Ritratti letterari - 12
coniati e faccettati espressamente per essere incastrati nei versi. —
Tutto ciò è indiscutibilmente vero riguardo alla poesia popolare, che è
quella del Déroulède. Per questo egli dice che studia la lingua della
poesia nei grandi prosatori francesi; e impara a far dei versi dal
Pascal e dal Bossuet. E cerca costantemente di dare alle sue poesie una
forma che le renda facili ad esser ritenute: vuole che ogni pensiero e
ogni sentimento sia chiuso in un verso o al più in un distico, in modo
da stamparsi nella mente alla prima lettura, e poter esser citato di
passata, e diventare, come diceva il Rossetti, _ripetuta sentenza_;
che ciascuna strofa formi un periodo e corrisponda un verso ad ogni
proposizione; che tutte le rime si sentano nettamente, e segnino
quasi l'accento del pensiero; che tutta la poesia suoni e splenda e
sia limpida da un capo all'altro, come una lastra di cristallo. Cerca
quello che raccomandava il Voltaire: — _Voyez avec quelle simplicité
notre Racine s'exprime toujours. Chacun croit, en le lisant, qu' il
dirait en prose tout ce que Racine a dit en vers: croyez que tout ce
qui ne sera pas aussi clair et aussi simple, ne vaudra rien du tout._
In politica le sue idee sono egualmente nette. È repubblicano, e non
ha fede che nella repubblica; ed ha per il popolo quella simpatia
affettuosa che nutrono tutte le anime nobili per chi soffre e lavora.
Ma non si lascia dominare dal sentimento poetico nei suoi giudizi
intorno all'avvenire della società umana. In questo va d'accordo con lo
Zola, che se la piglia coi poeti dell'_humanitairerie_, i quali sognano
un avvenire impossibile di prosperità e di pace universale, e credendo
di far del bene col mostrare di crederci, non fanno che sciupare le
proprie forze per mantenere un'illusione funesta. Io capisco, dice, che
predichino contro la guerra coloro che non hanno terre conquistate nè
concittadini rubati con la forza, da liberare e da riconquistare con
quella medesima forza: le anime generose e dolci hanno sempre sognato
un avvenire senza eserciti e senza battaglie. Ma è anche tanto più
facile il ritrovare e il ravvivare nell'uomo il sentimento dell'orrore
del pericolo, che suscitare o conservare in lui il sentimento del
coraggio! Un grande merito della civiltà moderna è d'aver creato degli
eserciti nazionali, in cui senza paga, senza bottino, senza speranze,
senza interessi positivi di nessuna sorta, migliaia e migliaia di
contadini vanno docilmente a farsi uccidere per il loro paese. Anche
a me, alla vista di un campo di battaglia, si inumidiscono gli occhi
di lacrime; ma son più lacrime di ammirazione che di pietà. Non c'è
cosa più nobile del sacrificio, e il sacrificio della vita essendo
il più grave a compiersi, mi par che non ci sia nulla al mondo di
più ammirabile che questo grande consenso popolare che fa pagar senza
rivolta l'imposta del sangue a tutta una nazione, della quale una metà
appena sa che cosa sia la patria, e nove decimi non sanno che cosa
sia la gloria, e non l'avranno mai. Certo gli umanitari non predicano
nè la fiacchezza nè la viltà; quello che essi vogliono non è che si
_faccia male_ la guerra; ma che non si faccia più; e a questo voto
direi volontieri: così sia. Ma così non sarà mai disgraziatamente....
o fortunatamente forse. Perchè il giorno in cui l'Europa, incivilita
come gli umanitari la sognano, avesse perduto quel resto di barbarie
che si chiama il coraggio militare, dei veri barbari verrebbero da
altri continenti a dimostrarle che è stata imprudente. Ciò che forma
ancora la vitalità della nostra vecchia Europa, è che noi sappiamo
ancora farci uccidere. Il giorno in cui non vorremmo più che vivere e
viver bene: _finis nostrum!_ — Son le opinioni del maresciallo Molke:
le riferisco e non le discuto. Ma sono opinioni che non tolgono a chi
le professa d'essere umanitario quanto gli umanitari più pacifici,
poichè la differenza che passa tra gli uni e gli altri non è, in fondo,
differenza di affetti e di desiderii, ma differenza di speranze; e
forse non c'è neppur questa: c'è forse in tutti una stessa dolorosa
certezza, che gli uni, più forti confessano arditamente, e di cui gli
altri, più miti di natura, han bisogno di consolarsi con la fantasia:
quistione di _veristi_ e d'_idealisti_, come nell'arte.
Quanto alla religione, egli ha fatto una dichiarazione esplicita nella
prefazione della _Moabite_: — Sono repubblicano e religioso. — Ma come
religioso? E una di quelle domande, si capisce, che non son lecite
se non ad un'antica amicizia. Un altro critico del Déroulède cercò di
ricavare la definizione del suo sentimento religioso dai suoi versi.
Ma il sentimento religioso del poeta non è sempre quello dell'uomo.
Nel poeta, eccitato dalla passione, una tendenza del cuore si cangia
facilmente in un'affermazione del pensiero: la fede che è nei suoi
versi non è sempre tutta nella sua coscienza. Io non so se quella
del Déroulède sia fede vera, o quello stato della coscienza comune al
maggior numero, nei quale tien luogo della fede una speranza grande e
confusa, in cui il pensiero si riposa vagamente; una speranza, intorno
alla quale ci s'affollano continuamente mille argomenti favorevoli
e contrarii, tra cui, dopo una discussione rapidissima, diamo quasi
sempre la preferenza ai favorevoli; speranza che i più piccoli
avvenimenti della vita ravvivano e illanguidiscono con una vicenda
incessante, e ch'è tenuta viva in special modo dal bisogno che sentiamo
tutti di aprire un avvenire infinito, nel nostro pensiero, agli affetti
di cui viviamo. Il certo è che nella sua idea della morte c'è qualche
cosa d'azzurro e di bianco che rischiara e conforta l'animo. I suoi
soldati muoiono «con l'amore nell'anima e col cielo negli occhi.» In
tutti i suoi pensieri, in tutte le sue immagini, così nella poesia che
nel discorso, c'è come una tendenza ascensionale verso un _più spirabil
aere_, che solleva il cuore e la mente. Si può dissentire da lui su
tutto e per tutto, ma, lasciandolo, s'è contenti di aver discusso con
lui; ci si sente come una chiarezza intima, che dispone alla bontà
e alla gentilezza; e ci pare che si sia allargata la strada per cui
camminiamo, e allontanato l'orizzonte che ci si stende dintorno.
Caro e nobile giovane! Mi par sempre di vederlo venir su per la
strada della sua villa di Croissy, lungo la Senna, stretto nel suo
lungo soprabito soldatesco, e preceduto da due enormi cani levrieri;
e di sentirgli fare i suoi esercizi di lingua italiana pronunziando
costantemente _santò_ invece di _cento_, senza il più lontano
sospetto di non pronunziar bene. Nel suo piccolo studio, in mezzo a
un'elegante collezione di libri, si ritrovano tutti i suoi ricordi
più preziosi; i fiori mandati a sua madre dai campi di battaglia, la
palla estratta dal petto di suo fratello, i pezzi d'osso caduti dal suo
braccio, gli occhiali verdi d'ebreo polacco che servirono a coprire lo
scintillamento pericoloso dei suoi occhi di zuavo, nella fuga dalla
Germania. Un particolare curioso: il suo avo materno e il suo avo
paterno, di cui conserva delle memorie in un quadretto, si trovarono
insieme, volontari tutti e due, alla battaglia di Valmy. Il suo studio
di poeta è tutto pieno dei suoi ricordi militari; si mette la mano
tra i volumi del Corneille, e si trova un trattato di tattica; si
sfogliano i suoi scartafacci pieni d'appunti sulla Bibbia, e si scopre
la fotografia d'un _turcò_; si scompongono le sue prove di stampa, e
salta fuori una pipetta da soldato. Il luogo è bello e raccolto: dalla
finestra si scoprono i tetti di Bougival, dove seguì un combattimento
accanito durante l'assedio, e si vedono scivolare i barconi e i
vaporini sulla Senna, che in quel punto è silenziosa e verde che par
il lago d'un giardino. In quella piccola stanza egli passa la maggior
parte del suo tempo, e accanto a sua madre, che sta tutto il giorno in
una sala a terreno, distesa sopra un letticciuolo, e rivolta verso la
porta da cui si vede il fiume. Non si trovan parole abbastanza pietose
e riverenti per esprimere il senso che si prova vedendo per la prima
volta quella santa donna, immobile come una statua, e tormentata da
continui dolori, ma ancor piena di coraggio, e sempre sorridente coi
suoi grandi occhi neri e dolci, in cui pare che si sia rifugiata tutta
la sua bell'anima di madre e di martire. Vengono sulle labbra certi
versi inediti del suo figliuolo:
Bonjour, maman! O nom sacré!
Premier mot des premiers langages
Qu'à travers le monde et les âges
Le genre humain ait proféré!
Mère est un beau nom, un nom grave;
Mais dans son élan sans entrave
L'autre en dit tant, si simplement:
Bonjour, maman!
Quel che la tiene in vita è il vedere i suoi figliuoli giovani, pieni
di speranze, e amati da tutti, che le stanno intorno e le parlano con
una venerazione religiosa. Coi suoi grandi occhi amorosi e sorridenti
essa segue ogni loro movimento, dice tutto quello che la sua bocca non
può dire, consiglia, incoraggia, rasserena: riempie l'anima loro col
proprio sguardo. Quanti ricordi si vedono passare in quelle pupille!
Tutta la storia dei suoi figli vi si manifesta a lacrime e a lampi
dalla rappresentazione di _Juan Strenner_ alla ferita di Sédan, da
Breslau ad Algeri, da Algeri alla barricata di Belleville; e tra le
varie espressioni di pietà e di tristezza, v'appare sempre un'alterezza
serena, che le viene dalla coscienza d'aver dato alla patria tutto quel
che poteva, d'aver adempiuto nobilmente tutti i suoi doveri di madre
e di cittadina, e d'essere venerabile e sacra. Nei giorni ch'ero là,
arrivò da un lungo viaggio in Oriente il suo figliuolo Andrea, capitano
d'artiglieria. Li ho veduti più volte tutti e due inginocchiati accanto
al letto, con la bocca inchiodata sulle mani tremanti della loro madre;
— lo zio Augier, appoggiato alla spalliera del letto, li guardava, muto
e commosso; — e una sua sorella suonava il pianoforte per distrarre
l'inferma. C'eran tutte le più belle e le più grandi cose umane in
quel quadro: l'amor di patria, l'amor materno, l'eroismo, la sventura,
la poesia, la gloria; — e tutto pareva anche più bello e più grande,
perchè era rischiarato da una speranza immortale. Amabile e gloriosa
casa! Non vi si può entrare senza inchinarsi, non si può lasciare senza
piangere, non si può ricordare senza benedirla.
FINE.
Tutto ciò è indiscutibilmente vero riguardo alla poesia popolare, che è
quella del Déroulède. Per questo egli dice che studia la lingua della
poesia nei grandi prosatori francesi; e impara a far dei versi dal
Pascal e dal Bossuet. E cerca costantemente di dare alle sue poesie una
forma che le renda facili ad esser ritenute: vuole che ogni pensiero e
ogni sentimento sia chiuso in un verso o al più in un distico, in modo
da stamparsi nella mente alla prima lettura, e poter esser citato di
passata, e diventare, come diceva il Rossetti, _ripetuta sentenza_;
che ciascuna strofa formi un periodo e corrisponda un verso ad ogni
proposizione; che tutte le rime si sentano nettamente, e segnino
quasi l'accento del pensiero; che tutta la poesia suoni e splenda e
sia limpida da un capo all'altro, come una lastra di cristallo. Cerca
quello che raccomandava il Voltaire: — _Voyez avec quelle simplicité
notre Racine s'exprime toujours. Chacun croit, en le lisant, qu' il
dirait en prose tout ce que Racine a dit en vers: croyez que tout ce
qui ne sera pas aussi clair et aussi simple, ne vaudra rien du tout._
In politica le sue idee sono egualmente nette. È repubblicano, e non
ha fede che nella repubblica; ed ha per il popolo quella simpatia
affettuosa che nutrono tutte le anime nobili per chi soffre e lavora.
Ma non si lascia dominare dal sentimento poetico nei suoi giudizi
intorno all'avvenire della società umana. In questo va d'accordo con lo
Zola, che se la piglia coi poeti dell'_humanitairerie_, i quali sognano
un avvenire impossibile di prosperità e di pace universale, e credendo
di far del bene col mostrare di crederci, non fanno che sciupare le
proprie forze per mantenere un'illusione funesta. Io capisco, dice, che
predichino contro la guerra coloro che non hanno terre conquistate nè
concittadini rubati con la forza, da liberare e da riconquistare con
quella medesima forza: le anime generose e dolci hanno sempre sognato
un avvenire senza eserciti e senza battaglie. Ma è anche tanto più
facile il ritrovare e il ravvivare nell'uomo il sentimento dell'orrore
del pericolo, che suscitare o conservare in lui il sentimento del
coraggio! Un grande merito della civiltà moderna è d'aver creato degli
eserciti nazionali, in cui senza paga, senza bottino, senza speranze,
senza interessi positivi di nessuna sorta, migliaia e migliaia di
contadini vanno docilmente a farsi uccidere per il loro paese. Anche
a me, alla vista di un campo di battaglia, si inumidiscono gli occhi
di lacrime; ma son più lacrime di ammirazione che di pietà. Non c'è
cosa più nobile del sacrificio, e il sacrificio della vita essendo
il più grave a compiersi, mi par che non ci sia nulla al mondo di
più ammirabile che questo grande consenso popolare che fa pagar senza
rivolta l'imposta del sangue a tutta una nazione, della quale una metà
appena sa che cosa sia la patria, e nove decimi non sanno che cosa
sia la gloria, e non l'avranno mai. Certo gli umanitari non predicano
nè la fiacchezza nè la viltà; quello che essi vogliono non è che si
_faccia male_ la guerra; ma che non si faccia più; e a questo voto
direi volontieri: così sia. Ma così non sarà mai disgraziatamente....
o fortunatamente forse. Perchè il giorno in cui l'Europa, incivilita
come gli umanitari la sognano, avesse perduto quel resto di barbarie
che si chiama il coraggio militare, dei veri barbari verrebbero da
altri continenti a dimostrarle che è stata imprudente. Ciò che forma
ancora la vitalità della nostra vecchia Europa, è che noi sappiamo
ancora farci uccidere. Il giorno in cui non vorremmo più che vivere e
viver bene: _finis nostrum!_ — Son le opinioni del maresciallo Molke:
le riferisco e non le discuto. Ma sono opinioni che non tolgono a chi
le professa d'essere umanitario quanto gli umanitari più pacifici,
poichè la differenza che passa tra gli uni e gli altri non è, in fondo,
differenza di affetti e di desiderii, ma differenza di speranze; e
forse non c'è neppur questa: c'è forse in tutti una stessa dolorosa
certezza, che gli uni, più forti confessano arditamente, e di cui gli
altri, più miti di natura, han bisogno di consolarsi con la fantasia:
quistione di _veristi_ e d'_idealisti_, come nell'arte.
Quanto alla religione, egli ha fatto una dichiarazione esplicita nella
prefazione della _Moabite_: — Sono repubblicano e religioso. — Ma come
religioso? E una di quelle domande, si capisce, che non son lecite
se non ad un'antica amicizia. Un altro critico del Déroulède cercò di
ricavare la definizione del suo sentimento religioso dai suoi versi.
Ma il sentimento religioso del poeta non è sempre quello dell'uomo.
Nel poeta, eccitato dalla passione, una tendenza del cuore si cangia
facilmente in un'affermazione del pensiero: la fede che è nei suoi
versi non è sempre tutta nella sua coscienza. Io non so se quella
del Déroulède sia fede vera, o quello stato della coscienza comune al
maggior numero, nei quale tien luogo della fede una speranza grande e
confusa, in cui il pensiero si riposa vagamente; una speranza, intorno
alla quale ci s'affollano continuamente mille argomenti favorevoli
e contrarii, tra cui, dopo una discussione rapidissima, diamo quasi
sempre la preferenza ai favorevoli; speranza che i più piccoli
avvenimenti della vita ravvivano e illanguidiscono con una vicenda
incessante, e ch'è tenuta viva in special modo dal bisogno che sentiamo
tutti di aprire un avvenire infinito, nel nostro pensiero, agli affetti
di cui viviamo. Il certo è che nella sua idea della morte c'è qualche
cosa d'azzurro e di bianco che rischiara e conforta l'animo. I suoi
soldati muoiono «con l'amore nell'anima e col cielo negli occhi.» In
tutti i suoi pensieri, in tutte le sue immagini, così nella poesia che
nel discorso, c'è come una tendenza ascensionale verso un _più spirabil
aere_, che solleva il cuore e la mente. Si può dissentire da lui su
tutto e per tutto, ma, lasciandolo, s'è contenti di aver discusso con
lui; ci si sente come una chiarezza intima, che dispone alla bontà
e alla gentilezza; e ci pare che si sia allargata la strada per cui
camminiamo, e allontanato l'orizzonte che ci si stende dintorno.
Caro e nobile giovane! Mi par sempre di vederlo venir su per la
strada della sua villa di Croissy, lungo la Senna, stretto nel suo
lungo soprabito soldatesco, e preceduto da due enormi cani levrieri;
e di sentirgli fare i suoi esercizi di lingua italiana pronunziando
costantemente _santò_ invece di _cento_, senza il più lontano
sospetto di non pronunziar bene. Nel suo piccolo studio, in mezzo a
un'elegante collezione di libri, si ritrovano tutti i suoi ricordi
più preziosi; i fiori mandati a sua madre dai campi di battaglia, la
palla estratta dal petto di suo fratello, i pezzi d'osso caduti dal suo
braccio, gli occhiali verdi d'ebreo polacco che servirono a coprire lo
scintillamento pericoloso dei suoi occhi di zuavo, nella fuga dalla
Germania. Un particolare curioso: il suo avo materno e il suo avo
paterno, di cui conserva delle memorie in un quadretto, si trovarono
insieme, volontari tutti e due, alla battaglia di Valmy. Il suo studio
di poeta è tutto pieno dei suoi ricordi militari; si mette la mano
tra i volumi del Corneille, e si trova un trattato di tattica; si
sfogliano i suoi scartafacci pieni d'appunti sulla Bibbia, e si scopre
la fotografia d'un _turcò_; si scompongono le sue prove di stampa, e
salta fuori una pipetta da soldato. Il luogo è bello e raccolto: dalla
finestra si scoprono i tetti di Bougival, dove seguì un combattimento
accanito durante l'assedio, e si vedono scivolare i barconi e i
vaporini sulla Senna, che in quel punto è silenziosa e verde che par
il lago d'un giardino. In quella piccola stanza egli passa la maggior
parte del suo tempo, e accanto a sua madre, che sta tutto il giorno in
una sala a terreno, distesa sopra un letticciuolo, e rivolta verso la
porta da cui si vede il fiume. Non si trovan parole abbastanza pietose
e riverenti per esprimere il senso che si prova vedendo per la prima
volta quella santa donna, immobile come una statua, e tormentata da
continui dolori, ma ancor piena di coraggio, e sempre sorridente coi
suoi grandi occhi neri e dolci, in cui pare che si sia rifugiata tutta
la sua bell'anima di madre e di martire. Vengono sulle labbra certi
versi inediti del suo figliuolo:
Bonjour, maman! O nom sacré!
Premier mot des premiers langages
Qu'à travers le monde et les âges
Le genre humain ait proféré!
Mère est un beau nom, un nom grave;
Mais dans son élan sans entrave
L'autre en dit tant, si simplement:
Bonjour, maman!
Quel che la tiene in vita è il vedere i suoi figliuoli giovani, pieni
di speranze, e amati da tutti, che le stanno intorno e le parlano con
una venerazione religiosa. Coi suoi grandi occhi amorosi e sorridenti
essa segue ogni loro movimento, dice tutto quello che la sua bocca non
può dire, consiglia, incoraggia, rasserena: riempie l'anima loro col
proprio sguardo. Quanti ricordi si vedono passare in quelle pupille!
Tutta la storia dei suoi figli vi si manifesta a lacrime e a lampi
dalla rappresentazione di _Juan Strenner_ alla ferita di Sédan, da
Breslau ad Algeri, da Algeri alla barricata di Belleville; e tra le
varie espressioni di pietà e di tristezza, v'appare sempre un'alterezza
serena, che le viene dalla coscienza d'aver dato alla patria tutto quel
che poteva, d'aver adempiuto nobilmente tutti i suoi doveri di madre
e di cittadina, e d'essere venerabile e sacra. Nei giorni ch'ero là,
arrivò da un lungo viaggio in Oriente il suo figliuolo Andrea, capitano
d'artiglieria. Li ho veduti più volte tutti e due inginocchiati accanto
al letto, con la bocca inchiodata sulle mani tremanti della loro madre;
— lo zio Augier, appoggiato alla spalliera del letto, li guardava, muto
e commosso; — e una sua sorella suonava il pianoforte per distrarre
l'inferma. C'eran tutte le più belle e le più grandi cose umane in
quel quadro: l'amor di patria, l'amor materno, l'eroismo, la sventura,
la poesia, la gloria; — e tutto pareva anche più bello e più grande,
perchè era rischiarato da una speranza immortale. Amabile e gloriosa
casa! Non vi si può entrare senza inchinarsi, non si può lasciare senza
piangere, non si può ricordare senza benedirla.
FINE.