro e a fuoco, pel
feroce diritto di vincitori. Ma là, nel sotterraneo, io vedevo le cose
sotto il più orrido aspetto. Cecilia, non la moglie di Valeriano, ma la
divina fanciulla che io avevo tanto amata, che anche allora mi faceva
riardere in seno la fiamma antica con tutta la casta virtù delle
ricordanze, era in quel covo di belve umane, fuori dei sensi, colla
bionda testa arrovesciata sulle mie braccia, senz'altro scudo,
senz'altra difesa che l'uccisore di suo marito, il condottiero di quella
coorte sfrenata, libera esecutrice di sanguinari comandi.
Intanto che cosiffatti pensieri mi tenzonavano nella mente, Trebazio mi
si accostò.
— E così? — mi disse egli, con ghigno feroce. — La è finita a dovere. Tu
hai menato un bel colpo a quel Valeriano.
— Trebazio, — gli risposi con accento disperato, — aiutami a soccorrere
questa donna!
— Soccorrerla? oh non badare a lei più che tanto. Queste galilee sono
tutte di una risma: piangono, si disperano, graffiano; ma lagrime ed
unghie di donna non fanno prova su tempre come le nostre. Certo, egli è
molto meglio se escono dei sensi, come fa questa tua. Vedi là in fondo
quel gramo di un Marsico; egli non può domare quella belva, che strepita
e si dimena come una furia. Contentati dunque tu, che l'hai tra le
braccia svenuta.
— Trebazio! — esclamai, sentendo drizzarmisi i capegli per raccapriccio
sulla fronte; — tu ardiresti?...
— E che?... — proseguì egli, con quel suo piglio scherzevole. — Sei
dunque una femminuccia? Questa donna, per Ercole, è bella come una
Venere. Se non ardisci tu stesso, tanto meglio; sarà per me, che non ho
ancora fatto voto di entrare nelle Vestali.
— Tu non l'avrai, per l'abisso! — esclamai, saltando in piedi e mettendo
mano alla spada, mentre con ardita mossa mi ponevo tra lui e il corpo di
Cecilia.
— Che sì, che sì, ch'io la prenderò, ora che me ne ha còlto il
desiderio! Ah, tu fai il cattivello, o greco? —
E, così dicendo, Trebazio aveva dato indietro due passi, snudando il
ferro a sua volta.
— Soldati, a me! — gridai con voce tuonante, volgendomi intorno. —
Una brigata di costoro accorse al mio grido.
— Che vuoi? mi domandarono essi.
— Che difendiate questa donna. Nessuno ha da metterle un dito sulla
persona. —
I soldati rimasero lì, tra incerti e curiosi. Le mie parole frattanto
avevano chiamato altri dei loro, e in breve si formò un largo cerchio di
spettatori, avidi, ansiosi di sapere che fosse. Nel mezzo ero io con
Cecilia svenuta; poco lungi Trebazio, col ferro stretto nel pugno e gli
occhi torvi affisati su me.
Egli stesso ruppe il silenzio, rivolgendo la parola ai soldati.
— Sentite, voi altri. Questo greco, che il prefetto Almaco ha colmato
delle sue grazie, vuole che noi rispettiamo questa donna, una delle
femmine di questi immondi galilei. Ora, se egli la vuol rispettata come
una nobil matrona, si accomodi; non io, il quale mi affretto a prendere
ciò che egli ricusa. E neppur questo egli vuole acconsentirmi, e non lo
consentirà a voi, se vorrete richiamarvene alle consuetudini della
guerra. Vi par giustizia, cotesta? —
Un bisbiglio minaccioso si fe' udir nella turba, che a me non prometteva
atti di obbedienza per fermo. Uno dei più audaci, tenendo bordone a
Trebazio, gittò in mezzo questa sentenza:
— È una cristiana, è una buona preda!...
— Sì, sì, buona preda! — gridarono tutti in coro. — Il greco non può
levarcela di mano. —
Io qui cominciai davvero a tremare. Intanto Cecilia, ricuperati in quel
tumulto i sensi, e trovatasi in mezzo a quella cerchia di manigoldi che
la guardavano con occhi di bragia, fece per gettarsi nelle mie braccia;
ma si risovvenne, e, strappatasi da me con un gesto di terrore, ricadde
sulle ginocchia, nascondendosi il viso nelle palme.
— Soldati! — gridai, tentando una seconda volta di comandare a quel
tumulto di voglie sfrenate. — Io sono il vostro centurione. Mi
obbedirete voi?
— Soldati! — gridò a sua volta Trebazio, guardando me con un piglio di
truce ironia. — Io sono Trebazio, il fido servitore di Almaco, il
possente prefetto di Roma. Mi obbedirete voi?
— Sì, sì; — urlarono tutti. — Tu hai ragione! Tu rispetti le
consuetudini. La donna è nostra; è buona preda, è una cristiana. La
donna a noi! —
E con la minaccia negli occhi, si mossero incontro a me, stringendo il
cerchio per modo che il loro alito infocato mi soffiò sulle guance.


VIII.

Fu per me un momento terribile. Ma, come avviene nei casi più gravi, che
la virtù dell'animo umano si solleva e combatte con lena disperata, io
ebbi dalla medesima gravità del pericolo centuplicate le mie forze per
una lotta suprema.
Afferrai Cecilia a mezza vita; la trassi violentemente a me, in quella
che Trebazio stava per metterle sopra le mani impudiche, e menando
attorno la spada, gridai:
— Nessuno si accosti! Nessuno di voi torcerà un capello a questa donna,
fino a tanto che io viva. —
Nel dir queste parole sentii battere il cuore di Cecilia contro il mio,
ed un senso di voluttà amara e profonda mi corse per tutte le fibre. Che
cos'era la mia povera vita al raffronto di tanta felicità?
Imperocchè, sappiatelo, in fatto di amore ho sempre pensato che il primo
bacio della donna amata e desiderata valga assai più che il sacrificio
di tutto il sangue delle nostre vene. E che cos'era se non un primo
bacio, lo stringersi del petto di quella creatura sul mio e il battere
dei due cuori l'uno sull'altro? Il mio sangue ribollì a quel tocco
infuocato, e mi parve allora che io fossi tanto forte, da contendere
anche agli Dei tutti del cielo e dell'averno quella divina fra tutte le
donne.
Ma erano sogni! Trebazio sorrise sinistramente e disse, ripigliando le
mie stesse parole:
— Fino a tanto che tu viva!... Oh la maravigliosa promessa! Ti si
ucciderà, stanne certo, e l'otterresti anche non volendo. Mira, conta
per bene i tuoi avversari. Noi siamo qui, intorno a te, sitibondi del
tuo sangue, più di cento; tu sei uno, ed hai sospesa al tuo seno una
donna sbigottita, la quale t'impaccia le mani. Che te ne pare?... —
Trebazio aveva ragione pur troppo e con tristo accorgimento faceva
sentire ai soldati il soverchio delle loro forze, contro la pochezza
angustiata delle mie.
— Soldati! — proseguì allora. — Facciamola finita. Ad aggiustarla poi
col prefetto, che voleva far centurione costui, non sapendo che egli era
un traditore, penserò io, domani. Intanto pigliamoci la donna!
— Sì! sì! la roba nostra! — urlò da capo quel branco di lupi; e misto
alle grida udii lo strepito dei ferri che uscivano dalle guaine.
E qui, sebbene io frema tutto quanto al rammentarlo, Cecilia mi si
mostrò bella nel volto, negli atti e nelle parole, di un santo
entusiasmo. Mi si strinse al petto quanto più forte potè, e mi susurrò
all'orecchio con voce anelante:
— Calisto, per te, per la mia fama, per l'amor tuo, te ne supplico:
uccidimi! —
Uccidimi! Quella parola mi andò diritta al cuore; gli occhi mi si
ottenebrarono e mi parve di essere passato fuor fuori da un ferro
rovente. Credevo di avere già molto sofferto; ma il passato, ma le
angosce di quella notte medesima erano un nulla al raffronto di
quell'ultimo tormento. Nè parola, nè immagine ch'io cercassi tra le più
dolorose, varrebbe a significarvi quella agonia dello spirito, in mezzo
alla quale, come nel bagliore di un lampo, io vidi una orribile cosa:
vidi che quella donna era perduta; che io non l'avrei salvata dalla
infamia fuorchè uccidendola; e che con la sua morte il mondo era finito
per me.
— Ah! ah! — gridarono sghignazzando beffardamente quegli altri. — La
cristianella se la intende col greco. Essa gli mormora le dolci
promesse, la bella colomba innamorata! Anche a noi un sorriso ed una
tenera parola! Abbiamo forse da starcene a becco asciutto, noi altri?...

Intenderete di leggeri come questi ed altri motteggi mi trafiggessero. E
quelle caste orecchie udivano tutto; quella delicata persona ardeva e
tremava; il suo labbro continuava a susurrarmi: — uccidimi! uccidimi!
— Indietro! — tuonai, più che non gridassi, una seconda volta; ma fu
inutile. La cerchia si strinse, ed io con opere gagliarde incominciai a
difendere la donna amata; onde la punta della mia spada andò più volte
nella mischia e tornò indietro bagnata di sangue.
Grida, urli e strepito di ferri mi rispondevano; ma tutto soverchiava la
voce di Trebazio, che era rimasto più indietro.
— Non ferite! — gridava egli. — Non ferite! potreste guastare la bella
preda. Stringetevi intorno a lui; soffocatelo, impacciategli le mosse;
lo uccideremo poi.... —
I modi dei miei assalitori mi dimostrarono che il consiglio di Trebazio
era stato seguito. Che mi sarebbe giovato ferire tre, quattro o sei di
costoro, se gli altri mi potevano disarmare? Combattevo in mezzo della
sala, senza un angolo in cui ritirarmi, senza una parete che mi
custodisse alle spalle; però mi giravo e rigiravo senza posa,
respingendo e ferendo, ma conscio della imminente sconfitta. Ancora un
istante, e non c'era più scampo per la povera donna.
— Uccidimi! uccidimi! — mi susurrava ella sempre con voce rotta e
concitata, mentre, con istintiva cura, seguitava le volte rapide del mio
corpo, or da un lato, or dall'altro. Io chinai il viso a mirarla, ed
ella mi diede uno sguardo supremo di angoscia e di desiderio. Intesi la
muta preghiera; alzai il ferro, e chiusi gli occhi.... Dio onnipossente!
le vibrai la punta nel seno.
— Ah! — mormorò ella. — Finalmente!... Grazie, Calisto! io ti amo. —
Riapersi gli occhi, ed accostai anelante il mio viso al suo, come per
bere dalle sue labbra quella inaspettata parola. Cecilia sorrideva; mi
avvinghiò le braccia al collo, e, vinta da quello sforzo supremo, mi
ricadde inerte sul braccio.
All'atto improvviso, un fremito di orrore era corso nella folla.
Smemorato e quasi presso a cadere con l'amato corpo sul pavimento, volsi
lo sguardo ai soldati, in quella che davano addietro, colti da immane
stupore. E vidi allora Trebazio; Trebazio con gli occhi sbarrati e il
volto livido dallo spavento.
Io, come dissi, stavo per mancare; le gambe non mi reggevano più. Ma la
vista del manigoldo mi rese le forze. Lasciar cadere, accompagnandolo un
tratto, il corpo di Cecilia, e scagliarmi contro di lui, fu un punto
solo.
— Fatti innanzi, Trebazio! Tu sai maneggiar bene la spada contro gli
inermi. Vieni ora a provarti con me! —
Tutti i vicini si cansarono. Il mio fiero atteggiamento, lo stupore del
grave fatto recente, i lampi d'ira che la disperazione mi sprizzava
dagli occhi, li fecero stare dubitosi ed incerti. Però si fece largo
accanto a noi, e tutti erano là muti, ansiosi e trepidanti spettatori di
quella nuova scena di sangue.
Trebazio era un codardo, e allora sì, me ne avvidi. Egli, dopo essere
balzato indietro d'un salto, girò gli occhi tutt'intorno a guardare i
compagni, e impallidì al vedersi abbandonato. Forse allora lo assalsero
quei pensieri disperati che a me avevano fatto tremare il cuore (non già
per me tuttavia) pochi momenti dapprima. E come si vide solo, di contro
a me, intese che la era finita per lui, se non metteva tutti i suoi
accorgimenti e le astuzie a difendere aspramente la sua vita minacciata.
Tutto questo io lessi nel pallore di morte che gli imbiancava le guance
e la fronte, e il sorriso di trionfo che mi siedeva sulle labbra gli
disse molto chiaramente com'io l'avessi inteso. Digrignò i denti e si
pose in atto di difesa, coi nervi tesi e lo sguardo pronto ad ogni mio
gesto, ad ogni moto del mio ferro.
Io lo investii con veemenza, raddoppiando i colpi per modo da non gli
conceder tempo a rispondere. Però egli fu costretto a parare come poteva
meglio, sfuggendomi or da un lato or dall'altro, dando indietro e
avventandosi poi, per cansarsi da capo, con la scioltezza e la rapidità
di un serpente.
Ma tutte queste arti non gli furono di gran giovamento, perchè il furore
m'aveva fatto dieci volte più forte di lui. Gli fui sopra, a malgrado
dei suoi colpi disperati, e con la manca andai diritto ad agguantargli
la strozza.
— Greco! — disse egli rabbiosamente, in quella che tentava sfuggirmi. —
Tu sei più forte di me! —
Furono le sue ultime parole, imperocchè, afferratolo per bene, io mi
diedi a stringere sempre più forte. Il volto, di livido che era, gli si
fe' pavonazzo; gli occhi schizzarono fuor dalle orbite, e il rantolo
affannoso del petto, più che segno di dolore, era bestemmia, la quale
non trovava più il varco. Io sentii in quel tratto la sua spada cercarmi
il fianco; e fu ventura che avesse da prima trovato il mio cingolo di
cuoio; perchè io ebbi il tempo di attraversare una gamba nelle sue, e
poi, premendo fortemente il braccio, rovesciarlo sul pavimento.
Allora egli non ebbe più modo di difendersi, mise un ruggito, e la mia
lama gli entrò tutta quanta nel ventre, per uscirne e tornarvi da capo.
E intanto, con la mano alla strozza, gli sollevavo la testa, facendolo
percuotere della nuca al suolo, e così ripetutamente e con tanta furia,
che in breve ora ebbe la cervice spezzata. Altri due colpi di taglio sul
volto gli tolsero la immagine umana, e non rimase che una massa informe,
scompaginata e sanguinolenta.
Sollevai allora un tratto il cadavere e con feroce scherno mi feci ad
interrogarlo.
— Ohè, Trebazio! Ve' come sei concio! E come farai ora per pigliarti la
donna? Nè anco la più vecchia e la più aggrinzata delle tre Parche
patirebbe ora i tuoi baci. —
La testa del morto spenzolava sul petto, grondando sangue d'ogni lato.
Più sconcia figura non fu veduta mai; la testa di Medusa non avrebbe
potuto reggere al paragone.
— A voi, soldati! guardatelo, contemplatelo a vostro bell'agio. È
Trebazio, costui, il vostro amato Trebazio. Io ve ne faccio un presente.

E così dicendo, sollevai quel corpo deforme, acciuffandolo pei capegli,
e con un colpo del ginocchio nelle reni lo buttai loro tra' piedi. Tutti
balzarono indietro, inorriditi, senza far motto, senza ardire di levar
gli occhi verso di me. Stetti a contemplare un tratto quello stupido
gregge, poco dianzi così minaccioso, e parlai:
— Soldati! Mi obbedirete voi? La donna che mi contendevate è morta;
sarete contenti. Ma io ve lo giuro per l'Averno, chiunque ardirà
accostarsi, finirà per le mie mani come questo vigliacco. Io sono il
vostro padrone, e voi mi obbedirete, perchè io sono più forte di voi. —
La terribilità dell'esempio li aveva riempiti di spavento. Trebazio,
vivo e minaccioso pochi minuti prima, era lì, cadavere informe sul
pavimento, inondato del suo sangue; e tutto quel volgo aveva paura.


IX.

Volgo! Volgo! Tu non sarai dunque mai altro che volgo? Ci saranno sempre
uomini il cui uffizio sulla terra sia quello di obbedir ciecamente,
stolidamente, quando abbiano il giogo sul collo e ingombri loro lo
spirito il terrore, o di far tremare altrui, quando il sentirsi slegati,
con la coscienza della loro forza soverchiante e la impunità del mal
fare, li faccia uscire in bestiali ruggiti? La cupidigia dell'oro che
compra la stupida ebbrezza, la livida e scarna invidia di tutto quanto
risplende per bontà, bellezza o potenza, il lercio compiacimento di
tutte le più basse manifestazioni dell'istinto, saranno dunque per
sempre il loro retaggio?
Oh volgo! il mio cuore si stringe al considerare le opere tue, e mi
coglie un senso di amara pietà per la tua miseria, non per il male che
cagioni altrui. A me non duol tanto del fiore che giace avvizzito sotto
la striscia di bava segnata dal passaggio di un rettile, quanto del
rettile istesso, a cui natura non ha dato di potersi comportare diverso.
Ma dove diamine vado io mai? Scusate, o signori; sono vecchio, e la mia
testa indebolita vagella. Dove ero rimasto? Ah, ecco, mi ricordo. I
soldati avevano paura e non ardivano levare il capo a guardarmi. Ma li
guardavo ben io, stando innanzi a loro, con la fronte alta e le braccia
conserte sul petto.
Uno di loro finalmente si fece innanzi, tutto dubitoso e con umile
atteggiamento mi disse:
— Tu sei il nostro centurione. Comanda pure a noi, tuoi soldati e tuoi
servi.
— Sì, sì! — gridarono tutti ad una voce. — Tu sei forte! tu sei
magnanimo! —
E così dicendo, vennero con molto strepito e scompiglio a postrarmisi
intorno, i più vicini abbracciandomi le ginocchia, o tendendo le palme.
Io durai molta fatica a svincolarmi da quelle strette.
— Basta! basta, vi dico. Andate là; conducete via i prigioni. I vostri
diportamenti mi mostreranno se meritate perdono. E tu, — dissi al primo
che aveva parlato, — aiutami a rialzar questa donna. Come ti chiami?
— Manete; — rispose egli.
— Manete, — soggiunsi allora, — se tu avessi dette un'ora prima quelle
parole, tu avresti serbato alla terra la più bella delle sue creature. —
Il soldato chinò la testa con aria impacciata, e mi si fece accanto per
aiutarmi nel pietoso ufficio. Gli altri intanto s'erano sparpagliati
lungo le buie arcate, per condurre all'aperto i prigioni.
Guardai allora la misera trafitta. Lo sdegno mi era uscito dal cuore e
le forze m'erano venute meno del pari. Povera Cecilia! Ella era distesa
al suolo e pareva che pudicamente dormisse, colle membra in bell'atto
composte. Aveva pallido pallido il volto; la ferita le tingeva di una
larga macchia le bianche vesti. Corsi a metterle una mano sul cuore. Dio
immortale! il gelo della morte non si sentiva per anco; il cuore
batteva.
Manete, pensando di farmi cosa grata, si provò a sollevarle dolcemente
il capo e ravviarle i capegli.
— No, no! — gridai. — Vanne da' piedi, tu; io solleverò questo capo.
Ecco; una mano là! Secondami a tempo e senza scuoterla troppo. Così va
bene. E tu, manigoldo, che stai guardandoci allibbito, piglia una face e
va innanzi. —
Il soldato a cui volsi queste ultime parole, sebbene tutto pesto e
insanguinato (era egli uno dei primi che avevano ricevuto i miei colpi),
obbedì sollecitamente. Di questa guisa, andando innanzi con passo
misurato, rifacemmo la strada per l'andito e risalimmo i trenta scalini
della botola. Il bel corpo che io tenevo nelle braccia, era tiepido;
l'alito sommesso della donna mi veniva a morire sulle guance.
Non fiatai nè a Manete, nè ad altri, di questa scoperta che mi faceva
palpitare tra l'ansia e la speranza. Deposi Cecilia sul letto della
vedova, che era andata a nascondersi in un angolo, restando là più morta
che viva, e mandai i prigionieri, accompagnati dalla coorte, alle
carceri Mamertine.
Manete stava ritto sull'uscio, aspettando i miei comandi; ed io,
risovvenutomi di Trebazio e di Almaco, presi una rapida deliberazione.
— La notte è a mezzo il suo corso; — dissi a Manete. — Tu andrai
domattina da Almaco; gli dirai ch'io ti mando, e che mi precedi di pochi
istanti; che l'impresa fu condotta a dovere; che Trebazio fu ucciso da
me, per atto di grave disobbedienza. Gliene dorrà per fermo ed
acerbamente; ma tu soggiungerai prontamente che Valeriano è morto per le
mie mani. Questa novella son certo lo consolerà della perdita di un vil
servitore. Va dunque; sei libero fino a domattina. —
Manete non si mosse.
— Che vuoi ancora? parla!
— Ho a dirti di quel vecchio della tunica bianca, che è tra i prigioni.
Sai tu, centurione, chi egli sia? I cristiani, improvvidamente si
lasciarono sfuggire il nome di lui. È Urbano, il loro pontefice....
— E che importa a me? Quando sarai dal prefetto gli dirai anche di
questa preda. Vattene! —
Manete partì, ed io, pigliati questi provvedimenti, mi volsi alla
giacente, e, trovata una guastada piena d'acqua, mi posi a lavarne la
piaga, sciogliendo i grumi del sangue che stava rappreso sulle vesti.
La sensazione del freddo le fece ricuperare i sensi perduti; ella mise
un sospiro e le palpebre si mossero un poco. Trepidante m'inginocchiai,
aspettando con ansia affannosa il momento che ella mi avesse
riconosciuto. Ma Cecilia, riavutasi appena, senza vedermi ancora con gli
occhi, già mi aveva sentito al suo fianco, e voltando lievamente il
capo, con fioca voce disse il mio nome.
— Calisto!
— Oh! Cecilia! Tu dunque vivi? — esclamai, alzandomi da quella postura
per guardarla nel viso.
— Sì, vivo ancora per renderti grazie. Ma sono presso a morire, sai! Il
tuo ferro pietoso ha colpito diritto.
— Oh no, Cecilia; tu non morrai. Tu devi vivere....
— Perchè? — disse ella con un dolce sorriso di malinconia, e fissando su
me i languidi occhi. — Sentimi! Ho a dirti alcune cose. Dio mi concederà
di parlare.... Quando ti conobbi, la mia fede era già data a Dio uno,
onnipotente, e a lui mi ero legata con un sacro voto. Urbano, il buon
pontefice, mi aperse gli occhi alla fede di Cristo. Egli stesso consentì
le mie nozze con Valeriano, perchè questi era cristiano al pari di me,
e, sapendo del mio voto, aveva giurato di rispettarlo. —
A me, udendo quelle parole della morente, parve di uscire da un sogno
doloroso. Le tenebre si diradavano dalla mia mente scombuiata; ma la
verità era più triste ancora, poichè Cecilia era in fine di vita.
— Valeriano, — proseguì ella, — fu per me solamente un fratello. Ed io
fui felice con lui, poichè piacquero le nozze ai miei parenti, ignari
com'essi erano della sua fede e della mia, ed avemmo agio di dedicar
liberamente gli animi nostri alla causa santissima.
— Oh Cecilia! oh donna divina! ed io ho potuto....
— Non ti dolere, o Calisto. Tu hai errato; ma il pentimento cancella
ogni colpa. Tutto ciò che è avvenuto, sia per meglio. Dio è uno ed
onnipossente; adoriamolo!... —
Ciò detto, ella rimase assorta in una muta preghiera. Io m'inginocchiai
da capo, e fu quella la prima invocazione ch'io facessi al Dio ignoto,
invisibile, di Cecilia; nè più schietta mai, nè più fervida io penso che
ne salisse mai alle stelle.
Mentre io così pregavo, la mano di Cecilia si mosse e venne a cercar le
mie che erano posate sul letto.
— Addio dunque, o Calisto! — ella disse. — Credi tu nel mio Dio, nel
vero nell'unico Iddio, il quale ha fatto gli uomini buoni e tutti
uguali?
— Credo! — risposi, col cuore e gli occhi gonfi di lagrime.
— Grazie, mio Dio, — soggiunse Cecilia. — Tu hai consentito che innanzi
di morire io richiamassi un uomo alla verità.... alla luce.... —
Le sue pupille mandarono un raggio di esultanza celeste. La camera si
illuminò tutta quanta. Io sentii la mano di Cecilia stringer la mia, poi
ricadere inerte sul letto. La divina creatura era morta.
Morta!


X.

Qui il povero suonatore si fermò, e rimase coi pugni stretti, appuntati
contro la tavola, ansante e lo sguardo fiso.
Noi già da buona pezza, tutti intenti ad ascoltare il suo bizzarro e
mesto racconto, avevamo buttato via il sigaro, quasi per tema che i
buffi di fumo ci distogliessero dalla nostra attenzione. Era egli un
pazzo? Sì, certamente; ma, seguendo il filo della sua narrazione
fantastica, ci eravamo per così dire immedesimati con lui, come egli coi
tempi e le cose di cui ragionava.
Che uomo è costui, pensavamo (e gli occhi nostri, mutamente
interrogandosi a vicenda, chiarivano la formazione di un medesimo
pensiero in noi tutti), che uomo è costui, il quale, nella sua pazzia
immaginosa, ha saputo andare tanto diritto? C'è del vero in quello che
egli racconta? E, vero o falso, come mai s'ha da trovare tanta
digestione di anticaglia, tanta disposizione ordinata di fatti e tanta
facilità di sciorinarli con un certo qual garbo alla sua colta udienza,
in un gramo suonatore di piazza, del quale, a vederlo, non avreste dato
tre soldi?
Quando egli adunque si fermò, noi cinque rimanemmo duri duri a
guardarci, e la conclusione delle nostre interrogazioni fu questa, che
non avevamo raccapezzato nulla in quel suo geroglifico, mezzo storico e
mezzo romanzesco.
Che ci hai da far tu, pensavo io, che ci hai da far tu, gramo
personaggio di questi bassi tempi, con la vita, già molto apocrifa per
sè stessa e da te raffazzonata per giunta, di santa Cecilia, vergine e
martire, che i suonatori cristiani (anco se suonino da turchi) hanno
pigliata a loro santa tutelare, in luogo della vecchia Calliope?
Il lettore ha già pensato, con quella avvedutezza che non manca mai al
lettore, che io non potevo lasciar correre la faccenda a quel modo, e
che, postomi sott'occhi un indovinello di quella fatta, non mi sarei
mosso, innanzi di cavarne un costrutto.
E il lettore non s'inganna; io volli appunto il resto del carlino.
— Morta! — soggiunsi; — e poi?