Ritratti letterari - 11

lo stesso critico, punto favorevole alla Francia, che s'è rammentato
da principio, — quest'aspirazione alla rivincita è nel Déroulède un
sentimento così virile, meditato e profondo, che non può essere che
ammirato, anche da un nemico. Egli non considera la rivincita come un
gioco e la strada di Berlino come una passeggiata; ma dice a sè ed ai
suoi concittadini che sarà una lotta nella quale una delle due nazioni
dovrà forse lasciare la vita, senz'altro conforto che di venderla il
più caro possibile. — Perciò, a questo suo proposito va sempre unito
il sentimento della necessità di apparecchi immensi e di sacrifizi
sovrumani. — Il nostro errore è stato pazzo, dice; che il nostro
dolore sia sensato. Ritempriamo la nostra fierezza nei nostri rimorsi.
_Soyons les artisans virils des fortes tâches._ Rinnovelliamo i nostri
cuori, non solamente le nostre armi. Prevediamo delle battaglie, senza
sognare delle conquiste. Non parliamo dell'avvenire che vendica prima
che sia cominciato l'avvenire che ripara. A chi dice: — Sii pronto! —
l'altro risponda: — Sii giusto. Siamo tranquilli nei nostri sforzi. —
E adombra lo stato e i doveri della Francia in una bella e larga poesia
di soggetto biblico, in cui gli Ebrei, caduti sotto il giogo del re di
Mesopotamia, mandano dei messaggieri ad Ataniele, nascosto nei burroni
d'una foresta, perchè li guidi alla guerra liberatrice; e Ataniele li
respinge più volte per il corso di varii anni, perchè non crede ancora
il popolo preparato a sacrifizi supremi; e non impugna la spada e non
grida: — Siete pronti! — se non quando riconosce che sono anime nuove
in corpi ringagliarditi, purgati d'ogni orgoglio stolto, pentiti delle
colpe antiche, armati i cuori come le braccia, e preparati alla morte.
Questa ardente aspirazione fa sgorgare dal cuore del poeta versi pieni
di forza e d'ardimento. — Io aspetto, egli dice; io custodisco nella
mia anima francese la mia fede di cittadino e i miei odii di soldato,
per il giorno fatale. La mia giovinezza è stata colpita da un dolore
che nulla può mitigare. Ma non è il mio dolore che bestemmia, non è
neanche il soldato che sogni la gloria. La rivincita è il voto della
mia vita e la mia suprema speranza. Io debbo morire sul campo di
battaglia ed essere sepolto in terra nemica. — E sempre questa idea si
ripresenta, implacabile, e lampeggia da ogni parte, spandendo su tutta
la sua poesia un riflesso color di sangue, che fa pensare con un senso
di sgomento alla immensità degli eccidii futuri.
Un altro pregio grande di questi canti, che non si trova in
nessun'altra raccolta di poesie patriottiche francesi di questi
ultimi tempi, è la coraggiosa e qualche volta sdegnosa franchezza
con cui il poeta dice ai suoi concittadini delle verità spiacevoli
ad intendersi. La gelosia artistica fa dire anche a qualche francese
che la poesia del Déroulède deve in gran parte la sua fortuna alle
carezze ch'egli prodiga all'orgoglio nazionale. Se ciò fosse vero,
avrebbero dovuto ottenere una fortuna molto maggiore le poesie di
cento altri. Ma è falsissimo. Senza dubbio egli si sforza in mille
modi di tener viva la fede del suo popolo nelle proprie forze.
Froeschviller, dice, è l'assalto d'uno contro quattro; Gravelotte e
Borny non furono sconfitte; a Champigny, i vivi vendicarono i morti;
le glorie come quella di Strasburgo sfuggono ai conquistatori; Parigi
cadde superbamente. A quale patriotta si potrebbe negare il diritto
di affermare il valore della sua gente? Ma per contro io non so quale
altro giovane poeta francese abbia osato lanciare al proprio paese
delle parole più terribili. Noi disimpariamo la guerra, dice in una
delle sue migliori poesie; — ci sono stati degli eroi; ma un gruppo
d'eroi non rifà la razza: è un povero popolo quello in cui i valorosi
si contano. E in un altro luogo: — Son tristi tempi quelli in cui
la paura medesima, coprendo di grandi parole il basso istinto che
la muove, non ha più rossore sulla fronte. E altrove: — Ma come mai
siamo decaduti? Scorre ben sempre lo stesso sangue nelle nostre vene;
l'aria che noi respiriamo attraversa pur sempre i nostri boschi; le
viti dei nostri colli e le messi dei nostri piani sono ben maturate
dal sole antico; questo paese così ridente, fertile e vario, atto
a tutti i prodotti, aperto a tutte le idee, questo sole possente,
quest'acque vive, questo cielo mobile, tutto questo è la Francia! _Dove
son dunque i francesi?_ — E non tralascia di flagellare la mania dei
suoi concittadini, di gridare al tradimento per scusare le conseguenze
di tutte le debolezze e di tutti gli errori. — È così che si perde —
dice, descrivendo un corpo di francesi accampati, che non sapevano e
non cercavano di sapere dove fosse il nemico; — è così che si perde,
per un'orgogliosa leggerezza, il valore d'un paese; è così che la colpa
risale implacabilmente dai soldati mal guidati ai capi peggio obbediti;
è così che dei pazzi gridano che Dio è ingiusto e che la Francia è
stata tradita! — Ed anco quando cerca di scusar la sconfitta, non
lo fa coi cavilli irritanti d'un patriotta vanaglorioso e cocciuto;
ma nobilmente, con parole dignitose e tristi, che se non inducono la
persuasione, ispirano il rispetto, perchè non vengon da orgoglio di
soldato, ma da pietà e da affetto di figlio.
E l'affetto di figlio è quello che gl'ispirò i più dolci e insieme i
più vigorosi di tutti i suoi versi. Egli non ha parlato di sua madre
che nei _Nuovi canti_; ha aspettato che il suo successo di poeta
glie ne desse il diritto, e che la simpatia e la riverenza con cui si
pronunciava dal pubblico il nome di lei, gli desse animo a rivolgerle
i suoi versi pubblicamente e a _gettare quel nome ai propri soldati_.
Nulla è più naturale in un'anima eletta che il confondere l'affetto di
famiglia con l'amor della patria, e il far che l'uno s'illumini e si
nobiliti dell'altro. Ma non so qual altro poeta, confondendo quei due
sentimenti, abbia congiunto tanta tenerezza con tanta forza, e n'abbia
tratto ispirazioni così gagliarde e così gentili ad un tempo. — Si
afferma che i tuoi figli hanno compiuto il loro dovere, — dice a sua
madre; — ma il dovere che essi hanno compiuto è opera tua; l'onore è
dovuto a te. Essi non son partiti per le battaglie furtivamente, come
altri fecero, senza l'abbraccio materno, che li avrebbe trattenuti;
essi non te l'hanno rubato il sangue delle tue viscere. Sei tu che hai
detto loro: — Partite, figliuoli. I soldati della Francia son vinti.
Il mio cuore non v'avrebbe concessi alla patria per la conquista; ma
ora non è più la conquista, è la difesa. La patria è invasa; io vi do
alla patria; partite. Ah perchè non hanno fatto così tutte le madri!
Non credano, quelle che dissero ai loro figliuoli: — Non andate a
combattere, — che la loro debolezza sia stata pagata in amore. Esse non
versarono le lacrime della partenza; ma non conobbero le lacrime del
ritorno. E non dicano che tu ci hai dati alla patria perchè ci potevi
dare senza dolore, e che sei stata patriotta senz'essere martire.
No, non ardiscano dirlo! Io l'ho vista l'angoscia immensa sotto il
tuo violento coraggio. I tuoi figliuoli, partendo, ti han portata
via l'anima, e tu hai sanguinato delle loro ferite; ed eccoti malata,
invecchiata innanzi tempo, paralitica, che non hai più di vivo altro
che l'anima nel tuo povero corpo sfinito! E lo presentivi pure quando
infondesti nel nostro cuore la forza del tuo; ma come lo presentisti
senza paura, ora lo sopporti senza lamento; ed è perciò che tuo figlio
può parlare di te con alterezza. — O madri, — dice in un'altra poesia
— se i vostri figliuoli crescono senza diventar uomini, o diventan
uomini d'_istinto pratico_, avari del proprio sangue; se nel giorno
della prova, la loro carne spaventata ha orrore del pericolo; se quando
l'onore li chiama, essi non si trovan là, soldati, ritti in faccia
al dovere e in faccia alla morte, — madri, la vostra tenerezza ha
deformato quelle anime; — se essi non sanno morire, voi non sapeste
creare.
Questa è la poesia del Déroulède. Vi si aggiunga il pregio d'una
spontaneità e d'una chiarezza mirabile; una grande abbondanza (non
dico _ricchezza_ nel significato francese) di rime; un uso abilissimo
del ritornello per ottenere effetti tristi e affettuosi; un misto di
linguaggio popolano e soldatesco, adoperato opportunamente, che dà
ai dialoghi e ai racconti un colore di verità grandissimo; e qua e
là dei versi potenti che saltan su ad un tratto, come lame compresse
che si raddrizzino, e gettano scintille su tutta la strofa. Il
letterato non vi si mostra se non quanto è strettamente necessario per
dare dignità ed efficacia alla parola del soldato. Non vi son forse
dieci similitudini in tutti e trentaquattro i canti; non una gambata
rettorica; non una strofa in cui l'artista imbizzarrito levi la mano
all'uomo sensato; non un verso che porti il fiore all'occhiello;
rarissimamente uno dei così detti versi di maniera che il poeta
compone senza sentirli; specie di note di testa, a cui si ricorre
quando manca il fiato. La veste, o piuttosto la pelle della sua
poesia, è tutta tesa e liscia sulla carne salda e colorata dal sangue
giovanile che vi circola sotto. Se v'è un difetto che si ripeta in
modo da attirare l'attenzione, è una tendenza a una certa simmetria
d'immagini, di frasi e di suoni, a una certa regolarità di contrapposti
nell'esplicazione del pensiero, che se giova qualche volta alla
chiarezza, qualche altra volta scema l'efficacia facendo sospettare
l'artificio; tendenza che si manifesta anche di più nella _Moabite_,
in cui alla contrapposizione delle parole comincia a sostituirsi
quella dei concetti, e quindi a pullulare l'antitesi. Ma nei canti è
un difetto che riesce più sovente a vantaggio che a danno, poichè dà
alla poesia un certo andamento rapido e regolare ad un tempo, e come
bruscamente cadenzato da un tamburo che suoni la carica, imponendo
una frase per passo. Le strofe passano snelle e risolute, spoglie
d'ornamenti, come plotoni di soldati in assetto di combattimento, e
fanno fuoco e spariscono, incalzate dalle sopravvenienti, senza che
vi si noti mai un'incertezza o un principio di disordine. Ma tutto
ciò non riguarda che l'esteriorità della forma. Riguardo al valore,
se così può dirsi, specifico del verso, alla virtù intima della frase
e dello stile poetico, non oso metter parola, e mi son persuaso che è
difficilissimo ad un italiano, per quanto conosca la lingua francese,
di giudicare rettamente in questa materia. Esponendo a francesi colti
il nostro schietto parere sul verso di certi loro poeti, noi andiamo
incontro a contraddizioni così imprevedute, che tutti i criterii del
nostro giudizio ne rimangono scompigliati. Bisognerebbe conoscere
profondamente, e non solo per teoria, ma per pratica, tutte le
condizioni severe di cesura, di emisticchio, di iato, di elisione,
di accavalcatura, a cui va soggetto il sistema sillabico della loro
poesia. Per i verseggiatori dotti, che hanno fatto della versificazione
una specie di scienza di contrappunto, per quelli che il Gautier
chiamava milionari della rima e gioiellieri della poesia, che cercano
mille effetti delicati e difficili nelle ondulazioni della frase, nelle
trasposizioni delle parole, nella varietà dei suoni, in una specie
di ritmo intimo, che tocca le fibre più segrete a chi ne conosce il
magistero, e sfugge ai profani; per costoro i versi del Déroulède sono
versi incolti, il suo stile è cascante, la sua forma sovente volgare,
e qualche volta barbara affatto. Appena qualche strofa qua e là merita
la considerazione d'un sapiente artefice di versi. Che cosa rispondere
a queste censure, che si potrebbero ripetere quasi egualmente sulle
poesie del Berchet? Saranno giuste; ma è lecito accoglierle con qualche
diffidenza, pensando che in tutti i paesi i letterati sono stati sempre
particolarmente severi con quelli dei loro confratelli che arrivarono
alla fama per una scorciatoia. Una gran parte del successo ottenuto,
dicono molti, il Déroulède lo deve all'elevatezza dei suoi sentimenti
patriottici, alle sue avventure, al suo carattere, più che al merito
intrinseco della sua poesia. A me pare che questa distinzione non sia
ragionevole. Ciò che forma un poeta è la congiunzione di parecchie
facoltà e doti diverse della mente e dell'animo, alcune ricevute dalla
natura, altre dall'educazione: l'ingegno, la coltura, il cuore, il
carattere, l'esperienza, la vita; tutto ciò fuso e confuso. Come si
può distinguere questi elementi, e separare l'artista dall'uomo, per
assegnare a ciascuno la sua parte misurata di merito? Un illustre poeta
francese diceva un giorno: certe grandi idee vengono dal carattere.
Ma chi potrà riconoscere le idee che vengono dal carattere tra quelle
che vengono dall'ingegno? Quando abbia ben sentito distinguere, il
lettore, leggendo ed ammirando, tornerà a confondere. Noi non sappiamo
se sia trasandata o rozza la forma della poesia del Déroulède: sappiamo
che è una poesia nobile, generosa, maschia, feconda, che mette delle
lacrime negli occhi e delle fiamme nel cuore. Migliaia di poesie di
suoi concittadini, magistralmente ricamate, e piene di perle e di
gingilli d'oro, passeranno; i suoi canti semplici e schietti, concepiti
in faccia alla morte e scritti colla punta della spada, resteranno;
e mentre la critica baderà a notarne i versi scadenti e le frasi
neglette, essi continueranno a ritemprare dei caratteri, a formar dei
cittadini, a preparare dei valorosi; e la gloria del poeta crescerà con
la forza della patria.
*
* *
Ora il Déroulède si è dato al teatro e ha rivelato una singolare
potenza drammatica nell'ultimo atto della _Moabite_. Ma per me il suo
teatro è ancora tanto al di sotto della sua poesia lirica, che mi par
che si debbano aspettare da lui altri lavori per giudicarlo. Forse egli
non ci ha ancor dato la misura intera delle sue forze nemmeno nella
lirica, e perchè il poeta possa sollevarsi ancora, può darsi che l'uomo
abbia bisogno di ripassare per la prova dell'azione. O fors'anche, come
molti altri, egli è nato per dare una sola manifestazione originale e
potente del suo ingegno, e l'ha già data. Auguriamogli che questo non
sia, e teniamo il giudizio sospeso.
*
* *
V'è però un giudizio che non occorre di sospendere, ed è quello che si
riferisce a lui, non poeta, ma uomo. M'immagino che chi ha letto i suoi
versi desideri di conoscerlo da vicino. Ma qui comincia l'imbarazzo
del ritrattista. A ciascuno di noi è seguito, almeno una volta nella
vita, di trovare una persona, di cui le prime parole furono come la
rivelazione d'una amicizia d'infanzia o d'una parentela sconosciuta;
una persona, alla quale, dopo il primo scambio d'idee e di sentimenti,
anche da lontano, ci siamo sentiti avviticchiati come da una simpatia
del sangue, tanto che vedendola per la prima volta c'è parso di
rivederla e ci siamo meravigliati, nel riandare il nostro passato,
di non trovare la immagine sua tra i nostri ricordi più intimi e più
lontani. Ebbene, se c'è stato chiesto una volta un giudizio su questa
persona, abbiamo titubato a darlo, per timore che la nostra amicizia
facesse nascere un sentimento di diffidenza. Ma abbiamo avuto torto.
Sfoghiamo tutti continuamente tanti rancori e tanta malevolenza, che
una sola cosa ci può far perdonare: l'abbandonarsi qualche volta,
senza meschini ritegni, all'espansione dei sentimenti benevoli. E
chi potrebbe non abbandonarvisi, parlando del Déroulède, dopo averlo
conosciuto? Io lo vedo ancora il bravo e simpatico poeta scendere
di carrozza, in una via solitaria di Parigi, e guardata l'insegna
d'un albergo, cercare intorno l'amico sconosciuto, il quale lo stava
spiando un po' di lontano, per vederlo bene prima d'andargli incontro.
Dall'atto con cui chiuse lo sportello della carrozza, riconobbi il
braccio che gli era stato spezzato sulla barricata di Belleville, e
subito dopo riconobbi il cuore dell'autore del _Bon gîte_ e del _Petit
turco_ nel suo abbraccio espansivo ed allegro di soldato e nella sua
calda parola d'artista. Era bene quella figura che m'ero immaginata
molte volte, socchiudendo i _Chants du soldat_, e dicendo tra me: —
Eppure un giorno t'andrò a scovare, dovunque tu sia, mio caro tenente
dei cacciatori, quand'anche l'aggio dell'oro salisse al venti per
cento. — Alto come un granatiere della vecchia guardia, asciutto e
flessibile come una verga d'acciaio, biondo come un inglese, — il
profilo ardito, gli occhi azzurri e pieni di dolcezza, e la bocca
risoluta, — vestito con una certa eleganza severa, così, tra soldatesca
ed artistica, era proprio lui, il _grand avocat et rude soldat_, che
disegnano sui muri delle caserme i tiragliatori algerini; — signorile
d'aspetto, ma con le carni un po' arrozzite dai venti delle aperte
campagne, e con la fronte attraversata da una ruga diritta, che è come
l'impronta nera delle sventure della patria. Aggiungete, per compiere
il ritratto, una voce vibrata e metallica di soldato esercitato al
comando, e la più stretta, la più arrabbiata pronuncia parigina che
si sia mai sentita sonare dalla chiesa della Maddalena alla piazza
della Bastiglia. E che _bon enfant_, che ammirabile originale nel
significato nobile della parola! Parla, con una rapidità che si stenta
a capirlo, tre ore di fila, senza che mai il suo discorso si stemperi
in chiacchiera; gaio, vivo, fresco, al levarsi da letto come al levarsi
da tavola, sempre ad un modo. Racconta le sue avventure più terribili
di soldato come racconterebbe delle scappatelle di collegio, con una
semplicità amabilissima, colorendo le scene più orrende della guerra
d'una certa pietà affettuosa e virile che non si trova se non nelle
anime che uniscono all'intrepidità la dolcezza, e in cui il coraggio
non nasce da un disprezzo scettico della vita, ma da un sentimento
profondo del dovere e da una passione ardente per una grande idea. Da
ogni sua parola traspira la bontà e la gentilezza dell'animo. Non gli
passa un'ombra sul viso che tradisca un pensiero ch'egli non voglia
esprimere, o uno di quei leggerissimi turbamenti dell'animo di cui non
si osa dire la cagione. Il suo viso è sempre aperto e trasparente,
in modo che gli si legge fin nel più profondo dell'anima. Mai che
gli sfugga dalla bocca una parola amara contro a chi che sia o a
qualsiasi proposito. Parlando, ha tutti quei gesti simpatici delle
persone affettuose ed espansive, e cercano la spalla e il braccio di
coloro a cui parlano, ed è carezzevole e festoso come un ragazzo.
Gli si può ripetere qualunque più acerba critica dei suoi lavori
letterarii, letta od intesa, che il suo viso rimane sereno e ridente
come all'udire una lode, tanto è poca cosa in lui l'orgoglio artistico
in confronto al sentimento del patriotta. E a sentirlo parlare così
precipitosamente, mutando discorso a ogni tratto, si sospetta sulle
prime un po' di leggerezza. Ma non si tarda a scoprire un'armonia
inalterabile fra tutti i suoi sentimenti e tutte le sue idee, e un
fondamento morale solidissimo sotto gli uni e le altre. Per quanto
cangi discorso, tutti i suoi discorsi finiscono col ricadere sopra un
argomento unico: la sua patria. Egli s'è risolutamente tracciata la
via. S'è proposto di consacrare tutte le sue forze al risorgimento del
suo paese; non scriverà mai una parola che non sia diretta a quello
scopo; drammi, lirica, novelle, polemica, ogni cosa sarà ispirata a
quell'idea. Concetti di commedie satiriche gli passano per la mente,
e strofe di poesie amorose, e capricci poetici d'ogni natura; egli
mette tutto da un lato. Vuole che la sua arte, il suo nome, per quello
che valgono, significhino una cosa sola: non facciano che l'ufficio
d'una spada e d'una tromba di guerra. Capisce che dovrà sacrificare
a questo proponimento molte soddisfazioni d'artista; ma non gliene
importa. Per la stessa ragione tiene il suo cuore libero da ogni
affetto, fuorchè da quello della sua famiglia, e sottopone tutti i
suoi disegni per l'avvenire a una condizione che gli è sempre presente
allo spirito: — Se non sarò ucciso. — E ha inflitti nell'aspetto e
nei modi qualcosa di singolare, come l'espressione di una leggerezza
fisica e morale, simile a quella del viaggiatore che passeggia nelle
sale della stazione, dopo aver preso il suo biglietto e spedito i suoi
bagagli, sciolto da ogni impiccio, libero da ogni pensiero, preparato a
partire al primo momento. Anche quando parla più caldamente dell'arte,
della gloria, della famiglia, si capisce che in nessuna di quelle cose
ha fondato la sua esistenza, che a nessuna soddisfazione, o speranza
di soddisfazione, si lascia andar tutto intero con quell'abbandono
cieco delle nature artistiche, nate a godere, che adorano la vita.
Eppure in fondo a questo appassionato amor di patria, non ha ombra
di _chauvinisme_. L'odio di cui parla nei suoi canti è un odio di
soldato, non d'uomo; la sua avversione per la Prussia non è che un
amore rovesciato; le nature come la sua non possono odiare. — Io non
odio la Prussia — dice; — amo la Francia. Venero un sincero e ardito
patriotta prussiano. Ciascuno deve amare la sua patria. — E così
riguardo alle recriminazioni di certi francesi contro l'Italia, ha
una sola cosa a dire: — Voi italiani dovevate essere prima di tutto
italiani. — Non c'è caso di coglierlo in contraddizione sopra nessun
argomento. In arte, in politica, in morale, tutte le sue idee sono
concatenate, e tutte ugualmente nette nella sua mente e radicate nella
sua coscienza. E di tutto s'è occupato con amore. Bisogna sentire
gli studi psicologici che ha fatto sui soldati, i mille ragionamenti
che ha messo insieme, le mille industrie ingegnose che ha trovate per
metter coraggio ai pusillanimi, per ridurre i ribelli, per far entrare
l'idea della patria e del dovere nella testa agl'ignoranti; i piccoli
stratagemmi di guerra, da comandante di plotone, che ha escogitati;
il lavorìo di cervello che ha fatto per inventare dei piccoli rimedi e
dei piccoli comodi per i malati e per i feriti; le storie meravigliose
che ha immaginate per rallegrare la fantasia e sostener l'animo dei
suoi soldati africani in mezzo alla tristezza dei bivacchi invernali:
tanta roba da farne una piccola biblioteca istruttiva ed educativa per
un esercito. Così nelle discussioni letterarie, aiutato da una memoria
felicissima, ammonta citazioni, osservazioni e confronti con una
abbondanza e una furia da sbalordire, esponendo opinioni discutibili,
senza dubbio, ma tutte sue, e coscienziosamente meditate, benchè paia
che gli sboccino sul momento; e sostenute, se occorre, con una così
impetuosa facondia che si rimane prima sopraffatti che persuasi, e
ammirando quella sua bella vivacità giovanile, si dimentica che s'ha
un'idea contraria da difendere. Ma non è mai tutto letterato, come
non è mai tutto soldato: lo spirito lo tien lontano dalla pedanteria,
come la gentilezza del cuore e l'educazione squisita dalla petulanza
soldatesca. Gentiluomo e buon ragazzo, franchissimo nel dir quel
che pensa senza ferir l'amor proprio di nessuno, arrendevole senza
affettazione di cortesia, confidente ed affabile con tutti, quando
entra lui in un salotto o in un crocchio, par che ci entri una
fiatata d'aria viva, che porti il mormorio allegro d'un reggimento
accampato. Quella sua parola ardente e colta, quell'entusiasmo di
poeta e di zuavo, quell'allegrezza giovanile, quell'aspetto di bontà e
di forza, attirano le simpatie di tutti, e disarmano le più accanite
gelosie letterarie. A stargli insieme, a sentirlo parlare, ci si
sente presi da un grande ardore di lavorare, di muoversi, di fare,
andando diritto dinanzi a sè nella vita, come lui, cogli occhi fissi
a una meta, senza soffermarsi, senza voltarsi mai nè a sinistra nè a
destra, non lasciando un'ora di riposo nè allo spirito nè al corpo,
non abbandonando mai l'anima nè a uno scoraggiamento nè a un dubbio.
Così egli vive, parte nello studio, parte nella società, passando
dalla sua villa solitaria nel salotto affollato della signora Adam,
dalla _Comédie Française_ alla caserma de' suoi antichi compagni
d'armi, dalla biblioteca al banchetto d'artisti, recitando versi per
tutto, provocando e accettando discussioni a qualunque proposito,
abbozzando poesie a tavola, fantasticando scene di commedie sulla
strada ferrata, studiando l'italiano in carrozza nei giornali
comprati sui _boulevards_, mandando innanzi insieme tre grandi lavori
drammatici, leggendo tutto il leggibile, andando da per tutto dove
c'è una idea da attingere o una bella emozione da provare. E quando
lo si è accompagnato per tutta intera una di queste giornate, e
avendolo udito parlare per dieci ore, non gli si è mai sentito dire
una parola malevola, nè profferire un giudizio avventato; ma lo si è
trovato sempre logico e amorevole, — pronto a sentire le tristezze e le
allegrezze di tutti — fermo nei suoi principii come una colonna sul suo
piedestallo, vivo che par che abbia un diavolo per capello, e buono fin
nel midollo delle ossa, — non si può a meno di ammirarlo e d'amarlo.
Egli dà l'idea d'un francese d'un tempo avvenire, — che abbia serbato
tutte le buone qualità e perduto tutti i difetti del suo popolo. È
impossibile ad un italiano trovare un altro figliuolo della Francia
che gli faccia sentire più fortemente di lui la fraternità di sangue
che lega le due nazioni «così ben fatte per intendersi» come disse
Garibaldi, e «per amarsi» come disse il Manzoni.
Notevoli in special modo sono le sue idee in fatto di poesia. I suoi
due poeti preferiti sono il Corneille e il Musset: chi ha letto le
sue poesie se ne rende ragione alla prima: il Corneille, perchè è
il poeta dell'idea del dovere e dell'onore, dell'eroismo e della
gloria, un educatore di caratteri — «il padre del grande coraggio»,
— il gran soldato dell'arte, nella cui voce si sente lo strepito
d'armi d'un esercito e come il soffio stesso dell'immenso petto della
patria; il Musset per la vena ricca e fluida dell'ispirazione, per
la negligenza piena di grazia, per la poesia facile e chiara che gli
zampilla dall'anima come un'acqua argentina da una roccia. Non si
può dire però ch'egli abbia imitato chi che sia. Nell'arte, come dice
egli medesimo in uno dei suoi drammi, _on n'y devient quelqu'un qu'en
imitant personne_. Il suo studio primo e costante è stato d'esser
semplice e chiaro. Perciò s'è proposto di bandire dalla poesia, quanto
gli fu possibile, il linguaggio poetico convenzionale. Per me, egli
dice, la poesia dovrebb'essere eletta prosa misurata e rimata. Bisogna
intendersi, certamente. Tutto si può dire poeticamente senza adoperare
una frase che non sia propria del dignitoso e corretto linguaggio
parlato. Tutto ciò che si scosta da questo linguaggio, in poesia, può
essere bellezza, ricchezza, eleganza, splendore; ma nuoce all'efficacia
immediata del sentimento o del pensiero che esprime. Si cerchino pure
nei più grandi poeti le strofe più splendide e i versi più potenti:
si troverà sempre che sono i più semplici; non solo, ma quelli in cui
una idea luminosa o un sentimento sublime sono espressi con le parole
più usuali, con la frase che tutti avrebbero adoperato spontaneamente
per esprimere quel sentimento o quel pensiero, se l'avessero avuto.
La così detta frase poetica non ha che un valore di convenzione, un
valore puramente letterario; quindi non il massimo dei valori: la
sua potenza non è intima e assoluta, quindi non va dritta all'anima
umana; non ci vanno che le espressioni che ne conoscon la via, che
son la veste spontanea e necessaria del pensiero nella vita reale,
e che — lo vediamo bene — bastano a tutti ed a tutto, e agiscono
egualmente su tutti. La poesia — che è una lingua che il mondo intende
e che nessuno parla — dovrebbe essere sottoposta, dentro al ritmo, a
tutte le condizioni di spontaneità e di logica a cui va soggetto il
linguaggio comune; essere tale da far parere, ascoltando il poeta,
che quello sia il suo modo naturale di parlare, irresistibile, senza
bisogno di sforzo nè d'artifizio. E l'unire così una semplicità nuda
ad una spontaneità massima e a una eleganza che consista nel contorno
e non nell'ornamento, è ben altrimenti difficile, richiede uno studio
assai più rigoroso e un gusto assai più delicato, di quello che occorra
per servirsi accortamente d'una immensa collezione di frasi e di modi